«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Per poter essere veicolo di verità ed emancipazione dobbiamo liberarci del marchio di Caino dell’utile e della competizione. Senza tale esodo interiore dalla distopia del presente ogni operazione di umwälzende Praxis non può che essere mera apparenza senza effettualità alcuna. Questo è il compito che ci attende.
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Gustav Klimt, La Medicina, 1901-1907. Particolare a colori di Igea, della serie per l’Università di Vienna.
Gustav Klimt, La Filosofia, 1899-1907Gustav Klimt, La Medicina, 1901-1907Gustav Klimt, La Giurisprudenza, 1903-1907
La tragedia del tempo presente non ha un centro, non è identificabile una causa prima da cui far discendere con chiarezza logica e adamantinasoluzioni e obiettivi. Il nichilismo crematistico è la logica che permea e si infiltra maligno in ogni istituzione. Non c’è un centro, è ovunque, come il dio di Cusano è in ogni punto vivente della realtà storica e contingente. Siamo tutti direttamente coinvolti, benché siano diversi i livelli di consapevolezza e di responsabilità. Bisogna prender atto che non vi sono istituzioni che possano essere laboratori dove si pensa il tempo storico in cui siamo implicati, dove si colgono le contraddizioni e si elabora un’alternativa. L’istituzione predisposta a tale operazione etica e politica dovrebbe essere l’Università. L’istituzione universitaria, invece, è parte sostanziale del problema. Al baronato si aggiunge l’adattamento servile al capitalismo e allo scientismo. Essa è l’istituzione nella quale il sistema si riproduce con la fede sempiterna nella forma mentis dell’economicismo aziendale e nel nichilismo crematistico conseguente. Le giovani generazioni sono addestrate a scegliere le facoltà secondo un ordine e una priorità esclusivamente economica e individualistica. La professione futura è scelta in funzione del reddito. La logica crematistica impera sovrana con i suoi processi di patologizzazione depressiva dell’intero organismo sociale. La si incentiva, la si consolida con l’abitudine alla competizione selettiva. L’iscrizione alle Università diviene il marchio di Caino: ai giovani studenti e alle giovani studentesse si insegna la selezione con i test di ingresso. Devono competere senza sosta sin dagli esordi della vita universitaria. L’altro è il nemico: se cade, si hanno maggiori possibilità di ingresso e di carriera. Le facoltà senza test d’ingresso, sono facoltà irrilevanti per il sistema. Si scoraggia l’iscrizione ad esse: non hanno test d’ingresso, e dunque non sono appetibili per il mercato. Senza il marchio di Caino si è perdenti in partenza. Il marchio di Caino è impresso sulla pelle e nella vita psichica, gli studenti devono disimparare ogni barlume di vita comunitaria e solidale. Si insegna loro, una volta superato il test, a guardare al mercato globale come ad una possibilità immensa e indefinita di occupazione e carriera. La globalizzazione è intesa come trionfo cosmopolita delle opportunità per i migliori. Naturalmente, spesso, i migliori sono gli studenti e le studentesse che per censo possono attingere alle Università che rispondono maggiormente alle richieste del mercato globale. Quest’ultimo non è fuori l’istituzione, ma è già all’interno. Nelle facoltà si vive secondo i desiderata del mercato, esse sono amministrate con criteri imprenditoriali: lo studente è un cliente, è un bonifico annuale da conservare. Le Università sono, dunque, parte del problema, da esse, in generale non possiamo aspettarci l’elaborazione di un contro-pensiero. Sono piegate e sussunte alla religione del mercato. Non formano la classe dirigente, ma sudditi fedeli, eticamente anonimi.
“Filologia filosofica” Potremmo aspettarci un sussulto di vita critica dalle facoltà di filosofia. Invece, in esse impera la filosofia analitica e l’allevamento al nichilismo. Il relativismo è rappresentato come liberatorio e inclusivo, in realtà si tratta di un’abile operazione ideologica. Se le prospettive si eguagliano, se non vi è un alto o un basso, se tutte le prospettive hanno la loro ragion d’essere, la verità è solo una chimera del passato. L’immobilità politica è coltivata con il relativismo, in quanto prospettive interscambiabili rendono impossibile con la critica radicale la fondazione di un’alternativa al sistema vigente. L’ostilità verso Hegel e Marx ne è la dimostrazione. Tali autori sono ammessi al simposio delle facoltà di filosofia solo se scientemente decaffeinati. Tale deriva è intrinseca all’affermarsi del capitalismo: in Nietzsche vi troviamo la sua chiara codificazione e concettualizzazione. Nietzsche denuncia la sottomissione delle facoltà di filosofia alla religione tradizionale sostituita, oggi, con la religione neoliberista:
«Sulla filosofia delle università. Il danno prevale. Il governo non assume gente che contraddice la religione. Conseguenza: conformità tra la filosofia delle università e la religione del Paese: il che scredita la filosofia. Esempio: lo hegelismo e la sua caduta. Scopi del governo nell’assumere professori di filosofia: l’interesse dello Stato. Conseguenza: la vera filosofia viene misconosciuta e passata sotto silenzio».1
La vera filosofia è radicale, non conosce feticci, ma è iconoclasta. Nelle facoltà di filosofia si erigono feticci, si dogmatizza il tempo presente rappresentandolo come eterno. Si uccide la passione creativa, l’eros platonico, si insegna e si studia ad occhi bassi. Il mercato è ovunque: non possiamo che prenderne atto. Si è installato in ogni punto del sistema istituzionale. In questo modo può prodursi e autoriprodursi con docile certezza. I sudditi sono formati al guinzaglio gerarchico.
L’azione è talmente radicale che nelle facoltà tutte si uccide la passione per le materie di studio con l’approccio analitico.
Ogni esperienza didattica è curvata all’analisi, alla divisione ossessiva in funzione della specializzazione. Si perde la visione del tutto che dona la bellezza e il senso di una disciplina. L’analisi, senza la visione d’insieme, riduce sia un testo e sia un corpo ad anatomia senza senso e bellezza. L’Università è un immenso obitorio.
L’approccio è di tipo filologico, la parte è astratta dal tutto, la parola o l’organo è solo un corpo morto. La visione d’insieme che viene a mancare addestra a non guardare la realtà sociale e storica in cui si è situati. Si insegna l’atomistica dell’analisi che diviene modo di vivere e di pensare. Il soggetto impara a dividersi dal tutto, la comunità è sostituita con l’individualismo astratto. Si pone in atto una vita senza bellezza e senza prassi, poiché bellezza e politica sono nello sguardo che coglie l’insieme. Siamo in un’epoca specialistica e filologica, in cui non vi è né politica né bellezza né passione:
«Aspettarsi dai filologi il più vivo godimento dell’antichità è come aspettarsi dallo scienziato (Naturforscher) il più vivo senso della natura e dall’anatomista il più raffinato senso della bellezza umana».2
L’elaborazione di una critica radicale e di un progetto alternativo non verrà dalle Università, malgrado vi siano eccezioni. Ciò ci deve indurre a un atteggiamento saggiamente anarchico. Solo fuori delle istituzioni, lontani dal guinzaglio del politicamente corretto, è, e sarà, possibile porre in atto la marxiana umwälzende Praxis (che Rodolfo Mondolfo nel suo Sulle orme di Marx,3 traduce «prassi che si rovescia», perché «in luogo d’alterare il genuino concetto marxistico, lo si esprime più integralmente, includendovi anche l’elemento – essenziale e non semplice sfumatura – della Selbstveränderung [autotrasformazione]). Questa è un’epoca di catacombe, in cui la verità dev’essere elaborata e diffusa all’ombra e nel silenzio, in attesa che la critica e la fondazione veritativa possa trovare le condizioni storiche per un’ampia circolazione. Per poter essere veicolo di verità ed emancipazione dobbiamo liberarci del marchio di Caino dell’utile e della competizione. Senza tale esodo interiore dalla distopia del presente ogni operazione di umwälzende Praxis non può che essere mera apparenza senza effettualità alcuna. Questo è il compito che ci attende.
1 Friederich Nietzsche, Appunti filosofici 1867-1869 – Omero e la filologia classica, Adelphi, Milano 1993, p. 162
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Pace, giustizia e «unità del genere umano» Il lieto annuncio «Cieli nuovi e terra nuova» «Tra poco verrà il germoglio» Quella singolare «capacità predittiva» Una luce nei tempi oscuri
Il ripresentarsi prepotente sulla scena attuale dell’«uomo identitario» rende ancora più viva e impellente la riflessione sulla lezione di Ernesto Balducci e su quella sua visione dell’«uomo planetario» come unica possibilità di salvezza del mondo. La sua fu una instancabile promozione della «cultura della pace», intesa come pace nella giustizia, nella libertà, nella solidarietà, nella fraternità, nella condivisione, in direzione della costruzione di un’inedita dimensione del «modo globale», in una tensione verso uno stato escatologico di gioia piena, oltre gli steccati ideologici e religiosi e nel segno dell’apertura all’altro. Un tema, quello dell’alterità, che rinvia sia all’umano, che al nostro rapporto con gli altri esseri viventi, sia all’Alterità irriducibile alla mera misura umana.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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«Non si deve, in quanto esseri umani, limitarsi a pensare cose umane né, essendo mortali, limitarsi a pensare cose mortali, come si consiglia, ma, per quanto è possibile, ci si deve immortalare [ἀθανατίζειν] e fare di tutto per vivere secondo la parte migliore che è in noi [καὶ πάντα ποιεῖν πρὸς τὸ ζῆν κατὰ τὸ κράτιστον τῶν ἐν αὑτῷ]».
In copertina: Cornice lignea contenente come iscrizione le prime parole del libro di Aristotele, Metafisica, I, 980 a 21: «Πάντες ἄνθρωποι τοῦ εἰδέναι ὀρέγονται φύσει», «Tutti gli esseri umani per natura desiderano sapere»
Arianna Fermani
Il concetto di limite nella filosofia antica
ISBN 978-88-7588-355-3, 2022, pp. 64, formato 140×210 mm., Euro 10 – Collana “Il giogo” [151].
«Non si deve, in quanto esseri umani, limitarsi a pensare cose umane né, essendo mortali, limitarsi a pensare cose mortali, come si consiglia, ma, per quanto è possibile, ci si deve immortalare [ἀθανατίζειν] e fare di tutto per vivere secondo la parte migliore che è in noi [καὶ πάντα ποιεῖν πρὸς τὸ ζῆν κατὰ τὸ κράτιστον τῶν ἐν αὑτῷ]».
Aristotele, Etica Nicomachea, X, 7, 1177 b 30-34
La filosofia nasce contrassegnata dal limite. Come testimonia Diogene Laerzio,1 infatti, Pitagora, che «per primo […] usò il termine “filosofia” e si chiamò filosofo», lo fece nella consapevolezza che «nessuno […] è saggio, eccetto la divinità».2 Si narra anche che, un paio di secoli dopo, Diogene il cinico «a chi gli disse: “Tu non sai nulla e pure fai il filosofo”, rispose: “Aspirare alla saggezza, anche questo è filosofia”».3
L’assunzione delle intrinseche limitazioni dell’essere umano costituisce, pertanto, l’atto di nascita di una forma di conoscenza che intende distanziarsi immediatamente dal sapere assoluto, ovvero da quel possesso conoscitivo pieno ed esclusivo che, in quanto tale, è proprio solo della divinità. Lo stesso nome filo-sofia si colloca, quindi, nello spazio di questo “distanziamento”, come testimonia ulteriormente la celeberrima icona, offerta dal Simposio platonico, del filosofo come «amante di sapienza» e, in quanto tale, situato a metà strada tra sapienza e ignoranza:
Diotima – desideroso di saggezza [φρονήσεως ἐπιθυμητὴς], pieno di risorse [καὶ πόριμος], amante di sapienza per tutta la vita [φιλοσοφῶν διὰ παντὸς τοῦ βίου] […] a metà strada tra sapienza e ignoranza [σοφίας … καὶ ἀμαθίας ἐν μέσῳ ἐστίν]. […] Nessuno degli dèi fa filosofia, né desidera diventare sapiente – infatti lo è già – né fa filosofia chiunque altro sia già sapiente. Ma neppure gli ignoranti fanno filosofia né desiderano diventare sapienti.
Socrate – Ma allora – dissi io – chi sono coloro che fanno filosofia, se non sono né i sapienti né gli ignoranti?
Diotima – Ormai – disse – dovrebbe essere chiaro perfino ad un bambino che sono coloro che stanno a metà strada fra gli uni e gli altri [οἱ μεταξὺ τούτων ἀμφοτέρων].4
L’intento di questo breve contributo consiste, allora, nel riattraversare alcune delle molteplici curvature che la nozione di limite riceve nel pensiero greco e le sue ricadute sul versante gnoseologico, etico e politico.
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1 Diogene Laerzio, Vite dei Filosofi, I, 12; in Id., Vite dei Filosofi, a cura di M. Gigante, vol. I, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 6-7.
2Ibidem.
3Ibidem, VI, 64; vol. I, p. 226.
4 Platone, Simposio, 203 d 6 – 204 b 2; traduzione mia.
Arianna Fermaniinsegna Storia della Filosofia Antica all’Università di Macerata. Tra le sue pubblicazioni: Vita felice umana: in dialogo con Platone e Aristotele (2006); L’etica di Aristotele, il mondo della vita umana (2012); By the Sophists to Aristotle through Plato. The necessity and utility of a Multifocal Approach (2016). Ha tradotto, per Bompiani: Aristotele, Le tre Etiche (2008), Topici e Confutazioni Sofistiche (in Aristotele, Organon, 2016).
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