Maura Del Serra – Il lavoro impossibile dell’artigiano di parole

Maura Del Serra 010

Intervista a Maura Del Serra
di Pierluigi Sassetti e Giuseppina Pagliafora

 

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Nòcciolo di saggezza
in polpa di follia:
la vitapoesia
Maura Del Serra, Microepigrafe

Non so perché, ma lei mi intimorisce un poco.

«Spesso incuto soggezione, sa che me lo dicevano anche quando ero ragazzina? Eppure sono geneticamente una timida, un’introversa».

Scorrendo tra le sue pagine nel sito Nuovo Rinascimento la cosa che salta subito all’occhio è che il suo lavoro di poetessa e traduttrice è imponente …

«Sì, se pensa a Kavafis e alle sue cento poesie. Diciamo che sono poliedrica; comunque quello che sostanzialmente ricerco è una sola cosa, andare verso la mia origine, la mia sorgente espressiva. Anche Pasolini, di cui stavamo parlando poco fa, cercava questo, no? Un anelito a tornare nel grembo materno e della lingua. Nel caso suo era un grembo tragico, con le ben note scissioni (quelle ideologiche e quelle fra l’eros e l’onestà, come diceva). Però è importante la sua identificazione con la madre, la “madre fanciulla”, e in generale l’elemento materno del poeta che è allo stesso tempo cristologico: un groviglio, nel suo caso, istintivamente e volutamente “eretico”, scandaloso. Per me l’elemento materno è fondamentale, non in senso personale soltanto, ma perché, come diceva Saba, il poeta è sempre madre anche se uomo, perché etimologicamente “comprende”; Saba diceva questo facendo l’esempio del Petrarca, e affermava giustamente che il Petrarca era anche Laura. Questa croce degli opposti credo sia una forma di nutrimento, anche nei termini di maieutica pedagogica, del lavoro che svolgete voi mediante l’educazione».

Certo, di lavoro sulla forza soggettiva.

«Cioè scoprire le proprie radici, le proprie linfe, scoprire che la forza umana si nutre di debolezze, quindi è importante sapere come cercare una catarsi per trascenderle, non fingere una forza che non si ha, magari di tipo superuomistico, wagneriano, “falso sublime” come lo chiamo io. Bisogna cercare nelle proprie radici quello che ci nutre, anche se è quello che ci ferisce. Tornando a Pasolini, potrei ricordare quella sua bella espressione “Casa della ragione sorella della pietà”. Questo è il vero cercare: la “casa della ragione”, però che sia una ragione nutrita dalla pietas, altrimenti ritorneremmo ai limiti, alle strettoie ideologiche dell’illuminismo, e mi pare che non abbiamo bisogno di questo, in un’epoca così drammatica per la sua deriva etica, associata all’oltranza tecnologica: questa comunicazione globale, che è anche alienazione, ha bisogno di trovare forme semplici e complesse insieme, ma non complicate, di far scendere la mente nel cuore, come dicevano gli indiani d’America e i mistici di tutte le latitudini. Gli intellettuali in genere fanno il contrario, fanno salire il cuore nella mente, quindi, come si dice, tutto diventa cervellotico. Quello che invece cerchiamo di fare noi, dico un noi molto virgolettato – i poeti, gli artisti, ma anche le persone più impegnate in senso umano – è appunto far scendere la mente nel cuore, pensare con il cuore. Forse è l’unico lavoro degno che si possa fare, attraversso qualunque altro lavoro esteriore».

Come si può, da tutto questo, arrivare a tradurre?

«L’elemento base del tradurre, oltre che del fare poesia, lo dice la parola stessa, è un trans-ducere, un gettare ponti da una lingua all’altra, da una concezione del mondo all’altra, quindi è un’operazione teoricamente impossibile, ce lo ha già detto Dante tanti secoli fa nel Convivio: “Nulla cosa per legame mistico armonizzata… si pote in altra lingua transmutare senza perdere tutta sua dolcezza”, ed è vero. Però noi facciamo continuamente questa cosa impossibile, e quello che il lettore legge non è né l’autore né il traduttore, ma è un terzo autore in una terza lingua. Se Lei legge un libro di poesie con il testo a fronte, in realtà legge due poesie spesso molto diverse. Attraverso il traduttore, nei casi meno riusciti, si crea un pasticcio, un fallimento artistico; nei casi di traduzione congeniale, invece, si crea una terza presenza espressiva, come se in un duetto vi fosse una terza voce che le fonde tutte e due. È un’operazione essenzialmente musicale, che si fa per una specie di “medianità”, per vocazione, perché i traduttori purtroppo vengono pagati miseramente (ed è anche difficile definire “quanto” dovrebbero essere pagati). Ci sono delle difficoltà oggettive, intrinseche al tradurre; perciò affinché l’operazione riesca ci deve essere una vera vocazione. Io non ho paura ad usare questa parola tipica del Romanticismo, perché non ce n’è un’altra che possa sostituirla. Non c’è un sinonimo più “moderno”. Margherita Guidacci, di cui ho curato l’edizione di tutte le poesie, è una poetessa che amo molto, ed era una bravissima traduttrice da più lingue, e diceva: “Certi autori sento che mi vogliono” e allora c’è un’empatia, e la cosa riesce. “Se l’autore non mi vuole”, lei si esprimeva così in modo molto semplice, “ci posso provare anche molte volte, lo posso amare molto” – e faceva l’esempio di Keats – “però la traduzione non riesce, ci si sente come respinti. È come sbattere contro un muro”. Ed è una cosa che ho provato anch’io diverse volte, nei tentativi di traduzione da autori che “non mi volevano” (ad esempio Sylvia Plath). Allora bisogna lasciar perdere; ci deve essere un’empatia profonda in cui sommare e fondere questi due elementi che agiscono anche nella poesia in proprio: il miracolo (qui sto citando Ungaretti) e il mestiere; quindi diciamo che deve esserci “l’orecchio assoluto” per sapere come rendere certe forme e creare, nel caso della poesia, una nuova poesia – non una parafrasi, o una prosa, non un rifacimento piatto, magari anche onesto, ma una nuova poesia. E poi il mestiere, ovvero le risorse tecniche e linguistiche che abbiamo. Però se non c’è primariamente questo feeling (che è quello stesso dell’amore e dell’amicizia), tra due voci, tra due mondi interiori, tra due cosmi poetici, intellettuali ed umani, la traduzione non può riuscire, perché è come voler abitare su di un ponte: l’ho scritto in Tentativi di certezza il mio ultimo libro di poesie pubblicate, che ha nel finale una parte aforismatica, di poesie molto brevi».

Può capitare che non si riescano a tradurre proprio quegli autori che si amano particolarmente?

«Sì, può capitare, se si amano in maniera troppo viscerale, come nell’amore tra persone; cioè, se è più una passione possessiva che un amore maturo, può capitare che la passione blocchi e non si trovi la forma per esprimere, per traslare, far passare attraverso il ponte linguistico e mentale quello che deve diventare un’altra creatura. Sì, può succedere, certo. Però anche la passione può diventare amore maturo, come tra le persone: se davvero un autore lo si ama e non si è solo infatuati, se lo si ama, poi la passione si decanta come il mosto in vino e allora diventa possibile una buona traduzione.

Come ha scoperto questa sua vocazione, quando ha iniziato?

«Con la traduzione? Beh, nel lontano 1985, quando mio marito, che non conosce il tedesco, voleva conoscere Else Lasker Schüler della quale aveva letto, e gli erano piaciute, alcune poesie in un’antologia di poeti espressionisti; questa poetessa così straordinaria, che scriveva in tedesco e diceva di scrivere in ebraico era a sua volta un’ebrea piuttosto eretica. Diceva: “Io non sono ebrea per gli ebrei, ma sono ebrea per Dio”. E scriveva in un tedesco tutto particolare, molto fantasioso. Mi rammento che, vedendo le poche traduzioni italiane esistenti, che erano quelle (nemmeno brutte) della Mandalari, sentii che mancava qualcosa, erano “sedute”, non c’era quella vis, quella energia che in lei è fortissima, un phatos viscerale molto forte, perché è stata legata all’espressionismo, però in modi tutti suoi, fantasiosi, nostalgici e orientaleggianti. Allora provai a buttar giù qualcosa, a tentare una traduzione, ma solo per me e per mio marito: avevo molta riluttanza a pubblicare queste versioni poiché, essendo giovane, temevo le reazioni dei germanisti, quelli del mondo accademico di cui da poco facevo parte, a nche se molto indipendente, e di cui ho fatto parte fino a poco tempo fa; in quei settori abbastanza chiusi, non si deve invadere il territorio altrui. Però, devo dire, anche mio marito, mi incoraggiò, mi disse: “Perché no? Vedrai, saranno clementi”. Poi appunto ho realizzato l’antologia Ballate ebraiche e altre poesie, che peraltro mancava perché ce n’era una del 1962 con pochi testi, quella col disco della Proclemer, fatta da Baioni (che successivamente ho conosciuto anche personalmente, e dal quale ho riucevuto i complimenti, in occasione della discussione di una tesi sulla Lasker Schüler avvenuta a Firenze); dopo quella sua versione antologica non ce n’erano state altre, e allora feci questa antologia traducendo l’intero corpus delle Ballate ebraiche ed un’ampia scelta dalle altre raccolte per l’editrice Giuntina, e devo dire che il volume ha avuto molto successo, è andato benissimo anche dal punto di vista commerciale. Dieci anni dopo, nel 1995, in occasione di una ristampa, ho modificato alcuni punti della traduzione e ho rifatto l’introduzione, che nella prima versione era un po’ criptica, ed il libro è tuttora in catalogo. Dopo quello dei germanisti sono passata ad “invadere” il territorio degli anglisti e dei francesisti, con quache sporadica incursione anche fra gli ispanisti, ma ho sempre considerato il lavoro di traduzione com parte integrante del mio lavoro poetico».

Sarebbe corretto dire che lei approda alla traduzione partendo dalla poesia?

«Sì, è quel discorso che facevo prima sulla musica, sull’avere orecchio empatico. Non ci si può riuscire facendo solo un lavoro accademico. Ma ci sono dei poeti che io non oserei tradurre perché secondo me sono intraducibili come, in area francese Baudelaire, e in area tedesca, Rilke o Celan che sono stati tradotti diverse volte in modo (specialmente Celan) accademico, e risultano svuotati di aura e di segno, di quel senso tragico che li contraddistingue. In sintesi, per tradurre un poeta ci vuole un altro poeta, e che sia anche sulla stessa lunghezza d’onda. E’ una cosa effettivamente molto complessa, però è come la vita: estremamente complessa e inconcepibile, ma poi nel suo manifestarsi quotidiano è anche semplice, ci si lascia guidare da questa voce primigenia, da questa ispirazione – uso un’altra parolona romantica che non ha sostituti».

Questo vale solo per la poesia o anche per la prosa?

«Vale anche per la prosa, anche se il mio orecchio è sempre sintonizzato istintivamente sulla poesia. Ma anche nella prosa si deve ricercare il ritmo, che c’è sempre, e ricrearlo, senza fare un calco della lingua di partenza in quella di arrivo, tenendo conto che l’italiano è appunto, detto tra virgolette, una lingua “pesante”, nobile, petrarchesca, barocca, fronzuta, cioè “lunga”. E di questo, traducendo dall’inglese, bisogna tenerne conto, perché si appesantisce tanto. Risulta più facile tradurre da lingue altrettanto “pesanti” come il tedesco, perché la struttura nella sintassi è quella greco-latina, o dal francese e dallo spagnolo. Con l’inglese invece bisogna fare un salto interiore ed espressivo, camminare un po’ sulla fune; ho trovato questo tipo di difficoltà quando ho affrontato la Woolf. Della Woolf ho tradotto Orlando, Le onde, e Una stanza tutta per sé, il suo manifesto femminista. Ma è soprattutto Le onde ad essere scritto in maniera decisamente musicale, sono sei voci, sei personaggi incvarnati da sei voci musicali, un sestetto, e il ritmo nell’inglese è completamente diverso da quello italiano; quindi bisogna trovare una forma musicale italiana che non tradisca, o per meglio dire che tradisca bene, perché bisogna tradire, ma tradire in modo amorevole rispettoso dell’originale. A dirlo così, sembra un groviglio di ossimori, ma l’orecchio, sempre quello, ti guida, e ti guida l’autore (o l’autrice) come un Virgilio. L’autore va anche conosciuto, va studiato. È indispensabile conoscere la vita, la biografia, il background, perché il suo linguaggio è anche quello del suo tempo, quello della sua cerchia sociale e familiare, quindi c’è da tener conto di molti elementi. Però, se c’è l’amore, la passione di base, il consenso reciproco, se l’autore ti accetta, “ti vuole” come specchio, accetta di farsi tradurre, i risultati possono essere buoni. Non sono pienamente contenta delle mie traduzioni, ovviamente tutto è perfettibile, però si tratta di un’esperienza di arricchimento personale, che impone di mettersi al servizio dell’autore; il risultato poi dipende dai molti fattori di cui parlavo sopra. Nella poesia personale può prevalere, e spesso prevale, l’elemento del narcisismo, dell’io lirico, cosa che succede in misura maggiore o minore in tutti i poeti. Si impara molto dai bambini, per come sanno ascoltare e decifrare magicamente anche quello che c’è nei nostri silenzi, nel linguaggio non verbale. La traduzione è qualcosa di analogo, è un lavoro di artigianato, come quello del restauratore che riporta allo splendore i capolavori antichi e trascurati; in fondo il lavoro che fa il traduttore è analogo».

Lei è stata anche docente universitario. Come si concilia questa forma di artigianato e l’insegnamento accademico, che è distaccato, sterile, dà gli strumenti ma poi non li collega?

«E’ vero, l’insegnamento accademico tende a fornire degli strumenti non sempre in maniera adeguata al loro uso. A meno che non si tratti di docenti eccezionali, che sono i famosi maestri che noi tutti abbiamo cercato e cerchiamo, che tutti gli studenti cercano, ma sono rari… anch’io li ho molto cercati, ma non ne ho mai trovati in quell’ambiente.. In questo caso bisogna farsi maestri di se stessi. Parlavo prima, citando Ungaretti, del miracolo e del mestiere. Il mondo accademico lavora solo sul mestiere, tranne rarissime eccezioni. I traduttori migliori, anche se insegnano all’Università, magari fanno altre cose, sono anche scrittori, non sono accademici puri, perché il mondo accademico è sterile, come un laboratorio di analisi mediche. Proprio perché ero una voce fuori dal coro mi sono trovata sempre piuttosto emarginata, il che per me era anche una fortuna perché potevo lavorare per conto mio, potevo fare i miei corsi di poesia e gli studenti mi seguivano davvero con interesse».

Un esempio di forza soggettiva…  

 «Sì, cercavo di far capire anche cosa c’è dietro le rime, le cose che magari abitualmente in un corso non vengono prese in considerazione, e lo facevo usando un po’ tutti gli strumenti che anche la critica formalistica può usare, gli strumenti tecnici e la retorica, ma sottolineando la loro caratteristica di strumenti, che non vanno finalizzati a se stessi. Se si disseziona una poesia, come si faceva ai tempi dello strutturalismo, ci rimane solo il cadavere, non c’è più né l’autore né l’opera. Personalmente, pur avendo avuto delle amarezze durante la mia attività in ambito universitario, non me la sono mai presa troppo perché il poeta deve essere pronto a “pagare” per la sua vocazione; non si può avere tutto, in questa e nell’altra dimensione e io ho sempre fatto prevalere l’artigianato. Ovviamente, nell’artigianato vanno impiegate tutte le strutture del mestiere, si tratta sempre di conciliare, di trovare il logos, il dialogo con queste croci di opposti: il caos e l’ordine, l’intellettualismo e l’emotività; bisogna trovare e tessere il filo, la ragione, il logos che abbia in sé anche gli strumenti della pietas, quindi anche l’inconscio – ben venga dunque l’eredità della psicoanalisi, ma senza più il peso ideologico che ha avuto in origine, alleggerita da quel carico un po’ punitivo, per cui se si usciva da quelle forme dogmatiche si era “fuori strada”. Ora, in una società globale (almeno virtualmente, perché poi è sempre dominata dai nazionalismi, dai personalismi, da ferite e incomprensioni linguistiche nel senso interiore (perché le lingue sono mondi) tuttavia abbiamo gli strumenti per superare questi muri. Certo non si può negare che, come sentiva Pasolini, la storia è tragica. Anche Caproni, che era suo amico, scriveva con il suo humour nero: “Fa freddo nella storia. Voglio andarmene”. La violenza che vediamo continuamente all’opera nella storia e nel quotidiano, convive però e si mescola con l’aspirazione umana all’assoluto, quindi il metatemporale e il temporale; c’è sempre e dappertutto questa lotta tra il caos e l’ordine. Io non credo si possa superare questo dualismo, perché la condizione umana, la condizione nostra è costruita sul due (quando dico nostra, voglio dire anche quella degli animali, delle forme di vita complesse): il ritmo del cuore, il ritmo del tamburo, il ritmo primordiale, sono tutti scanditi sull’uno-due, uno-due, e quindi bisogna lavorare su questa dialettica. La filosofia poi l’ha concettualizzato, con Hegel, l’ha definito tesi, antitesi e sintesi. Può essere un lavoro filosofico, ma non deve essere un lavoro intellettualistico perché altrimenti la sintesi non passa nella vita, rimane nella testa: come scriveva Canetti, in una “testa senza mondo”.

Pasolini asseriva che gli intellettuali fanno un lavoro tra comodità e benessere.

 «È vero, ma non sempre, adesso lo è diventato molto di più rispetto ai tempi di Pasolini che lo diceva in senso provocatorio e autopunitivo; credo che se vivesse oggi Pasolii sarebbe molto più tragicamente angosciato; quando nel dopoguerra lui si è formato, e faceva il suo lavoro pedagogico e poetico, così eclettico e ricco, così straordinario (penso al suo cinema più che al suo teatro e alla sua poesia) la società era ancora strutturata secondo un modello “classico”, a scuola c’era l’ordinamento umanistico gentiliniano, e nella società, pur pesantemente gerarchica, l’intellettuale aveva ancora una voce, specie se engagé o “militante”, come si diceva allora. È per questo che P.P.P: ha potuto creare scandalo, mentre oggi è scomparsa l’idea stessa di scandalo (sostituita da quella di provocazione furbesca). La deriva etica, e l’oscuramento della cultura umanistica hanno comportato la perdita del ruolo “di rispetto” dell’intellettuale e dell’artista come testimone (non come maître à penser, che se lo è, lo è senza volerlo) ma come testimone ed interprete della condizione umana. Pasolini, cattolico d’origine, aveva vivissimo questo senso, anche sacrificale, della testimonianza come etimologica martyrìa, ma rispetto agli anni ’50 e ’60, agli anni del boom, e anche ai ’70, quelli “di piombo”, è diventato tutto molto più difficile: allora lui poteva ancora vedere il nemico all’esterno (la corrota società borghese) e poteva costruire il mito e il rimpianto del mondo contadino primigenio in via di sparizione. Oggi la società cosiddetta post-moderna è un melting pot massmediatico, molto confuso, dominato dalla finanza e dalla tecnologia. I giovani, ovviamente, sono sempre assetati di verità, di bellezza e di valori, ma sono a loro volta confusi e delusi in una società dell’immagine che li emargina e ne rifiuta i doni creativi, che sono quelli del futuro stesso.
Quello che cercano di fare i poeti – almeno io nel mio hortus, ma credo tutti gli scrittori e gli artisti non asserviti – è cercare di dar vita ad una società della sostanza, opposta alla società dell’immagine e dei consumi. Certo una società simile è difficile da costruire; nella società attuale, dominata dai gruppi di potere (segnatamente da quello finnanziario), dalla forza che schiaccia e prosciuga l’anima e la realtà, i valori della persona tendono ad essere sacrificati o falsamente esaltati per gli scopi del potere stesso. In questo processo c’è un elemento veramente tragico, tragico e morale, come diceva Campana sulle orme di Nietzche. Campana è stato il mio primo amore poetico, e il suo destino “folle” è abbastanza emblematico del poète assassiné. Lui è un po’ il nostro Hölderlin, (certo, fatte le debite proporzioni); e anche Hölderlin è stupendo ma intraducibile, io non ho mai provato a tradurlo, anche se ho trovato insoddisfacenti le traduzioni italiane che ho letto; la migliore mi pare quella vecchia di Giorgio Vigolo che è arcaica, datata (è degli anni ’40) però Vigolo era un poeta, quindi l’orecchio epico e lirico che Hölderlin richiede c’era».

C’è una lingua che sente più affine a sé, una lingua da cui preferisce tradurre?

«Ultimamente ho tradotto molto dall’inglese ma…vede, io non parto dalla lingua, parto dall’autore, da un autore che amo, e solo di conseguenza dalla sua lingua . Ora è un periodo in cui mi dedico sll’inglese, perché amo molto Katherine Mansfield, e avendo già tradotto tutti i suoi racconti – un unico volume della Newton Compton recentemente ristampato – mi sono messa, veramente per amore, a tradurre tutte le sue poesie che erano state parzialmente antologizzate in diversi periodi e con differenti traduzioni che a mio aprere non le rendevano merito. Ho curato l’antologia Poesie e prose liriche, edita da “petite plaisance”, dove ci sono pressoché tutte le sue poesie, con l’aggiunta di un corpus di prose liriche giovanili, basandomi sul testo inglese di O’ Sullivan che era uscito già nel 1988.
Poi ho incontrato, o meglio riscoperto, la voce di Tagore, che avevo letto in gioventù, negli anni Settanta, quando c’era la moda un po’ hippie dell’Oriente, e ho visto che non c’era nessuna traduzione italiana moderna della sua autobiografia; ce n’era una del 1928 che però è uno stranissimo rifacimento, assai fantasioso, con aggiunte e divagazioni del traduttore. Allora ho tradotto questa sua autobiografia intellettuale, Ricordi di vita, che è uscita presso “Studium” di Roma (è il primo volume della nuova Biblioteca Universale di Studium). L’inglese di Tagore è ovviamente assai diverso da quello della Mansfield, che era sì una “coloniale” ma si era formata studiando a Londra. L’inglese di Tagore, invece, era quello un po’ “strano” dell’India soggetta all’Impero Britannico; tra l’altro la traduzione inglese dell’autobiografia – che in originale era scritta in Bengali – non l’ha curata lui stesso, ma un nipote con l’approvazione dell’illustre zio.
Lei dice che io ho scritto tanto, ma se all’opposto di Kavafis, considera quello che ha scritto Tagore: 2.400 poesie, 2.200 canzoni, trenta opere di teatro, romanzi, eccetera…

Quindi l’inglese…

«In questo periodo sì. Poi l’editrice “Archinto” di Milano mi ha proposto di tradurre il carteggio di Tagore con la Ocampo, non Sylvina Ocampo, l’amica di Borges, ma la sorella maggiore, Victoria Ocampo, che è nota elitariamente ma che è stata una donna di grande talento, un’argentina molto brillante, colta, ambiziosa e impegnata, una mecenate di artisti e una femminista individualista. È stata la fondatrice della rivista “Sur” che ha “lanciato” Borges. C’è dunque questo carteggio con Tagore che risale a quando lo scrittore nel 1924 è andato a Buenos Aires e la Ocampo lo ha ospitato e si è innamorata di lui (del resto si diceva che tutte le donne del Bengala fossero innamorate di lui). Questo rapporto con la Ocampo poi continua a distanza per quindici anni. Sono lettere molto belle, ricche e fervide
Curare questo volume, ora uscito, per me è stata una bella esperienza perché mi sono confrontata con un “altro” inglese: l’inglese di Tagore è sempre quello coloniale, ma la Ocampo, che è argentina, scrive un inglese diverso, perché il suo imprinting, la sua formazione straniera era francese, perché allora, negli anni ’20, era la lingua colta dominante, quindi a volte fa dei calchi dal francese e dallo spagnolo, delle forme ibride e degli errori; tuttavia non ho fatto non un’edizione critica, ma un’edizione “leggibile”, anche perché se avessi dovuto continuamente mettere la parentesi quadra e la spiegazione “qui c’è il probabile calco del francese”, ed altre specificazioni del genere, trattando una materia che invece è appassionante, tellurica, sarebbe diventa un lavoro troppo accademico, pesante. E il carattere del libro non lo avrebbe sopportato».

Giusto per capire, parla tutte le lingue da cui traduce?

 «Be’ sono una traduttrice molto “a tavolino”. Le parlo prevalentemente nei viaggi, anche se sono consapevole che non facendone un uso frequente le lingue si perdono: il tedesco ad esempio ora l’ho abbastanza perso, ma tutte le lingue richiederebbero un uso assiduo; cerco di tenermi in esercizio leggendo i poeti».

Perché lei ha sempre letto in lingua originale?

«Certo, sempre! O meglio: nell’adolescenza, quando non conoscevo, il francese leggevo per esempio Baudelaire con il testo a fronte. Ero partita da Baudelaire che ha delle forme molto regolari, come i sonetti, per capire come era strutturata la lingua “alta”, poi naturalmente ho approfondito la grammatica, la sintassi ecc.. Certo se scrivo in una lingua strtaniera probabilmente faccio degli errori, però quando traduco in italiano sono quasi sicura di non farne, almeno non di rilevanti».

Si può cominciare a tradurre senza avere la sicurezza di sapere tutto?

«Sarebbe mostruoso avere la presunzione di sapere tutto. Pascoli ha fatto delle bellissime traduzioni da Tennyson, quasi dei rifacimenti, ma splendidi, e non credo che conoscesse bene l’inglese, quanto meno non ci sono prove che lo avesse studiato. È lecito e urile confrontarsi anche con le soluzioni di altri, ma che non siano copiature o calchi travestiti».

Le capita mai di leggere le traduzioni di altri autori prima di incominciare a tradurre?

 «Certo, devo vedere in che modo è stato trattato l’autore e se la traduzione è buona può non valere la pena farne una nuova».

E nel caso di autori mai tradotti?

 «Quella è una sfida “senza rete”. Per l’autobiografia di Tagore questo problema si è posto – come in passato per Barnes, per Herbert, per Segalen, per la Kolmar – perché la “traduzione” che c’era, quella del ’28, non era una traduzione, era una parafrasi moto fantasiosa. Del carteggio con la Ocampo non c’era nessuna traduzione, ma ha supplito l’esperienza, l’orecchio, l’amore, la tecnica, tutti “aiutanti magici”. Poi, certo, tutto è perfettibile e se dopo ne uscisse un’altra migliore della mia… non soffro particolarmente d’invidia, casomai posso dire a me stessa: “perbacco, vediamo cosa posso imparare per la prossima volta”».

Le è mai capitato di trovare una traduzione che le è piaciuta più della sua?

«Ora se le dico di no mi sembra di essere una megalomane…però sono un po’ imparagonabili le traduzioni, sono come le persone. Per esempio, quelle della Woolf fatte da Nadia Fusini non sono affatto male, ma il suo è un altro modo, è un altro approccio, in un’altra lingua. Lei traduce in una buona prosa, però secondo me le manca un po’ di ritmo, di “volo”. Ma è uin confronto veramente improbo e ingiusto da fare: ogni traduzione è unica, e per giudicare le proprie non si ha la distanza critica necessaria».

Sembra che stia parlando di brani musicali.

«Sì, perché la poesia è musica. È difficile dire se la musica provenzale sia migliore di quella indiana, o se Schubert sia meglio di Puccini, ognuno è veramente un “cosmo”. Diciamo che in passato ci sono state delle traduzioni da cui ho imparato molto, però non ho mai cercato di riprodurle, non sarebbe possibile né produttivo. Un lavoro “vero” deve trovare la sua voce e il suo stile. Ricevo tanti libri di poesie, specialmente di giovani, che chiedono un giudizio sincero, ma è molto difficile darglielo, perché se mi azzardo a fare una qualche riserva del tipo: “Lei si deve ancora formare” oppure: “si sente ancora molto l’impronta del tale poeta” di solito l’autore si offende, il che mi dispiace, così come mi dispiace mentire».

Invece sarebbe interessante avere un parere.

«Certo, tutti dovremmo imparare a migliorarci scambiandoci pareri anche molto critici, ma una critica sincera suona spesso difficile da sopportare per chi le riceve. C’è il “pianoforte della vanità”, come lo chiamava Panzini, che “non è mai così scordato e muto sì che non mandi alcun suono”. È proprio vero, non c’è modo di farlo tacere del tutto, però è possibile, col tempo, mettergli la sordina e usare il pedale. Oggi, ad esempio, vengono diffusi strumenti comunicativi “istantanei” e il tempo è così veloce che viene schiacciato, non lo si considera più. Penso alle e-mail e agli sms, al “tempo reale”, ma quale è il tempo reale della vera comunicazione? È come per il vino, il mosto si deve decantare con lentezza, e la lentezza ci vuole. Paul Valéry ha scritto L’elogio della lentezza, ora c’è la moda dello slow food, ma il tempo resta veramente parcellizzato e non olistico. Adesso, pare, hanno scoperto i neutrini ed è andato in crisi anche il limite della velocità della luce. Ho scritto una poesia sui neutrini, una metafora un po’ scherzosa e un po’ seria, però sentivo di affrontare questo argomento; è forte la nostra presunzione di toccare e superare la frontiera scientifica dello scibile. Pensavamo di aver capito tutto, o quasi dell’universo con la teoria della relatività … I neutrini per me sono la metafora dell’imponderabile, di quello che ci sorprende, ci meraviglia, ci spiazza, e li ho ritratti come i folletti delle fiabe romantiche. Forse i poeti sono rimasti meno sorpresi degli scienziati da questa scoperta. Poi c’è anche da dire che l’Italia possiede doni di straordinaria bellezza, specialmente nel campo dell’arte, che vengono dall’“anima fanciulla”, dalla meraviglia platonica, ma non ha mai raggiunto la maturità storico-politica, è anche un paese molto “dimenticone”, che rimuove la memoria storica; l’abbiamo persa troppo a lungo, adesso è necessaria una rinascita fondata sulla consapevolezza civile e interiore. Siamo un paese vecchio, come vecchia è l’Europa, per questo dovremmo essere dei nonni più saggi e credibili, invece che essere dei nonni farseschi, che si truccano e si comportano da adolescenti, da Pierini infatuati e menefreghisti».

Oggi va di moda l’adolescenzialità.

«Si tratta di un mito che viene da lontano, è il mito dell’eterna giovinezza e del ringiovanimento che dal Romanticismo europeo in poi, specialmente col Werchter e il Faust di Goethe, diventato dominante nella cultura europea soppiantando la figura classica e medievale del vecchio saggio, portatore di memoria personale e collettiva; ha prevalso il fascino dionisiaco della gioventù, del futuribile, del “blé en herbe” come lo chiamava Colette (e pensi poi alla Lolita di Nabokov). Negli ultimi decenni questo mito è degenerato nelle forme spicciole, omologanti e spesso grottesche, della chirurgia plastica».

La metafora di Pasolini, “vecchi ruderi di cui nessuno conosce …”, è proprio questo uno dei problemi. Il rudere è anche il vecchio artigiano?

«Il vecchio artigiano non è un rudere né un mito o una metafore romantica, è un basamento su cui continuare a costruire creativamente, unendo tradizione e invenzione. Io sono felice di provenire da una famiglia di artigiani. Mio padre era un artigiano del legno, un restauratore-artista del mobile, mio fratello è stato un famoso restauratore di quadri antichi: ha restaurato alcuni dei capolavori assoluti della pittura».

Lei è stata ragazza di bottega?

«Non non ne avevo l’attitudine, il mio centro di gravità è sempre stato nelle parole, ma ne sentivo il fascino estetico. Quando ero bambina andavo nella bottega di mio padre, un antico stanzone-falegnameria, guardavo quello che faceva e mi piacevano l’odore del legno, gli intarsi. Un lavoro paziente, silenzioso, creativo, che solo dopo decenni ho collegato alla scrittura e alla traduzione. Mio padre alcuni mobili non li vendeva proprio, “con tutto il tempo che ho impiegato per costrurli”, diceva, “che prezzo dovrei chiedere?” Erano come un libro di poesia, un pezzo musicale, una bella traduzione, un quadro riuscito, come tutte quelle cose che richiedono un tempo e un’abilità non quantificabile. Della bottega di mio padre ricordo con intensità i trucioli, le spirali leggere del legno piallato. Quando ero piccola, disegnavo sempre spirali. E anche quando mio padre mi portava dei pezzetti di legno, io ci disegnavo sopra spirali col lapis copiativo. Era proprio una forma cosmica, primordiale, dell’ inconscio collettivo direbbe Jung; una forma che mi affascinava e che nessuno mi aveva mai mostrato».

E il suono?

«Il suono è il fondamento del mondo, e le arti sono tutte sorelle, sono variazioni sul tema, personificate in età classica nelle nove Muse. Le Muse sono come altrettanti dialetti della stessa lingua primigenia. La pittura ha un ritmo, così come la musica ha un colore. Il suono primordiale ricordato anche nelle Sacre Scritture, l’Om, o il Logod, fa nascere il mondo, è il Big Bang fisico e simbolico che crea le forme dell’essere e le rifrange in variazioni innumerevoli».

È strano che lei, poetessa, scrittrice, traduttrice, ci stia parlando di suono. Abbiamo incontrato musicisti che per spiegarci il suono ci hanno fatto l’esempio di un libro. Dicono che suonare, imparare a suonare, è come leggere un libro perché anche il musicista si esprime per frasi.

«Il principio della traduzione di cui parlavamo, è appunto questo; trovare una frase, una musica equivalente all’originale, una musica verbale ed interiore. Lo stesso vale per la poesia, che nasce da una o più “voci di dentro” che si esprimono in immagini ritmiche. Il libro poi, è una metafora ricorrente in tutti i miti di creazione; penso in particolare al Corano islamico, ma anche al topos interculturale del “libro della vita”».

Difficilmente si incontrano professionisti che sentono l’esigenza di trarre ispirazione da altri contesti. Quando parlo di queste cose ai miei allievi è come se cadessero dalle nuvole, perché sono talmente standardizzati sul concetto di sapere scolastico che lasciano veramente poche vie all’imprevedibile.

«Certo, il sistema scolastico, come qualunque “indottrinamento” o acculturazione, può creare gabbie mentali, perdita di fantasia creativa e fissazione di stereotipi, di un’erudizione “a compartimenti stagni”, o frtettolosamente integrata da Internet e dal suo fast food planetario, dove inevitabilmente la quantità abbassa la qualità del sapere, una volta elitario. Anche l’Università è diventata una sorta di super-liceo per effetto della cultura tecnologica di massa. Ma gli allievi migliori – magari supportati dai punti di eccellenza ancora esistenti in Italia, e più all’estero, trovano e troveranno sempre in sé il desiderio e il bisogno di ampliare i loro orizzonti in senso multidisciplinare, interculturale. La realtà contemporane sembra drammatica, distruttiva ed autodistruttiva, ed in buona misura lo è, ma se si leggono i papiri egizi, le testimonianze degli scribi denunciavano la decadenza dei costumi etici e socili e la crescita della corruzione rispetto ai tempi antichi. Il sentimento della decadenza è una costante, perché nel profondo di noi vive il mito dell’età dell’oro, dell’Eden perduto. Per quanto mi riguarda, sento veri i cicli, i “corsi e ricorsi” di Vico, e poi di Nietzsche , per cui le realtà ritornano, anche se in una forma storica e con immagine diversa. Anche Pasolini percepiva questo. Il mito positivista dell’infinito progresso e possesso ha favorito le scoperte scientifiche, ma ci stà portando a distruggere la Madre Terra, il pianeta. Tuttavia stiamo assistendo ad una crescita della coscienza individuale. Stiamo lentamente acquisendo la consapevolezza, anche interiore, della nostra violenza distruttiva, ma è difficile acquisire un livello di coscienza globale, perché il nostro mondo è come un’eterna scuola con tante classi, e, a parte una certa quantità di analfabeti, refrattari agli input educativi, ci sono tante classi: gli studenti di prima elementare ci saranno sempre, ed ovviamente non hanno la stessa preparazione degli studenti di quinta liceo che pure ci saranno sempre, così come i professori cioè i maestri spirituali. Lo spirito delle nazioni, che i romantici avevano identificato, e lo spirito delle lingue indubbiamente esistono ed operano, come l’inconscio collettivo, ma non sono unitari, quindi non si può dire, in linea di massima, che una nazione sia più civile di un’altra, e poi anche nelle società più evolute ci sono sempre delle sacche di ignoranza e di pregiudizi, dei rigurgiti di barbarie, di “proiezioni sul nemico”, come ad esempio di razzismo, il nazionalismo intollerante e il sessismo, che si verificano continuamente in tutto il mondo. La democrazia, anche interiore, è un’acquisizione difficile e precaria, come la cima di una piramide».

Come si può sfuggire a questa forma di realtà che incasella, standardizza, che toglie il tempo, che impoverisce nella sua essenza ogni soggetto, anche se ovviamente il soggetto ci mette del suo?

«Penso che la capacità di sottrarsi alla standardizzazione sia un dono, oltre che una volontà. Ci sono molti giovani, e meno giovani, motivati e profondi, di ottima caratura morale. Il rischio comunque è quello di sfuggire ad uno stereotipo cadendo in un altro, magari quello dell’“alternativo” o del diversamente consumista. È sempre necessario, secondo me (cito ancora da Ungaretti) che “il vero poeta aneli a chiarezza”) e non solo il poeta e l’artista, ma ogni essere umano degno di chiamarsi tale: cercare di fare chiarezza dentro se stessi, di capire di che cosa si ha bisogno veramente, perché spesso si è ingannati da falsi desideri, “immagini di ben seguendo false” dice Dante; sono queste che l’omologazione incrementa e sfrutta».

Il desiderio confuso con il consumo …

«Sì, il desiderio indotto di cose, di oggetti che rassicurano, che fanno sognare i sogni degli altri, e non i propri, “distraggono” in senso etimologico, portano a smarrire l’identità, a “perdere l’anima” pur di identificarsi col gruppo socialmente prevalente. Ci vuole il coraggio di sentirsi “eretici”, e magari socialmente soli, ma uniti alle forze naturali e creaturali, e agli amici elettivamente affini; una condizione che personalmente, essendo introversa e nata sotto il segno dei Gemelli, ho accettato da quando è iniziata la mia vita cosciente, facendone un elemento portante della mia poetica: l’ho chiamata Solitudine corale.

“La solitudine corale, mia,
come l’aria mi nutre e mi traversa
senza vedermi – onda di creature
dai sonanti colori m’accompagna al mio seggio
di silenziosa fiamma necessaria:
dell’empirea rosa testimone dispersa,
ho l’unisono senza l’umana compagnia”[1].

Ma bisogna dire che ogni “creativo” (non nel senso corrente e modaiolo del termine), ognuno di noi è veramente molto isolato, considerando che oggi non ci sono più i salotti letterari, quelli deprecati da Pasolini, i salotti borghesi che però, quantomeno erano ancora una forma decaduta e familistica di agorà, di cenacolo, di incontro. Anche i caffè letterari adesso sono scomparsi e le chat non valgono a sostituirli. Ma la solitudine di cui parlavo non è mai tale, perché ha sempre una tensione all’ascolto, è collegata in senso etimologico. Come diceva la Mansfield, parafrasando Van Gogh: “[Voglio] inchiodare l’orecchio alla porta per sentire la voce di chi è fuori”».

Lei come è riuscita a sfuggire alla trappola dell’omologazione?

«Non è detto che sia sfuggita pienamente, i confini dell’omologazione sono sfuggenti; come le dicevo, ho cercato per istinto la compagnia e la voce dei grandi poeti. Sono stata sempre un po’ extravagante in senso sociale e scolastico. Al liceo leggevo Baudelaire e i Simbolisti russi sotto il banco, durante le ore di matematica o di trigonometria (il mio spauracchio!). Soltanto dopo, attraverso i pitagorici, ho capito qualcosa dei fondamenti fisosofici della matematica. Ero un po’ uno scandalo buffo per i miei compagni di classe, mi guardavano con una diffidenza ironica che mi faceva soffrire. Il mio professore di lettere, che amavo, quando lo incontro mi ricorda che talvolta scrivevo le mie poesie sul muro accanto al mio banco; avevo un amore smisurato per la poesia e la letteratura europea, e nelle vacanze estive spesso andavo in campagna in bicicletta, mi arrampicavo su un ulivo e leggevo per ore i poeti che via via scoprivo invece al mare, nell’estate del 1964, ho letto d’un fiato la Recherce di Proust. Allora ero letteralmente drogata di letteratura, quello per me era il mondo vero. Le altre droghe, quelle chimiche, per la mia generazione sono state una provocazione, una “contestazione” come si diceva allora, ma io non ne ho mai sentito il bisogno. Ora il consumo di sostanze stupefacenti mi pare più meccanico, più disperato, e non ideologico come accadeva allora; purtroppo è diventato ancora più precoce. A me pare impossibile che dei genitori pur alienati dal lavoro, non si accorgano che i figli fanno uso di sostanze stupefacenti. C’ un vuoto di ordine etico che dovrebbe essere colmato. So di usare paroloni: vocazione, ispirazione, etica! Anche Pasolini le usava, ed è andato ad insegnare ai ragazzini incolti del Friuli. Certo lui aveva delle motivazioni “romantiche”, vedeva il sottoproletariato come paradiso, anche sensuale; però la motivazione etica di un insegnante deve venire prima e nonostante tutto, altrimenti manca a se stesso. È vero che in Italia, specialmente nell’ultimo ventennio, si è fatto e si fa di tutto per demotivare i giovani e gli insegnanti col precariato, è stato screditato ogni valore e prestigio alla cultura, in particolare a quella umanistica, ma anche alla vera ricerca scientifica, togliendole i fondi necessari, e incoraggiando un iper-tecnologismo passivo, massificato, furbesco. Ma l’anima ha bisogno di nutrimento. Ha notato che anche i papi non parlano quasi più dell’anima? Quindi dell’anima parlano solo gli artisti con i loro strumenti, ed anche gli educatori: anche quella è tuttavia un’arte, difficile e socratica.

Lei ha detto prima di non aver mai incontrato un maestro. Pensa che sarebbe cambiata la sua vita se ne avesse avuto uno?

 «Forse no. Probabilmente avrei avuto un imprinting più “personalizzato”, come l’hanno avuto ad esempio gli allievi di Longhi o di De Robertis; poi però, essendo parecchio individualista, anche per l’eredità familiare artigiana, penso che presto sarei andata per la mia strada, anche se devo ammettere di avere una certa nostalgia sentimentale per padri, madri e maestri, soprattutto spirituali».

E lei adesso, da maestro, ha discepoli?

 «Non mi sento un maestro, mi sento un poeta-madre (e ormai felicemente nonna). Non credo di avere discepoli. Ho degli amici giovani, e degli ex allievi che ogni tanto vengono a trovarmi, mi scrivono. Qualcuno è diventato uno scrittore o uno studioso, mi manda i suoi lavori, ed ho vari amici artisti anche loro giovani, con cui ho molto feeling, la loro bravura, il loro entusiasmo ed affetto mi nutrono molto e con loro mi è più facile collaborare rispetto ai miei coetanei».

Ci parli ancora della sua spinta interiore quando era ragazzina. Il suo desiderio di leggere, di conoscere, la sua curiosità…

 «Già da bambina, a tre anni, raccoglievo i fogli che trovavo per terra, dei pezzi di giornale, non sapevo leggere, però ne ero attratta, sentivo che lì c’era “qualcosa”. Era un amore istintivo, una passione per un regno che ancora non conoscevo, ma sapevo che c’era e che io dovevo entrare lì, nelle parole, dovevo leggerle e scriverle. Poi non ho più smesso di farlo, con qualunque testo mi capitasse. In casa mia non c’erano molti libri, ma c’era La divina Commedia, in una edizione degli anni Trenta, quindi a dieci anni mi misi a leggere Dante, non capendo quasi niente sul piano intellettuale, ma rimanendo incantata dalle immagini, dalle rime, dal suono. Insomma è stata subito una passione, io non la definirei curiosità, né ambizione. In un tema di quinta elementare scrissi – si trattava di uno dei temi allora obbligati del tipo “cosa volete fare da grandi” – io scrissi che volevo “fare la carriera della poetessa”; allora credevo ingenuamente che fosse una carriera, però era ciò che volevo e che sentivo di dover fare. Non avrei potuto fare nient’altro. Poi certamente mi sono resa conto che che carmina non dant panem e quindi c’è stato l’insegnamento, qualche supplenza alle superiori e poi l’Università.
Ora non sono più addicted ai libri, il vino si è decantato, a sua volta, e la vita mi è venuta incontro in tutti i suoi aspetti, ma quella vocazione, quel bisogno fisiologico è rimasto intatto, si è arricchito qualitativamente. Anche i vostri ragazzi, credo che troveranno la via per esprimere la loro personale “arte”».

Spesso questa sensibilità innata è anestetizzata anche da feticci tipo playstation, giochi virtuali, computer. Questi sono muri.

 «È vero, possono essere droghe facili…Lo stesso uso del computer ha comportato la conseguenza che molti ragazzi non sanno più scrivere a mano oconversare. Io ho la sventura, che per me è stata la provvida sventura di Manzoni, di non poter usare il computer per ragioni di vista, ma questo handicap non nuoce all’ispirazione, anzi. Ho sempre scritto tutto a mano, e scrivere a mano le poesie comporta un contatto fisico, per me prezioso, con la penna e con la carta, quindi con l’albero e con la natura. L’uso del computer (certo utilissimo) ha comportato però anche la perdita della variantistica letteraria, che era preziosa per gli studiosi e per i lettori attenti: penso alle varianti molto significative delle poesie di Leopardi o di Montale, su cui si tenevano interi corsi. La grafia, le cancellature, tutto era significativo, come nelle vecchie lettere, sostituite dalle più sbrigative e mails. Dopo la versione a mano io copio e modifico ancora a macchina, ne ho una elettrica, ma ho dei problemi per trovare i nastri in via di esaurimento. Il mio è un lavoro di antico artigianato, di scriba arcaico in via di estinzione. Comunque non mi scoraggio. Anche Pasolini continuava a scrivere, sempre affermando che non c’era via d’uscita dalla morte della poesia… Poi mio marito, pazientemente scannerizza e digitalizza tutto.».

Mai arrendersi…

 «Appunto. Penso a Gorgia e ai sofisti, che tenevano discorsi sulla necessità di non parlare. Tutto il nostro lavoro è paradossale, è basato sugli ossimori, come la vita. Un lavoro à rebours, in direzione contraria all’attuale “aziendalizzazione” e mercificazione di tutto, compresa l’Università e la scuola, dove fumosi giudizi avevano sostituito i voti, che ora hanno dovuto reintrodurre. È importantenon essere complici in questo processo , o esserlo il meno possibile. Simone Weil diceva :“Non mentire, non essere complici, non restare ciechi”. Certo questa fedeltà si paga, tutto questo si paga in termini di emarginazione mondana, di solitudine, come ho già detto, però il compenso è alto qualitativamente, sia per l’autostima e per la propria interiorità, per la propria libera “autocostruzione”, sia sul piano della stima e dell’affetto dei ragazzi, quando si è insegnanti».

Io vedo che le persone non si amano

 «Spesso non riescono a farlo perché si disprezzano, non hanno autostima, provengono magari da famiglie anaffettive dove non c’è amore, né valori, né rispetto. Anche la nostra società non aiuta nel dare prospettive, nell’offrire un futuro, non solo ai giovani, ma anche a persone in età che magari perdono il lavoro e che si sentono “rottamati”, e comprensibilmente cadono nella disperazione. Ogni persona è un cosmo complesso, e le cause del non-amore possono avere molte e differenti configurazioni. La condizione umana è assai imperfetta, però Rita Levi Montalcini ha scritto il famoso e combattivo Elogio dell’imperfezione… Magari arriveremo a centodue anni come lei, elogiando l’imperfezione, ma amando la perfezione».

Una curiosità: la poesia su Wittgenstein?…

 «Io non sono una filosofa, anche se la mia poesia è stata definita “pensante”, e non capisco granché di logica. La lirica su Wittgenstein cerca di restituire metaforicamente l’elemento ascetico che c’è nei suoi scritti, la sua forma filosofica di “misticismo” implicito, che io avverto fortmente e che mi affascina. Avverto che il Tractatus, al di là della sua importanza “tecnica”, è molto bello, anche se lo capisco poco più di quanto capivo Dante a dieci anni, è bello per la sua ricerca di verità e di assoluto, al di la della credenza, della doxa».

Se non ricordo male lo ha composto prevalentemente sul fronte, durante la prima Guerra Mondiale.

 «Le cose fondamentali e importanti, spesso si scrivono in condizioni estreme, di pericolo, di precarietà assoluta. Anche Ungaretti ha scritto L’Allegria sul Carso».

E lei ha un autore preferito?

 «Sarebbero troppi da elencare, è una scelta impossibile: da Platone a Dante, ai mistici sufi da Shakespeare e gli elisabettiani a tutti i classici, fino ai grandi del Novecento Proust e Kafka, un po’ meno Musil e Joyce, Oscar Wilde e i modernisti, i simbolisti russi… Anche gli scrittori mitteleuropei, Kraus e in particolare Canetti, che è stato uno degli autori della mia autoformazione: Massa e Potere, l’Autobiografia e il suo straordinario romanzo Die Wendlung, il cui titolo in italiano è stato tradotto malamente con Autodafé. Canetti è uno scrittore nutriente, quando morì fui molto colpita dalla notizia, mi ricordo che mi trovavo a Londra, sono andata a sedermi in un giardino ed ho scritto una poesia in sua memoria, Per Elias».

Non esiste solo il contemporaneo, è vero…

 «Il concetto di contemporaneità è falso e contingente. Io Omero e Sofocle li sento molto contemporanei, contemporanei sono tutti i grandi, ma anche i meno grandi, tutti quelli che contribuiscono allo sviluppo della coscienza cosmica e personale. Il tempo è una dimensione interiore, come Agostino ci ha insegnato precedendo Einstein e il suo spazio curvo. Il nostro tempo umano è un atomo nel cosmo, quello degli animali un altro atomo, quello delle piante un altro ancora, per non parlare di quello dei sistemi stellari, e tutti insieme facciamo parte di un cosmo che è armonia e bellezza. Non dobbiamo sentirsi schiacciati dal presente storico: il “contemporaneo” passerà presto, come i secoli precedenti, come noi. Mitridate, re del Ponto, aveva un anello su cui era scritto “anche questo passerà”, è un aneddoto famoso. Certo nella nostra dimensione c’è il tempo specifico, e ci sono le occasioni, le scelte da fare , i dubbi… Però ce lo dice la voce interiore, il nostro daimon, qual è la nostra strada, la voce interiore magari incarnata in una persona. Non c’è da aver troppa paura, un po’ sì, ma ragionata. La vita stessa ci guida, la “madre vita” ci dà segnali, ci fa incontrare in un certo momento una certa persona, un messaggio, una situazione, un libro. I greci lo chiamavano il kairós. Ci vuole attenzione, bisogna essere ricettivi e contraccambiare, lavorando su se stessi, fino a diventare chi siamo e chi saremo».

E il cliché del poeta?

 «Genio e follia? È un cliché romantico, uno stereotipo, e per crescere bisogna sgombrare la mente dagli stereotipi. Certo il più famoso dei maudits, Baudelaire, ha vissuto in un certo contesto, il decadentismo francese, ed è un grande poeta che faceva uso di droghe, come del resto Coleridge, De Quincey, e poi nel Novecento Artaud o Trakl… Fra l’altro Baudelaire , come molti grandi, come Rilke, è un poeta intraducibile, l’ho già detto. Le traduzioni delle sue poesie sono tutte insoddisfacenti: è impossibile riprodurre il ritmo solenne e le forme chiuse de Le Fleurs du Mal. Qualche traduttore ha usato la prosa ritmica, o i versi sciolti, i più coraggiosi hanno tentato di rifare il suo sonetto, ma secondo me non con grande resa. Io ho rinunciato a priori, ed anche questa è una forma di omaggio».

Trasgredire?

 «Non c’è più nulla da trasgredire…nel senso che, come si è detto prima, nulla fa più scandalo; ormai si possono fare solo piccole variazioni sul tema per smania di protagonismo mediatico. La mia forma di trasgressione è sempre stata, per carattere, per destino, “lavorare zitti”, come diceva Giovanni Boine, uno scrittore legato al gruppo della “Riviera ligure”, morto tisico a trent’anni nel 1918, un critico di istinto e di stile formidabile, un modernista nostrano, come del resto molti dei cosiddetti “vociani”. Certo chi è estroverso, esibizionista ed è incline al protagonismo, non può lavorare zitto. Per me è naturale, caratteriale appunto. Ho insegnato per trentacinque anni, però ogni volta che salivo in cattedra dovevo fare una certa violenza a me stessa, e tuttora quando parlo in pubblico».

Che bello!

 «No, non tanto. Il lavoro da fare diventa doppio».
I musicisti dicono che se la paura del palco andasse via, non avrebbero più motivo di salirci

 «Il palco di un musicista o di un attore è un po’ diverso da una cattedra, o dal tavolo di un Convegno, però ti senti comunque osservato, pesato, sezionato. È una sfida continua, ma può diventare una prova di umiltà, un dono di sé. Io non sono incline alle apparizioni mediatiche e neppure alle conferenze, pur avendone fatte molte ed avendo ricevuto molti premi e riconoscimenti. Ogni volta che devo salire su un palco lo sforzo rimane, ma mi consola credere che la forza sia appunto una somma di debolezze ben usate, compattate e sublimate, come direbbe Freud. Molti attori ed artisti, com’è noto, sono dei timidi assoluti. Il narcisimo, la vanità, sono una grande debolezza, al di la dell’apparenza; rendono vulnerabili al ricatto, all’adulazione, alla prostituzione intellettuale, alle delusioni e alle manie di grandezza. Questo non significa che non si debba avere autostima: come sempre, in medio stat virtus».

 

 

[1]

[1] M. Del Serra, L’opera del vento. Poesie 1965 – 2005, Marsilio, Venezia 2006, p. 131.

 

 

 

 

MAURA DEL SERRA

È nata il 2 Giugno del 1948. Ha una figlia e due nipotini. Sostiene le cause per la difesa delle libertà della persona umana ed è attiva anche in iniziative ambientaliste e per la difesa degli animali. Ha pubblicato nove raccolte poetiche, l’antologia Corale. Ha dedicato volumi critici a Dino Campana, Giovanni Pascoli, Giuseppe Ungaretti, Clemente Rebora, Piero Jahier, Margherita Guidacci e saggi a numerosi poeti e scrittori italiani ed europei.
Ha curato alcune antologie, fra le quali: Kore. Iniziazioni femminili. Antologia di racconti contemporanei, Firenze, Le Lettere, 1997; Margherita Guidacci, Le poesie, Firenze, Le Lettere, 1999; Egle Marini. La parola scolpita, Pistoia; Artout, Maschietto e Musolino, 2001; Poesia e lavoro nella cultura occidentale, Roma, Edizione del Giano, 2007.
Ha pubblicato venti testi teatrali e fra gli autori da lei tradotti dal latino, tedesco, inglese, francese e spagnolo: Quinto Tullio Cicerone, William Shakespeare, George Herbert, Francis Thompson, Virginia Woolf, Katherine Mansfield, Dorothy Parker, Rabindranath Tagore, Marcel Proust, Simone Weil, Victoria Ocampo, Jorge Luis Borges.
Per la sua attività ha ricevuto numerosi riconoscimenti nazionali ed internazionali, fra i quali: il premio “Montale” per la poesia, il premio “Flaiano” per il teatro e il premio “Betocchi” per la traduzione.
Nell’anno 2000 le è stato assegnato il premio della Cultura della Presidenza del Consiglio dei ministri.

L'opera del vento

Tentativi di certezza

Maura Del Serra, Teatro

Il teatro di Maura Del Serra, qui riunito nella molteplice complessità del suo arco cronologico trentennale, abbraccia una pluralità di forme sceniche, ora corali ora dialogiche ora monologanti, che spaziano con incisiva e vivace profondità dall’“affresco” epocale alla fulminea microcellula drammatica e a forme singolari di teatro-danza sempre sorrette da un inventivo simbolismo di luci, colori, voci fuoriscena e suggestioni scenografiche. L’organon di questa scrittura – in versi e in prosa – fonde il nitore visionario con un senso vivace e concreto del phatos quotidiano, spesso nutrito da uno humour tipicamente affidato a personaggi “terrestri” fino al farsesco, secondo la tradizione della commedia antica. Il teatro decisamente anti-minimalista della Del Serra mostra infatti il suo grato debito creativo verso i classici della tradizione drammaturgica e poetico-letteraria europea, dai tragici e lirici greci al barocco inglese e ispanico, al decandentismo e alle avanguardie artistiche del Novecento.
I suoi personaggi, a vario titolo esemplari fino all’archetipo, sono scolpiti e dominati da una solitudine “eroica” non astratta bensì coerentemente testimoniale, tormentati e salvati dalla grandezza antistorica e metastorica del loro dono “eretico” che si oppone geneticamente alla forza oppressiva del potere nelle sue varie espressioni, da quelle canoniche politico-sociali a quelle suasive dell’intelletto, fino a quelle della “sapienza senza nome” della vita. Ed è perciò sempre agonico il rapporto fra la certezza di una verità ultima e inattingibile e l’illusione soggettiva, mediante l’utopia salvifica affidata all’ardore dei protagonisti. Motore e forma privilegiata di queste compresenze è l’eros generatore e multiforme, espresso in tutte le sue pulsioni, dall’amicizia alle polarità maschili e femminili, fino ad una complessa androginia psicologica e spirituale.
In questa straordinaria galleria evocativa di presenze, che spaziano dall’ellenismo alla contemporaneità al futuro, le voci interiori dell’autrice si incarnano di volta in volta, come la poesia ed ogni arte, per “sognare la verità del mondo”.

Maura Del Serra – Wikipedia
Pagine di Maura Del Serra
ANTOLOGIA POETICA
Maura Del Serra, aforismi
Parole in coincidenza 8: Maura Del Serra tradotta da Dominique Sorrente
Maura Del Serra e Cristina Campo
Maura Del Serra, “Tentativi di certezza. Poesie 1999-2009”
Silvio Ramat: L’opera del vento, di Maura del Serra

 

 

 

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Luca Grecchi – La natura politica della filosofia, tra verità e felicità

Costantin Brancusi, Musa; 1912, New York, Solomon R. Guggenheim Museum

 

L’uomo, sin dai suoi inizi, si è trovato di fronte al problema del dolore e della morte. Le culture antiche hanno cercato di risolvere questo problema facendo ricorso al mito e alla religione, ossia auspicando la presenza di divinità in grado di lenire la sofferenza, o addirittura di salvare l’uomo dalla morte. Intorno al V secolo a.C., in Grecia, venne però tentata una risposta differente, la filosofia, sul cui solco si innestarono le scienze.

Si sente spesso dire, citando Platone e Aristotele, ossia i pensatori con cui la filosofia ha preso forma compiuta, che essa nacque dalla meraviglia. Ciò farebbe pensare ai primi filosofi come a dei bambini, con dei grandi occhi sognanti aperti sulla natura (l’acqua, l’aria, il fuoco, ecc.). Occorre tuttavia tener presente che la parola greca che noi traduciamo con “meraviglia”, ossia thauma, significa anche “indignazione, sgomento, angoscia”. La filosofia nacque dunque, in larga parte, dallo sgomento derivante dal trovarsi immersi in una realtà – anche sociale – caratterizzata da cause non conosciute, ma che si comprendeva necessario indagare.

La filosofia nacque in quanto l’uomo, elaborando un sentimento generale di disagio, comprese che i rimedi a questo disagio proposti dal mito e dalla religione erano insufficienti, instabili, inadeguati. La filosofia si pose pertanto, come fine, il conoscere con verità – ossia in modo fondato, stabile, compiuto – ciò che stava all’origine del dolore. Solo, infatti, conoscendo con verità il senso e il valore della vita umana nell’intero, sarebbe stato possibile all’uomo sconfiggere l’angoscia derivante dalla propria sofferta condizione di finitudine.

La filosofia, dunque, partì dalla esperienza della non conoscenza e del dolore per condurre l’uomo nella condizione opposta, ossia nella condizione della conoscenza e della felicità. Per realizzare questo dovette però prima comprendere, con verità, le cause di ciò che accade: senza questa conoscenza nessun rimedio sarebbe stato efficace, nessuna felicità realizzabile.

All’origine del dolore la cultura greca, sin da Omero, indicò il carattere finito della esperienza umana, il nulla assoluto che attende l’uomo alla fine della propria vita. La conoscenza e l’accettazione della finitudine era in effetti, per gli antichi, il primo necessario passo da compiere per sopportare il dolore che da questa condizione deriva, il primo necessario passo sulla via della verità e della felicità: quest’ultima, infatti, richiede la realizzazione di una vita vera e buona.

La concezione della verità più propria della filosofia non è in effetti, contrariamente a quanto di solito si ritiene, una concezione meramente logico-fenomenologica, avente come fine solo la descrizione logicamente corretta di come le cose fenomenologicamente sono, bensì una concezione anche onto-assiologica, avente come fine principale la comprensione e la valutazione di come le cose devono essere – quelle che si possono modificare – per condurre gli uomini a una vita felice.

Questa compiuta concezione della verità era presente, in nuce, anche nelle opere di Platone e Aristotele. Nella Repubblica infatti, come noto, Platone non si limitò a descrivere la realtà politica e sociale che aveva di fronte, ma si pose come fine primario di delineare la città ideale, ossia le modalità sociali della vita vera e buona, il migliore vivere comunitario dell’uomo in conformità alla propria natura. Allo stesso modo Aristotele, in cui pure fu molto più presente la componente descrittiva, non rinunciò nella Politica a prescrivere normativamente i contenuti fondamentali della città ideale, i quali soli avrebbero permesso la realizzazione della verità e del bene.

La filosofia greca classica, dunque, possedette sia una concezione logico-fenomenologica della verità (per cui “verità” è soprattutto la descrizione delle cose per come realmente sono), sia una concezione onto-assiologica della verità (per cui “verità” è soprattutto la valutazione delle cose per come devono essere). La questione meriterebbe, ovviamente, più di un approfondimento. In questa sede posso solo sottolineare che le due concezioni della verità, in larghissima parte, si integrano e non confliggono; la seconda, per quanto più criticabile, non può essere omessa – come di solito si fa –, sia in quanto realmente presente nella filosofia greca classica, sia soprattutto in quanto fornisce importanti indicazioni su come la realtà dovrebbe essere per vivere felici.

Non è possibile, in questa sede, nemmeno delineare compiutamente in cosa consiste la felicità, sia per il pensiero greco che in generale (mi permetto di rinviare al mio Conoscenza della felicità, del 2005 e alle pagine di “Invito alla lettura” di questo mio testo in PDF). Qui posso solo ricordare che, per gli antichi Greci, essa consiste sostanzialmente nel vivere in base alla propria natura, e la natura umana, per Platone ed Aristotele, è costituita dal logos, ossia da quella ragione morale in potenza presente in ogni uomo, che deve essere attuata per realizzarsi.

La filosofia ricercò sin dall’inizio tutte le cause del dolore, ossia tutte le cause che conducono all’infelicità, ed esse non sono solo, come ricordato, di origine naturale, ma anche di origine sociale. Per questo la filosofia, sin dal suo inizio, nacque grande, ossia nacque politica, ovvero fu volta non solo a comprendere l’intero, ma anche a realizzare le migliori strutture della buona vita nell’intero. Il problema è che oggi, purtroppo, molto spesso lo si dimentica.

Luca Grecchi

L’immagine: Costantin Brancusi, Musa, 1912, New York, Solomon R. Guggenheim Museum.

Scarica il testo in PDF
Luca Grecchi, La natura politica della filosofia, tra verità e felicità

Conoscenza della felicità (2005), con introduzione di Mario Vegetti, è uno dei testi principali di Grecchi, in cui l’autore applica il proprio approccio classico umanistico alla società attuale, mostrando come essa si ponga in radicale opposizione alle possibilità di felicità. L’autore, seguendo la matrice onto-assiologica del pensiero greco, mostra che solo conoscendo che cosa è l’uomo risulta possibile conoscere cosa è la felicità. Scrive Vegetti, nel testo, che Grecchi è «pensatore a suo modo classico», per il suo «andar diritto verso il cuore dei problemi». Il libro è assunto come riferimento bibliografico, per il tema in oggetto, dalla Enciclopedia filosofica Bompiani.

Già pubblicato su “Sicilia Journal” del 18-12-2015.

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L’assoluto di Platone? Sostituito dal mercato e dalle sue leggi.

Luca Grecchi

Luca Grecchi (1972), direttore della rivista di filosofia Koinè e della collana di studi filosofici Il giogo presso la casa editrice Petite Plaisance di Pistoia, insegna Storia della Filosofia presso la Università degli Studi di Milano Bicocca. Da alcuni anni sta strutturando un sistema onto-assiologico definito “metafisica umanistica”, che vorrebbe costituire una sintesi della struttura sistematica della verità dell’essere. Esso rappresenta, nella sua opera, la base teoretica di riferimento sia per la fondazione di una progettualità sociale anticrematistica, sia per la interpretazione dei principali pensieri filosofici. Grecchi è soprattutto autore di una ampia interpretazione umanistica dell’antico pensiero greco, nonché di alcuni studi monografici su filosofi moderni e contemporanei, e di libri tematici su importanti argomenti (la metafisica, la felicità, il bene, la morte, l’Occidente). Collabora con la rivista on line Diogene Magazine e con il quotidiano on line Sicilia Journal. Ha pubblicato libri-dialogo con alcuni fra i maggiori filosofi italiani, quali Enrico Berti, Umberto Galimberti, Costanzo Preve, Carmelo Vigna.

Libri di Luca Grecchi

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L’anima umana come fondamento della verità (2002) è il primo libro di Grecchi, che pone, in maniera stilizzata, il sistema metafisico umanistico su cui sono poi strutturati i suoi libri successivi. La tesi centrale di questo libro è appunto che l’anima umana, intesa come la natura razionale e morale dell’uomo, è il fondamento onto-assiologico della verità dell’essere. Questo sistema metafisico costituisce la base per una analisi critica della attuale totalità sociale, e per una progettualità comunitaria finalizzata alla realizzazione di un modo di produzione sociale conforme alle esigenze della natura umana. (Invito alla lettura: Scarica alcune pagine del libro)

Karl Marx nel sentiero della verità (2003) costituisce una interpretazione metafisico-umanistica del pensiero di Marx, che viene analizzato nei suoi nodi essenziali, spesso in aperta critica con la secolare tradizione marxista. Nato originariamente come elaborazione degli studi di economia politica dell’autore compiuti negli anni novanta del Novecento, il testo assume carattere filosofico-politico. Marx è analizzato come il pensatore moderno che, rifacendosi implicitamente al pensiero greco, realizza la migliore critica al modo di produzione capitalistico, pur non elaborando – per carenza di fondazione filosofica – un adeguato discorso progettuale.

Verità e dialettica. La dialettica di Hegel e la teoria di Marx costituisce in un certo senso una integrazione del precedente Karl Marx nel sentiero della verità. Il testo effettua una sintesi originale, appunto, sia della dialettica di Hegel che della teoria di Marx. Pur riconoscendo l’influenza del pensiero di Hegel nelle opere del Marx maturo, Grecchi propone la tesi che il pensiero di Marx, strutturatosi nei suoi punti cardinali prima del suo studio attento ed approfondito della Scienza della Logica, sia nella sua essenza non dialettico. Una versione sintetica di questo libro è stata pubblicata sulla rivista Il Protagora nel 2007.

La verità umana nel pensiero religioso di Sergio Quinzio (2004) con introduzione di Franco Toscani, è una sintesi monografica sul pensiero del grande teologo scomparso nel 1996. Il testo presenta al proprio interno una analisi del pensiero ebraico e cristiano, unita ad una rilettura poetica ed umanistica del testo biblico. Il tema centrale è quello della morte, e della speranza nella resurrezione su cui Quinzio ripetutamente riflette, e che vede continuamente delusa. Al di là dei riferimenti religiosi, la riflessione del teologo si presta ad una profonda considerazione sulla fragilità della vita umana.

Nel pensiero filosofico di Emanuele Severino (2005) con introduzione di Alberto Giovanni Biuso, è una sintesi monografica sul pensiero del grande filosofo italiano. Il testo presenta al proprio interno una analisi critica del nucleo essenziale della ontologia di Severino e delle sue analisi storico-filosofiche e politiche. Esiste uno scambio di lettere fra Severino e Grecchi in cui il filosofo bresciano mostra la sua netta contrarietà alla interpretazione ricevuta. Il testo, tuttavia, è segnalato nella Enciclopedia filosofica Bompiani come uno dei libri di riferimento per la interpretazione del pensiero severiniano.

Il necessario fondamento umanistico della metafisica (2005) è un breve saggio in cui, prendendo come riferimento la metafisica classica (ed in particolare le posizioni di Carmelo Vigna), l’autore critica la centralità dell’approccio logico-fenomenologico rispetto al tema della verità, ritenendo necessario anche l’approccio onto-assiologico. Per Grecchi infatti la verità consiste non solo nella descrizione corretta di come la realtà è, ma anche di come essa – la parte che può modificarsi – deve essere per conformarsi alla natura umana. Si tratta del primo confronto esplicito fra la proposta di Grecchi della metafisica umanistica e la metafisica classica di matrice aristotelico-tomista.

Filosofia e biografia (2005) è un libro-dialogo composto con uno dei maggiori filosofi italiani, Umberto Galimberti. Nel testo si ripercorre il pensiero galimbertiano nei suoi contenuti essenziali, ma si pone in essere anche una serrata analisi di molti temi filosofici, politici e sociali, in cui spesso emerge una sostanziale differenza di posizioni fra i due autori. Di particolare interesse le pagine dedicate al pensiero simbolico, all’analisi della società, ed alla interpretazione dell’opera di Emanuele Severino. Percorre il testo la tesi per cui la genesi di un pensiero filosofico deve necessariamente essere indagata, per giungere alla piena comprensione dell’opera di un autore.

Il pensiero filosofico di Umberto Galimberti (2005), con introduzione di Carmelo Vigna, è un testo monografico completo sul pensiero di questo importante filosofo contemporaneo. Si tratta di un testo in cui Grecchi, sintetizzando la complessa opera di questo autore, prende al contempo posizione non solo nei confronti della medesima, ma anche di filosofi quali Nietzsche, Heidegger, Jaspers, che nel pensiero di Galimberti costituiscono riferimento imprescindibili. Vigna, nella sua introduzione, ha definito il libro «una ricostruzione seria ed attendibile del pensiero del filosofo» in esame.

Conoscenza della felicità (2005), con introduzione di Mario Vegetti, è uno dei testi principali di Grecchi, in cui l’autore applica il proprio approccio classico umanistico alla società attuale, mostrando come essa si ponga in radicale opposizione alle possibilità di felicità. L’autore, seguendo la matrice onto-assiologica del pensiero greco, mostra che solo conoscendo che cosa è l’uomo risulta possibile conoscere cosa è la felicità. Scrive Vegetti, nel testo, che Grecchi è «pensatore a suo modo classico», per il suo «andar diritto verso il cuore dei problemi». Il libro è assunto come riferimento bibliografico, per il tema in oggetto, dalla Enciclopedia filosofica Bompiani. .

Marx e gli antichi Greci (2006) è un libro-dialogo composto con uno dei maggiori filosofi italiani, Costanzo Preve. Nel testo viene effettuata una analisi non tanto filologica, quanto ermeneutica e teoretica dei rapporti del pensiero di Marx col pensiero greco. I due autori, concordando su molti punti, colmano così in parte una lacuna della pubblicistica su questo tema, che risulta essere stato nel tempo assai poco indagato. Di particolare interesse l’analisi effettuata dai due autori di quale potrebbe essere, sulla base insieme del pensiero dei Greci e di Marx, il miglior modo di produzione sociale alternativo rispetto a quello attuale. (Invito alla lettura: Scarica alcune pagine del libro)

Vivere o morire. Dialogo sul senso dell’esistenza fra Platone e Nietzsche (2006), con introduzione di Enrico Berti, è un saggio composto ponendo in ideale dialogo Platone e Nietzsche su importanti temi filosofici, politico e morali: l’amore, la morte, la metafisica, la vita ed altro ancora. Scrive Berti, nella sua introduzione, che, come accadeva nel genere letterario antico dell’invenzione, Grecchi non nasconde lo scopo “politico” della sua opera, la quale «risulta essere innanzitutto un documento significativo di amore per la filosofia e di vitalità di quest’ultima, in un momento in cui l’epoca della filosofia sembrava conclusa».  

Il filosofo e la politica. I consigli di Platone, e dei classici Greci, per la vita politica (2006) è una ricostruzione del pensiero filosofico-politico di Platone effettuata in un continuo confronto con le vicende della attualità. In questo libro Grecchi pone esplicitamente Platone, in maniera insieme divulgativa ed originale, come proprio pensatore di riferimento. Il filosofo ateniese infatti, a suo avviso, pur scrivendo molti secoli or sono, rimane tuttora colui che ha offerto le migliori analisi, e le migliori soluzioni, per pensare una migliore totalità sociale, ossia un ambiente comunitario adatto alla buona vita dell’uomo.

La filosofia politica di Eschilo. Il pensiero “filosofico-politico” del più grande tragediografo greco (2007) costituisce una interpretazione, in chiave appunto filosofico-politica, dell’opera di Eschilo. Lo scopo principale di questo libro è quello di “togliere” Eschilo dallo specialismo degli studi poetico-letterari, per inserirlo – come si dovrebbe fare per tutti i tragici greci – nell’ambito del pensiero filosofico-politico. Nel testo viene presa in carico l’analisi precedentemente svolta da Emanuele Severino ne Il giogo (1988), ritenendone validi molti aspetti ma giungendo, alla fine, a conclusioni opposte circa il presunto “nichilismo” di Eschilo.

Il presente della filosofia italiana (2007) è un libro in cui vengono analizzati testi di alcuni fra i più importanti filosofi italiani contemporanei pubblicati dopo il 2000. Gli autori analizzati vengono ripartiti in quattro categorie: 1) pensatori “ermeneutici-simbolici” (Sini, Vattimo, Cacciari, Natoli); 2) pensatori “scientifici-razionalisti” (Tarca, Antiseri, Giorello); 3) pensatori “marxisti-radicali” (Preve, Losurdo); 4) pensatori “metafisici-teologici” (Reale). Il testo è arricchito da due appendici e da una ampia postfazione di Costanzo Preve. In questi testi Grecchi oppone criticamente, ai vari approcci, il proprio discorso metafisico-umanistico.

Corrispondenze di metafisica umanistica (2007) è una raccolta di testi in cui sono contenuti scambi epistolari, nonché risposte di Grecchi ad introduzioni e recensioni di suoi libri. Il testo rispecchia la tendenza dell’autore a prendere sempre seriamente in carico le altrui posizioni; secondo Grecchi, infatti, di fronte a critiche intelligenti, sono solo due gli atteggiamenti filosofici possibili: o fornire argomentate risposte, o prendere atto della correttezza delle critiche e rivedere le proprie posizioni. Il tema caratterizzante il testo è dunque la “lotta amichevole” per la emersione della verità.

L’umanesimo della antica filosofia greca (2007) è un libro in cui Grecchi effettua, in sintesi, la propria interpretazione complessiva della Grecità. Partendo da Omero, e giungendo fino al pensiero ellenistico, l’autore mostra come non la natura, né il divino, né l’essere furono i temi principali del pensiero greco, bensì l’uomo, soprattutto nella sua dimensione politico-sociale. L’uomo infatti assume centralità, in vario modo, in tutti i vari filoni culturali della Grecità, dal pensiero omerico a quello presocratico, dal teatro fino all’ellenismo.

L’umanesimo di Platone (2007) è un testo monografico sul pensiero di Platone, da Grecchi in quegli anni ritenuto come il più rappresentativo della Grecità. Ponendo in essere una analisi complessiva delle diverse interpretazioni finora effettuate del pensiero platonico, Grecchi applica al medesimo il proprio paradigma ermeneutico metafisico-umanistico, cogliendo in Platone la centralità del ruolo filosofico-politico dell’uomo, ed insieme la centralità della posizione anti-crematistica, all’interno di una considerazione progettuale e della totalità sociale.

L’umanesimo di Aristotele (2008) è un testo monografico sul pensiero di Aristotele, che sarà poi da Grecchi ripreso negli anni successivi come struttura teoretica di riferimento. Ponendo in essere una analisi complessiva delle diverse tematiche del pensiero aristotelico, Grecchi applica al medesimo il proprio paradigma ermeneutico metafisico-umanistico, cogliendo in Aristotele – così come in Platone, ma in forma differente – la centralità del ruolo filosofico-politico dell’uomo, ed insieme la centralità della posizione anti-crematistica, all’interno di una considerazione progettuale della totalità sociale.

Chi fu il primo filosofo? E dunque: cos’è la filosofia? (2008), con introduzione di Giovanni Casertano, è un libro suddiviso in due parti. Nella prima parte, prendendo come riferimento alcuni fra i principali manuali di storia della filosofia italiani, Grecchi mostra come essi spesso non definiscano l’oggetto del loro studio, ossia la filosofia, dichiarandola talvolta addirittura indefinibile. L’autore, invece, offre in questo libro la propria definizione di filosofia come caratterizzata da due contenuti imprescindibili: a) la centralità dell’uomo; b) la ricerca, il più possibile fondata ed argomentata, della verità dell’intero. Nella seconda parte l’autore esamina dieci possibilità alternative su “chi fu il primo filosofo”, giungendo a concludere che, pur all’interno del contesto comunitario della riflessione greca, il candidato più accreditato risulta essere Socrate.

Socrate. Discorso su Le Nuvole di Aristofane (2008) è una ricostruzione di fantasia, pubblicata nella collana Autentici falsi d’autore dell’editore Guida, di un discorso che avrebbe potuto essere tenuto da Socrate ad Atene l’indomani della rappresentazione della famosa commedia di Aristofane. Si tratta, come è nello stile della collana, di una ricostruzione al contempo verosimile e spiritosa, in cui Grecchi coglie l’occasione per offrire la propria interpretazione, insieme umanistica ed anticrematistica, del pensiero socratico. Tale interpretazione risulta convergente con quelle offerte, nella medesima collana, da Mario Vegetti su Platone e da Enrico Berti su Aristotele.

Occidente: radici, essenza, futuro (2009), con introduzione di Diego Fusaro, è un testo in cui l’autore analizza il concetto di Occidente e le sue tradizioni culturali costitutive, sempre in base al proprio sistema metafisico-umanistico. Analizzando le radici greche, ebraiche, cristiane, romane e moderne, ma soprattutto l’attuale contesto storico-sociale, Grecchi coglie nella prevaricazione derivante dalla smodata ricerca crematistica l’essenza dell’Occidente, ed individua per lo stesso un futuro cupo. Il testo è arricchito dal dialogo con Fusaro, alla cui introduzione Grecchi risponde in una appendice finale.

Il filosofo e la vita. I consigli di Platone, e dei classici Greci, per la buona vita (2009), è una raccolta di brevi saggi in cui l’autore, prendendo spunto da alcuni passi del pensiero platonico, e più in generale del pensiero greco classico, affronta sinteticamente alcune tematiche centrali per la vita umana (l’amore, la famiglia, la filosofia, la storia, le leggi, la democrazia, l’educazione, l’università, la mafia, la libertà, ecc.), col consueto approccio attualizzante, ovvero facendo interagire – nel rispetto del contesto storico-sociale dell’epoca in cui tale pensiero nacque – il pensiero platonico col nostro tempo. Il libro è arricchito da un lungo saggio finale di Costanzo Preve, intitolato “Luca Grecchi interprete dei filosofi classici Greci” (con risposta), in cui il filosofo torinese sintetizza le posizioni dell’autore.

L’umanesimo della antica filosofia cinese (2009) costituisce il primo volume di una trilogia sull’umanesimo dell’antico pensiero orientale (l’unica nel nostro paese effettuata da un solo autore). Il libro parte dalla constatazione che l’Oriente risulta essere pressoché assente dalle principali storie della filosofia occidentali. Tuttavia, in base alla definizione di filosofia fornita dall’autore, l’antico pensiero cinese risulta possedere, nei contenuti e talvolta anche nei metodi, caratteristiche tali da non poter essere considerato pregiudizialmente assente dal quadro filosofico. Non si tratta, comunque, di un manuale di storia della filosofia cinese, ma di una interpretazione umanistica dei principali contenuti costitutivi dell’antico pensiero cinese.

L’umanesimo della antica filosofia indiana (2009) costituisce il secondo volume di una trilogia sull’umanesimo dell’antico pensiero orientale. Il libro parte dalla constatazione che l’Oriente risulta essere pressoché assente dalle principali storie della filosofia occidentali. Tuttavia, in base alla definizione di filosofia fornita dall’autore, l’antico pensiero indiano risulta possedere, nei contenuti e talvolta anche nei metodi, caratteristiche tali da non poter essere considerato pregiudizialmente assente dal quadro filosofico. Non si tratta, comunque, di un manuale di storia della filosofia indiana, ma di una interpretazione umanistica dei principali contenuti costitutivi dell’antico pensiero indiano.

L’umanesimo della antica filosofia islamica (2009) costituisce il terzo volume di una trilogia sull’umanesimo dell’antico pensiero orientale. Il libro parte dalla constatazione che l’Oriente risulta essere pressoché assente dalle principali storie della filosofia occidentali. Tuttavia, in base alla definizione di filosofia fornita dall’autore, l’antico pensiero islamico risulta possedere, nei contenuti e talvolta anche nei metodi, caratteristiche tali da non poter essere considerato pregiudizialmente assente dal quadro filosofico. Non si tratta, comunque, di un manuale di storia della filosofia islamica, ma di una interpretazione umanistica dei principali contenuti costitutivi dell’antico pensiero islamico.

A partire dai filosofi antichi (2010), con introduzione di Carmelo Vigna, è un libro-dialogo composto con uno dei maggiori filosofi italiani, Enrico Berti. In questo testo viene ripercorsa l’intera storia della filosofia, apportando interpretazioni originali non soltanto – anche se soprattutto – dei principali filosofi antichi, ma anche di quelli moderni e contemporanei. Non mancano inoltre considerazioni su temi di attualità, nonché su temi di interesse generale, quali l’educazione, la scuola e la politica. Scrive Vigna, nella introduzione, che «questo testo è tra le cose più interessanti che si possano leggere oggi nel panorama della filosofia italiana».

L’umanesimo di Plotino (2010) è un libro in cui l’autore colma una distanza temporale fra il periodo classico ed il periodo ellenistico della Roma imperiale. Il testo si divide in due parti. Nella prima, in ossequio alla tesi per cui ogni pensiero filosofico deve essere inserito all’interno del proprio contesto storico-sociale (anche in quanto è all’interno del medesimo che esso spesso “deduce” le proprie categorie), l’autore realizza una analisi del modo di produzione sociale greco e di quello romano, per tracciare alcune differenze importanti fra l’epoca classica e l’epoca ellenistica. Nella seconda parte, che è la più ampia, è invece analizzato, in base alle dieci tematiche ritenute centrali, il pensiero di Plotino.

Perché non possiamo non dirci Greci (2010) è un libro in cui l’autore sintetizza, in termini divulgativi, le proprie posizioni generali sui Greci. Il testo prende spunto dalla rilettura, in controluce, del classico di Benedetto Croce intitolato Perché non possiamo non dirci cristiani, per mostrare non solo come le radici greche siano almeno altrettanto importanti di quelle cristiane per la cultura europea, ma soprattutto che una loro ripresa sarebbe fortemente auspicabile. Il testo è completato da una ampia appendice inedita che costituisce una analisi critica del pensiero ellenistico (in rapporto a quello classico) incentrata sulle opere di Epicuro e di Luciano di Samosata.

La filosofia della storia nella Grecia classica (2010) è il testo ermeneutico forse più originale di Grecchi. Alla cultura greca si attribuisce infatti, solitamente, la nascita dei tronchi di pressoché tutte le discipline filosofiche e scientifiche tuttora studiate nella modernità (con varie ramificazioni). Tradizionalmente, tuttavia, la filosofia della storia è ritenuta essere disciplina moderna, senza precedenti antichi. Analizzando l’opera di storici, letterati e filosofi dell’epoca preclassica e classica, l’autore mostra invece le radici antiche anche di questo campo di studi, contribuendo ad un chiarimento teoretico della disciplina stessa.

Sulla verità e sul bene (2011), con introduzione di Enrico Berti e postfazione di Costanzo Preve, è un libro-dialogo con uno dei maggiori filosofi italiani, Carmelo Vigna. In questo testo viene ripercorsa l’intera storia della filosofia, insieme agli importanti temi teoretici ed etici che danno il titolo al volume. Scrive Berti, nella introduzione, che si tratta di «una serie di discussioni oltremodo interessanti tra due filosofi che sono divisi da due diverse, anzi opposte, concezioni della metafisica, ma sono accomunati dalla considerazione per la filosofia classica e soprattutto da un grande amore per la filosofia in sé stessa».

Gli stranieri nella Grecia classica (2011) è un libro in cui l’autore, prendendo distanza dalle interpretazioni tradizionali che caratterizzano gli antichi Greci come vicini alla xenofobia, mostra che, sin dall’epoca omerica, essi furono invece aperti all’ospitalità verso gli stranieri. Preceduto da una analisi anti-ideologica delle categorie di “razza”, “etnia”, “multiculturalismo” ed altre, Grecchi rimarca come sia stato centrale, nel pensiero greco classico, il concetto di “natura umana”, il quale possiede basi teoretiche salde ed una costante presenza nella riflessione greca, che l’autore appunto caratterizza come “umanistica”.

Diritto e proprietà nella Grecia classica (2011) è un libro in cui l’autore prende in carico i temi poco indagati del diritto e della proprietà nella antica Grecia. Si tratta di temi molto importanti per comprendere il contesto storico-sociale in cui nacque la cultura greca, e che pertanto non possono essere ignorati da chi studia la filosofia di questo periodo. Il testo sviluppa inoltre un confronto con il diritto romano – che si rivela assai meno comunitario di quello greco – e con il nostro tempo, per mostrare come la cultura greca possieda, anche sul piano giuridico, contenuti che sarebbero tuttora importanti da applicare.

L’umanesimo di Omero (2012) è un libro in cui l’autore effettua una analisi teoretica ed etica del pensiero omerico, inserendo l’antico poeta nel novero del pensiero filosofico, rompendo il tradizionale isolamento nel campo letterario che da secoli caratterizza questo autore. Grecchi insiste in particolare sul carattere di educazione filosofica dei poemi omerici, mostrando come essi abbozzino temi ontologici e soprattutto assiologici poi elaborati dalla intera riflessione classica. Il testo si distingue per il continuo aggancio dei miti omerici alla contemporaneità.

L’umanesimo politico dei “Presocratici” (2012) è un libro in cui l’autore, centralizzando il carattere politico-sociale del loro pensiero, prende distanza dalle interpretazioni tradizionali che caratterizzano questi pensatori come “naturalisti”, e che li separano sia dalla poesia e dal teatro precedenti, sia dalla filosofia e dalla scienza successive. L’autore, facendo riferimento agli studi di Mondolfo, Capizzi, Bontempelli e soprattutto Preve, mostra il nesso di continuità del pensiero presocratico con l’intero pensiero greco classico. Risultano centrali, in questa trattazione, le figure di Solone e Clistene, oltre a quelle più consuete di Eraclito, Parmenide e Pitagora.

Il presente della filosofia nel mondo (2012), con postfazione di Giacomo Pezzano, è un libro in cui vengono analizzati testi di alcuni fra i maggiori filosofi contemporanei non italiani (fra gli altri Bauman, Habermas, Hobsbawm, Latouche, Nussbaum, Onfray, Zizek). Nella introduzione si rileva, come caratteristica principale della filosofia del nostro tempo, la presenza in solidarietà antitetico-polare di una corrente scientifico-razionalistica ed, al contempo, di una corrente aurorale-simbolica. Esse occupano il centro della scena escludendo dal “campo di gioco” la filosofia onto-assiologica di matrice classica, presente oramai solo in un numero limitato di studiosi.

Il pensiero filosofico di Enrico Berti (2013), con presentazione di Carmelo Vigna e postfazione di Enrico Berti, è un testo monografico introduttivo sul pensiero di questo importante filosofo contemporaneo, uno dei maggiori studiosi mondiali del pensiero di Aristotele. Rapportandosi a tematiche quali l’interpretazione degli antichi, la storia della filosofia, l’educazione, l’etica, la politica, la metafisica, la religione, Grecchi non si limita a descrivere il pensiero dell’autore considerato ma, come è nel suo approccio, valuta; in maniera solitamente concorde, eppure talvolta anche critica, in particolare nella opposizione fra metafisica classica e metafisica umanistica.

Il necessario fondamento umanistico del “comunismo” (2013) è un libro scritto a quattro mani con Carmine Fiorillo, in cui gli autori mostrano come la diffusa critica (marxista e non) al modo di produzione capitalistico, priva di una fondata progettualità, risulti sterile ed inefficace. Assumendo come base principalmente il pensiero greco classico (ma anche le componenti umanistiche di altri orizzonti culturali), gli autori mostrano che solo mediante una solida fondazione filosofica è possibile favorire la progettualità di un ideale modo di produzione sociale in cui vivere, che gli autori appunto definiscono – ma differenziandosi fortemente dalla tradizione marxista – “comunismo”.

Perché, nelle aule universitarie di filosofia, non si fa (quasi) più filosofia (2013) è un pamphlet in cui si mostra che le attuali modalità accademiche di insegnamento della filosofia, incentrate sullo specialismo, non ripropongono più il modello greco classico della filosofia come ricerca fondata ed argomentata della verità onto-assiologica dell’intero, che Grecchi assume invece ancora come centrale. L’autore mostra come la causa principale di questa situazione sia attribuibile ai processi socio-culturali del modo di produzione capitalistico.

La musa metafisica. Lettere su filosofia e università (2013), con Giovanni Stelli, costituisce uno scambio epistolare nato dal commento di Stelli al pamphlet Perché, nelle aule universitarie di filosofia, non si fa (quasi) più filosofia. A partire da questo tema lo scambio ha assunto una rilevanza ed una ampiezza tale, estendendosi a contenuti storici, culturali e politici, da renderne di qualche utilità la pubblicazione. In esso Grecchi anticipa alcuni temi portanti del suo testo che sarà intitolato Metafisica umanistica. La struttura sistematica della verità dell’essere, cui sta lavorando dal 2003.

Discorsi di filosofia antica (2014) è un libro che raccoglie i testi del corso di lezioni sull’uomo nella cultura greca, da Omero all’ellenismo, tenuto dall’autore alla università degli studi di Milano Bicocca nel 2013. Esso accoglie inoltre i testi di alcune conferenze sul pensiero antico svolte dall’autore nel 2013 e 2014, ed in particolare, in appendice, un saggio inedito sulla alienazione nella antica Grecia. Quest’ultimo è un tema poco indagato in quanto mancano, alla mentalità filologica – poco teoretica – tipica del mondo accademico di oggi, i necessari riferimenti testuali (i Greci non avevano nemmeno la parola “alienazione”); questo saggio tuttavia può aprire un filone di ricerca su una tematica tuttora inesplorata.

Omero tra padre e figlia (2014) è un libro-dialogo con Benedetta Grecchi, figlia di 6 anni dell’autore, sulle vicende di Odisseo narrate appunto nella Odissea di Omero. Il testo costituisce – come recita il sottotitolo – una “piccola introduzione alla filosofia”, passando attraverso i contenuti educativi dell’opera omerica già delineati dall’autore nel libro L’umanesimo di Omero. Questo dialogo tra padre e figlia mostra come la filosofia possa passare anche ai bambini evitando, da un lato, di essere ridotta a “gioco logico”, e dal lato opposto di essere presentata come “chiacchiera inconcludente”.

Discorsi sul bene (2015) è un libro che raccoglie i testi del corso di lezioni sul Bene tenuto dall’autore alla università degli studi di Milano Bicocca nel 2014. In appendice sono aggiunte una intervista filosofica e due relazioni su temi etico-politici. Il testo si rivela importante in quanto, all’interno di un approccio aristotelico – in cui in sostanza il Bene è il fine verso cui ogni ente, per natura, tende –, Grecchi indica nel rispetto e nella cura dell’uomo (e del cosmo: gli elementi portanti del suo Umanesimo) i contenuti fondamentali del Bene.

Discorsi sulla morte (2015) è un libro che raccoglie i testi del corso di lezioni tenuto dall’autore alla università degli studi di Milano Bicocca nel 2015. L’autore, delineando le principali concezioni della morte presenti nella storia della filosofia, con particolare riferimento agli antichi Greci ed a Giacomo Leopardi, mostra come la rimozione di questo tema costituisca una delle principali concause di alcune psicopatologie del nostro tempo.

L’umanesimo della cultura medievale (2016) è un libro che raccoglie i contenuti umanistici del pensiero medievale. Rispetto alle interpretazioni tradizionali, ancora caratterizzate da una descrizione del Medioevo come età oscura, questo testo mostra il carattere umanistico in particolare della Scolastica aristotelica. Rispetto ai consueti autori di riferimento, ossia Agostino e Tommaso, particolare importanza è attribuita in questo volume a due autori del XIII secolo, Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia (solitamente poco considerati), nonché alle ripetute condanne ecclesiastico-accademiche dell’aristotelismo che ebbero il loro punto culminante nel 1277.

L’umanesimo della cultura rinascimentale (2016) è un libro che critica la tradizionale interpretazione umanistica del pensiero rinascimentale del XIV e XV secolo. Rispetto, infatti, alla vulgata comune, che ritiene centrale in questo periodo la riscoperta filologica ed ermeneutica dei testi di Platone e di altri autori antichi, Grecchi reputa centrale la filocrematistica, e dunque la rottura – operata da modalità sociali sempre più privatistiche e mercificate, cui la cultura dell’epoca si adeguò – del legame sociale comunitario proprio dell’epoca medievale. Il Rinascimento costituì dunque, a suo avviso, la prima apertura culturale verso la modernità capitalistica.

In preparazione:

Umanesimo ed antiumanesimo nella filosofia moderna (e contemporanea);

L’umanesimo greco-classico di Spinoza;

Il sistema filosofico di Aristotele;

Metafisica umanistica. La struttura sistematica della verità dell’essere.

 

 

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Paola Mastrocola – «La passione ribelle»: Il treno non si ferma? Ma siamo sicuri? E ribellarci? Chi studia è sempre un ribelle. Com’è che non viene mai in mente a nessuno? Se oggi qualcuno volesse ribellarsi al mondo com’è diventato, se decidesse così, di colpo, di non stare più al gioco, di scendere dal treno in corsa, studiare potrebbe essere la mossa vincente.

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«Chi studia è sempre un ribelle.
Uno che si mette da un’altra parte rispetto al mondo
e, a suo modo, ne contrasta la corsa.
Chi studia si ferma e sta: così, si rende eversivo e contrario.
Forse, dietro, c’è sempre una scontentezza:
di sé, o del mondo.
Ma non è mai una fuga.
È solo una ribellione silenziosa
e, oggi più che mai, invisibile.
A tutti i ribelli invisibili è dedicato questo libro.»

Dalla quarta di copertina

 

 

Oggi non si studia più.
È da predestinati alla sconfitta.
Lo studio evoca Leopardi che perde la giovinezza,
si rovina la salute e rimane solo come un cane.
È Pinocchio che vende i libri per andare a vedere le marionette.
È la scuola, l’adolescenza coi brufoli, la fatica, la noia, il dovere.
È un’ombra che oscura il mondo, è una crepa sul muro:
incrina e abbuia la nostra gaudente e affollata voglia di vivere nel presente.
Lo studio è sparito dalle nostre vite.
E con lui è sparito il piacere per le cose che si fanno
senza pensare a cosa servono.
La cosa più incredibile è che non importa a nessuno.

                                                     Dal risvolto di copertina

 

«Il treno non si ferma.
Ma siamo sicuri?
[…]
E ribellarci?
Com’è che non viene mai in mente a nessuno? Se davvero qualcosa di tutto questo non ci piace, perché non mostriamo reazioni? Siamo rospi che si lasciano tirar pietre e stanno immobili per strategia?
Lo studio potrebbe servirci…»

 [continua a leggere il breve estratto in PDF: Paola Mastrocola, La passione ribelle]

Paola Mastrocola, La passione ribelle

 

 Paola Mastrocola, La passione ribelle, Editori Laterza, 2015, pp. 119-121

 

La passione ribelle

 

Paola Mastrocola e il suo nuovo libro: “Non so niente di te …

Se lo studio diventa una “passione ribelle” – Repubblica.it

Scuola, Mastrocola: no alla dittatura dell’ignoranza – Avvenire

E se a scuola si studiasse? – Il Sole 24 ORE

 

Libri di Paola Mastrocola

Saggi di Paola Mastrocola

  • La forma vera. Petrarca e un’idea di poesia, Bari, Laterza, 1991.
  • La fucina di quale dio, Torino, Genesi, 1991.
  • Le frecce d’oro. Miti greci dell’amore, Torino, SEI, 1994.
  • L’altro sguardo. Antologia delle poetesse del Novecento, a cura di e con Guido Davico Bonino, Milano, A. Mondadori, 1996.
  • Nimica fortuna. Edipo e Antigone nella tragedia italiana del Cinquecento, Torino, Tirrenia Stampatori, 1996.
  • L’idea del tragico. Teorie della tragedia nel Cinquecento, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1998.
  • E se divento grande. Storia del giovane Agostino, Torino, SEI, 1999.

 

 

 

 

 

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Claude Lévi-Strauss (1908–2009) – La specie umana non può appropriarsi del nostro pianeta come se fosse una cosa e per comportarvisi senza pudore e senza discrezione.

«In questo secolo in cui l’uomo si accanisce nel distruggere innumerevoli forme di vita, dopo aver distrutto molte società la cui ricchezza e diversità costituivano da tempo immemorabile il suo più splendido patrimonio, è più che mai necessario dire, come fanno i miti, che un umanesimo ben orientato non comincia da se stessi, ma pone il mondo prima della vita, la vita prima dell’uomo e il rispetto degli altri esseri prima dell’amor proprio. Né va dimenticato che, essendo comunque destinato a terminare, nemmeno un soggiorno di uno o due milioni di anni su questa terra può servire da scusa a una qualsiasi specie, anche alla specie umana, per appropriarsi del nostro pianeta come se fosse una cosa e per comportarvisi senza pudore e senza discrezione».

 

Claude Lévi-Strauss, Le origini delle buone maniere a tavola, in particolare la parte III, “Il viaggio in piroga della luna e del sole», e la parte VII, “Le regole del saper vivere», Il Saggiatore, Milano 1999.

L’obiettivo dell’autore è mostrare come numerose indicazioni sociali e culturali derivate dai miti si possano ricondurre a un nucleo esiguo di principi strutturali, che riducono le distanze tra le società umane mostrandone le radici comuni. Così, confrontando credenze e comportamenti propri della nostra cultura con altri provenienti da culture lontane nello spazio e nel tempo, è possibile cogliere il loro carattere significativo: quando si riferiscono al modo di stare a tavola, all’educazione delle ragazze o alla cottura dei cibi, i miti e le usanze dicono in realtà molto di più; per quanto appaiano casuali, sono il mezzo attraverso cui si esprimono le strutture mentali di un intero popolo.

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Costanzo Preve – Le avventure della coscienza storica occidentale. Note di ricostruzione alternativa della storia della filosofia e della filosofia della storia.

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1. Introduzione. Storicità e coscienza della storicità della filosofia occidentale.

2. Il pensiero greco classico. L’incorporazione della coscienza storica nel modello normativo della natura ricostruita idealmente come canone di riferimento della vita della comunità sociale umana.

3. La civiltà cristiana medioevale. L’assorbimento della coscienza storica nella sacralizzazione simbolica, piramidale e gerarchica, del mondo sociale umano.

4. L’età moderna borghese-capitalistica occidentale. Lo sviluppo della coscienza storica come costituzione ontologica ed assiologica dello sviluppo universale e veritativo del genere umano.

5. Il postmoderno come globalizzazione dell’occidentalismo senza coscienza infelice. L’annullamento della coscienza storica in una metafisica del presente integralmente de storicizzata e frantumata.

 

 

 

 

 

 

1. Introduzione. Storicità e coscienza della storicità della filosofia occidentale.

Sul fatto che l’uomo sia un ente storico non vi sono dubbi, almeno in superficie. Tutto ha una storia, ovviamente, anche i sistemi solari, i minerali, i vegetali e gli animali, ma la coscienza della storicità sembra appartenere soltanto al genere umano, almeno su questa terra. E tuttavia, il fatto di essere indubbiamente un ente storico, ed il fatto di avere coscienza della propria storicità non coincidono. Questa non-coincidenza dovrebbe essere messa al centro dell’attenzione filosofica, eppure questo non avviene. E tuttavia, uno dei modi (non l’unico, ovviamente) di ricostruire razionalmente l’intera storia dell’umanità (pensata unitariamente, e quindi “idealmente”, in un solo concetto trascendentale-riflessivo), è proprio quello di ricostruirla (sia pure sommariamente e con un grado inevitabile di semplificazione) sulla base della coscienza della storicità.
Questa coscienza della storicità non è affatto un dato, ma è un risultato che può anche essere perso o dimenticato. Facciamo solo due esempi sommari. I cosiddetti “primitivi” non avevano probabilmente un’adeguata coscienza della storicità, che pure caratterizzava
ontologicamente le loro comunità sociali, in quanto vivevano direttamente questa storicità nella forma della omogeneità ontologica (e quindi anche gnoseologica-conoscitiva) … [continua a leggere]

 

 

Leggi l’intero saggio di costanzo Preve in formato PDF.

Costanzo Preve, Le avventure della coscienza storica occidentale. Note di ricostruzione alternativa della storia della filosofia e della filosofia della storia [pubblicato su Koinè, Periodico culturale – Anno XVIII – Gennaio-Giugno 2011 – Direttore responsabile: Carmine Fiorillo – Direttori: Luca Grecchi, Diego Fusaro], pp. 43.

 

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Mario Vegetti – La filosofia e la città: processi e assoluzioni .

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Ci sono stati, nel IV secolo, due processi contro la filosofia, che hanno avuto un ruolo in qualche modo epocale. Il primo, a tutti noto, è stato quello conclusosi nel 399 con la condanna di Socrate. A dire il vero, gli Ateniesi che processavano Socrate non sapevano di processare con lui la filosofia, bensì pensavano di avere a che fare con un nemico della città democratica. È stato Platone a vedere nel processo l’atto decisivo del conflitto fra la città e la filosofia – il segno di una malattia della politica che richiedeva un rovesciamento della situazione, la costruzione di una città capace di “prendersi cura della filosofia”, l’unico modo possibile per salvare se stessa insieme con quella che aveva creduto la sua rivale (Hegel, come è noto, avrebbe visto nel processo lo scontro destinale fra il principio dello stato e quello della libera individualità, destinato a ricomporsi storicamente solo nello stato

moderno).
Nel secondo processo, invece, la filosofia era esplicitamente imputata. Si tratta di quello, meno noto ma per noi non meno importante, originato nel 307 da un decreto proposto da un politico democratico di nome Sofocle, che chiedeva la messa al bando delle scuole
filosofiche da Atene, e il divieto sotto pena di morte di insegnarvi filosofia senza un esplicito permesso del popolo. Per un anno, Sofocle ottenne in effetti la messa al bando dei filosofi da Atene; l’anno seguente, fu a sua volta accusato da Filone di proposta illegale, graphe para nomon. Sofocle fu difeso da Democare, ma perse il processo, fu condannato e la filosofia questa volta assolta (la vicenda è narrata in Diogene Laerzio V 38 e in Ateneo XI 508f sgg.).
A noi interessano tanto l’atto d’accusa quanto le ragioni dell’ assoluzione … [continua a leggere]
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Mario Vegetti, La filosofia e la città: processi e assoluzioni [pubblicato su Koinè, Periodico culturale – Anno XVI – Gennaio-Giugno 2009 – Direttore responsabile: Carmine Fiorillo – Direttori: Luca Grecchi, Diego Fusaro], pp. 7.

 

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Walter Benjamin (1892-1940) – «Esperienza» . Il giovane farà esperienza dello spirito e quanto più dovrà faticare per raggiungere qualcosa di grande, tanto più incontrerà lo spirito lungo il suo cammino e in tutti gli uomini. Quel giovane da uomo sarà indulgente. Il filisteo è intollerante.

Walter Benjamin,1928
G. Klimt, Giardino fiorito
G. Klimt, Giardino fiorito.
La nostra lotta per divenire responsabili la combattiamo contro un essere mascherato. La maschera dell’adulto si chiama «esperienza». È inespressiva, impenetrabile, sempre la stessa. Quest’adulto ha già vissuto tutto: gioventù, ideali, speranze, la donna. Tutte illusioni. Ne siamo spesso intimiditi e amareggiati. Forse ha ragione. Che dobbiamo rispondergli? Non abbiamo esperienza.
Ma cerchiamo di sollevare la maschera.
Quale esperienza ha fatto questo adulto?
Cosa ci vuol dimostrare? Una cosa soprattutto: è stato giovane anche lui, ha voluto anche lui quello che vorremmo noi, anche lui non ha creduto ai genitori, ma anche a lui la vita ha insegnato che avevano ragione loro. Ridacchiando con sufficienza ci dice che succederà lo stesso anche a noi; svaluta in anticipo gli anni che viviamo, trasformandoli in anni di cretinate giovanili, in ebbrezza infantile che prelude alla lunga sobrietà della vita seria.
Così i benpensanti, gli illuminati. Conosciamo altri pedagoghi, la cui amarezza non ci concede neppure questi brevi anni di «gioventù»; severi e spietati, vogliono fin d’ora metterci di fronte alla fatica di vivere. Gli uni come gli altri svalutano e distruggono i nostri anni. E sempre più siamo sopraffatti da una sensazione: la tua gioventù è solo una breve notte (riempila di ebbrezza!), dopo verrà la grande «esperienza», gli anni dei compromessi, della povertà d’idee, e dell’apatia. Questa è la vita. Questo ci dicono gli adulti, questa è la loro esperienza.
Già! Questa è la loro esperienza, sempre questa, mai un’altra: l’insensatezza della vita.
La brutalità.
Ci hanno mai incoraggiato verso cose grandi, nuove, future?
Oh no! Questo non fa parte dell’esperienza… [continua a leggere]

 

Walter Benjamin, Esperienza [pubblicato sul n. 6 di “Der Anfang”, 1913], pp. 5.

 

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