«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
Il mondo è pieno di segni, ma questi segni non hanno tutti la bella semplicità delle lettere dell’alfabeto, dei segnali stradali o delle uniformi militari: sono infinitamente più sottili. La maggior parte del tempo li prendiamo per informazioni “naturali”[…]. Decifrare i segni del mondo significa lottare sempre con una certa innocenza degli oggetti. Tutti noi comprendiamo il francese così “naturalmente” che non ci viene mai in mente che la lingua francese è un sistema molto complesso e niente affatto “naturale” di segni e di regole: nello stesso modo, bisogna continuamente scuotere l’osservazione affinché si adatti non al contenuto delle immagini, ma alla loro costruzione: in breve, il semiologo, come il linguista, deve entrare nella “cucina del senso”. È un’impresa enorme. Perché? Perché un senso non può mai essere analizzato isolatamente. […] I segni sono costituiti da differenze. All’inizio del processo semiologico si è pensato che l’obiettivo principale fosse – per utilizzare le parole di de Saussure – quello di studiare la vita dei segni in seno alla vita sociale, e di conseguenza di ricostituire dei sistemi semantici di oggetti (vestiti, cibo, immagini, rituali, protocolli, musiche, eccetera). E una cosa da fare. Ma avanzando in questo progetto già immenso, la semiologia si trova davanti a nuovi obiettivi; per esempio, studiare l’operazione misteriosa attraverso la quale un messaggio qualsiasi assume un secondo senso, diffuso, generalmente ideologico, e che si chiama “senso connotato”: se in un giornale leggo il titolo seguente: “A Bombay regna un’atmosfera di fervore che non esclude né il lusso né il trionfalismo”, ottengo un’informazione letterale sull’atmosfera del Congresso eucaristico; ma percepisco anche un certo stereotipo costituito da un sottile equilibrio di negazioni, che mi rimanda a una visione equilibrante del mondo; questi fenomeni sono costanti, bisogna studiarli a fondo con tutti i mezzi messi a disposizione dalla linguistica. Se gli obiettivi della semiologia si ingrandiscono continuamente è perché ci accorgiamo sempre di più dell’importanza e della diffusione della significazione nel mondo.
Roland Barthes, L’avventura semiologica [L’aventure sémiologique, Éd. du Seuil, Paris 1991], Einaudi, Torino 1991; riportato anche in AA.VV., La cunina del senso. Gusto, significazione, testualità, a cura di G. Marrone e A. Giannitrapani, Mimesis, Milano 2012.
L’avventura semiologica è un incessante interrogarsi sul modo in cui viene imposto un senso al reale attraverso il linguaggio, sulla responsabilità delle forme che caratterizza ogni aspetto della vita sociale e culturale.Nei saggi che compongono questa raccolta, scritti tra il 1962 e il 1973, la riflessione di Barthes sulla semiologia applicata a vari campi (dalla sociologia alla pubblicità, dalla medicina all’urbanistica, dalla linguistica alla letteratura) appare in tutta la sua molteplicità e complessità. Analisi strutturale e testuale, critica e letteratura, teoria e scrittura, sono affrontate in una propspettiva spesso paradossale che tende a metterne in discussione i confini. Origine e termine dell’avventura, la semiologia viene a definirsi nell’orizzonte di tensioni irrisolte tra determinazione sistematica del senso e sua disseminazione.
Questo libro raccoglie testi sparsi dei principali autori, e sui basilari problemi, riguardanti la semiotica della cucina e dell’alimentazione, del gusto e della commensalità. Autori come Lévi-Strauss, Barthes, Greimas, Jakobson hanno difatti già da diversi decenni inaugurato un filone di studi estremamente fecondo – quello del cibo come linguaggio e come sistema di segni – che molti studiosi successivi, qui degnamente rappresentati, stanno proseguendo. I modelli culturali che separano il crudo dal cotto, le strutture ideologiche a essi sottese, le operazioni elementari nell’arte della cucina, la struttura delle ricette, i dispositivi sinestetici dei testi enologici, l’organizzazione sociale dei pasti, i rituali alimentari e i relativi tabù, le riprese mediatiche della gastronomia, le tecnologie culinarie: tutto un sistema semiotico che, reggendo forme di alimentazione, costituisce forme di senso viene discusso in profondità, aprendo la strada a ricerche ulteriori. Testi di: Marialaura Agnello, Roland Barthes, Françoise Bastide, Denis Bertrand, Mary Douglas, Roman Jakobson, Claude Lévi-Strauss, Paolo Fabbri, Jacques Fontanille, Guido Ferrara, Jean-Marie Floch, Jack Goody, Alice Giannitrapani, Algirdas J. Greimas, Giorgio Grignaffini, Gianfranco Marrone, Piero Ricci, Jean Soler.
«L’ambizione d’arricchire è la più universale delle tirannidi».
Vittorio Alfieri, Della tirannide, I, 5.
«Tirannide indistintamente appellare si deve ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzione delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto eluderle, con sicurezza d’impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono o tristo, uno, o molti; ad ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammetta, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo».
«Conoscere il mondo richiede uno sforzo che assorbe tutte le facoltà dell’uomo. La maggior parte della gente tende piuttosto a sviluppare le facoltà opposte: la capacità di guardare senza vedere e di sentire senza ascoltare».
«Ciò che ci rende uomini e ci distingue dagli animali è la nostra capacità di narrare storie e miti:condividere storie e leggende rafforza il senso della comunità, l’unica condizione nella quale l’uomo può vivere. Mancano ancora duemila anni alla comparsa dell’individualismo, dell’egocentrismo e del dottor Freud. Per il momento, la sera la gente si riunisce in grandi tavolate davanti al fuoco o sotto un albero, meglio se in vicinanza del mare, per mangiare, bere vino e chiacchierare. Alle chiacchiere si intrecciano racconti e storie d’ogni genere. […] Una dopo l’altra, le serate si accumulano e se il viandante ha buona memoria (e quella di Erodoto doveva essere prodigiosa) mette insieme un patrimonio di storie. Questa fu una delle fonti alle quali attinse il nostro greco. La seconda fu ciò che vedeva. La terza, ciò che pensava».
Ryszard Kapuściński, In viaggio con Erodoto (Podróze z Herodotem, 2004), Feltrinelli, Milano 2013.
O voi, uomini che mi reputate o definite astioso, scontroso o addirittura misantropo, come mi fate torto! Voi non conoscete la causa segreta di ciò che mi fa apparire a voi così. Il mio cuore e il mio animo fin dall’infanzia erano inclini al delicato sentimento della benevolenza e sono sempre stato disposto a compiere azioni generose. Considerate, però, che da sei anni mi ha colpito un grave malanno peggiorato per colpa di medici incompetenti. Di anno in anno le mie speranze di guarire sono state gradualmente frustrate, ed alla fine sono stato costretto ad accettare la prospettiva di una malattia cronica (la cui guarigione richiederà forse anni o sarà del tutto impossibile). Pur essendo di un temperamento ardente, vivace, e anzi sensibile alle attrattive della società, sono stato presto obbligato ad appartarmi, a trascorrere la mia vita in solitudine. E se talvolta ho deciso di non dare peso alla mia infermità, ahimè, con quanta crudeltà sono stato allora ricacciato indietro dalla triste, rinnovata esperienza della debolezza del mio udito. Tuttavia non mi riusciva di dire alla gente: “Parlate più forte, gridate, perché sono sordo”. Come potevo, ahimè, confessare la debolezza di un senso, che in me dovrebbe essere più raffinato che negli altri uomini e che in me un tempo raggiungeva una grado di perfezione massima, un grado di perfezione quale pochi nella mia professione sicuramente posseggono, o hanno mai posseduto. Tali esperienza mi hanno portato sull’orlo della disperazione e poco è mancato che non ponessi fine alla mia vita. La mia arte, soltanto essa mi ha trattenuto. Ah, mi sembrava impossibile abbandonare questo mondo, prima di aver creato tutte quelle opere che sentivo l’imperioso bisogno di comporre; e così ho trascinato avanti questa misera esistenza – davvero misera, dal momento che il mio fisico tanto sensibile può, da un istante all’altro, precipitarmi dalle migliori condizioni di spirito nella più angosciosa disperazione. No, non posso farlo; perdonatemi perciò se talora mi vedrete stare in disparte dalla vostra compagnia, che un tempo invece mi era caro ricercare. La mia sventura mi fa doppiamente soffrire perché mi porta ad essere frainteso. Per me non può esservi sollievo nella compagnia degli uomini, non possono esserci conversazioni elevate, confidenze reciproche. Costretto a vivere completamente solo, posso entrare furtivamente in società solo quando lo richiedono le necessità più impellenti; debbo vivere come un proscritto. Se sto in compagnia vengo sopraffatto da un’ansietà cocente, dalla paura di correre il rischio che si noti il mio stato. E così è stato anche in questi sei mesi che ho trascorso in campagna. Invitandomi a risparmiare il più possibile il mio udito, quell’assennata persona del mio medico ha più o meno incoraggiato la mia attuale disposizione naturale, sebbene talvolta, sedotto dal desiderio di compagnia, mi sia lasciato tentare a ricercarla. Ma quale umiliazione ho provato quando qualcuno, vicino a me, udiva il suono di un flauto in lontananza ed io non udivo niente, o udiva il canto i un pastore ed io nulla udivo. Tali esperienza mi hanno portato sull’orlo della disperazione e poco è mancato che non ponessi fine alla mia vita. La mia arte, soltanto essa mi ha trattenuto. Ah, mi sembrava impossibile abbandonare questo mondo, prima di aver creato tutte quelle opere che sentivo l’imperioso bisogno di comporre; e così ho trascinato avanti questa misera esistenza – davvero misera, dal momento che il mio fisico tanto sensibile può, da un istante all’altro, precipitarmi dalle migliori condizioni di spirito nella più angosciosa disperazione. Pazienza. Mi dicono che questa è la virtù che adesso devo scegliermi come guida; e adesso io la posseggo. Duratura deve essere, io spero, la mia risoluzione di resistere sino alla fine, finché alle Parche inesorabili piacerà spezzare il filo; forse il mio stato migliorerà, forse no, ad ogni modo io, ora, sono rassegnato. Essere costretti a diventare filosofi ad appena 28 anni non è davvero una cosa facile e per l’artista è più difficile che per chiunque altro. Dio onnipotente, che mi guardi fino in fondo all’anima, [che] vedi nel mio cuore e sai che esso è colmo di amore per l’umanità e del desiderio di bene operare. O uomini, se un giorno leggerete queste mie parole, ricordate che mi avete fato torto; e l’infelice tragga conforto dal pensiero di aver trovato un altro infelice che, nonostante tutti questi ostacoli imposti dalla natura, ha fatto quanto era in suo potere per elevarsi al rango degli artisti nobili e degli uomini degni. E voi, fratelli miei, Carl e Johann, dopo la mia morte, se prof. Schmidt sarà ancora in vita, pregatelo in mio nome di fare una descrizione della mia infermità e allegate al suo documento questo mio scritto, in modo che, almeno dopo la mia morte, il mondo ed io possiamo riconciliarci, per quanto possibile – nello stesso tempo vi dichiaro qui tutti e due eredi del mio piccolo patrimonio (se possiamo chiamarlo così) – dividetelo giustamente, andate d’accordo e aiutatevi reciprocamente. Il male che mi avete fatto, voi lo sapete, vi è stato perdonato da lungo tempo. Ringrazio ancora in maniera particolare te, fratello Carl, per l’affetto che mi hai dimostrato in questi ultimi anni. Il mio augurio è che la vostra vita sia più serena e più scevra da preoccupazioni della mia. Raccomandate ai vostri figli di essere virtuosi; perché soltanto la virtù può rendere felici, non certo il denaro. Parlo per esperienza. È stata la virtù che mi ha sostenuto nella sofferenza. Io debbo ad essa, oltre che alla mia arte, se non ho messo fine alla mia vita col suicidio State bene e amatevi – Ringrazio tutti i miei amici, in particolare il Principe Lichnowsky e il professor Schmidt. Vorrei che gli strumenti del principe L venissero custoditi da uno di voi, purché ciò non conduca ad un litigio tra di voi. Qualora non possano servire ad uno scopo più proficuo, vendeteli pure; quanto sarò lieto, se potrò esservi utile anche nella tomba – Ebbene, questo è tutto. Vado con gioia incontro alla Morte – se essa venisse prima che io abbia avuto la possibilità di sviluppare tutte le mie qualità artistiche, allora, malgrado la durezza del mio destino, giungerebbe troppo presto; e indubbiamente mi piacerebbe ritardarne la venuta – Sarei però contento anche così; non mi libererebbe essa forse da uno stato di sofferenza senza fine? Vieni dunque, Morte, quando tu vuoi, io ti verrò incontro coraggiosamente – Addio, non dimenticatemi del tutto, dopo la mia morte. Io merito di essere ricordato da voi, perché nella mia vita ho spesso pensato a voi, e ho cercato di rendervi felici – Siate felici.
Heiligenstadt, 6 ottobre 1802
Ludwig van Beethoven
L’autografo, ritrovato da Anton Schindler fra le carte di Beethoven e attualmente conservato presso la Stadtbibliothek di Amburgo, fu pubblicato per la prima volta il 17 ottobre 1827 sulla “Allgemeine Musikalische Zeitung” di Lipsia. Beethoven soggiornò a Heiligenstadt (un sobborgo di Vienna) non solo per vari mesi del 1802, ma anche successivamente (estati del 1807, 1808 e 1817). La traduzione del documento è tratta da Le lettere di Beethoven (a cura di E. Anderson, ILTE, Torino 1968.
«Cominciamo con l’osservare che cultura rinvia alla forma di un participio futuro, come natura, creatura, ventura […] Il participio futuro non è legato a un’attesa indefinita, ma alla prossimità della realizzazione: dunque un tempo di ragionevole certezza, benché ancora non sia evidente; è il tempo del futuro già tra noi, anche se non è apertamente manifestato. Il participio futuro è il tempo del già e non ancora. Potremmo dire che il seme germogliato è il participio futuro della pianta prossima a emergere e dell’albero che sarà, che il viaggio iniziato è il participio futuro della meta verso la quale è rivolto […]. La matrice che genera la parola cultura è un verbo latino, còlere, che significa innanzitutto coltivare, anche nel senso figurato di avere cura, trattare con attenzione o con riguardo, quindi onorare […]. E cosa è incastonato dentro còlere? Una radice remota, √kwel, che significa girare, muovere in cerchio, voltare […]. Attraverso kwel, riconosciamo in còlere il significato di coltivare nel senso originario di girare l’aratro in fondo al campo per aprire un nuovo solco, ma anche per smuovere e voltare la terra. Coltivare, in buona sostanza, è lavorare la terra. Poi […] questo primo significato è maturato in avere cura, fare crescere […]. Ma dal muoversi in cerchio di kwel prendono vita anche i significati di onorare e venerare che possono rinviare a un modo intenso di avere cura […].
Se dal participio futuro di còlere (culturus) arriva la parola cultura, dal participio passato (cultus) arriva la parola culto, che si riferisce al coltivato e, per proiezione, al raccolto, a ciò che è stato fatto crescere, a ciò che è stato elevato […]. La cultura e il culto hanno un valore simbolico quando uniscono diversi piani dell’esistenza, li mettono in comunicazione, collegano ciò che è materiale con ciò che è spirituale, ciò che è visibile con ciò che è oltre il visibile. Ogni atto e ogni conoscenza che lega – anzi rilega (come è proprio della religio) – l’uomo al mondo che lo circonda dà concretezza a questa unione […]. Come ogni participio futuro, la cultura è la pre-visione di un futuro prossimo ad avverarsi perché è già nel cuore delle cose.
Animata dall’intima tensione a fare crescere, a elevare […], la cultura non andrebbe confusa con l’erudizione, che ha il proprio fine in sé stessa, nell’accumulazione dei dati, nella loro ostentazione sociale o accademica, ed è espressione di collezionismo delle informazioni, guscio di un sapere ridotto alla sua apparenza, gioco di riconoscimento tra i sodali di una conventicola. La cultura […] porta a crescere, porta a elevare; come il culto, con il quale condivide la stessa radice, si esprime quale atto simbolico e perciò tende ponti fra le persone e tra i mondi; non si occupa di cose inutili, di inezie senza anima, non gioca allo specchio, perché trova il suo compimento in cosa o in chi ne è destinatario. Chi parla per non farsi capire, chi inutilmente complica ciò che è semplice (ma anche chi banalizza ciò che è complesso), chi astrae ciò che è concreto, chi consapevolmente usa le proprie conoscenze e le parole per segnare le distanze, per distinguersi, per sottomettere, invece che per condividere e comunicare, non coltiva nulla ma genera deserto, non fa crescere ma inaridisce, non rende onore che al proprio io, come un narciso infelice, e non produce cultura ma, distaccandosi dall’umanità, genera il proprio isolamento. […]
Nella civiltà dello spettacolo, osserviamo che la parola cultura è usata particolarmente a sproposito quando è associata a intrattenimento, spettacolo e occupazione del tempo libero. […]
Dunque […], per tornare ancora all’immagine del lavoro della terra, per la buona coltura non basta còlere il campo, ma altrettanto importante è l’esperienza di chi lo fa, la sapienza dei suoi gesti, e poi serve una semente buona e che la semente buona sia posata in terra fertile, e che al momento giusto arrivi l’acqua. Se il gesto è malcompiuto, se la terra è sassosa o arida, se il seme è sterile, se non viene l’acqua al momento giusto, non ci sono le condizioni perché emerga e fiorisca la coltura e, in senso immaginifico, la cultura: come per i campi, così anche per le persone e le comunità.
Massimo Angelini, Ecologia della parola. Il sale, gli occhi, le stelle, l’aratro, il dono … conversazioni per un altro modo di guardare la realtà, pentàgora, Savona 2017, pp. 36-43.
«Gli orizzonti di senso della speranza sono infiniti, e non è facile descriverla e coglierla nei suoi diversi modi di essere, ma vorrei dire subito che se la speranza non ha una dimensione dialogica, aperta agli altri e al mondo della vita, non è speranza. Siamo tutti affascinati da quello che avviene nell’istante, e nella illusione di non perdere tempo la nostra vita quotidiana naufraga sugli scogli di un presente svuotato di passato e di futuro, di memoria e di speranza. Non si può vivere senza speranza. […] Noi siamo relazione, e abbiamo il compito, che è un dovere, di dire parole che non feriscano le speranze delle persone con cui ci incontriamo, o con cui abbiamo relazioni di cura. Le parole sono creature viventi, il loro contenuto ha ovvia radicale importanza, e nondimeno la tensione emozionale, l’apertura alla speranza, ne cambia i significati; e la speranza è come un ponte che ci fa uscire dalla solitudine, e ci mette in una relazione senza fine con gli altri, con gli altri che hanno bisogno di un aiuto, e talora solo di un sorriso, o di una lacrima, di un saluto che nasca dal cuore. La speranza è anche dovere, ricerca infinita di senso, e di essa dovremmo saper cogliere il valore reale, autentico, del tutto individuale, diverso in ciascuno di noi».
Eugenio Borgna, Speranza e disperazione, Einaudi, Torino 2020, pp. 5-6.
Questo contributo intende riflettere sulla – antica e, insieme, attualissima – nozione di speranza a partire da una breve indagine etimologico-semantica (a cui si torna, chiudendo il cerchio, al termine del saggio), nella convinzione che la riflessione sulle parole e sulle loro origini possa donare alcune feconde piste al pensiero.
Il breve saggio si snoda lungo due linee direttrici fondamentali: la speranza come páthos, ovvero come passione, sentimento o desiderio, e la speranza come areté, ovvero come “virtù”, nozione che, nel senso greco e, più nello specifico, aristotelico del termine, implica la capacità di amministrare correttamente la passione. In questo secondo caso, inoltre, si assiste alla messa in campo di un “versante attivo della speranza”, che chiama in causa il soggetto agente e volente, che ha il compito di dare forma al suo desiderio. Qui il “sogno ad occhi aperti” diventa prassi, si fa progetto.
L’itinerario si interseca in molti modi ad altre fondamentali nozioni, tra cui, solo per indicarne alcune, quella di paura (che si configura come una passione che dirige il soggetto nella direzione opposta rispetto alla speranza), quella di rischio (a cui la originaria vocazione all’“apertura” prodotta dalla speranza è intimamente connesso e che richiede, a sua volta, un’opera di “saggia amministrazione”) e quella di fiducia (a cui la speranza è costitutivamente intrecciata e che chiama in causa un altro profilo della riflessione, affrontato al termine del saggio, quale quello educativo).
«La felicità è la vita stessa quando viene vissuta al meglio: si è felici perché si vive bene, perché la vita ha acquisito un peso, una direzione, un orientamento, perché la vita si è affrancata dalla sua nudità, dalla sua esposizione alla morte, dalla semplice e anonima sussistenza, trasformandosi in una vita dotata di senso, in una individuale e particolarissima consistenza. […] felicità intesa come pienezza, come attingimento pieno del telos. Se il telos è interno all’energeia che lo produce, se il fine è contenuto nell’azione ed è indistinguibile da essa, allora è impossibile pensare ad una felicità che risieda escludivamente nel bersagio e non anche lungo i passi che conducono al suo raggiungimento […] lungo tutto il tragitto della vita». Arianna Fermani, Vita felice umana, 2006.
«[…] il problema della vita nel suo complesso a qualcuno di noi può sembrare meno impellente di quanto non sembrasse a Socrate. Epure la sua domanda ci incalza ancora oggi e reclama l’impegno a riflettere sulla nostra vita nel suo complesso, e cioè nella totalità dei suoi aspetti e in tutta la sua profondità». Bernard Williams, L’etica e i limiti della filosofia, 1985.
Nel concetto della filosofia come domanda totale, problematicità pura, e perciò metafisica, risiede la classicità del pensiero antico. […] Se la filosofia rinuncia al suo carattere di domanda totale rinuncia al […] senso antico della filosofia, intesa come acquisizione perenne dello spirito, come vero κτῆμα εἰς ἀεί [possesso pe sempre]». Enrico Berti, Quale senso ha oggi studiare la filosofia antica, 1965.
«ὡς ἡδὺ καὶ μακάριον τὸ κτῆμα» [quanto soave e felice è il possesso della filosofia]. Platone, Repubblica, 496 c.
«[…] il movimento nel quale è contenuto anche il fine è anche azione. […] Uno che vive bene, ad esempio, ad un tempo ha anche ben vissuto, ed uno che è felice, ad un tempo è stato anche felice». Aristotele, Metafisica, IX, 6, 1048 b.
Note sul testo Il saggio si propone di riflettere sul modello classico del biosteleios, cioè della felicità della vita nella sua totalità, cercando di mostrare come il dialogo con gli antichi fornisca ancora “utili” schemi concettuali. Più in particolare si cerca di mostrare come il confronto con le riflessioni etiche di Platone e Aristotele permetta di dipanare i numerosi fili che costituiscono la trama di ogni esistenza umana (come i dolori, i piaceri, l’ampia gamma di beni e di risorse che la costituiscono), e di individuare alcuni rilevanti nodi concettuali (tra cui, ad esempio, quello di “misura”) che costituiscono la semantica della nozione di eudaimonia. Il modello antico di eudaimonia come euprattein, inoltre, cioè come capacità strategica di “giocar bene”, sembra risultare particolarmente fecondo, invitando ad interrogarsi sulle modalità di attuazione della vita felice e sulla gestione di tutto ciò che ad ogni esistenza si offre per una “prassi di felicità”.
Note sull’autore
Arianna Fermani insegna Storia della Filosofia Antica all’Università di Macerata. Tra le sue pubblicazioni: L’etica di Aristotele. Il mondo della vita umana, Brescia, Morcelliana, 2012; By the Sophists to Aristotle through Plato. The necessity and utility of a Multifocal Approach, a cura di E. Cattanei, A. Fermani, M. Migliori, Sankt Augustin, Academia Verlag, 2016; Aristotele e l’infinità del male. Patimenti, vizi e debolezze degli esseri umani, Brescia, Morcelliana, 2019. Ha tradotto integralmente le Etiche di Aristotele (Aristotele, Le tre Etiche, Milano, Bompiani, 2008; Giunti, 2018) e ha collaborato all’edizione dell’Organon (a cura di M. Migliori, Milano, Bompiani, 2016).
Indice Prefazione di Salvatore Natoli
Introduzione
Parte prima. Semantica della felicità
Capitolo primo. La felicità come domanda originaria 1.1. Domanda “di” felicità
1.2. Domande “sulla” felicità 1.2.1. Felicità: una questione terminologica 1.2.2. Felicità e forme di vita
Capitolo secondo. Felicità e dolore 2.1. L’esperienza del dolore 2.1.1. Il dolore come accadimento 2.1.2. Le forme del dolore 2.2. Cicatrizzazione del dolore e cura di sé 2.2.1. Approcci al dolore 2.2.2. Cura del dolore e cura di sé 2.2.3. L’assunzione del dolore 2.3. Concludendo
Capitolo terzo. Felicità e piacere 3.1. L’esperienza del piacere 3.2. Fenomenologia del piacere 3.2.1. Il piacere nell’orizzonte della corporeità 3.2.2. Dinamiche piacevoli e dolorose
3.2.3. Il corpo e i desideri: la veemenza di un fiume in piena
3.2.4. Anima e corpo di fronte al piacere 3.2.5. Piaceri e criteri di scelta 3.3. Il ruolo del piacere nella vita felice
Capitolo quarto. Felicità e realizzazione di sé 4.1. Profili della virtù: tentativi di un recupero 4.1.1. Virtù come eccellenza 4.1.2. Virtù come forza 4.1.3. Virtù come disposizione 4.1.4. Virtù come giusto mezzo 4.2. La virtù come architettonica della felicità 4.2.1. Vita felice e accordata: la virtù come musica 4.2.2. Vita felice e ordinata: la virtù come misura 4.2.3. La virtù come arte del vivere bene
Capitolo quinto. Felicità e beni esteriori 5.1. Primi approcci al problema 5.2. Felicità e fortuna 5.2.1. Lampi di felicità, colpi di fortuna 5.2.2. Fortuna e virtù 5.2.3. Felicità e fortuna: osservazioni conclusive 5.3. Felicità e amministrazione dei beni 5.3.1. Il possesso e l’utilizzo di due beni supremi: la sophia e la phronesis
Parte seconda. Prassi di felicità
Capitolo primo. Felicità e valorizzazione delle proprie risorse 1.1. Vita felice e buon utilizzo dei propri talenti 1.1.1. Per una eudaimonia nell’orizzonte della physis 1.1.2. Felicità al singolare, felicità al plurale 1.2. Eudaimonia come ritrovamento e buona allocazione del proprio daimon 1.2.1. Felicità come consapevolezza 1.2.2. Percorsi esistenziali e traiettorie di felicità 1.3. Saggezza e sapienza di fronte alla felicità
Capitolo secondo. Felicità come conquista di pienezza 2.1. Felicità tra esperienze di pienezza e pienezza di vita 2.1.1. Tentativi di articolazione della nozione di pienezza
2.2. Per una pienezza nell’orizzonte dell’energeia 2.3. La difficoltà di far spuntare le ali: la felicità come conquista 2.3.1. Felicità pienamente consapevole e pienamente umana 2.4. Riflessioni conclusive
Conclusioni 1. Per concludere 2. Vita felice umana: appunti di viaggio
Bibliografia 1. Dizionari e lessici 2. Testi antichi 3. Testi moderni e contemporanei 4. Letteratura critica e studi generali
«Le ferite non scompaiono mai del tutto, soprattutto se profonde […] tuttavia, anche se non scompaiono, possono cicatrizzare. In questa cicatrice, che è, contemporaneamente, segno del patimento e sintomo di guarigione, si gioca la possibilità, per l’uomo che ha incontrato la morte e il dolore e che di fronte ad essi ha sofferto, di “ricominciare” a vivere», A. Fermani, Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele.
Tra le molte pubblicazioni di Arianna Fermani
Arianna Fermani
L’educazione come cura e come piena fioritura dell’essere umano. Riflessioni sulla Paideia in Aristote
«Non è una differenza da poco il fatto che subito fin dalla nascita veniamo abituati in un modo piuttosto che in un altro ma, al contrario, è importantissimo o, meglio, è tutto» (Etica Nicomachea, II, 1, 1103 b 23-25).
Questo contributo mira a mettere a fuoco il tema dell’educazione di Aristotele, mostrando come tale riflessione risulti essere originale ed attuale. L’indagine prende avvio dall’esame delle occorrenze di alcuni lemmi all’interno del corpus del filosofo particolarmente significativi rispetto al tema della educazione, come ad esempio
Si intende mostrare come la riflessione aristotelica sulla paideia, oltre ad un utilizzare una specifica metodologia di indagine, si muova all’interno di due fondamentali scenari educativi: nel primo (che a sua volta si articola in una serie di sotto-questioni, come ad esempio il tema dell’insegnabilità della virtù o quello dell’emotional training e dell’educazione delle passioni) l’educazione precede l’etica, mentre nel secondo l’educazione consiste nell’etica, secondo il fondamentale modello teorico dell’energeia.
Arianna Fermani è Professoressa Associata in Storia della Filosofia Antica all’Università di Macerata. Le sue ricerche vertono principalmente sull’etica antica e, più in particolare, aristotelica, e su alcuni snodi del pensiero politico e antropologico di Platone e di Aristotele. È Membro dell’Associazione Internazionale “Collegium Politicum” e dell’ “International Plato Society”. È membro del Consiglio Direttivo Nazionale della SISFA (Società Italiana di Storia della Filosofia Antica), e Direttrice della Scuola Invernale di Filosofia Roccella Scholé: Scuola di Alta Formazione in Filosofia “Mario Alcaro”. È Presidente della Sezione di Macerata della Società Filosofica Italiana. Ecco, cliccando qui, l’elenco delle sue pubblicazioni.
Arianna Fermani, Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele, Editore: eum, 2006 [prima edizione]
Il saggio si propone di riflettere sul modello classico del bios teleios, cioè della felicità della vita nella sua totalità, cercando di mostrare come il dialogo con gli antichi fornisca ancora “utili” schemi concettuali. Più in particolare si cerca di mostrare come il confronto con le riflessioni etiche di Platone e Aristotele permetta di dipanare i numerosi fili che costituiscono la trama di ogni esistenza umana (come i dolori, i piaceri, l’ampia gamma di beni e di risorse che la costituiscono), e di individuare alcuni rilevanti nodi concettuali (tra cui, ad esempio, quello di “misura”) che costituiscono la semantica della nozione di eudaimonia. Il modello antico di eudaimonia come eu prattein, inoltre, cioè come capacità strategica di “giocar bene”, sembra risultare particolarmente fecondo, invitando ad interrogarsi sulle modalità di attuazione della vita felice e sulla gestione di tutto ciò che ad ogni esistenza si offre per una “prassi di felicità”.
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Arianna Fermani, L’etica di Aristotele: il mondo della vita umana, Editore: Morcelliana, 2012
Utilizzando tutte e tre le Etiche aristoteliche, Arianna Fermani, con questo volume, offre un’ulteriore prova dell’attualità e utilità dell’etica dello Stagirita e di un pensiero che, esplicitamente e costitutivamente, mostra che ogni realtà “si dice in molti modi”. Gli schemi che l’intelligenza umana elabora devono essere molteplici e vanno tenuti, per quanto possibile, “aperti”. Questo determina la presenza di “figure” concettuali estremamente mobili e intrinsecamente polimorfe, figure che il Filosofo attraversa lasciando che i loro profili, pur nella loro diversità e, talvolta, persino nella loro incompatibilità, convivano. La verifica di questa metodologia passa attraverso l’approfondimento di alcune nozioni-chiave, dando vita ad un percorso che, con proposte innovative e valorizzazioni di elementi finora sottovalutati dagli studiosi, si snoda lungo tre linee direttrici fondamentali: quelle di vizio e virtù, quella di passione e, infine, quella di vita buona.
Sommario
Ringraziamenti Premessa I “Pensiero occidentale” vs “pensiero orientale”: alcune precisazioni II “Essere” e “dirsi in molti modi” Introduzione I. Per un “approccio unitario” ad Aristotele II. Autenticità delle tre Etiche III. Obiettivi e struttura del lavoro
PRIMA PARTE Percorsi di attraversamento delle figure di vizio e virtù Capitolo primo: Giustizia e giustizie Capitolo secondo: La fierezza Capitolo terzo: Sui molti modi di dire “amicizia Capitolo quarto: Lungo i sentieri della continenza e dell’incontinenza Capitolo quinto: La philautia: tra “egoismo” e “amor proprio” Capitolo sesto: Modulazioni della nozione di vizio
SECONDA PARTE: Percorsi di attraversamento della nozione di passione Capitolo primo: La passione come nozione “in molti modi polivoca” Capitolo secondo: Le metamorfosi del piacere Capitolo terzo: Articolazioni della nozione di pudore
TERZA PARTE: Percorsi di attraversamento della nozione di vita buona Capitolo primo: Dio, il divino e l’essere umano: sui molti modi di essere virtuosi e felici Capitolo secondo: La questione dell’autosufficienza Capitolo terzo: Natura/nature, virtù, felicità Capitolo quarto: Verso la felicitàlungo le molteplici rotte della phronesis Capitolo quinto: La felicità si dice in molti modi Conclusioni Bibliografia Indice dei nomi
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Aristotele, Le tre etiche. Testo greco a fronte, Editore: Bompiani, 2008.
In un unico volume e con testo greco a fronte le tre grandi opere morali di Aristotele: l’”Etica niconomachea”, l”Etica eudemia” e la “Grande etica”. Questi tre scritti rappresentano tutta la riflessione etica dell’Occidente, e il punto di partenza di ogni discorso filosofico sul fine della vita umana e sui mezzi per raggiungerlo, sul bene e sul male, sulla libertà e sulla scelta morale, sul significato di virtù e di vizio. La raccolta costituisce un unicum, poichè contiene la prima traduzione in italiano moderno del trattato “Sulle virtù e sui vizi”. Un ampio indice ragionato dei concetti permette di individuare le articolazioni fondamentali delle nozioni e degli snodi più significativi della riflessione etica artistotelica. Tramite la presentazione, contenuta nel seggio introduttivo, dei principali problemi storico-ermeneutici legati alla composizione e alla trasmissione delle quattro opere, e di un quadro sinottico dei contenuti delle opere stesse, è possibile visualizzare la struttura complessiva degli scritti e le loro reciproche connessioni.
Il confronto tra Platone ed Aristotele è stato interpretato, per lo più, come una opposizione tra modelli conoscitivi: da un lato la dialettica, intesa come il culmine del sapere, dall’altro la logica, intesa come l’insieme delle tecniche per ben argomentare, al di là delle pretese platoniche di una supremazia della dialettica. Ma ha ancora un fondamento filologico e storico questa contrapposizione? Un interrogativo che – nei saggi qui raccolti di alcuni dei più autorevoli interpreti del pensiero antico – mette capo a una pluralità di scavi, storiografici e teoretici. Scavi che invitano a una lettura dei testi platonici ed aristotelici nella loro complessità: emergono inaspettati intrecci e molteplici significati dei termini stessi di dialettica e logica in entrambi i pensatori. Non solo la dialettica platonica ha un suo rigore, ma la stessa logica aristotelica ha affinità, pur nelle differenze, con le procedure argomentative della dialettica. Una prospettiva ermeneutica che interessa non solo lo storico della filosofia antica, ma chiunque abbia a cuore le radici greche delle nostra immagine di ragione.
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Maurizio Migliori, Linda M. Napolitano Valditara, Arianna Fermani, Interiorità e anima: la psychè in Platone
Vita e Pensiero, 2007
Il concetto di anima, una delle più grandi “invenzioni” del mondo greco, figura teorica che ha attraversato e segnato la storia dell’intero Occidente, trova in Platone il primo fondamentale inquadramento filosofico. Non si tratta solo di una tematica dal significato metafisico e religioso: nell’approfondire i molteplici temi che questo concetto attiva emergono naturalmente, già nel filosofo ateniese, tutte le questioni connesse alla spiritualità e allo psichismo umano, con le loro conseguenze etiche. In questo senso l’”anima” apre la strada a un infinito processo di approfondimento e di scoperta dell’interiorità del soggetto. Non a caso questo tema compare in molti testi platonici, in particolare nei dialoghi. Da questa prima elaborazione scaturirono luci e ombre, soluzioni di antichi problemi e nuove domande, di non meno difficile soluzione, anzi tanto complesse da essere ancora oggi messe a tema. Sui molteplici aspetti di queste tematiche filosofiche alcuni tra i maggiori studiosi di Platone si confrontano nel presente volume, avanzando proposte spesso assolutamente innovative, anche per quanto riguarda l’utilizzo di testi sottovalutati, o addirittura quasi ignorati dagli studi precedenti, con una dialettica che dà modo al lettore sia di verificare la capacità ermeneutica delle diverse impostazioni, sia di riscoprire la ricchezza del contributo platonico rispetto a problemi con cui lo stesso pensiero contemporaneo torna positivamente a misurarsi.
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Humanitas (2016). Vol. 1: L’inquietante verità nel pensiero antico.
Editoriale: I. BertolettI, “Humanitas” 1946-2016. Identità e trasformazioni di un’idea l’inquietante verità. La riflessione anticaa cura di Arianna Fermani e Maurizio Migliori M. Migliori, Presentazione F. Eustacchi, Vero-falso in Protagora e Gorgia. Una posizione aporetica ma non relativista M. Migliori, Platone e la dimensione umana del verol. Palpacelli, Vero e falso si apprendono insieme. Il vero e il falso filosofo nell’Eutidemo di Platonea. Fermani, Aristotele e le verità dell’etica G.A. Lucchetta, Dire il falso per conoscere il vero. Aristotele, Fisica ii 1, 193a7) F. Mié, Truth, Facts, and Demonstration in Aristotle. Revisiting Dialectical Art and Methoda. longo, I paradossi nell’Ippia minore di Platone. La critica di Aristotele, Alessandro di Afrodisia e Asclepioe. Spinelli, Sesto Empirico contro alcuni strumenti dogmatici del vero. Note e rassegne F. De Giorgi, Il dialogo nel pontificato di Paolo VI G. Cittadini, Filippo Neri. Una spiritualità per il nostro tempo.
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J. Rowe, Arianna Fermani, Il ‘simposio’ di Platon
Academia Verlag, 1998
Cinque lezioni sul dialogo con un ulteriore contributo sul ‘Fedone’ e una breve discussione con Maurizio Migliori e Arianna Fermani; 27-29 marzo 1996, Università di Macerata, Dipartimento di filosofia e scienze umane, in collaborazione con l’Istituto Italiano per gli studi filosofici.
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Arianna Fermani, “Brividi di bellezza” e desiderio di verità
“Brividi di bellezza” e desiderio di verità in Bellezza e Verità; Brescia, Morcelliana, 2017; pp. 195 – 203
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ARISTOTELE E I PROFILI DEL PUDORE
Arianna Fermani
Vita e Pensiero, Rivista di Filosofia Neo-Scolastica
Rivista di Filosofia Neo-Scolastica
Vol. 100, No. 2/3 (Aprile-Settembre 2008), pp. 183-202
In questo volume vengono raccolti cinque saggi sul pensiero filosofico greco nell’età romana. Le linee di ricerca qui proposte toccano nello specifico questioni attinenti alla filosofia stoica, a quella epicurea, a quella cinico-sofistica e all’aristotelismo di epoca imperiale.
«Non solo la scrittura influenza la lettura, ma questa condiziona quella: ne determina infatti il significato. Affermare, come fa Fortini, che l’opera crea il suo pubblico meno di quanto il suo pubblico non la crei, vuol dire che il significato di un’opera è inseparabile dal processo della ricezione e che la storia della letteratura dovrebbe essere soprattutto storia della trasmissione e della ricezione, della fortuna e dei gusti, dei canoni e del pubblico, insomma dei processi di valorizzazione e attualizzazione dei testi».
Romano Luperini, Su Fortini saggista e teorico della letteratura, 2005. Cfr. Romano Luperini, La critica secondo Fortini.
Cfr., anche, Romano Luperini, Il futuro di Fortini. Saggi, Manni, 2007. [In questo volume Romano Luperini raccoglie le testimonianze di una lunga fedeltà: venticinque anni di recensioni, articoli, interventi, saggi dedicati a Franco Fortini, di cui è stato amico e interlocutore (talvolta anche polemico) per trent’anni, dal 1965, quando l’ha conosciuto poco dopo essersi laureato, fino alla morte del poeta, ed era ormai suo collega all’Università di Siena. Li ha divisi il tempo di una generazione, li ha uniti la stessa passione politica. Gli interventi qui riuniti definiscono il profilo di Fortini, ma ne colgono anche aspetti diversi, con il commento di singole poesie, l’esplorazione di alcuni temi (soprattutto quelli della memoria e dell’oblio, del passato e del futuro) e l’analisi delle posizioni teoriche in campo critico-letterario. In particolare Fortini viene considerato in contrappunto rispetto ad altre due personalità – quelle di Pasolini e di Calvino – con cui è stato protagonista del dibattito letterario negli anni Sessanta e Settanta. Ne esce così un affresco storico delle patrie lettere nel secondo Novecento, quando gli scrittori erano ancora dei grandi intellettuali capaci di scrivere poesie o romanzi, ma anche di elaborare saggi critici, filosofici, politici, storici, sociologici, e di occupare una posizione di primo piano nella formazione dell’opinione pubblica e della cultura nazionale.].
Quand les cimes de notre ciel se rejoindront Ma maison aura un toit.
Paul Eluard, Dignes de vivre, 1941.
«[…] è necessario dire come abitiamo il nostro spazio vitale in accordo con tutte le dialettiche della vita, come mettiamo radici, giorno per giorno, in un “angolo del mondo”. […] La casa è il nostro angolo del mondo […] il nostro primo universo. […] ogni spazio veramente abitato reca l’essenza della nozione di casa» (pp. 32-33).
«Ogni grande immagine semplice è rivelatrice di uno stato d’animo, La casa, ancor più del paesaggio, è “uno stato d’animo”, anche riprodotta nel suo aspetto esteriore, essa rivela una intimità» (p. 95).
Gaston Bachelard, La poetica dello spazio, Dedalo, Bari, 1975.
«Una non vile educazione comporta il pudore e l’uomo addestrato al bene si vergogna di comportarsi da vile. La virilità si può insegnare, se a un bimbo si può insegnare a dire e ad ascoltare ciò che non sa. E quel che s’impara suole serbarsi fino alla vecchiezza. Educate perciò bene i vostri figli».
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