Carl G. Jung (1875-1961) – Qual è l’elemento risolutivo? È sempre qualcosa di antichissimo, e proprio per questo qualcosa di nuovo, perché, quando una cosa passata da molto tempo ritorna, oggi, in un mondo mutato, è nuova. Dar vita a cose antichissime in un’epoca nuova significa creare.

«Qual è l’elemento risolutivo? È sempre qualcosa di antichissimo, e proprio per questo qualcosa di nuovo, perché, quando una cosa passata da molto tempo ritorna, oggi, in un mondo mutato, è nuova. Dar vita a cose antichissime in un’epoca nuova significa creare».

 

Carl Gustav Jung, Il libro rosso, Bollati Boringhieri, Torino 2010, p. 217 (Liber secundus, 20)


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – L’età delle parole, ricordando Antonia Pozzi. Non dobbiamo temere i cancelli chiusi dal silenzio: abbiamo bisogno di parole di verità.

 
Salvatore Bravo

L’età delle parole, ricordando Antonia Pozzi

Non dobbiamo temere i cancelli chiusi dal silenzio: abbiamo bisogno di parole di verità
 

“Forse l’età delle parole è finita per sempre”, scrisse nel 1938 Antonia Pozzi al poeta Vittorio Sereni. Le parole di Antonia Pozzi risuonano, ora, e oggi più vere che mai. Vi è il timore che le parole non siano più il luogo topico dell’umanizzazione: hanno dismesso la loro capacità di comunicare, di mettere in comune argomentazioni e vite per capire la verità. Al loro posto vi è solo la parola usata come arma contundente per segnare la potenza di pochi e l’umiliazione di molti. Le parole non solo ci parlano, ma sono la breccia con cui l’irrazionale diviene razionale, sono la partecipazione alla vita, sono la vita nel suo dispiegarsi verso la totalità.

In questo momento storico sono soltanto il mezzo con cui si tolgono i diritti, si occultano i doveri e si alimenta la discriminazione. Il confronto dialogico è stato sostituito dal monologo ubbidiente a cui si obbedisce supinamente. L’obbedienza non è una virtù, Don Milani lo ha testimoniato!

Solo le parole riescono ad emancipare dalla sofistica del dominio. La mortificazione che molti provano è l’effetto delle parole usate come uno sperone di ferro sotto il quale schiacciare i dissenzienti: le loro parole non devono trovare spazio e tempo per apparire, ma devono essere tacitate e oltraggiate.

Assistiamo all’oltraggio delle parole, e quindi alla negazione dell’essere umano. Senza parole l’essere umano è disumanizzato, il logos è sostituito dalla scaltrezza del calcolo e dall’uso arbitrario dei significati.

Non resta che la solitudine. Il rischio è la disperazione silenziosa, poiché il furto delle parole non è un semplice saccheggio, è negazione della profondità umana e della natura dialogica che, per storicizzarsi, necessita dell’incontro. Quest’ultimo è possibile solo se la parola è la soglia nella quale e dalla quale la verità prende forma.

Senza le parole del logos non vi è che la legge del più forte: la violenza pur invisibile è legalizzata e la truffa sociale della governance ai danni della collettività diviene “normalità” e “banalità del male” che penetra nelle relazioni per saccheggiarle della corrente calda dell’incontro senza il quale non vi è pensiero, ma solo dominio.

Antonia Pozzi si è suicidata nel 1938, nell’anno delle leggi razziali. La sua tragica scelta è per noi un monito: non si può vivere senza parole e senza verità. Ella non ha resistito dinanzi all’apparir del vero, come la giovane Silvia (nella parola poetica di Leopardi). Dobbiamo ricordare la sua morte e la cornice in cui è avvenuta per non cedere alla violenza dei nostri giorni, anche se ai più appaia ormai inesorabile. Dinanzi al male che avanza abbiamo bisogno di parole di verità: «L’amore per la verità non è fattore normativo autoritario, ma è intima coerenza tra vita e pensiero», ha scritto una insegnante in questi difficili giorni. Parole di verità per non cedere alla malinconia delle passioni tristi che incombe su tutti. Non dobbiamo temere i cancelli chiusi dal silenzio:

 

Giardino chiuso

 

Come in una fiaba
triste – un altro giardino
si chiude – al margine
della strada –

 Restano soli sul colle
i pioppi con le foglie leggère –
le siepi di bosso – le mammole
delle primavere
perdute –

 Il bosco dei faggi
si fa tutto ombra
senza raggi
di cielo –
tomba
per gli uccelli
che saranno
morti –

 Come in una fiaba
triste – il viandante che porti
per questa strada

la sua

fatica –
vede una fuga di cancelli
chiusi – su l’antica
erta – e imprigionati nel fondo
i castelli
dei sogni ciechi –

 

13 settembre 1933

Antonia Pozzi

I cancelli hanno bisogno di parole per aprirsi alla speranza e alla prassi, ora che il cielo sembra chiudersi su di noi.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Fernanda Mazzoli – Un silenzio assordante. Un insegnante umiliato difficilmente potrà trasmettere agli studenti il coraggio delle proprie idee e l’amore per la verità che non è fattore normativo autoritario, ma intima coerenza tra vita e pensiero.

Fernanda Mazzoli

UN SILENZIO ASSORDANTE

Un insegnante umiliato difficilmente potrà trasmettere agli studenti il coraggio delle proprie idee e l’amore per la verità che non è fattore normativo autoritario, ma intima coerenza tra vita e pensiero.

Dietro la troppo facile divisione tra sì vax e no vax, vero tributo al riduzionismo del pensiero ad opera del circo mediatico, quello che si sta delineando è un fenomeno gravissimo che riguarda le stesse strutture della politica: la messa a punto di una cittadinanza condizionata.

***

Può darsi che io sia un soggetto in preda a credenze irrazionali, ma qualcosa non mi torna nelle misure messe in atto in ambito scolastico per arginare la pandemia da Covid 19.

Credevo di trovare, già a settembre, classi sdoppiate o meno affollate, mi aspettavo l’installazione in ogni aula di sanificatori d’aria, contavo su un raddoppiamento o almeno un incremento dei trasporti pubblici. È arrivata, invece, a dicembre la sospensione dall’insegnamento e dallo stipendio dei docenti e degli Ata che hanno scelto di non vaccinarsi.

Migliaia di insegnanti che in questi due difficili anni hanno contribuito, insieme ai loro colleghi, a dare continuità all’attività didattica ad Istituti chiusi, rappresentando un punto di riferimento forte per studenti spaventati e disorientati, mentre Miur e media cianciavano di DAD come nuova opportunità metodologica o di banchi a rotelle, sono considerati ora alla stregua di untori da allontanare dalla vita sociale, sino al punto di impedire loro di svolgere il loro magistero e di privarli delle fonti di sostentamento. Infatti, non trattandosi di un provvedimento disciplinare e conservando essi il rapporto di lavoro, sembra che non potranno nemmeno percepire l’assegno alimentare, né svolgere un’ altra mansione regolare.

Tutto questo avviene nel silenzio assordante dei grandi sindacati, dei difensori titolati della democrazia e dei diritti umani, nonché di molte delle voci critiche che si sono levate in questi anni contro l’aziendalizzazione della scuola, di cui questa disposizione rappresenta uno degli esiti. Toccherà, infatti, al dirigente scolastico nella sua qualità di datore di lavoro comminare la sospensione.

Dietro la troppo facile divisione tra sì vax e no vax, vero tributo al riduzionismo del pensiero ad opera del circo mediatico, quello che si sta delineando è un fenomeno gravissimo che riguarda le stesse strutture della politica: la messa a punto di una cittadinanza condizionata, in cui il diritto al lavoro è subordinato all’accettazione delle misure e delle condotte decise dal governo di turno, alle quali si assegna un carattere inconfutabile, in virtù del loro preteso coincidere con il Bene pubblico.

Chi dissente e rivendica la libertà di scelta si ritrova, come ha affermato il presidente del Consiglio nella sua conferenza stampa del 26 novembre1, fuori dalla società. E dalla scuola, dove a contare non sono più la preparazione professionale, la conoscenza dei contenuti disciplinari e la capacità di comunicarli ai ragazzi, ma l’acquiescenza e l’obbedienza, oggi al nuovo culto del vaccino (trasformato da strumento utile a contenere i danni del virus – di cui servirsi con tutte le precauzioni richieste da un farmaco sperimentale – a panacea miracolistica), domani a qualche altro credo, sempre naturalmente rivestito di opportuna aura salvifica.

Questi sono tempi in cui occorrerebbe riflettere sul serio sul sermone del teologo e pastore protestante Martin Niemöller, erroneamente attribuito a Bertold Brecht.

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare“.

Non solo: un provvedimento come quello che scatterà dal 15 dicembre suona come un vergognoso ricatto economico: non si limita a discriminare pesantemente i docenti in base a un parametro che nulla ha a che vedere con la specificità della loro professione, ma introduce un’ulteriore discriminazione fra coloro che potranno concedersi il lusso di essere coerenti con le proprie idee e quelli che, tra mutuo da pagare e figli da crescere, non potranno permettersi di rinunciare allo stipendio.

Saranno, questi, insegnanti avviliti ed umiliati, costretti ad abdicare alla propria libertà in cambio dei mezzi di sussistenza, schiacciati da una violenza – quella economica – che marchia a sangue le persone tanto quanto l’aggressione fisica, se non di più. Difficilmente, un insegnante umiliato potrà trasmettere agli studenti il coraggio delle proprie idee e l’amore per la verità che non è fattore normativo autoritario, ma intima coerenza tra vita e pensiero.

A scanso di equivoci, non ci si riferisce qui a chi ha scelto liberamente di vaccinarsi, ma a chi lo ha fatto o lo farà spinto dalla necessità di continuare a percepire un salario per vivere.

A ben guardare, i conti tornano, eccome: lo svilimento dei docenti è una tessera importante di quel puzzle disegnato dalle riforme degli ultimi venticinque anni, tendenti a fare della scuola una formidabile fabbrica di consenso sociale.

Fernanda Mazzoli

1 Testualmente :

Speriamo che la pandemia si evolva in maniera tale che il prossimo Natale sia normale per tutti. […] Bisogna che anche coloro che da oggi saranno oggetto di restrizioni […] possano tornare a essere parte della società con tutti noi”, dal che si evince che per adesso non ne fanno parte.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Michail Bacthin (1895-1975) – Solo nella relazione comunicativa reciproca, nell’interazione dell’uomo con l’uomo si rivela “l’uomo nell’uomo” sia per gli altri, sia per se stesso.

«[…] non è possibile comprendere l’uomo interiore qualora se ne faccia un oggetto di analisi indifferente e neutrale; non si può impadronirsene nemmeno se ci si fonde con lui, se si penetra in lui con il sentimento.

No, a lui ci si può accostare e lo si può scoprire – o meglio, indurlo a svelarsi – solo comunicando con lui, dialogicamente.

Raffigurare l’uomo interiore […] si può soltanto raffigurando il rapporto comunicativo di lui con l’altro.

Solo nella relazione comunicativa reciproca, nell’interazione dell’uomo con l’uomo si rivela “l’uomo nell’uomo” sia per gli altri, sia per se stesso».

Michail Bacthin, Dostoevskij, Einaudi, Torino 2002, p. 331.

****

 


 

 

Michail Bacthin (1895-1975) – Il riso autentico non esclude la serietà, ma la purifica dal dogmatismo, dall’unilateralità, dalla sclerosi, dal fanatismo, dalla perentorietà, dalla intimidazione. Il riso è una forma interiore e non esteriore

Michail Bachtin (1895-1975) – Una sola voce non porta a termine nulla e nulla decide. Due voci sono il minimum della vita, il minimum dell’essere. Essere significa comunicare dialogicamente.

Michail Bachtin (1895-1975) – La comprensione creativa non rinuncia a sé. Di grande momento per la comprensione è l’extralocalità del comprendere. Nel campo della cultura, l’extralocalità è la più possente leva per la comprensione. Un senso svela le proprie profondità, se si incontra e entra in contatto con un altro, altrui senso: tra di essi comincia una sorta di dialogo. Senza proprie domande non si può capire creativamente alcunché di altro e di altrui (ma, naturalmente, le domande devono essere serie, autentiche).

Michail Bachtin (1895-1975) – La vera vita della persona è accessibile soltanto a una penetrazione dialogica alla quale essa si apre liberamente in risposta. Nell’uomo vi è sempre qualcosa che solo lui può scoprire nel libero atto dell’autocoscienza e della parola, che non si assoggetta alla determinazione esterna ed esteriorizzante.

Michail Bacthin (1895-1975) – La vita può essere compresa dalla coscienza solo nella responsabilità concreta. Una filosofia della vita non può che essere una filosofia morale. Si può comprendere la vita solo come evento, e non come essere-dato. Separatasi dalla responsabilità, la vita non può avere una filosofia; separatasi dalla responsabilità, essa è, per principio, fortuita e priva di fondamenta.

Michail Bachtin (1895-1975) – Non tutti i motivi che entrano in contraddizione con l’ideologia ufficiale degenerano in un indistinto discorso interno e muoiono. Solo che all’inizio esso si svilupperà in una cerchia sociale ristretta, entrerà nel sottosuolo della salutare clandestinità politica. Proprio così si forma un’ideologia rivoluzionaria in tutte le sfere della cultura.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Fernanda Mazzoli – Catastrofismo. Amministrazione del disastro e sottomissione sostenibile. Tutta la vita della società industriale divenuta globale si annuncia ormai come un’immensa accumulazione di catastrofi.

Fernanda Mazzoli

Catastrofismo. Amministrazione del disastro e sottomissione sostenibile

Tutta la vita della società industriale divenuta globale
si annuncia ormai come un’immensa accumulazione di catastrofi


Ci sono libri la cui qualità ed importanza – in termini di capacità di leggere la realtà con lenti lucide ed originali, offrendo al lettore una visione delle cose che rovescia i capisaldi delle opinioni correnti – sono inversamente proporzionali alla loro notorietà e diffusione. Paradosso solo apparente e piuttosto scontato di un mercato editoriale che misura la qualità in base al presenzialismo mediatico degli autori e all’adeguamento al pensiero dominante che, di questi tempi, veste progressista e fa l’occhiolino al bene comune, il quale, per una svista della logica e della storia, è andato a cacciarsi sotto l’ombrello protettore dei miliardari filantropi, dei finanzieri divenuti salvatori della patria e dei grands commis ai vertici degli organismi internazionali. Così, un libro poco conosciuto e ancor meno citato come quello scritto a quattro mani da René Riesel e da Jaime Semprun, Catastrophisme, administration du désastre et soumission durable,1 dovrebbe, invece, essere uno dei testi di riferimento ineludibili per chiunque voglia comprendere il presente – tra minacce di catastrofe sanitaria e ricorso ad un’emergenza divenuta ordinaria amministrazione – senza piegarsi sotto le forche caudine dell’informazione di regime, della narrazione mainstreem e delle troppo facili semplificazioni offerte dagli adepti delle teorie complottiste.

Parodiando un celebre incipit, gli autori affermano che «tutta la vita della società industriale divenuta globale si annuncia ormai come un’immensa accumulazione di catastrofi», diffuse con il supporto mediatico da esperti che si richiamano ad una conoscenza quantitativa, ad un insieme di dati posti a fondamento di un’analisi incontrovertibile della realtà e di risposte altrettanto assolute. Dall’inevitabilità delle catastrofi consegue il successo della propaganda per le misure autoritarie altrettanto inevitabili se si vuole garantire la sopravvivenza del pianeta, la realizzazione delle quali mobilita un apparato burocratico-tecnologico sempre più robusto e più pervasivo, capace di un controllo totale delle condizioni di vita.

Semprun e Reiser si erano dati come oggetto del loro studio l’emergenza ambientale (di cui, peraltro, erano ben lontani dal negare la portata, da convinti avversari della società industriale, nonché del modo di produzione capitalistico, di cui hanno denunciato a più riprese le diverse nocività) ed è quindi particolarmente interessante riscontrare l’aderenza del loro discorso alla situazione determinatasi oggi intorno all’emergenza sanitaria. È anzi ragionevole ritenere che se nello spazio di un anno e mezzo molte società occidentali sono state disposte a rinunciare a quelle libertà individuali e collettive esibite orgogliosamente come cifra distintiva rispetto al resto del mondo chiamato a regolare il proprio passo su quello delle democrazie liberali, il terreno della rinuncia sia stato abbondantemente irrigato in precedenza da un discorso pubblico sempre più centrato sulla minaccia di una catastrofe incombente che ha assunto volti diversi (dal terrorismo al riscaldamento globale, all’esaurimento delle risorse naturali), ma egualmente efficaci ad attivare le condizioni politiche, i presupposti ideologici e i condizionamenti psicologici e mentali atti a legittimare uno stato di perpetua emergenza. La grande paura, creata e diffusa artatamente da istituzioni, informazione, esperti a vario titolo a partire da fenomeni reali, di cui si tende a rimuovere l’origine e la funzionalità, qualora esse mettano in causa l’intero sistema sociale, ha naturalizzato lo stato di emergenza, ha trasformato l’eccezione in normalità, ha sollecitato un enorme bisogno di protezione da parte delle popolazioni, cui solo le misure che si accompagnano allo stato d’emergenza sembrano capaci di dare una risposta. Che il prezzo da pagare siano l’autodeterminazione, le libertà faticosamente conquistate da un’intera civiltà nel corso della sua storia, i legami sociali poco importa, purché la minaccia dell’annichilimento sia stornata o rinviata. Ci si affida, dunque, con abbandono quasi infantile a quelli che prendono in mano «l’amministrazione del disastro», alla burocrazia di esperti incaricata di «una gestione di crisi permanente», si sacrifica loro quel poco che resta di spirito critico e di capacità di pensare ed agire autonomamente. È qui che si annidano tutte le derive autoritarie che oggi non sbandierano più il mito consunto e poco credibile del sangue e della razza, o dell’ortodossia ideologica, ma quello del bene della società, o meglio di ciò che i suoi esponenti di punta avvalorano come tale.

«È un dovere civico quello di essere in buona salute, culturalmente aggiornati, connessi. Gli imperativi ecologici sono l’ultimo argomento senza replica. […] Chi si opporrebbe al mantenimento dell’organizzazione sociale che permetterà di salvare l’umanità, il pianeta e la biosfera?».

Spetta proprio ad una visione antagonista rispetto alla moderna società industriale quale quella sostenuta da Riesel e Semprun e, pertanto, particolarmente sensibile ai problemi posti dalla predazione dell’ambiente individuare con lucidità e denunciare la conversione ecologica del capitale in cerca di nuove frontiere che consentano di avviare un nuovo ciclo di accumulazione.

A questo proposito, gli autori citano uno studio di Pierre Souyri,2 pubblicato postumo nel 1983 e dedicato alle trasformazioni del capitalismo, che fa piazza pulita delle illusioni alimentate oggi dalla green economy – ultimo tentativo in ordine di tempo di dare un volto presentabile a questo modo di produzione e intanto impegnarlo in una nuova fase – e dal diffondersi di una coscienza ecologica di massa sapientemente orchestrata dall’alto e funzionale alla prima.

«Le campagne allarmistiche scatenate intorno alle risorse del pianeta e all’avvelenamento della natura da parte dell’industria non annunciano certamente un progetto degli ambienti capitalistici di fermare la crescita. È piuttosto vero il contrario. Il capitalismo si impegna attualmente in una fase in cui si troverà costretto a mettere a punto un insieme di nuove tecniche di produzione dell’energia, dell’estrazione dei minerali, del riciclaggio dei rifiuti e di trasformare in merce una parte degli elementi naturali necessari alla vita. Tutto ciò annuncia un periodo di intensificazione delle ricerche e di sconvolgimenti tecnologici che richiederanno investimenti giganteschi. I dati scientifici e la presa di coscienza ecologica sono utilizzati e manipolati per costruire dei miti terroristi la cui funzione è quella di fare accettare come imperativi assoluti gli sforzi ed i sacrifici che saranno indispensabili per il compimento del nuovo ciclo di accumulazione capitalistica che si annuncia».

Il catastrofismo, dunque, diventa il dispositivo ideologico perfetto per creare un consenso trasversale nella società intorno a scelte politiche ed economiche di fondo dalle ricadute radicali sulla vita dell’intera collettività, persuasa da una batteria di fuoco aperta da esperti, scienziati, giornalisti, esponenti del mondo dello spettacolo e della cultura non solo ad accettare tali misure coercitive, ma a richiederle con entusiasmo in nome della salvezza propria e del pianeta.

Sono esattamente le stesse dinamiche in gioco nella gestione dell’epidemia sanitaria da Covid 19: la creazione della grande paura, da Apocalissi del nuovo millennio, l’emergenza continua, la demonizzazione di ogni dubbio o dissenso, fino alla secca alternativa tra vaccinarsi o morire, di malattia o di messa al bando dalla società civile fino all’allontanamento dall’attività lavorativa.

Che si tratti di ambiente o di salute, è l’irreggimentazione forzata o volontaria nelle nuove armate del Bene, fertile humus per ogni torsione autoritaria che richiede e al tempo stesso presuppone quella che i nostri autori definiscono «normalizzazione degli spiriti».

«La domanda sociale di protezione nella catastrofe» non chiama più in causa solamente l’apparato statale e burocratico, ma è tutta la società, – «attraverso gli uomini qualunque che vi si mobilitano per raccogliere le sue inquietudini e fabbricare l’immagine di una pretesa “società civile” – che reclama norme e controlli».

Non si tratta tanto di negare la realtà del disastro ambientale o dell’epidemia, quanto di comprendere che il combinato disposto fra allarmismo mediatico, idolatria dei dati, declinazione della scienza in nuovo dogma religioso e conseguente intervento dello Stato in veste di tutore concorrono ad una condizione permanente di amministrazione del disastro dove, ad essere confermata e consolidata, è la sottomissione3 degli individui e dei popoli, mentre nuove catastrofi, ecologiche e sanitarie, si profilano all’orizzonte.

Dove trovare un giacimento di paura e di coercizione altrettanto prezioso per la governance globale, pronta ad approfittarne per ridisegnare l’economia, il modo di vivere, le strutture della politica in una direzione più funzionale alla fase in cui il capitale è entrato?

Fernanda Mazzoli

1 Pubblicato a Parigi nel 2008 dall’Encyclopédie des Nuisances, fondata e diretta dallo stesso Jaime Semprun, il libro è disponibile in traduzione italiana dal 2020 per i tipi della casa editrice dell’Ortica con il titolo Catastrofismo, amministrazione del disastro e sottomissione sostenibile. Le citazioni del presente articolo sono state da me tradotte dal testo originale. Quanto agli autori, entrambi hanno preso parte al Maggio francese e sono stati vicini, per qualche anno, all’Internazionale Situazionista; hanno pubblicato studi di critica sociale, collaborando alla rivista dell’Encyclopédie des Nuisances, poi trasformata in casa editrice. René Riesel, allevatore di ovini, per la sua militanza anti-OGM ha subìto arresti ed un periodo di detenzione.

2 Pierre Souyri, La Dynamique du capitalisme au vingtième siècle, Payot, Paris, 1983. L’autore, di formazione marxista, è stato partigiano, militante comunista (uscito dal PCF nel 1944 su posizioni antistaliniste) e ha fatto parte del gruppo Socialisme ou barbarie.

3 Il titolo del saggio in questione gioca sul doppio significato del francese durable, durevole e sostenibile.


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Salvatore Bravo- Il sei dicembre 2021 entra in vigore il super greenpass.

 

Salvatore Bravo

6 DICEMBRE 2021

Il sei dicembre 2021 entra in vigore il super greenpass

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Si tratta di un’autentica rivoluzione reazionaria, in quanto i diritti sono concessi nello stile della costituzione ottriata e flessibile. Con un colpo di spugna il governo ha eliminato i diritti costituzionali conquistati dal popolo con la resistenza per inaugurare una nuova fase regressiva della democrazia. Dal sei dicembre vige un nuovo stato di diritto, in cui i cittadini non sono eguali davanti alla legge, ma si conquistano i diritti con l’obbedienza: diritti a punti o se si vuole a livelli. Vi sono tre livelli di cittadinanza: i senza grennpass, coloro che hanno il greenpass minimo e i supercittadini con il super grenpass. Cittadinanza a fasce di livello che mette in atto una discriminazione legalizzata. Il diritto allo studio è in realtà sospeso, gli studenti per poter arrivare nelle scuole devono dotarsi di greenpass.

Se uno Stato impedisce l’istruzione introduce una discriminazione inaudita: si neutralizza la formazione personale, si sottrae la possibilità di educarsi, si insegna che non tutti possono nei fatti entrare in classe. Gli studenti imparano che i diritti sono concessioni temporanee e che la formazione può essere espletata solo con l’obbedienza. Non poco tempo addietro il ministro dell’istruzione introduceva lo slogan “scuola affettuosa”. Una scuola che impedisce l’istruzione e ricatta le famiglie con il greenpass non è affettuosa, ma discrimina e insegna la discriminazione. L’inclusione parola che ossessiva si ripete nelle scuole di ogni ordine e grado mostra la sua tragica verità: non vi è inclusione, ma discriminazione, e se vuoi essere incluso devi obbedire e fingere che lo fai liberamente, magari con un post in cui ci si vaccina senza sapere con precisione cosa ti stanno inoculando. Parlare e discutere agli alunni dell’uguaglianza, battersi il petto dinanzi a ogni forma di violenza e poi impedire ad una parte della popolazione scolastica di viaggiare con treni e autobus è una contraddizione palese, ma taciuta. In TV si continua a ripetere e a quantificare il numero dei greepass scaricati, ma se anche dietro uno dei greenpass vi è una sola persona costretta dalle circostanze a farsi inoculare ciò che non vorrebbe, non si può parlare di stato di diritto, ma di violenza conclamata e velata da slogan ed esemplificazione. Ciò che è più grave è l’incultura della discriminazione che entra nel lessico quotidiano. Il nuovo lessico quotidiano è infarcito di violenza, e questa volta le parole coincidono tragicamente con i fatti. Non solo alunni, ma anche docenti e lavoratori non potranno usare mezzi pubblici, se non accettano gli ordini stabiliti per decreto esautorando il parlamento. Dopo l’eliminazione dell’articolo diciotto dallo Statuto dei lavoratori, si introduce e si rafforza la discriminazione senza giusta causa.

In una democrazia si discute, ma, da noi, d’ora in avanti si obbedisce. Se si guarda lo stato presente con sguardo olistico, non si può che avere la tetra immagine della fine della democrazia e l’inizio di una transizione verso una forte limitazione della stessa. Il senatore Monti lo ha dichiarato apertis verbis, “in Italia vi è troppa democrazia ed informazione, la democrazia va dosata alle circostanze”. Il senatore che ha tagliato i servizi sociali e le pensioni, se ha potuto dichiarare che la democrazia dev’essere adattabile come i fondi di investimento, per cui i diritti sono concessi sul “merito”, lo ha fatto, perché sa che una parte della popolazione è stata rieducata a giudicare la democrazia come un limite. Tali dichiarazioni sono possibili, perché è passata la logica della discriminazione dalla quale non sarà facile tornare indietro. Si sta sperimentando una democrazia limitata e a tempo. Coloro che gongolano per il supergreepass sappiano che nessun diritto è per sempre e che potrebbero ritrovarsi tra i dannati all’improvviso. L’Europa complice tace e applaude all’esperimento italiano. L’Europa dimostra la verità del capitalismo nella sua fase assoluta: il capitale è per suo fondamento discriminatorio ed ha in odio l’uguaglianza. Decenni di tagli ai diritti hanno inoculato l’attuale normalità della discriminazione che non ha nessun fine sanitario, ma è l’inizio di una nuova ideologia da capire e arrestare. Il 6 dicembre non è l’inizio della libertà come i manipolatori vogliono lasciare intendere, ma l’introduzione di un apartheid accettato senza nulla controbattere da partiti e sindacati, e di questo bisogna prendere atto. In ultimo, è bene rileggere l’articolo 3 della Costituzione per comprendere l’abisso in cui siamo:

«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Salvatore Bravo


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Josep M. Esquirol – La resistenza è condizione necessaria della possibilità del progetto comunitario, è azione responsabile, è lotta contro la continua disgregazione dell’essere, contro il nichilismo. Ma la resistenza non è immunologia, e non esiste senza modestia e generosità.

La resistenza è condizione necessaria della possibilità del progetto comunitario, è azione responsabile, è lotta contro la continua disgregazione dell’essere, contro il nichilismo. Ma la resistenza non è immunologia, e non esiste senza modestia e generosità

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«Ci sono solitudini incomparabili nel loro tendere alla condivisione. In realtà, solo chi è capace di solitudine può stare davvero insieme agli altri. […] Il deserto è ovunque e in nessun luogo […]. Chi affronta il deserto è, soprattutto, un resistente. Non ha bisogno di coraggio per espandersi, bensì per raccogliersi e poter così resistere alle dure condizioni esterne. Il resistente non ambisce a dominare o colonizzare, né desidera il potere. Vuole anzitutto non perdere se stesso, ma anche, e specialmente, servire gli altri. Questo atteggiamento non va confuso con la protesta facile e stereotipata: la resistenza, in genere, è un atto discreto.

[…] Eppure non è sbagliato usare la parola resistenza per riferirsi, oltre agli ostacoli opposti dal mondo alle nostre pretese, alla fortezza che possiamo dimostrare nell’affrontare i processi di disintegrazione e corrosione provenienti dall’ambiente circostante e persino da noi stessi. Ed è proprio allora che la resistenza si rivela una profonda pulsione umana.

Il nostro esistere può essere considerato un resistere proprio perché una delle dimensioni della realtà è interpretabile come forza disgregatrice. Di fatto, la prova più dura a cui viene sottoposta la condizione umana è la continua disgregazione dell’essere. È come se le forze centrifughe del nulla volessero saggiare la capacità dell’uomo di resistere al loro assalto. Sebbene i volti dei nemici cambino nel tempo, non si tratta di una sfida legata all’oggi o al passato, bensì di una prova costante, perché è la realtà stessa – per esempio per mezzo del volto del tempo e della sua assoluta irreversibilità – a cingerci d’assedio.

[…] Il silenzio di chi si raccoglie è un silenzio metodologico – letteralmente, è “un cammino” – che cerca di “vedere meglio” […].

Se la resistenza si contrappone soprattutto alla disgregazione, sarà opportuno analizzare la natura specifica di alcune forze entropiche a cui dobbiamo la nostra situazione attuale (nichilismo è il nome di una di esse, forse la più rilevante) […].

[…] Abbiamo sottolineato che la resistenza intesa come raccoglimento non si contrappone all’idea di progetto, anzi, se adottiamo questa prospettiva, la resistenza diviene condizione necessaria della possibilità del progetto. Esistono, invece, una chiusura e un isolamento assolutamente sterili […] . Non ricevere né dare, ecco un isolamento che sta agli antipodi di quello del resistente, le cui orecchie sono invece sempre tese ad accogliere la parola amica, mentre il suo pensare generoso è fin dall’inizio rivolto ad una azione responsabile. La resistenza non è immunologia (da qui il nostro disaccordo con Sloterdijk).

[…] Il resistente non pensa solo, o prioritariamente, a se stesso. Ecco dunque gli elementi della resistenza politica: coscienza, volontà e coraggio, oltre a un’intelligenza strategica per organizzarsi da sé e continuare a lottare nonostante la persecuzione sistematica e inevitabile di cui sarà oggetto. […] Resistere alla tirannia e al totalitarismo significa opporsi alla disgregazione, perché quei regimi […] uniformano e forzano una totalità apparente e falsa.

[…] La forza del resistente viene dal profondo.

[…] La memoria e l’immaginazione (il fervore delle idee) sono le migliori armi a disposizione del resistente.

[…] Non esiste resistenza senza modestia o generosità. Per questo, la presunzione e l’egoismo sono sintomi della sua assenza. Narciso non è resistente.

[…] La vita può essere assolutamente profonda anche nella marginalità, perché quel che davvero conta è la possibilità, per ognuno di noi, di essere inizio. Solo se non si arretra nemmeno di un passo si può continuare a sperare …».

Josep Maria Esquirol, La resistenza intima. Saggio su una filosofia della prossimità, Vita e Pensiero, Milano 2018, pp. 9-17.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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