Pavel Florenskij (1882-1937) – «La prospettiva rovesciata». Ci sono solo due tipi di rapporto con la vita: quello interiore e quello esteriore, come ci sono due tipi di cultura: contemplativo-creativa e rapace-meccanica.

Pavel Florenskij

«[…] la mia unica speranza è che tutto ciò che si fa rimane».

Pavel Aleksandrovič Florenskij, Non dimenticatemi, 1935

 

 

È davvero la «prospettiva» una immagine naturale della essenza del mondo?

[…] È proprio vero che la prospettiva, come sostengono i suoi fautori, esprime la natura delle cose e pertanto deve sempre e dovunque essere considerata come presupposto assoluto di veridicità artistica? O è piuttosto solo uno schema (e per di più uno dei possibili schemi di rappresentazione) che corrisponde non alla percezione del mondo nell’insieme, ma solo a una delle possibili interpretazioni del mondo, legata a un ben determinato modo di sentire e di comprendere la vita? O ancora: è forse la prospettiva, l’immagine prospettica del mondo, l’interpretazione prospettica del mondo, un’immagine naturale, della stessa essenza del mondo e da esso scaturita, autentica parola del mondo, o piuttosto è soltanto una particolare ortografia, una costruzione fra le tante, caratteristica di coloro che l’hanno creata, appartenente al secolo e alla concezione di vita di coloro che l’hanno inventata, e che esprime il loro stile, ma che non esclude affatto la possibilità di altre ortografie, di altri sistemi di trascrizione, che corrispondano alla concezione di vita e allo stile di altri secoli? E per di più, forse, sistemi di trascrizioni più legati alla sostanza più vera di questa, perché, in ogni caso, la trasgressione di quella trascrizione prospettica, alla fine turba così poco la verità artistica della rappresentazione, quanto gli errori di grammatica nella scrittura di un santo turbano la verità vitale dell’esperienza da lui riportata.[…] Gli appiattiti rilievi babilonesi ed egiziani non rivelano segni di prospettiva, come non rivelano del resto neppure ciò che propriamente conviene definire prospettiva rovesciata; la stessa policentricità delle raffigurazioni egiziane, come è noto, è estremamente ampia ed è canonica nell’arte egiziana; chiunque si ricorda che il volto e i piedi nei rilievi e nei murali egizi sono di profilo, mentre le spalle e il petto sono ruotati . Ma in essi non c’è comunque prospettiva diretta, mentre la stupenda veridicità delle sculture egizie di ritratti e di genere dimostra il grandissimo istinto di osservazione dei pittori egizi .
Se le regole della prospettiva veramente penetrano in modo così essenziale nella verità del mondo, come credono fermamente i loro fautori, allora non si potrebbe assolutamente capire come l’occhio raffinato del maestro egizio non si accorgesse della prospettiva e come avesse potuto non accorgersene. D’altra parte il noto storico-matematico Moritz Cantor rileva che gli egizi possedevano già le prime nozioni geometriche delle rappresentazioni prospettiche. In particolare, essi conoscevano il sistema di proporzioni geometriche ed inoltre da questo punto di vista si spinsero così lontano da poter applicare dove necessario una scala ingrandita o rimpicciolita. […]
La mancanza di una prospettiva lineare negli egiziani come, anche se in un altro senso, nei cinesi, è più una dimostrazione della fioritura, anzi della «sfioritura» senile della loro arte, che di inesperienza infantile; è la liberazione dalla prospettiva o il rifiuto a priori del suo potere […].

Vitruvio attribuisce ad Anassagora l’invenzione della prospettiva

È notevole che proprio ad Anassagora Vitruvio attribuisca l’invenzione della prospettiva e per di più nella skigraphia (così chiamata dagli antichi), cioè nella pittura delle scenografie teatrali. Secondo la notizia di Vitruvio, quando, più o meno attorno al 470 a.C., Eschilo rappresentò le sue tragedie in Atene, e il noto Agatarco gli allestì le scenografie e vi scrisse un trattato, il Commentarium, proprio per questo Anassagora e Democrito furono stimolati a scrivere scientificamente sullo stesso argomento: la pittura delle scenografie. […]
Quindi, la prospettiva non nasce all’interno dell’arte pura e non rappresenta affatto, come era il suo scopo iniziale, una viva percezione artistica della realtà; viene invece scoperta nel campo dell’arte applicata, o più esattamente nel campo della tecnica teatrale che assume al suo servizio la pittura e la sottomette ai suoi scopi. Corrispondono questi fini al fine dell’arte pura?
È questa una domanda che non ha bisogno di risposta.

La scenografia vuole sostituire la realtà con la sua apparenza

Il fatto è che la pittura ha il compito non di duplicare la realtà, ma di offrire la più profonda comprensione della sua «architettonica», del suo materiale, del suo significato; e la comprensione di questo significato, di questo materiale della realtà, della sua «architettonica», viene offerta all’occhio contemplativo del pittore nel «contatto vitale» con la realtà, nell’immedesimazione e nella empatia con la realtà. Fra l’altro la scenografia vuole, per quanto possibile, sostituire la realtà con la sua apparenza […].

La scenografia è «inganno», l’arte pura è  innanzi tutto, verità della vita

La scenografia è «inganno», anche se seducente; mentre l’arte pura è, o per lo meno vuole essere, innanzi tutto, verità della vita, che non sostituisce la vita, ma si limita ad indicarla simbolicamente nella sua più profonda realtà. La scenografia è uno schermo che coglie la mondanità dell’essere, mentre la pittura pura è una finestra spalancata sulla realtà. […] Fino a quel momento la scena greca era contrassegnata solo da «quadri e drappi»: poi cominciò a farsi sentire il bisogno di illusione. Ecco, supponiamo che lo spettatore, oppure lo scenografo-pittore, sia veramente incatenato, come il prigioniero della spelonca di Platone, alla poltrona teatrale, e non possa o comunque non debba avere un immediato rapporto vitale con la realtà, come se fosse separato dalla scena da una barriera di vetro ed esistesse un unico occhio immobile che guarda, senza penetrare nell’essenza stessa della vita […]: questi metodi di rappresentazione prospettica hanno realmente un loro significato, per un’illusione ottica così morbosa e priva, in gran parte, di umanità, nel senso più ampio.

Nel V secolo a.C. la «prospettiva» era nota

Perciò dobbiamo riconoscere come un fatto stabilito che, perlomeno, nella Grecia del V secolo a.C., la prospettiva era nota, e se in qualche caso, nonostante tutto, non veniva applicata, non si trattava evidentemente di una ignoranza dei suoi princìpi, ma di altre e più profonde motivazioni derivanti da «superiori esigenze artistiche» […]. Sarebbe molto difficile mettere in dubbio il fatto che, quando essi non applicavano le regole della prospettiva, era semplicemente perché non volevano applicarle, perché le ritenevano inutili e antiartistiche.
[…] È possibile immaginare che […] fossero sconosciuti i semplici metodi di prospettiva lineare? E, in effetti, dove abbiamo a che fare con le illusioni scenografiche, usate per estendere ingannevolmente lo spazio della scena teatrale […] ci imbattiamo necessariamente in un uso della prospettiva lineare corrispondente allo scopo stabilito. Lo si può osservare soprattutto nei casi in cui la vita, allontanandosi dalle sue sorgenti profonde, scorre attraverso le acque poco profonde del facile epicureismo, scorre nell’atmosfera del superficiale spirito borghese degli […] omuncoli che avevano perso la profondità del noumeno del genio greco […].

La radice della «prospettiva» è il teatro

La radice della prospettiva è il teatro, non solo per la ragione storico-tecnica, delle origini necessariamente teatrali della prospettiva, ma anche in virtù di un impulso più profondo: la teatralità della rappresentazione prospettica del mondo. In questo impulso coesiste anche una percezione inerte del mondo, priva della sensazione della realtà e del senso di responsabilità, cioè che, per essa, la vita è solo spettacolo […].
Tuttavia la questione è seria. Significa forse […] che le leggi della prospettiva realmente erano sconosciute agli antichi? […]
Non è questo il luogo per definire o semplicemente spiegare il legame tra le dolci radici del Rinascimento e gli amari frutti kantiani.
[…] tutti gli spauracchi che ci hanno divisi dal Medioevo sono stati inventati dagli storici stessi; abbiamo capito che nel Medioevo scorre copioso e pregnante il fiume della vera cultura, con la sua scienza, la sua arte, il suo apparato statale, in genere con tutto quello che appartiene alla cultura, ma appunto con ciò che è suo, non solo, ma prossimo allo spirito autentico dell’antichità.

La «prospettiva» dell’uomo rinascimentale costruisce una realtà fantasmagorica

[…] Il pathos dell’uomo nuovo [rinascimentale] è di sfuggire ad ogni realtà, perché l’«io voglio» detti di nuovo legge attraverso la ricostruzione di una realtà fantasmagorica, anche se imprigionata in uno schema grafico. Invece, il pathos dell’uomo antico, come quello dell’uomo medioevale, è l’accettazione, il generoso riconoscimento, l’affermazione di ogni genere di realtà come un bene, perché l’essere è il bene e il bene è l’essere. Il pathos dell’uomo medioevale è l’affermazione della realtà in sé è fuori di sé, e perciò è l’obiettività. Al soggettivismo dell’uomo nuovo [rinascimentale] appartiene l’illusionismo: al contrario non c’è niente di tanto lontano dai pensieri e dalle intenzioni dell’uomo medioevale, le cui radici risalgono all’antichità, come la creazione di simulacri, e la vita tra i simulacri. Per quanto riguarda l’uomo nuovo, dalla bocca dei filosofi della Scuola di Marburgo prendiamo la sincera dichiarazione che la realtà esiste soltanto quando, e nella misura in cui, la scienza si degna di autorizzarne l’esistenza, dando questo permesso nella forma di uno schema fittizio […]. Il brevetto sulla realtà viene legittimato solo nella cancelleria di H. Cohen ed è nullo senza la sua firma e il suo timbro. Ciò che a Marburgo viene affermato apertamente costituisce l’essenza del pensiero rinascimentale […].
Ma è degno di attenzione e di un profondissimo riso interiore il fatto che l’uomo nuovo contrabbandi con insistenza come un ritorno alla realtà naturale e come una liberazione dalle pastoie impostegli da qualcuno, questo travisamento, questo deterioramento della naturale capacità umana di sentire e pensare, questa rieducazione nello spirito del nichilismo. Perciò, in effetti, quando si sforza di raschiare via dall’anima umana i caratteri della storia, strappa via l’anima stessa.

L’uomo antico e medioevale sa che per volere è necessario essere

L’uomo antico e medioevale, invece, sa innanzi tutto che per volere è necessario essere, essere una realtà e stare dentro la realtà a cui bisogna appoggiarsi: egli è profondamente realistico e sta ben saldo sulla terra, a completa differenza dell’uomo nuovo, che considera soltanto se stesso e i suoi desideri e quindi, inevitabilmente, i mezzi più diretti per realizzarli e soddisfarli. Di qui si capisce che le premesse di una concezione di vita realistica sono state e saranno sempre le seguenti: esistono delle realtà, cioè esistono dei centri dell’essere, dei grumi di essere, soggetti a leggi proprie, e perciò aventi ciascuno la propria forma; perciò nulla di ciò che esiste può essere considerato come materiale indifferente e passivo, utilizzabile per riempire un qualsiasi schema […]; infatti le forme devano essere comprese secondo la loro vita, devono essere rappresentate attraverso se stesse, conformemente a come sono concepite, e non negli scorci di una prospettiva predisposta in anticipo. […]

Ci sono due tipi di cultura: contemplativo-creativa e rapace-meccanica

La nostra tesi […] consiste in questo, che in quei periodi storici della creazione artistica in cui non si nota l’uso della prospettiva, gli artisti figurativi non è che ‘non sappiano’, ma non vogliono usarla, o più precisamente, vogliono servirsi di un altro principio di rappresentazione che non sia la prospettiva, e vogliono così perché il genio del tempo comprende e sente il mondo in un modo cui è immanente anche questo mezzo di rappresentazione. Invece, in altri periodi, si dimenticano il senso e il significato della raffigurazione non-prospettica, si perde decisamente l’intuizione di essa, perché la concezione di vita del tempo, diventata completamente diversa, porta a un quadro prospettico del mondo. E in un caso e nell’altro c’è una consequenzialità interiore, una propria logica rigorosa, in sostanza primaria, e, se questa logica tarda ad apparire in tutta la sua forza, questo avviene non per la sua complessità, ma per l’ambigua incertezza dello spirito del tempo tra le due autodefinizioni che si escludono a vicenda.
In definitiva, ci sono solo due esperienze del mondo: l’esperienza umana in senso lato e l’esperienza ‘scientifica’, cioè ‘kantiana’, come ci sono solo due tipi di rapporto con la vita: quello interiore e quello esteriore, come ci sono due tipi di cultura: contemplativo-creativa e rapace-meccanica.

 

Pavel Aleksandrovič Florenskij, La prospettiva rovesciata e altri scritti, a cura di Nicoletta Misler, Edizione Casa del Libro Editrice, Roma, 1983; di nuovo pubblicato nel 2005 da Gangemi Editore.

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Mauro Pallotta (Maupal) – Una nuova opera dell’artista Mauro Pallotta: Donald Trump a Trastevere in tutta la sua boriosa esplosività.

Mauro Pallotta

 

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R.it

Donald Trump a Trastevere in tutta la sua boriosa esplosività

Donald Trump a Trastevere in tutta la sua boriosa esplosività. No, non si tratta di un comizio elettorale fuori porta ma della nuova opera dell’artista Mauro Pallotta aka Maupal, che ha fatto la sua comparsa nottetempo a via della Lungaretta angolo via di S.Agata. Un poster alto 2,40 metri che raffigura il Tycoon in uno stile molto pop che strizza l’occhio al celebre Obama di Shepard Fairey aka Obey del 2008. Stavolta però cambia lo slogan che diventa “Yes, I can”, nel quale si riassumono il potere economico e l’alto tasso di egocentrismo di Trump. L’immagine gioca con i capelli paglierini di The Donald, da cui si staglia un fungo atomico. Anche stavolta Maupal – noto per aver raffigurato nel 2014 Papa Bergoglio in tuta da supereroe (poster che venne ritwittato dall’account ufficiale del Vaticano) – si dimostra “sul pezzo”: sono proprio di questi giorni le ennesime tracotanti dichiarazioni di Trump sul “tornare alle maniere molto, molto forti”. Maupal, che per incollare il poster – illegalmente – si è fatto prestare una scala da un ristorante adiacente, nella fretta ha coperto parzialmente un’altra opera. “Sto cercando l’artista per scusarmi”, ha detto, “non vorrei certo risultare arrogante come Trump!”.

Donald Trump a Trastevere in tutta la sua boriosa esplosività (di Arianna Di Cori, foto di Matteo Nardone, 20-09-2016, larepubblica.it).


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Street Art, a Trastevere esplode Donald Trump

Arte e politica estera con Donald Trump che esplode su un muro di Trastevere, a Roma. E’ l’ultima opera di street art firmata da Maupal, Mauro Pallotta, conosciuto anche per aver ritratto Papa Bergoglio in vesti di supereroe. L’inquietante Trump di Maupal, alto circa due metri e mezzo e largo 90 centimetri, comparso la scorsa notte, è sovrastato da un triplice fungo atomico che si sviluppa direttamente dalla chioma del candidato alla Casa Bianca, come se ne fosse il prolungamento.
L’autore vuol certamente giocare con l’elemento fisico di Trump più ‘rappresentativo’, quei capelli sui quali si è detto e scritto di tutto, ma vi è anche un un rimando più che dichiarato a Shepard Fairey, aka Obey, l’artista statunitense che nel 2008 realizzò l’immagine per sostenere la campagna elettorale di Obama, con l’ormai celebre slogan ‘Yes we scan’ e sulla testa una cuffia audio.
L’opera di Maupal ha gli stessi campi di colore di quella di Obey, analoga impostazione, è una scritta quasi uguale a quel ‘Yes we scan’, ovvero ‘Yes, i can’ che accoppiato all’immagine di un fungo atomico può essere letto come un memento dell’enorme potere che avrebbe Trump se fosse eletto alla presidenza degli States o, peggio, della sua disponibilità a usarlo fino in fondo, vista anche la sua affermazione di pochi giorni fa: “Gente, viviamo in un momento in cui dobbiamo usare le maniere forti. Dobbiamo usare le maniere molto, molto forti”. E Maupal gli fa fare boom.

Street Art, a Trastevere esplode Donald Trump (AdnKronos, 20-09-2016).


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Street Art. A Trastevere compare un Donald Trump “esplosivo”

Il murale è stato realizzato da Maupal in uno dei vicoli del quartiere romano. Il candidato alla Casa Bianca ne è protagonista ed è stato raffigurato con un fungo atomico sulla testa e con sotto la scritta “Yes I can” .

ROMA – Un Donald Trump esplosivo quello che è apparso su un muro di Trastevere a Roma, opera dello street artist, Mauro Pallotta, in arte Maupal, conosciuto in particolare per aver trasformato Papa Francesco in supereroe o meglio in Superpope.
Stavolta Maupal si è esibito rappresentando il candidato alla Casa Bianca in un murale alto circa due metri e mezzo e largo 90 centimetri. Un Donald Trump ritratto con un fungo atomico sulla testa e con sotto la scritta “Yes I can”. Ovviamente lo street artist ha voluto giocare con la “particolare” e bizzarra acconciatura che da sempre contraddistingue il magnate.
In questo caso la capigliatura si trasforma addirittura in una esplosione atomica, rendendo il personaggio ancor più inquietante. Inoltre è evidente il rimando iconografico dell’opera di Maupal a quella di  Shepard Fairey, che nel 2008 realizzò l’immagine di Obama per sostenere la campagna elettorale. Il motto di Obama allora era “Yes we can”.
Oggi Maupal trasforma lo slogan in “Yes I can”, puntando sull’individualismo che contraddistingue il tycoon americano. Inoltre l’immagine di Trump con un fungo atomico in testa e sotto la scritta “Io posso” suona piuttosto come una minaccia. E non meraviglia poi tanto visto che, solo qualche giorno fa, cavalcando l’onda del
la rinnovata paura di attentati terroristici, Trump ha usato le seguenti parole “Gente, viviamo in un momento in cui dobbiamo usare le maniere forti. Dobbiamo usare le maniere molto, molto forti”. Speriamo che alle parole non seguano i fatti e che queste “maniere forti” non intendano essere così esplosive come i capelli che gli ha regalato Maupal. 

(Artemagazine, 20-09-2016)


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Spunta a trastevere il murale di Trump (Il Messaggero, 21-09-2016)


Murale Super-Pope a Borgo Pio: Papa Francesco incontra l’artista Mauro Pallotta

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ARTE INFO JOURNAL (DE) – Kunstler Mauro Pallotta aka MaUpal und sein Graffiti “Den SuperPapst”
A tu per tu con MauPal: l’artista del Super Pope e della Yoga Queen

 



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Carlo Rovelli – Sette brevi lezioni di fisica. Per natura amiamo e siamo onesti. E per natura vogliamo sapere di più. E continuiamo a imparare.

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«Da ragazzo, Albert Einstein ha trascorso un anno a bighellonare oziosamente. Se non si perde tempo non si arriva da nessuna parte, cosa che i genitori degli adolescenti purtroppo
dimen ticano spesso. Era a Pavia. Aveva raggiunto la famiglia dopo aver abbandonato gli studi in Germania, dove non sopportava il rigore del liceo. Era l’inizio del secolo e in Italia l’inizio della rivoluzione industriale. Il padre, ingegnere, installava le prime centrali elettriche in pianura padana. Albert leggeva Kant e seguiva a tempo perso lezioni all’Università di Pavia: per divertimento , senza essere iscritto né fare esami. È così che si diventa scienziati sul serio» (p. 13).

«Per natura amiamo e siamo onesti. E per natura vogliamo sapere di più. E continuiamo a
imparare. La nostra conoscenza del mondo continua a crescere. Ci sono frontiere, dove stiamo imparando, e brucia il nostro desiderio di sapere. Sono nelle profondità più minute del tessuto dello spazio, nelle origini del cosmo, nella natura del tempo, nel fato dei buchi neri, e nel funzionamento del nostro stesso pensiero. Qui, sul bordo di quello che sappiamo, a contatto con l’oceano di quanto non sappiamo, brillano il mistero del mondo, la bellezza del mondo, e ci lasciano senza fiato» (p. 85).

Carlo Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica, Adelphi, 2014.

Risvolto di copertina
«Ci sono frontiere, dove stiamo imparando, e brucia il nostro desiderio di sapere. Sono nelle profondità più minute del tessuto dello spazio, nelle origini del cosmo, nella natura del tempo, nel fato dei buchi neri, e nel funzionamento del nostro stesso pensiero. Qui, sul bordo di quello che sappiamo, a contatto con l'oceano di quanto non sappiamo, brillano il mistero del mondo, la bellezza del mondo, e ci lasciano senza fiato». Tale è il presupposto di queste «brevi lezioni», che ci guidano, con ammirevole trasparenza, attraverso alcune tappe inevitabili della rivoluzione che ha scosso la fisica nel secolo XX e la scuote tuttora: a partire dalla teoria della relatività generale di Einstein e della meccanica quantistica fino alle questioni aperte sulla architettura del cosmo, sulle particelle elementari, sulla gravità quantistica, sulla natura del tempo e della mente.

Carlo ROVELLI

Carlo ROVELLI

Centre de Physique Theorique de Luminy
Case 907, Luminy, F-13288 Marseille, EU
Office Number: 423
e-mail:  rovelli@cpt.univ-mrs.fr

 

Lezioni English version Sept

 

English version: Seven Brief Lessons on Physics (Penguin)

French version: Sept brèves leçons de physique (Odile Jacobe)

Italian version: Sette brevi lezioni di fisica (Adelphi)

 

 

Copertina

“La realtà non è come ci appare” (Cortina), in italiano.


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Domenico Segna – Intervista a Luca Grecchi: La metafisica umanistica, tra le vie di Atene

Domenico Segna, Intevista a Grecchi

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La ricerca teoretica
di Luca Grecchi
propone di inoltrarci
in un sentiero classico e veritativo:
la ri-scoperta della metafisica
in un’epoca in cui sembra che non ci
sia posto per essa.

 

Dialogare non è facile. Significa confrontarsi, rispettarsi nelle diversità di opinione, mettersi in discussione pur di capire le ragioni del tuo interlocutore.
Tutto questo è facile quando si incontra, si entra in amicizia, nel senso “antico” del termine, con un filosofo apparentemente “inattuale” dalla voce quieta, dalla penetrante intelligenza filosofica in costante tensione: Luca Grecchi. Ci siamo incontrati tra le strade immaginarie di una Grecia amata, studiata, vissuta ad iniziare dalle pagine di Aristotele.

[… Leggi l’intervista aprendo il PDF qui sotto]

Domenico Segna,

Intervista a Luca Grecchi

La metafisica umanistica, tra le vie di Atene 

 

L’intervista è stata pubblicata sulla rivista:

«i martedì», Proporre – Riflettere – Commentare

Anno 40, n. 3, maggio-giugno 2016 [334], pp. 40-43.

 

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Giacomo Pezzano / Luca Grecchi – «Commenti»

Commenti

Una rivista ha bisogno di tempo per nascere e per crescere. Ha bisogno soprattutto di un particolare complesso di elementi spirituali, culturali, sociali nel cui seno l’idea stessa possa germinare e trovare alimento per il suo sviluppo.


Koinè, Periodico culturale, Anno XXIII, NN° 1-4, Gennaio-Dicembre 2016, Reg. Trib. di Pistoia n° 2/93 del 16/2/93. Direttore responsabile: Carmine Fiorillo.

Direttori: Luca GrecchiCarmine Fiorillo

Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo,
che dunque vogliano pure pensare da sé.

Karl Marx

Giacomo Pezzano / Luca Grecchi

«Commenti»

***

Giacomo Pezzano:

Commento all’articolo di Luca Grecchi, Sulla progettualità
19-08-2016

Sono stato sollecitato da Alessandro Monchietto a leggere il confronto sul tema della progettualità e magari a intervenire, e seppur in ritardo, eccomi.
Mi permetto di dire alcune, poche, pochissime, cose. Forse provocatorie e irritanti, ma che soprattutto cercano di andare al nucleo della questione senza preclusioni, timori o pregiudizi. Ossia: il tema al centro dello scambio Grecchi-Monchietto è quello del rapporto tra natura umana e progettazione. Quello mi interessa qui e ora…

Giacomo Pezzano:

Commento all’articolo di Luca Grecchi, Perché la progettualità?
05-09-2016

Mi permetto di ricommentare. Dicendo tre cose, di cui una è una proposta.
La prima è che IMO la funzione e la natura di un blog sono proprio quella di consentire una discussione per commenti e non la stesura di saggi più o meno autoreferenziali o più o meno articolati e argomentati. Per questo continuo a credere che un confronto anche apparentemente meno strutturato, ma più diretto e su punti più piccoli, attraverso dei commenti possa avere senso. Anche perché, alla fine, se ci pensate, progettare insieme significa proprio questo: non ciascuno il proprio macroedificio e poi si vede se e come sono vicini ecc., ma insieme pezzetto per pezzetto. Questa prima cosa è poi alla base della terza…

Luca Grecchi:

Nel merito dei commenti di Giacomo Pezzano
Caro Giacomo,
innanzitutto grazie dei tuoi interventi, che so essere fatti in spirito amichevole e dialettico. Per essere breve, come richiede lo strumento del blog (che non è proprio il mio come sai, per cui mi sa che anche stavolta “andrò lungo”…), mi limito ai soli tre punti che menzioni…

[… Leggi tutti li Commenti aprendo il PDF qui sotto]

Commenti
(G. Pezzano-L. Grecchi)



Gli altri interventi
Luca Grecchi, Sulla progettualità
Alessandro Monchietto,
Quale progettualità? A partire da alcune considerazioni di Luca Grecchi
Claudio Lucchini – La progettualità comunista tra utopia concreta e necessità di funzionamento quotidiano.
Antonio Fiocco, Difendere in tutti i modi la progettualità.
Alessandro Pallassini – Note marginali per la progettazione di un comunismo della finitezza a partire da Spinoza.
Luca Grecchi – Perché la progettualità?
Claudio Lucchini – Annotazioni sulla progettabilità del bene etico-sociale e sulla determinatezza materiale-naturale dell’uomo

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Claudio Lucchini – Annotazioni sulla progettabilità del bene etico-sociale e sulla determinatezza materiale-naturale dell’uomo

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Una rivista ha bisogno di tempo per nascere e per crescere. Ha bisogno soprattutto di un particolare complesso di elementi spirituali, culturali, sociali nel cui seno l’idea stessa possa germinare e trovare alimento per il suo sviluppo.


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Direttori: Luca GrecchiCarmine Fiorillo

Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo,
che dunque vogliano pure pensare da sé.

Karl Marx
Claudio Lucchini

Annotazioni sulla progettabilità del bene etico-sociale
e sulla determinatezza materiale-naturale dell’uomo

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La corretta puntualizzazione ontologica degli interventi trasformativi della prassi umana diretti a realizzare modalità disalienate di vita sociale e forme di ricambio organico con l’ambiente naturale circostante rispettosi degli equilibri ecologici, sembra essere un compito assai rilevante al fine di chiarire l’essenza, le possibilità concrete, i limiti di un agire storico-sociale che voglia concepirsi ed attuarsi non come incessante tendere ad un illimitato e vuoto trascendimento del dato verso un orizzonte di libertà e giustizia mai raggiunto, ma, al contrario, come fondazione di una quotidianità funzionante radicalmente democratizzata, mediamente foriera di riconoscimenti umanizzanti e non estranianti, sebbene al di fuori di qualsiasi automatismo riproduttivo o provvidenzialismo secolarizzato.
Una tale impresa – qui molto schematicamente abbozzata in alcune sue essenziali componenti teoriche – non può in alcun modo prescindere da un’adeguata tematizzazione del rapporto che connette la dimensione sociale e la dimensione naturale del vivere umano, facendo della seconda l’ambito entro cui soltanto la prima – come del resto qualsiasi altra cosa, a patto di rifiutare soluzioni pesantemente metafisiche – può svilupparsi e vivere secondo un’indubbia specificità, che tuttavia mai, lo ribadiamo, può sospendere il nesso con la totalità materiale della natura. È ovvio che, seguendo questa impostazione, si porrà seriamente in discussione l’idea che debba essere posta una radicale discontinuità tra oggettività naturale data e oggettivazioni realizzate dal lavorio storico della prassi sociale in tutte le sue forme, cercando di mostrare in quale senso questa relazione debba venir intesa, sia rispetto alla dimensione connessa al ricambio tra società e natura, sia in relazione al modellamento pratico-politico delle forme delle relazioni sociali e personali, alla possibilità di una loro valutazione etico-sociale processualmente universalizzabile e alla delineazione collettiva di un nuovo modello di società innervato di contenuti oggettivamente e universalmente liberatori.
Uno dei testi storicamente decisivi, nell’ambito del pensiero marxista, per comprendere in qual maniera venga argomentata la sussunzione della struttura “oggettiva” dei fatti naturali nella prassi umana, in particolare nella prassi universalizzatasi con l’affermarsi del modo capitalistico di produzione, è la celebre opera di György Lukács Storia e coscienza di classe – uscita nel 1923, lo stesso anno di pubblicazione di un altro famoso libro che gli è affine, Marxismo e filosofia di Karl Korsch –, dal filosofo ungherese successivamente ripudiata nei suoi presupposti teorici, come si avrà modo di constatare accennando alla tarda, grandiosa Ontologia dell’essere sociale (pubblicata postuma nel 1976).
[… Leggi tutto l’intervento aprendo il PDF qui sotto]

Claudio Lucchini,
Annotazioni sulla progettabilità del bene etico-sociale e sulla determinatezza materiale-naturale dell’uomo



Gli altri interventi
Luca Grecchi, Sulla progettualità
Alessandro Monchietto,
Quale progettualità? A partire da alcune considerazioni di Luca Grecchi
Claudio Lucchini – La progettualità comunista tra utopia concreta e necessità di funzionamento quotidiano.
Antonio Fiocco, Difendere in tutti i modi la progettualità.
Alessandro Pallassini – Note marginali per la progettazione di un comunismo della finitezza a partire da Spinoza.
Luca Grecchi – Perché la progettualità?

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Arianna Di Cori – Roma, writer contro street artist: la guerra dei muri. Dal muro di Alice Pasquini a quello di Borondo a San Lorenzo, dal sottopassaggio Ostiense al Pigneto: ecco i lavori coperti con tag, pezzi o scritte

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Arianna Di Cori

Roma, writer contro street artist: la guerra dei muri

Dal muro di Alice Pasquini a quello di Borondo a San Lorenzo,
dal sottopassaggio Ostiense al Pigneto:
ecco i lavori coperti con tag, pezzi o scritte

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Già pubblicato il 09-08-2016 su:        R.it

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L’ultimo è stato il murales sul lungotevere Gassman. Pochi gesti rapidi e i 20 metri di fiori di Laura Galletti, la “pittrice clochard”, 70enne che viveva in una baracca lì accanto, sono scomparsi, coperti interamente da un graffito. È solo l’ultimo di una serie di “sfregi” dei writer a danno del lavoro degli street artist: dal muro di Alice Pasquini a quello di Borondo a San Lorenzo, dal sottopassaggio Ostiense al Pigneto. A volte sono solo firme, le tag, oppure pezzi più articolati, spesso scritte contro il business della street art “venduta”. Una guerra, in nome di una cosa sola: lo spazio nella città.
«E’ una battaglia più sentita dal pubblico che si affeziona», spiega Alice, che aveva realizzato il muro nel 2010. «Noi mettiamo in conto il carattere effimero di un’opera in strada. Mi hanno fatto arrabbiare le scritte sessiste, una cosa inaccettabile in un mondo dove il rispetto è la prima regola».
La seconda legge non scritta nel mondo del writing è quella del taglione. Chi copre qualcuno sarà a sua volta coperto. Borondo aveva dipinto su un muro storico per i writer romani, stessa cosa per Laura Galletti. «Sono andato semplicemente a riprendermi il mio spazio sul fiume — dice un writer anonimo, che ha coperto in parte in muro di Laura prima di essere a sua volta cancellato — se avessi conosciuto la storia umana dietro al dipinto della Galletti non l’avrei fatto».
Se è vero che il graffitismo è l’espressione artistica più pop, nel senso di popolare, democratica — “just push the button”, si dice, riferendosi al tappino dello spray — diventare qualcuno implica notti insonni, originalità e lotta per i migliori “spot”.
«Ci siamo battuti per anni per avere muri legali, mentre agli street artist, anche agli ultimi arrivati, viene concesso molto più spazio e questo crea risentimento», spiega Orghone, 20 anni di graffiti alle spalle, uno dei pochi italiani sulla scena internazionale. «Non c’è equità e per fare uno sfregio — aggiunge sarcastico — bastano 2 euro e 30 secondi ». Alcuni stereotipi si possono sfatare, ad esempio che i writer non sappiano disegnare. Tra i più bravi nel campo figurativo ci sono Hitness, Mr Thoms, Gomez, tutti graffitari. I pezzi dello stesso Orghone presentano incursioni figurative di alto livello tecnico; allo stesso tempo molti lavori di street art vengono realizzati solo ricalcando un’immagine proiettata su muro. E sono tante le opere di street art illegali così come ci sono molti muri per i graffiti legali, riportati sul sito di Roma Capitale Urbanact.it.
Un’opera figurativa è più leggibile di un graffito. «Ma tanti pezzi sono splendidi — sottolinea Alice — Solo la storia dirà chi è davvero artista». Lasciando ai posteri l’ardua sentenza, resta una certezza: la legge della strada non sarà scritta, ma è chiara. Lo era anche per Laura Galletti che, davanti allo suo muro imbrattato ha detto: «Io avevo coperto altri disegni, chi dice che il mio fosse migliore del loro?».

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Da Alice a Borondo,
ecco i lavori degli street artist coperti dai writer

 

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Roma, ancora nel mirino la ‘pittrice clochard’:
vandalizzato il murale di Laura

 

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L’INIZIATIVA

Segnala le opere di street art copert, invia le tue foto


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Arturo Donati – Gli spiriti delicati non possono che cercarsi. E quando il prodigio dell’incontro si avvera, il valore della pienezza della relazione accresce il significato della loro vita: recensione al libro “Specularmente”.

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Coperta 252

Margherita Guidacci Margherita Pieracci Harvell

Specularmente. Lettere, studi, recensioni.

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Con intelligenza letteraria la curatrice Ilaria Rabatti ha assemblato ad arte degli scritti molto interessanti, componendoli in un gradevole volume in quattro parti, ricco di note la cui trama unitaria è possibile cogliere da parte del lettore più attento.
Appaiono lettere, studi e recensioni che favoriscono la conoscenza di due scrittrici amiche e confidenti che meritatamente occupano uno spazio rilevante nel panorama poetico e letterario: Margherita Guidacci e Margherita Pieracci Harwell. I testi consentono la focalizzazione di alcuni aspetti delle loro radici letterarie comuni e delle consonanze spirituali con altri autori di riconosciuta importanza. La prima sezione del libro si compone di undici lettere, edite per la prima volta, che Margherita Guidacci, poetessa fiorentina nata nel 1922, indirizza da Roma all’amica scrittrice e critico letterario Margherita Pieracci Harwell. Interessano il biennio 1987-89 durante il quale la destinataria era residente a Chicago ove insegnava.
Sono anche gli anni di intensa attività poetica e culturale che precedono la grave malattia che paralizzerà Margherita Guidacci, comunque lucida sino alla morte avvenuta nel 1992. Nelle lettere, con toni improntati al rispetto e al desiderio di confronto leale, emergono sia la temperie culturale di quegli anni che l’intenzione di fare della poesia e della letteratura una pratica non retorica ma fondante della vita accettata in toto, ove i piccoli eventi e le grandi amicizie si riconducono alla stessa matrice spirituale. Si evincono preoccupazioni editoriali, consigli di letture e brevi riferimenti ad autori da ricordare per favorire la conoscenza di aspetti significativi della circolazione del pensiero europeo. Si rivela anche la viva gratitudine della Guidacci al prestigioso magistero di Giuseppe De Robertis, con il quale si era laureata nel 1943 con una tesi su Giuseppe Ungaretti.
L’influsso formativo del De Robertis, insigne conoscitore dei classici, accomunava le due amiche, basti pensare agli studi su Leopardi condotti da Margherita Pieracci Harwell. Altrettanto le univa la stima profonda per il genio letterario di Vittoria Guerrini, in arte Cristina Campo (Bologna 1923, Roma 1977). Alla conoscenza dell’opera della Campo, Margherita Guidacci fu introdotta dalla stessa Pieracci Harwell, nota a tutti per essere stata proprio la cara Mita, cioè la confidente spirituale, destinataria delle copiose lettere di Cristina Campo che costituiscono uno degli epistolari di maggior spessore spirituale e letterario che la letteratura italiana contemporanea possa vantare.
Nella seconda sezione di “Specularmente” sono presenti due note recensioni di Margherita Guidacci. La prima è quella a “Il flauto e il tappeto”, apparsa nel 1972 in “La Nuova Antologia” n. 2054. Per quanto sintetica, tale recensione resta ancora oggi uno dei testi brevi più acuti dell’ormai ricca critica su Cristina Campo. In essa affronta, con elegante sintesi, una delle opere fondamentali dell’autrice bolognese cogliendo la cifra mistica che trama la suggestiva scrittura di Cristina Campo, protesa a fare della ricerca di stile un esercizio preparatorio alla lettura recondita della purezza dell’essere.
Segue la recensione al saggio di Margherita Pieracci Harwell “I due poli del mondo leopardiano”, pubblicata il 25 settembre 1987 su “L’Osservatore Romano”. Nel lavoro esaminato viene riconosciuto alla studiosa il merito di fornire apporti personali all’analisi del Poeta di Recanati, sulla base di un solidissimo approfondimento delle fonti, accompagnato dalla competenza di trattare temi filosofici notoriamente complessi in Leopardi. Nelle ultime sezioni del libro è Margherita Guidacci a essere la recensita… [Leggi tutto aprendo il file PDF allegato]

 

Arturo Donati, Recensione al libro “Specularmente”

 

 

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Vedi anche:

Margherita Guidacci, la vita e la poesia
Da Vitolini a Chicago, Margherita Pieracci Harwell ambasciatrice di italianità nrl mondo
Cristina Campo
Maura Del Serra – I LIBRI ed altro
Intervista a Giovanna Fozzer
Ilaria Rabatti – «Al fuoco della carità». Introduzione al libro di Margherita Guidacci, «Il fuoco e la rosa. I “Quattro Quartetti” di Eliot e Studi su Eliot»

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Luca Grecchi – Perché la progettualità?

Perché la progettualità?

Una rivista ha bisogno di tempo per nascere e per crescere. Ha bisogno soprattutto di un particolare complesso di elementi spirituali, culturali, sociali nel cui seno l’idea stessa possa germinare e trovare alimento per il suo sviluppo.


Koinè, Periodico culturale, Anno XXIII, NN° 1-4, Gennaio-Dicembre 2016, Reg. Trib. di Pistoia n° 2/93 del 16/2/93. Direttore responsabile: Carmine Fiorillo.

Direttori: Luca GrecchiCarmine Fiorillo

Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo,
che dunque vogliano pure pensare da sé.

Karl Marx
Luca Grecchi

Perché la progettualità?

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Il mio intervento Sulla progettualità, scritto di apertura di questo nuovo formato “in progress” della rivista Koinè, ha dato finora luogo, dopo circa due mesi, ad alcune reazioni poco argomentate, e ad alcune risposte argomentate. Cercherò, in questa sede, di dare conto di entrambe, convinto come sono del necessario carattere dialettico della filosofia; e convinto come sono, da sempre, che solo buone ragioni ed un atteggiamento costruttivo possono consentire ai giovani di chiarirsi le idee fuori dai desueti luoghi comuni, e di agire poi, con la propria testa, per modificare il mondo nella maniera migliore.
Comincerò facendo un passo indietro, a volte utile, come si sa, per farne poi due avanti. Il passo indietro riguarda alcune reazioni di “terrore” suscitate dalla prospettiva della progettualità (oltre che dalla idea che chi partecipa ad un dibattito, non importa se su una rivista o altrove, possa confrontarsi anche in modo serrato, per valutare se vi è o meno una convergenza verso una certa tesi). Non entro ovviamente nei casi specifici, perché è più interessante, in filosofia, il carattere generale di queste obiezioni, che incontrano peraltro oggi un consenso diffuso. L’unico modo per rispondere, come sempre, è argomentare, ed in particolare chiarire perché è necessario parlare di “progettualità”, anziché dedicarsi ai tanti temi che la filosofia offre; occupazioni “non indegne” – come direbbe Platone nella Lettera VII –, che garantiscono peraltro migliore accoglienza accademica e sociale, ma che a mio avviso non tengono conto della gravità della situazione in cui viviamo.
Ebbene: premesso che continuo anche io con i vari lavori scientifici2, per vari motivi necessari, ritengo che nella vita, in generale, sia indispensabile dare un ordine di priorità alle cose, dalle più importanti alle meno importanti. Nel mondo ci sono parecchie centinaia di milioni di persone che non dispongono di cibo, acqua, medicine; decine di milioni di bambini nel sud del mondo che conducono una vita infernale; anche in Occidente il degrado materiale cresce, ma cresce ancora di più la pochezza spirituale, l’indifferenza verso le altre persone, la conflittualità; il pianeta è inoltre progressivamente avvelenato dalla brama di profitto, da parte di un capitale incurante di ciò che accade per effetto delle proprie produzioni. Questo solo per limitarmi all’essenziale nel descrivere uno stato di cose sicuramente noto, ma spesso non conosciuto nelle sue cause (senza conoscere le quali, però, non si capisce granché). Ora: poiché questi fenomeni non erano presenti, o comunque non in queste dimensioni, nei secoli passati, in cui vigevano differenti modi di produzione, la causa più probabile di questi fenomeni mi pare essere – data anche la sua struttura di funzionamento – il modo di produzione capitalistico. Mi pare infatti che la generalizzata estensione al globo di modalità proprietarie privatistiche (in cui cioè i proprietari dei mezzi della produzione sociale privano tutti gli altri di quei mezzi e dei relativi prodotti), modalità distributive mercificate (in cui tutto è merce, ossia strumento da utilizzare, comprese la natura e le persone), e modalità sociali che pongono il denaro come supremo criterio di valore, producano proprio quello che ho qui sinteticamente descritto: diseguaglianze, ingiustizie, indifferenza, conflitti, inquinamento, alienazione.
Che fare? I filosofi, solitamente, si tengono alla larga da queste tematiche. Qualcuno se ne occupa di passaggio, come alcuni maitres à penser molto noti, i quali effettuano anche dure critiche al sistema, arrivando perfino a dire che si dovrebbe ragionare sulle alternative al capitalismo. Tuttavia, quando poi qualcuno cerca effettivamente di ragionare su queste alternative, ossia di mostrare come potrebbe essere – basandosi su una determinata concezione della natura umana: l’uomo del resto, come ogni ente, ha alcune determinate caratteristiche costitutive – un modo di produzione sociale per essere migliore, ecco che scatta l’accusa di “ideologia”, di “terrore”, di “giacobinismo”. Ora: per comprendere il motivo per cui persone intelligenti che vivono, consapevoli, in un modo di produzione massimamente distruttivo e pianificatore come quello capitalistico – che pianifica perfino i singoli movimenti dei lavoratori nella produzione, le reazioni psicologiche delle masse ai messaggi consumistici, addirittura le probabilità di subire conseguenze penali in tempi limitati producendo beni dannosi per la salute pubblica – sono “terrorizzate” di fronte alla proposta di delineare un differente modo di produzione, occorre appunto entrare nella psicologia collettiva del modo di produzione stesso, che produce in massa strutture della personalità ad esso funzionali. Faccio però notare che, più che il “terrore” verso un evento improbabile e comunque molto in là dal venire, mi sembra che queste persone esplicitino, con le loro parole, una mal celata repulsione verso chi fa filosofia come la faceva Platone nella Repubblica, o Aristotele nella Politica quando parlava dello «Stato ideale»: verso coloro, insomma, che fanno filosofia occupandosi in primis dei problemi più importanti; ed occupandosene per cercare di risolverli. In questo modo, infatti, costoro vedono chiaramente sminuito il loro modo consueto di approcciarsi alla filosofia (che è in alcuni casi accademico-iperspecialistico, ed in altri casi ludico-passatempistico): questo, non altro, produce in loro ostilità. Purtroppo, anziché reagire interrogandosi – atteggiamento propriamente filosofico –, costoro reagiscono arrabbiandosi, un po’ come i bambini piccoli si arrabbiano coi genitori quando questi gli dicono che è finita l’ora di giocare, ed occorre andare a fare il bagnetto. Ovviamente, scrivo queste cose non per fare arrabbiare ulteriormente queste persone, ma solo per farle riflettere, anche se probabilmente otterrò l’effetto opposto.
Per quanto mi riguarda – dato che significativamente le reazioni più stizzite si sono indirizzate verso il mio scritto: dirò poi perché –, penso di avere mostrato, in molti libri ed in università, che mi occupo di progettualità perché lo ritengo necessario, specie nella attuale situazione. Dopo infatti avere identificato nelle strutture costitutive dell’attuale modo di produzione sociale la causa prima della maggior parte della infelicità del nostro tempo, non posso ritenere sufficiente occuparmi di temi filosofici marginali o “di attualità”; anche quando me ne occupo peraltro, come negli articoli su quotidiani on line e riviste, lo faccio sempre, come sa chi mi legge, solo per mettere qualche semino affinché altri dopo di me riescano poi a cambiare il mondo per il meglio.  È una questione di responsabilità e di priorità. Come sa chi ha un bambino piccolo – torno su questa metafora a me particolarmente cara –, è interessante valutare di quale colore dipingere le pareti della sua cameretta, o con quali ninnenanne farlo addormentare, ma la priorità è che il bambino sia nutrito, accudito ed amato. Ecco: chi non si occupa delle cause prime per cui centinaia di milioni di persone vivono ogni giorno in maniera miserevole, a mio avviso non dà le giuste priorità alle cose, e pertanto non è responsabile, nel senso che non ha di che rispondere ai gravi problemi che distruggono l’esistenza di molti suoi simili. Detto questo, come ovvio, ciascuno può occuparsi di ciò che desidera; tuttavia, per rispetto, eviti di screditare chi si occupa di temi importanti tirando fuori la solfa desueta del “totalitarismo”, che non si può davvero più sentire. Se qualcuno vuole teorizzare che la progettualità conduce inevitabilmente al totalitarismo, strutturi sul piano teoretico i nessi di questo legame; prenda però anche sul serio le conseguenze di ciò che afferma, ossia che è meglio accettare “a prescindere” il modo di produzione in cui si vive anziché progettare, e soprattutto non si dimentichi di argomentare per quale motivo non sarebbe totalitario il capitalismo, che pure pianifica ogni cosa per il massimo profitto incurante dell’uomo e della natura. La richiesta di argomentazione teoretica non è uno strumento di tortura, ma il solo modo accettabile, da sempre, di fare filosofia.
Detto questo passo alle cose più importanti, ossia appunto ai contenuti teoretici. Il mio testo è stato infatti seguito da un saggio di Alessandro Monchietto, su cui tornerò lungamente, e da due saggi, uno di Claudio Lucchini e l’altro di Alessandro Pallassini, su cui invece non mi soffermerò molto. Non mi ci soffermerò in quanto il saggio di Lucchini ripropone, ottimamente, le tesi di Marx (oltre che di alcuni altri autori) sulla progettualità, argomentando in sostanza la necessità di proseguire il discorso da me iniziato, e rendendolo anzi più concreto; il saggio di Pallassini fa la stessa cosa prendendo come riferimento Spinoza. Anche il più breve testo di Antonio Fiocco si pone chiaramente in continuità con le tesi da me avanzate. Il saggio di Alessandro Monchietto, invece, avanza diverse interessanti critiche al discorso progettuale che ho tentato di svolgere, per cui ritengo doveroso analizzarlo. [… Leggi tutto l’intervento aprendo il PDF qui sotto]

Luca Grecchi,
Perché la progettualità



Gli altri interventi

Luca Grecchi, Sulla progettualità
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Quale progettualità? A partire da alcune considerazioni di Luca Grecchi
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Elio Vittorini (1908-1966) – L’ambivalenza dell’animo favorisce, naturalmente, l’affermazione italiana del fascismo. È sempre tanto più facile lasciarsi prendere da una corrente che resistervi.

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Il garofano rosso

Il garofano rosso

Ha il fascino dei libri
della prima giovinezza,
quando il talento
è una specie di follia,
e vivere è come viaggiare
in incognito con se stessi …
Gianna Manzini

«Il principale valore documentario del libro è nel contributo che può dare a una storia dell’Italia sotto il fascismo e ad una caratterizzazi’bne dell’attrattiva che un movimento fascista in generale, attraverso malintesi spontanei o procurati, può esercitare sui giovani. In quest’ultimo senso il libro ha un valore documentario non solo per l’I talia.
Si parla dal ricordo d’infanzia che viene, nelle prime pagine, attribuito al ragazzo protagonista. “E. ricordo d’un desiderio, conosciuto nella primissima infanzia, di uccidere qualcuno. L’esistenza successiva del protagonista e l’educazione ricevuta non lo hanno eliminato, o lo hanno semplicemente represso. A sedici anni egli è ancora posseduto da una vaga impressione che, per affermare se stesso, “entrare nella vita degli adulti”, essere
riconosciuto uomo, occorra “forse” uccidere qualcuno o, comunque, versare sangue.
Tutti i ragazzi intorno a lui si comportano come se fossero, tutti, posseduti più o meno, e più o meno vagamente, dalla stessa impressione. C’è in loro, verso il mondo costituito) una diffidenza che li accomuna e un atteggiamento di rivolta non preciso ma costante per cui sono portati a credersi rivoluzionari e sono pronti a simpatizzare con qualunque movimento politico appaia loro rivoluzionario. Hanno sentito parlare di socialismo, hanno sentito parlare di comunismo, e vedono intanto il fascismo.
Sono i giorni del delitto Matteotti, e i tempi, in Sicila, del soldino. Il fascismo ha ucciso Matteotti: vale a dire ha ucciso, come ciascuno di essi ha l’impressione d’aver bisogno di fare, qualcuno. Agli occhi loro, che vedono gli altri partiti non uccidere, il fascismo è forza, e come forza è vita, e come vita è rivoluzionario. Ma hanno sentito parlare, ripeto, di socialismo, e di rivoluzioni comuniste per il socialismo. Ne sanno quanto basta per pensare che ogni mutamento rivoluzionario del mondo debba avvenire in senso socialista. Il mondo che loro vorrebbero è come s’immaginano che lo voglia il socialismo. Cosi le ragioni confessate per le quali aderiscono al fascismo e fanno chiasso dentro al fascismo derivano, nella maggioranza, dall’idea che il fascismo non possa non avere un contenuto socialista.
Ne nasce in loro, coi dubbi che pur conservano sulla possibilità di un tale contenuto nel fascismo, una condizione di ambivalenza. Essi sono disposti al socialismo e al fascismo nello stesso tempo. E l’ambivalenza del loro animo favorisce, naturalmente, l’affermazione italiana del fascismo. È sempre tanto più facile lasciarsi prendere da una corrente che resistervi.
Un ultimo avvertimento.
Lo stato d’animo giovanile rispetto al fascismo non è analizzato nel libro in modo da riflettere storicamente qual esso fu al sorgere della dittatura. Vi si combinano convinzioni che si erano formate, tra i giovani, più tardi, e illusioni molto comuni proprio negli anni in cui scrivevo il libro, il ’33 e il ’34. Anzi, i giudizi espliciti su fascismo e comunismo messi in bocca al ragazzo Tarquinio, l’amico più grande del ragazzo protagonista, sono tipici di quegli anni. Ricorrevano di continuo nella stampa dei G. U. F. e persino in qualche settimanale di Federazione. Doveva essere la posizione che prese la stampa ufficiale nei riguardi degli avvenimenti viennesi di febbraio ’34, a darci la prima smentita per noi efficace circa il nostro granchio».

Milano, dicembre 1947.

Elio Vittorini, Il garofano rosso, Mondadori, 1975, pp. 213-214.

Risvolto di copertina
Scritto negli anni trenta, ma pubblicato in volume solo nel dopoguerra a causa della censura fascista, questo romanzo di Elio Vittorini è un'opera corale: il conteso «garofano rosso», dono di una studentessa liceale a un compagno di scuola, interessa e coinvolge oltre all'autore-protagonista diversi gruppi di ragazzi furiosamente vitali. Erano gli anni 1920-24, i tempi del delitto Matteotti. In quel clima rovente, anche un garofano rosso all'occhiello, un ingenuo pegno d'amore, poteva apparire un simbolo sovversivo. I giovani erano posseduti allora da una diffidenza e da un bisogno di ribellione che li portava a simpatizzare con qualsiasi movimento rivoluzionario, con il presagio però che altre esigenze avrebbero finito per prevalere: come in politica, cosi nell'amicizia e anche in amore, la stessa incertezza dolorosa, la stessa rabbiosa necessità di «entrare nella vita degli adulti.

 

Immagine in evidenza:
Pablo Picasso, Natura morta con testa antica, part., 1925. Museo Nazionale di Arte Moderna, Parigi.

 

 


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