Fabio Pecoraro – Salvatore Satta nei suoi «Soliloqui e colloqui di un giurista». Riconoscere che la scienza nasce dalla vita e non la vita dalla scienza

Salvatore Satta 01

Salvatore Satta

Carissimo Carmine,

raccolgo il tuo invito a dare un piccolo contributo al blog Petite Plaisance. Ci siamo conosciuti in occasione del mio lavoro, più volte abbiamo parlato di giustizia e di diritto ed è per questo, ma non solo per questo, che rivolgo ai  lettori, un invito alla lettura certamente ardito, per il tecnicismo di alcuni contenuti, ma di grande spessore umano. Si tratta, peraltro, di una lettura quasi impossibile anche dal punto di vista del reperimento del volume ed è per questo che trascriverò alcuni passaggi che ho particolarmente apprezzato, procurando, se non altro, beneficio a coloro i quali avrebbero, comunque, saltato i passaggi più strettamente giuridici. Il libro è una raccolta di scritti di Salvatore Satta, edita da Ilisso nel 2004, intitolato Soliloqui e colloqui di un giurista. E giurista è stato, Satta, tra i più grandi del secolo scorso, allievo di grandi maestri e a sua volta maestro di molti studiosi. Come giurista, si è occupato, prevalentemente, di diritto processuale civile, ma come un altro grande suo contemporaneo, Piero Calamandrei, egli è stato anche un “letterato”, capace di una accuratezza di linguaggio che, più che esser figlia di un certo modo di studiare o di abitudini di lettura ormai quasi scomparse, sembra, più radicalmente, figlia di un modo di vivere e di un mondo che, rassegnamoci, non c’è più.

Salvatore Satta

Salvatore Satta

Di Satta ho sentito parlare, per la prima volta, nel 2001, dal Prof. Ferdinando Mazzarella, allora titolare della cattedra di diritto processuale civile presso l’Università degli studi di Palermo. Mazzarella, quell’anno, avviò il ciclo di lezioni con un suggerimento letterario ed esso riguardava il piccolo volumetto di Satta, edito da Adelphi, Il mistero del processo. «Potete studiare la materia su qualsiasi libro – ci disse – perché questa materia si studia sul codice, ma questo libro, se potete, leggetelo». Lo comprai e confesso che, sulle prime, non fu una lettura facile. Dopo alcuni anni, dopo la laurea, quando il processo mi era diventato più familiare, per quotidiana frequentazione delle aule di giustizia, sentii il desiderio di ritornare a quel suggerimento. A quel punto, la lettura mi rivelò, non solo e non tanto un contenuto che, la prima volta, non avevo colto, ma la grandezza stessa dell’autore; decisi, così, di procurarmi altre opere. Comprai La veranda (Ilisso 2002), De Profundis (Ilisso 2003, riedizione di una precedente uscita CEDAM del 1948) e con l’aiuto di un amico libraio, riuscii a procurarmi anche Soliloqui e colloqui di un giurista. La veranda è un romanzo di grande intensità, tratto da una esperienza personale dell’autore di soggiorno in un sanatorio. Descrivendolo farei un torto all’opera, ma voglio accennare ad una particolarità di questo libro, perché esso risale al 1927, epoca in cui il giovane Satta non era ancora il grande studioso che poi sarebbe divenuto e coltivava, forse, ambizioni di scrittore come, probabilmente, molti di noi a quell’età. De profundis è un libro scomodo, tutt’altro che allineato, che tratta dell’ultimo quarto di secolo della nostra storia patria, rivelando la grande capacità dell’autore di guardare la realtà nel suo concreto estrinsecarsi, fuggendo al fascino ed alla convenienza che certi inquadramenti formali, certe entificazioni, esercitano.

Soliloqui e colloqui di un giurista

Da frequentatore del diritto, però, la lettura più formativa è stata proprio quella dei diversi “pezzi” da cui è composto Soliloqui e colloqui di un giurista. La selezione di articoli comparsi su riviste specializzate, di prolusioni, discorsi commemorativi ed altro ancora, è stata fatta dallo stesso Satta che, in questo modo, mette il lettore nelle condizioni di cogliere, leggendo tra le righe di specifici soliloqui o colloqui, il senso stesso della sua natura «intranquilla» di studioso e prima ancora di uomo.
Trattandosi di una raccolta di scritti eterogenei, è necessario che il mio invito alla lettura manifesti subito la ratio della selezione che ho operato, scegliendo quelli in cui minore è il peso del linguaggio tecnico giuridico, anche se i Tuoi più attenti lettori non potranno non apprezzare, in Satta, una spiccata capacità a parlare delle cose della vita affrontando argomenti tecnici dimostrando, così, vere doti di docente, oltre che di studioso.
Il libro si compone di sei parti (Soliloqui, Il libro delle prefazioni, Confessioni e battaglie, Saggi critici, Colloqui, Res gestae) e di una Appendice sullo Spirito religioso dei Sardi. Il passo che segue, è tratto dai Soliloqui e tratta del «formalismo nel processo».
Spesso, il linguaggio, lo stile di scrittura e l’esistenza stessa (nella vita quotidiana extra lavorativa) di chi pratica il diritto nei tribunali è permeato, in modo più o meno voluto e ricercato, da un certo formalismo che inevitabilmente allontana “gli altri”. Il cittadino che “incappa” in questioni giuridiche che abbisognano di esser discusse nelle aule dei tribunali, incontra una realtà spesso incomprensibile fatta di particolari di assoluto rilievo ed evidenze irrilevanti. L’occasione, per Satta, è il quarto Convegno dell’Associazione Italiana fra gli studiosi del processo civile, tenutosi il 4 ottobre del 1958

«Il formalismo comincia dove il diritto finisce. Esso rappresenta veramente una frattura dell’esperienza giuridica: al posto dell’esperienza e del suo libero movimento si pone una falsa esperienza, cioè l’immobile vuoto, che si tratta come cosa salda, modellandolo in forme che essendo forme del vuoto, hanno il pregio di essere infinite» (p. 72).

L’attaccamento al concreto che, da giurista, Satta manifesta in queste parole rappresenta un motivo conduttore, forse, della sua intera opera. Basta leggere il suo De profundis per cogliere la sua propensione al racconto ed alla analisi di una verità fatta di cose reali, anche a costo di omettere passaggi che, per molti, sono invece di essenziale importanza. Il formalismo di cui Satta parla «è unico e unitario, come l’esperienza della quale è in certo modo la scimmia», ma l’attenzione dell’autore è posta a ciò di cui il giurista “vive”.

«Nel suo profondo lavoro di astrazione il giurista elabora dei concetti, vale a dire, comprende, secondo l’etimologia della parola, la realtà, ne scopre e ne fissa l’essere, cioè la forma essenziale, l’ordine per cui essa è giuridica. Nulla è più legittimo di questa elaborazione, che costituisce il proprium della scienza giuridica, e la rende eccellente su tutte le altre, perché i concetti che essa elabora hanno un effettivo valore, sono la stessa realtà. Il grave pericolo di questa elaborazione, comune a tutto il pensiero speculativo, ma particolarmente sensibile per il giurista, è che a un certo punto le posizioni si capovolgano, come in quel singolare esperimento della topologia per cui dalla superficie dritta si passa invisibilmente alla superficie rovesciata, cioè si aboliscono le due superfici: e così i concetti acquistino una tale assolutezza da diventare generatori della realtà, in luogo di essere generati, un arcano immobile mondo al quale il concreto mutevole mondo dell’esperienza deve adeguarsi. È una sorta di teologismo o di donchisciottismo giuridico, una posizione diametralmente opposta a quella dell’empirismo, e di questa non meno pericolosa per la conoscenza. Nessuno dubita, ad es., della verità del concetto di ordinamento giuridico, e della sua adeguatezza a rappresentare la realtà stessa, in quanto appunto si presenta ordinata. Ma questo stesso concetto acquista a un certo punto tanta forza di suggestione che si stacca dalla realtà ordinata, della quale si presenta come ordinatrice, un Ordinamento con la o maiuscola, una personificazione o deificazione, del quale si dice che si attua, che si concreta, che si viola, che ha i suoi ministri, e al quale gli uomini sono soggetti ed estranei» (p. 76).

In questo passaggio, che prosegue con un altro esempio (che ometto per brevità), Satta sembra esprimere quello scollamento dalla realtà che, il più delle volte, rende il diritto qualcosa di estraneo ai membri della societas, di cui pure è espressione tra le più alte.

«Non vi è bisogno – prosegue l’Autore – di illustrare i guai che questa deformazione produce: e sarebbero guai sopportabili se restassero sul piano della conoscenza teorica. Alla fin fine, il mondo uno se lo concepisce come vuole. Ma purtroppo nel diritto la conoscenza è esperienza; e non esiste dualismo tra teoria e pratica».

Le conclusioni cui Satta giunge in questa sua riflessione, sono in linea con il suo sentire, tenacemente attaccato alla concretezza delle cose, in una prospettiva profondamente “umanistica”:

«[…] non esiste una ricetta, non esiste una formula che, operando dall’esterno, elimini il formalismo. Non leggi, non ordinamenti, non costituzioni, non soprattutto riforme imposte dall’alto, nulla vale a distruggere questo singolare atteggiamento dello spirito umano: anzi, come ho detto, la storia ci insegna che ogni tentativo fatalmente conduce ad esasperarlo. Per raggiungere qualche risultato bisogna operare dall’interno, cioè da noi stessi, compiere quel profondo atto di umiltà di fronte alla vita che è stato espresso per i medici, ma che vale per tutti: cura te ipsum. Riconoscere che la scienza nasce dalla vita e non la vita dalla scienza; ammettere che tutte le nostre costruzioni, i nostri sistemi sono relativi; o se si vuole, che il concreto, cioè la vita nel suo continuo mutamento, richiede un’adesione spirituale che trascende i limiti della scienza» (p. 82).

Il costante richiamo al “concreto”, secondo me, è uno dei più grandi insegnamenti che Satta lascia agli studiosi del diritto e credo che il nostro Paese – attraversato da continui, ma sempre deboli e poco ispirati, venti di riforme, promosse da una classe politica incapace di correggersi, per la quale la “riforma” è pura velleità – il nostro Paese, dicevo, sarebbe un posto più semplice in cui vivere, se i costruttori di leggi realizzassero quale è il compito del giurista:

«Ogni giorno di più acquistavo coscienza di quello che era il mio compito, e il compito di ogni giurista: non costruire, ma vedere, ma leggere con semplicità nei fenomeni, e descriverli nella loro genesi e nella loro funzione. La costruzione non è opera del giurista, sia esso legislatore o interprete, che non è e non deve essere creatore. Sotto questo angolo visuale, tutto acquistava concretezza e chiarezza, perché concreta e chiara è la realtà dei rapporti sociali» (p. 137).

Il passo è tratto dalla prefazione al volume Esecuzione forzata del 1937. Sono parole che, se poste idealmente al cospetto delle ardite costruzioni, proceduralizzazioni, astrazioni di cui il nostro ordinamento è saturo (e che lo rendono altamente inefficace sia sotto il profilo della disciplina dei rapporti tra privati, che sotto quello delle norme che regolano il funzionamento della pubblica amministrazione), fanno emergere la violenta “presunzione” di molti operatori del diritto.

Voglio avviarmi a concludere questo mio piccolo scritto, su un autore che meriterebbe migliore e maggiore attenzione di quella che le mie risorse e la pazienza di chi vorrà leggere permettono, virando il discorso su un profilo più strettamente “umano” che traspare nell’opera di Satta continuamente, ma che egli, di tanto in tanto, permette a se stesso, indugiando in ricordi, malinconie e – perché no – qualche sana arrabbiatura. A tal proposito, la prefazione del volume sull’Esecuzione forzata, del 1937, chiude con una dedica al fratello Filippo, preferito, per questo scopo, al padre morto da anni, proprio perché vivo ed in grado di apprezzare la dedica di un libro giuridico che, come egli stesso afferma non può e non deve appartenere alla vita interiore di chi lo scrive (p. 138). Alla voce malinconie, colloco il riferimento, carico di suggestioni, a Francesco Carnelutti, grande antagonista scientifico di Satta, da questi definito «grande uomo». La presentazione della settima edizione del Manuale di diritto processuale del 1967 così recita:

Francesco CarneluttiFrancesco Carnelutti

Piero CalamandreiPiero Calamandrei

Giuseppe CapograssiGiuseppe Capograssi

«Nel 1948 mi lanciavo con questo libro verso gli anni a venire; oggi mi par di procedere come gli indovini di Dante, col capo voltato sul dorso. Gli ultimi grandi esponenti della scienza postchiovendiana, Calamandrei, Redenti, Carnelutti, se ne sono andati, se ne è andato Capograssi, se ne è andato Ascarelli, precursori di una scienza nuova. (Io sono rimasto. Ma non ne sono tanto sicuro. Forse sono ibernato.) C’era, in quegli anni, un’atmosfera da grandi colloqui, e nei colloqui si rifletteva una terra sconvolta dalle più dure esperienze, la paura di queste esperienze, il coraggio di volerle comprendere, anche a costo di ricominciare da capo. Dove sono le male parole che Carnelutti scagliava contro ogni mio libro, a cominciare da questo: dove le mie irriverenti risposte? Non ho mai capito il principio del contraddittorio come da quando il grande uomo non c’è più» (p. 151).

Quando leggo queste parole, il confronto con il livello attuale dello scontro tra portatori di pensieri differenti è impietoso. L’atmosfera di «grandi colloqui» a cui Satta fa riferimento è certamente, almeno nell’immediato, circoscritta all’ambito del diritto, così come erano certamente circoscritte ad esso le «male parole» che egli riceveva, ricambiando con «irriverenti risposte», da Carnelutti, ma quanta differenza, quanta distanza tra quei colloqui e quelli a cui oggi siamo abituati!

Sul finale della stessa presentazione, Satta rivolge al lettore altre parole di grande suggestione:

«Bisogna che il pensiero rinasca, e imponga la sua legge. E questo non può avvenire in un giorno o in un anno, o forse in cento anni, né può essere opera collettiva, poiché i tempi della follia collettiva sono passati, e la speranza è ormai riposta nella follia individuale. Bisogna che ognuno, nel suo piccolo, riconosca per sé e per gli altri l’esigenza del pensiero nihil inde sperans. O meglio, avendo come sola remunerazione la speranza» (p. 154).

Se avesse voluto dirlo in inglese, forse, avrebbe scritto “stay foolish”, come qualcun altro, molti anni dopo, avrebbe detto.

Nella presentazione al primo volume del Commentario al codice di procedura civile, anno 1959, Satta spiega «come ha studiato» e lo fa con queste parole:

«Di solito, lo studio evoca l’idea di una biblioteca, e di un signore che legge e legge col proposito e col risultato di aggiungere, negli scaffali e nel catalogo, un altro volume. Ci possono essere, nelle scienze così dette sperimentali, alambicchi e storte, ma la cosa non muta gran che. Dico subito, a scanso di equivoci, che questo studio è non solo legittimo, ma assolutamente essenziale. Nessuno può pensare di avere una voce viva se non ha ascoltato le grandi voci morte, se non ha vissuto in comunione coi padri, se non ha ripercorso le loro vie, oserei affermare se non ha creduto più che nelle loro verità, nei loro errori. Al di fuori di questo, tutto è sterile dilettantismo. Personalmente aggiungo, ho trascorso coi libri gli anni più belli della mia vita, e se di una cosa mi dolgo è di non aver potuto, per pochezza di forze e per private vicende, abbracciare tutto il pensiero di quelli che mi hanno preceduto» (p. 155).

Nella prefazione al secondo volume del medesimo Commentario, pubblicato un anno dopo, l’Autore sembra voler precisare:

«Ma se noi possiamo capire il linguaggio dei padri, non possiamo, non dobbiamo più parlarlo. Insistendo a farlo, ci riduciamo, nel migliore dei casi, a puristi del diritto, usiamo veramente parole che sono un mero suono, concetti che non hanno più alcun contenuto, non ‘comprendono’ più nulla» (p. 162).

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Chiudo con alcuni passi tratti da una polemica che coinvolse Satta, nel 1967. Mazzarella aveva pubblicato un libro dal titolo “Contributo allo studio del titolo esecutivo” e la Rivista di diritto processuale, già diretta da Carnelutti, lo recensisce in un modo che provoca in Satta una vivace, nostalgica, reazione:

«Quando osservo la nuova copertina della Rivista di diritto processuale, e al posto di Carnelutti e della sua imponente solitudine vedo una sfilza di nomi, allineati in bell’ordine come consiglieri di amministrazione, mi vien fatto di pensare a quel mitico drago, cui, dopo la morte, furono strappati i denti, e dai denti seminati vennero fuori tanti soldatini, che si misero a costruire le mura di una città. Il mito, se non erro, è quello di Cadmo, la regione dove il mito nacque fu chiamata Beozia, e fu la patria di Esiodo e Pindaro.
È stata davvero un’idea curiosa quella di credere che la sede vacante potesse essere riempita da un governo di massa, come a dire che la quantità potesse sopperire alla qualità. E pazienza se gli uomini di quantità si fossero assunti il compito devoto quanto assurdo di mantenere nel tempo un’opera che col suo creatore usciva fuori dal tempo: ma essi si sono presi sul serio, hanno creduto di essere, per il solo fatto della
inscriptio, figli del drago, draghi essi stessi, nove draghi al posto di uno. È di ieri una recensione di V.D. (trasparente sigla di uno dei dragonetti) a un libro di Massa che comincia così: ‘Il Massa appartiene alla schiera (per fortuna non troppo numerosa) di coloro che credono che il pensiero di Capograssi non solo esprima una personale e irripetibile esperienza, ma possa anche fornire un metodo valido per gli studi giuridici in genere e per quelli processualistici in particolare’. Avete capito? V.D. e Capograssi, quel Capograssi davanti al quale Carnelutti si faceva, e si diceva piccolo piccolo, il cui metodo è tanto poco valido (meglio si direbbe tanto poco metodo) che ricreò Carnelutti, e ricreò la sua stessa rivista, come può agevolmente vedersi scorrendo le annate dalla fine della guerra fino all’avvento di V.D.
È di oggi un’altra recensione, stavolta del dragonetto E.G., che mi ispira queste note. Ma prima voglio sottolineare che i successori a titolo originario di Carnelutti hanno avuto l’imprudenza di conservare la famosa rubrica delle recensioni, dalla quale il drago ha dominato a suo modo per quarant’anni giusti la scena della vita giuridica italiana. Non hanno inteso che questa sì era una esperienza irripetibile, perché Carnelutti capiva i libri senza leggerli, mentre essi li leggono senza capirli. Questo è appunto il torto che io faccio a E.G.: di aver letto il libro di Mazzarella,
Contributo allo studio del titolo esecutivo» (p. 268).

Poco più avanti, prima di addentrarsi nel merito, l’affondo:

«È chiaro che io non intendo qui fare una controrecensione: ci penserà M., se crederà, a difendersi nella stessa rivista, come ne ha anche giuridicamente diritto. A me interessa parlare del libro unicamente perché E.G., dopo averlo bistrattato, mi ha tirato imprudentemente in causa, rendendomi praticamente responsabile del fatto che il libro (come a dire la mia opera) confonda, più di quanto non chiarisca, le idee agli studiosi del titolo esecutivo.
Come un libro possa confondere le idee ‘agli studiosi’ mi pare difficile capire a meno che E.G. non identifichi gli studiosi con se stesso, o con gli intangibili professori di ruolo in generale. Comunque dimentichiamoci di avere davanti E.G. anziché Carnelutti, e vediamo di dire qualcosa che possa tornare utile alla scienza
».

Il seguito alla pubblicazione di questo scritto, la Rivista di diritto processuale pubblicò, a firma della direzione, un trafiletto nel quale additavano Satta come «un cattivo esempio ‘per aver offeso il diritto fondamentale che ha ogni studioso, al pari di ogni uomo, al rispetto della sua dignità’». La risposta di Satta, pubblicata nella postilla alla ristampa del medesimo articolo, rivela la profondità e la sagacia dell’uomo:

«La Rivista di diritto processuale è padrona di abbrunare la sua bandiera. Ma l’equivoco è evidente. È incontestabile che ogni uomo possiede bergsonianamente la sua dignità, per il solo fatto di essere uomo, né io credo di aver mai offeso la dignità di nessuno. Ma lo studioso non ha una sua dignità, cioè per lui il problema non si pone in termini di dignità, ma di valore. Sulla sussistenza di questo valore il giudizio è libero, né costituisce mai, salvo assurdi privilegi, offesa. Pertanto io non solo non ho dato un cattivo esempio, ma ne ho dato uno ottimo, e i giovani farebbero bene a seguirlo in ogni occasione» (p. 274).

Con queste parole, davvero, concludo, ringraziando te per l’occasione che mi hai dato di riaprire Soliloqui e colloqui di un giurista ed i tuoi lettori, per la pazienza e per l’attenzione.

                                                                                                         Fabio Pecoraro

Salvatore Antonio Bravo – Una morale per M. Foucault?

 

Michel Foucault

 

 

Introduzione

Non vi sono opere in cui è presente una trattazione etica: il tema è disperso nei suoi testi e si intreccia tra decostruzione e costruzione del soggetto. Si cercherà, quindi, di rinvenire le tracce che possano permettere di ricostruire una possibile proposta etica dell’autore.
L’oggetto dell’analisi di Foucault, come egli ha più volte evidenziato, è il soggetto e non il potere; si potrebbe cogliere in questo una sensibilità etica, giacché l’etica ha al centro la persona e tutto riconduce ad essa.
Il rapporto potere-verità ha rappresentato un’ossessione cognitiva nel suo percorso intellettivo. Il fine dichiarato è stato sganciare il potere costituito dalla verità, in questo binomio Foucault coglieva l’invasività minacciosa verso il soggetto, che in tal modo cade nelle maglie dei processo di assoggettamento senza consapevolezza, nel silenzio di una negazione senza redenzione.
Rompere il binomio potere-verità ha l’effetto di una scissione atomica e libera una quantità inesauribile di energia; i soggetti liberati, infatti, possono uscire da silenzi e secolari mortificazioni, per una rottura epistemologica assoluta: la volontà di sapere, sostituendo la verità, che, mentre si afferma capillarmente, divora le alterità e conduce a nuovi modelli inaspettati di vita, protagonista un soggetto, che altrimenti sarebbe stato attraversato da forme assoggettanti vissute quali uniche possibile.
Si descriverà il possibile percorso di Foucault tra decostruzione del potere e gli effetti nei campi d’azione.
Un nuovo soggetto è liberato dall’Umanesimo e dai suoi assoluti funzionali ai sistemi di potere, nel cui orizzonte la parola verità non porta il peso dell’esclusione, ma, sostituita dalla volontà di sapere, può rifondare e liberare nuove forme di soggettività per nuovi campi d’azione in cui esserci.

L’ Enunciato

L’enunciato occupa una posizione centrale all’interno della struttura del pensiero di Foucault, è il mezzo minimo e complesso mediante il quale è possibile ricostruire dinamicamente saperi, oggetti del sapere, parole e soggetti.
Il soggetto e le parole sono gli effetti dell’enunciato all’interno di uno spazio dove avvengono ed emergono soggetti ed oggetti del sapere. Gli enunciati non sono mai singoli, ma sempre in una relazione tendenzialmente olistica con altri enunciati.
Se vi è l’enunciato, si eclissa ogni umanesimo: non si ricerca la sostanza o i miti concettualmente limitrofi (soggetto forte, origine, sostanza, continuità).
Il piano di emersione si fa privo di profondità, manca lo sguardo che insegue con la parola la causa e l’effetto.
Nel campo d’azione gli enunciati costituiscono la rete di relazioni spaziali e temporali entro cui si pone l’emergenza, essi non sono le precondizioni, queste ultime conservano la profondità dell’origine e sono sottratte allo sbattere delle spade del campo d’emersione dove sguardi, ruoli, dicibilità, gesti, orizzonti percettivi si intrecciano.
L’enunciato è la genealogia della parola, della dicibilità. E’ una funzione e non una struttura. Non appartiene al soggetto e non fa riferimento ad esso, piuttosto è una funzione in un campo d’azione che consente l’emergere degli oggetti.
L’inversione è avvenuta, per tradizione tipica dell’Umanesimo si partiva dal soggetto o da un oggetto epistemico, entrambi riposavano in un tempo annichilito dalla profondità. Ora sono restituiti al campo d’azione dove emergono grazie alla funzione enunciativa. È ripetibile poiché ha un suo statuto all’interno di un campo di utilizzazione. Vive in uno spazio, in un reticolo di funzioni, acquisisce in tal modo visibilità e materialità, consente di dire, di essere riconosciuto, ripetuto, circola, si dinamizza nel campo enunciativo ma all’interno di un campo di stabilizzazione, altrimenti non è possibile l’emersione di un sapere (vedasi la funzione enunciativa in Archeologia del Sapere).
Nella Nascita della clinica Foucault descrive il passaggio tra tipi di approccio metodologico in medicina, cogliendo la funzione della spazializzazione e della verbalizzazione, entrambe sono colte nel loro farsi, nel loro emergere al fine di cogliere l’oggetto e di formarlo.
Spazializzazione e verbalizzazione divengono funzioni enunciative per l’emersione del soggetto.
Così Foucault: «Per cogliere la mutazione del discorso all’atto della sua produzione bisognerà interrogare qualcosa di diverso dai contenuti tematici o dalle modalità logiche, e volgersi verso la regione in cui “le cose” e le “parole” non sono ancora separate, là dove, a fior del linguaggio, modo di vedere e modo di dire si compenetrano ancora. Bisognerà interrogare la distribuzione originaria del visibile e dell’invisibile, nella misura in cui è connessa colla divisione tra ciò che si enuncia e ciò che viene taciuto: apparirà allora, in una unica figura, l’articolazione del linguaggio medico e del suo oggetto. Ma non v’è precedenza di sorta per chi non si pone alcuna questione retrospettiva: sola merita d’esser portata in una luce di proposito indifferente la struttura parlata del percepito, lo spazio pieno nel cavo del quale il linguaggio assume volume e misura. Bisogna porsi, e, una volta per tutte, mantenersi al livello della spazializzazione e della verbalizzazione fondamentali per il patologico, là ove prende origine e si raccoglie lo sguardo loquace che il medico posa sul cuore venoso delle cose» (M. Foucault – La Nascita della clinica – Einaudi Torino – 1991).
Dunque l’enunciato assomma gesto, sguardo, visibile, invisibile in un campo di relazioni, dal cui incontro si forma l’oggetto, in questo la patologia.
L’autopercezione del medico inserito in uno spazio di relazioni è sostenuta dai linguaggi attivi in uno spazio, quali verità legittimate dalla clinica, e questo consente di definire una posizione di potere, una pratica di potere all’interno di un fascio di relazione che ritaglia nel farsi la malattia e, dunque, il paziente.
La parola enunciativa è colta nello spazio della sua dicibilità, condensata nel gesto, che mentre dice esclude, marginalizza saperi non legittimati dalle strutture di potere, nel contempo emerge nel campo delle relazione-azioni l’oggetto nominato, prende forma nella parola che porta con sé lo spessore spaziale del gesto.
L’ enunciato, dunque, si riferisce ad un campo funzionale dove si concretizza la dispersione del soggetto: il medico non è l’autore, il protagonista col suo io roccioso, piuttosto egli stesso emerge nel campo in quanto attraversato da un fascio di relazioni spaziali.
Si è formato come soggetto medico nello spazio della clinica, nella lingua specialistica che fa di lui un medico che si autopercepisce in una posizione di potere, che sussiste all’interno di una rete spaziale in cui incontra e definisce la malattia, la patologia, il paziente.
Se si sposta il medico in un’altra istituzione, in un altro spazio di relazioni, emerge la dispersione del soggetto che assume una funzione enunciativa differente.
Dov’è l’autore?
Dov’è il soggetto fondato in senso trascendentale?
I rapporti si invertono, è nelle maglie delle relazioni e delle funzioni enunciative che emergono i discorsi e con essi i soggetti. Processi di soggettivazione corrono paralleli alla formazione dei discorsi.
Chi parla?
Il soggetto è sostituito da un mormorio, da un “si dice” che affiora dalla carne della soggettivazione. Sii taglia, dunque, la testa al re, con essa ogni forma di soggettività umanistica.
Il potere scorre ovunque, ha perso con la testa ogni centro, come il dio di Cusano, il centro è ovunque.
Entstehung, l’emergenza, è l’entrata in scena delle forze, con esse l’enunciato fa la sua apparizione-irruzione, lo spazio si distribuisce e con esso gli uni sono dinanzi agli altri: lo sguardo, il gesto, la posizione occupata nello spazio. La parola si nutre dell’apparire materiale per tagliare lo spazio, per attraversarlo e restituire ad ognuno con la decifrabilità, in un confronto, affronto non privo di tensioni ripetibili.
Il soggetto ‘forte’ ripiegato nella sua sostanza splendente prima della sua caduta, identità rintracciabile all’interno della contingenza spaziale e delle forme di verbalizzazione fa parte di quel regime di verità che trova la sua genealogia all’interno del potere.
L’autore diventa il veicolo delle verità funzionali al sistema, che pongono il soggetto prima del tempo, anteriore allo spazio, il depositario istituzionale della verità, la linea che consente di identificare la continuità della verità.
La continuità trova nel soggetto-autore la sostanza mediante cui costruire una storia, dove potere e verità vivono in un binomio indiscutibile: «Credo che esista un altro principio di rarefazione di un discorso. Si tratta dell’autore. L’autore considerato non come l’individuo parlante che ha pronunciato o scritto un testo, ma l’autore come principio di raggruppamento dei discorsi, come unità e origine dei loro significati, come fulcro della loro coerenza» (M. Foucault – L’ordine del Discorso – Einaudi Torino – pag 22).
Per fondare una nuova morale libera da forme di soggettivazione ed assoggettamento diventa necessario, con la morte del soggetto, introdurre la wirkliche Historie, la quale restituisce definitivamente l’uomo e le sue esperienze epistemiche alla sua temporalità. La finitudine e la fine dell’Umanesimo sono i capisaldi teoriciche fondano un’etica per Foucault.
Con l’enunciato e la sua pratica il soggetto e la parola sono gli effetti delle pratiche discorsive; così Deleuze sull’enunciato: «Ma tutte queste posizioni non sono figure di un Io primordiale da cui deriverebbe l’enunciato: esse derivano, al contrario dall’enunciato stesso, e a questo titolo sono i modi di una ‘’non persona’’, di un ‘’EGLI’’ o di un ‘’SI’’- EGLI parla, ‘’Si parla’’ – che si specifica a seconda della famiglia di enunciati. Foucault si collega così a Blanchot che denuncia una ‘’personologia’’linguistica, e colloca i posti di soggetto nello spessore di un mormorio anonimo» (G. Deleuze – Foucault – Feltrinelli Milano – pag 18).
Non vi è più una intenzionalità, lo spessore profondo di una coscienza, uno stato di cose avulso dalle realtà e dai contesti materiali della storia.
Con tale fondamenti ogni etica di tradizione umanistica tramonta, al suo posto resta un soggetto con il compito di costruire individualmente la propria soggettività e percorsi di consapevolezza.
In Foucault la metodologia genealogica, mutuata da Nietzsche, riporta l’uomo nelle maglie della sua finitudine e con essa vi è la fine di ogni mito prima della caduta; resta l’assoluta libertà di un soggetto che può diventare con la cura di sé un’opera d’arte, materiale duttile da cesellare.
La volontà di sapere sostituendo la volontà di verità col suo potere censorio, col suo ritagliare gli spazi della dicibilità, ridona la libertà del poter essere, potenzialità infinite si aprono alla fine della storia dell’Umanesino, resta la responsabilità dell’individuo dinanzi a se stesso.
Se l’Umanesimo legava l’individuo ad una socialità iscritta nella natura, destino ineludibile ed ineluttabile, ora l’individuo è solo con la sua carnalità sciolta da legami trascendenti.
La creatività, la liberazione dei possibili, spinge e rompe o minaccia di rompere ogni identità costruita seconda continuità.
Pensiero divergente che si avviluppa nel segreto della carne che ritrova se stessa come traguardo e resistenza.
Ora l’uomo è liberato, la volontà di potenza nietzschiana ha trovato una nuova modalità di espressione totale, oltre la genealogia, nei reticolati della microfisica del potere, la liberazione induce ad un prospettivismo consapevole.
Cosa resta?
Foucault incontra fortemente e pericolosamente Nietzsche: un nichilismo attivo è quanto propone Foucault, non resta che il divenire da interpretare (cfr. Nietzsche – La volontà di potenza – aforisma 72).
Riportato il soggetto alla sua storia, svelate le continuità come forme di manipolazione, la storia può diventare il luogo di un palcoscenico dove i soggetti sono mossi da forme di sperimentazione etica e dalla cura di sé, testimonianza di una umanità liberata e prometeica.
Non vi è alcun concetto di natura, nessuna socialità, nessuna intenzionalità solo il possibile: la carne liberata può prendere il suo bisturi e ritagliare la sua anima.
La morte di Dio che Foucault coglie nella sua pienezza consente la ricerca di un’etica da sperimentare. Fin dove spingersi, qual è il limite oltre il quale non è dovuto sporgersi non è dato sapere.

Gli interdetti

Liberare le individualità significa svelare le forme implicite di censura che si ritrovano nei campo epistemici, nel mormorio che mentre avviene spazializza, dandone i confini e le possibilità d’essere all’individuo.
Si ritrova un Foucault, figlio della scuola del sospetto, che insegue gli interdetti nel loro prendere forma.
La lezione di Marx e Nietzsche sono qui presenti: il primo svela le logiche del potere, il quale si autofonda su presunti universali che celano interesse particolari, il secondo indica nella maschera, il manifestarsi di un’apparenza che mostra l’invisibile.
Quest’ultimo è costituito dalle forze inconsce che parlano in quella maschera a cui il soggetto è ridotto.
La distanza che lo separa da Marx è notevole, in quanto ha tagliato la testa al re, e la sua microfisica del potere svela la circolarità del potere, la sua dispersione nelle istituzioni che sono il campo d’azione del mormorio in cui il soggetto prende forma e dà forma.
L’enunciato e la sua funzionalità rende il farsi del potere visibile.
Per Foucault il potere è ovunque e rende possibili fasci di relazioni in cui il soggetto è immischiato, diventando parte integrante del potere.
Per Marx il potere può essere diviso spazialmente lungo una linea netta, che divide i detentori da coloro che ne sono privi, per Foucault è una diagonale che disegna lo spazio di tutti i soggetti.
Malgrado la sua militanza nel partico comunista francese, la distanza teorica dello stesso non poteva essere più grande, e difatti la sua espulsione ne fu una conseguenza.
Rendere consapevoli le forme di dicibilità e svelarne le censure è una precondizione assoluta per formulare un’etica nel pensiero di Foucault.
Per liberare gli individui e le potenziali individualità si deve staccare il potere dalla verità per far questo Foucault elenca una serie di procedure che consentono il binomio potere – verità.
La volontà di verità consente la soggezione antropologica ovvero la trasmissione e la ripetizione del binomio verità – potere a tal fine ‘funziona’ la soggezione a Dio, alla sostanza, alla natura, alle leggi della storia.
Il commento quale modalità conservatrice dell’identità permette la ripetizione in modo liturgico e solo pochi, depositari delle tecniche e dei linguaggi.
Se il commento è blindato, codificato nella sua lettura interpretativa, la sua verbalizzazione permette la conservazione di istituzioni, e spinge ogni ‘lettura altra’, verso la dequalificazione epistemica.
Le Università con la loro ‘citatologia’, direbbe il compianto Costanzo Preve, sono modus agendi di esclusione e di autoriproduzione dei poteri, portatori nel loro statuto la violenza cognitiva mascherata da formalismi liturgici: «L’indefinito spumeggiare dei commenti è lavorato dall’interno dal sogno di una ripetizione mascherata: al suo orizzonte, non vi è forse nient’altro che ciò che era al suo punto di partenza, la semplice recitazione. Il commento scongiura il caso del discorso assegnandogli la sua parte: esso consente certo di dire qualcosa di diverso dal testo stesso, ma a condizione che sia questo testo stesso ed essere detto e in qualche modo compiuto.» (L’Ordine del Discorso – Einaudi – pag 22).
La Partitura è altra strategia di esclusione, si insinua nel linguaggio e nei confini epistemici mediante antesi quali Ragione – Follia la partitura concettuale diviene una pratica di esclusione della parola e degli spazi: il manicomio e un effetto della pratica della partitura: «Esiste, nella nostra società, un altro principio d’esclusione: non più un interdetto, ma una partizione e un rigetto. Penso alla opposizione tra ragione e follia ( ) La follia del folle si riconosceva attraverso le sue parole; esse erano il luogo in cui si compiva la partizione; ma non erano mai accolte né ascoltate.» (ibidem – pag 11).

In Sorvegliare e Punire e in Storia della Follia la partitura è resa operativa e visibile nella definizione degli spazi, nella geometria dei confini, il cui perimetro segna la partizione tra il mondi di senso ed il mondo dove la parola collassa in un insensato dire che va normalizzato per cui il potere istituzionale pratica un ortopedia pedagogica.
Le modalità di esclusione presuppongono la disciplina: irregimentare le scienze, espellere da esse ogni modalità epistemica non riconosciuta e che minacci la sua autoriproduzione, la sua istituzionalizzazione: «Entro i suoi limiti, ogni disciplina riconosce proposizioni vere e false: ma essa respinge oltre i suoi margini tutta una teratologia del sapere. L’esterno di una scienza è più o meno popolato di quanto non si creda: certo, c’è l’esperienza immediata, i temi immaginari che portano e ripropongono senza posa credenze senza memorie; ma forse non ci sono errori in senso stretto, poiché l’errore non può sorgere ed essere deciso se non all’interno di una pratica definita; in compenso si aggirano dei mostri, la cui forma cambia con la storia del sapere.» (ibidem – pag 27)

La storia genealogica è dunque finalizzata a ritrovare dietro la continuità, le leggi che definiscono la continuità e nello stesso tempo segnano i confini tra dicibile ed indicibile.
La storia genealogica rivolge l’attenzione conoscitiva verso gli esclusi, liberare il non detto della storia, le individualità mute e sconfitte ma il cui recupero, la cui parola indica la violenza della volontà di verità: «Atro uso della storia: la dissociazione sistematica della nostra identità, pur debole, che cerchiamo di assicurare e di raccogliere sotto una maschera, non è che una parodia: il plurale abita, anime innumerevoli vi si disputano; i sistemi s’incrociano e si dominano gli uni con gli altri. E in ognuna di queste anime, la storia non scoprirà un’identità dimenticata, sempre pronta a rinascere, ma un sistema complesso di elementi a loro volto molteplici, distinti, e che nessun potere di sintesi domina(). La storia genealogicamente diretta, non ha per fine di ritrovare le radici della nostra identità ma d’accanirsi al contrario a dissiparla; non si mette a cercare il luogo unico da dove veniamo, questa prima patria dove i metafisici ci promettono che faremo ritorno: essa si occupa di far apparire tutte le DISCONTINUITA’ che ci attraversano.» (M. Foucault – Microfisica del Potere – Einaudi – pag 51).

La storia genealogica diviene metodologia d’indagine e di denuncia, forse il momento più alto dell’intenzionalità di ricerca che svela il suo valore etico.
Inseguire gli esclusi all’interno dei campi epistemici, riascoltare le loro voci, rompere gli spazi claustrali, raggiungere le soggettività negate, le vite consumate nel mutismo, perché la catastrofe della storia possa condensarsi nel presente in un possibile in cui gli spazi siano plurimi.
La pastorale dell’incontro, gonfia di retorica, non può fondare autonomamente un nuovo inizio, necessita di una teorizzazione delle strutture cognitive che hanno consentito i crimini e la catastrofe, direbbe Walter Benjamin, da capire per affermare nuovi paradigmi di vita condivisi.

Un’etica possibile

Un’intenzionalità etica è emerge nello stesso operare archeologico e nell’analisi della microfisica del potere.
Se la ricerca delle fluide strutture del potere diventa la storia filosofica vissuta del filosofo, ciò accade perché il potere è organizzato nello spazio, nella parola, nella carne del soggetto.
Esso è onnipervasivo bisogna scovarlo nel dettaglio perché agisce sui particolari: il corpo è all’interno delle spirali del potere, ne è plasmato, manipolato, organizzato.
Nell’analisi del biopotere il corpo diventa non l’oggetto del potere ma ne è organizzato nelle funzione biologiche, è salvato dalla malattia, scrutato prima ancora che tastato per renderlo omogeneo ad un apeiron in cui il suo ruolo è iscritto nel tutto funzionante.
Il soggetto è guardato, il temo dello sguardo, del soggetto guardato senza essere visto è una costante.
Sguardo e percezione sono tematiche diffuse nella cultura francese: Bataille, Merleau Ponty, Blanchot, Bergson è all’interno di quest’area che si fa fondante il tema del soggetto.
Si pensi alla descrizione del Panopticon: «Alla periferia una costruzione ad anello; al centro della torre tagliata da larghe finestre che si aprono verso la faccia interna dell’anello; la costruzione periferica è divisa in celle, che occupano ciascuna tutto lo spessore della costruzione; esse hanno due finestre, una verso l’interno, corrispondente alla finestra della torre; l’altra, verso l’esterno, che permette alla luce di attraversare la cella da parte a parte (..). Il Panopticon è una macchina per dissociare la coppia vedere-essere visti, senza mai essere visti; nella torre centrale, si vede tutto, senza mai essere visti» (M. Foucault – Sorvegliare e Punire – Einaudi – pag 218).

Si tratta dunque di un lavoro d’analisi al cui centro non vi è il potere ma il disperso e di ricostruirne le forme di soggettivizzazione e di assoggettamento con i suoi regimi di verità, anzi l’uomo è un’invenzione della pratica del potere.
Esso lo scruta, lo analizza, lo pervade per farlo emergere: l’uomo è un’invenzione recente oggetto delle tecniche che non sono circoscritte il confini distinguibili per chè sono la società, circolano nel corpo della società.
L’uomo è oggetto di conoscenza per poterlo render addomesticabile in una complicità collettiva.
La circolarità non implica la necessariamente la passività, anzi ciascun soggetto del sistema opera col potere nel mentre ne è costituito nel suo farsi essere.
Pertanto l’iperattivismo che Foucault utilizza per neutralizzarlo deve avere una funziona critica e consapevole. Se questa è la realtà del potere, l’iperattivismo cognitivo di Foucault è un modo per disinnescare il pericolo strisciante: la volontà di verità.
Per evitare questo l’iperattivismo assomma partecipazione politica e presenza critica: <<Il mio punto di vista non è quello secondo cui tutto è male, ma piuttosto che tutto è pericoloso, abbiamo sempre qualcosa da fare. Quindi, la mia posizione non conduce all’apatia, ma a un iperattivismo, e a un attivismo pessimistico. Penso che la scelta etico politica che dobbiamo fare ogni giorno consista nel determinare quale sia il pericolo peggiore.>> (Dreyfus – La ricerca di M. F. – Firenze – pagg 259, 260).
Educarsi al meno pericoloso implica la consapevolezza dell’uso della parola, attraverso di essa passano e si solidificano le forme di esclusione, per cui bisogna ridare la voce a tutti, far parlare i diretti interessati, volgersi nell’ottica dell’ascolta.
Solo una fenomenologia della parola può evitare la violenza istituzionalizzata.
L’esperienza del G.I.P è coerente con questo, l’organizzazione si proponeva di dare direttamente la parola ai detenuti, in modo che potessero illustrare i loro bisogni ed esprimere ciò che ritenevano intollerabile: «Il G.I.P non si propone di parlare a nome dei detenuti delle diverse carceri. Si propone invece di dare loro la possibilità di parlare di sé e di quello che accade nelle prigioni» (Didier Eribon – M. Foucault – Milano – pag 268).
Liberare la parola dai filtri delle censure, diviene un processo di liberazione generale, tutti gli attori ne sono coinvolti.
Rompere il binomio potere – volontà significa trasformare il brusio assoggettato in un atto creativo di consapevolezza per rifiutare le forme di assoggettamento silenziose ed inconsapevoli: «Forse oggi l’obiettivo principale non è scoprire che cosa siamo, ma di rifiutare quello che siamo. Dobbiamo immaginare e costruire ciò che potremmo diventare per sbarazzarci poi di quella sorta di doppio legame politico costituito dalla individualizzazione e totalizzazione simultanee del potere moderno.» (ibidem – pag 244).
Uno dei mezzi attraverso cui impedire agli individui la libera ricerca di nuove forme di sé è sempre stato il pericolo che questo potesse significare la fine dei sistemi socio politici di appartenenza, in realtà tale ricatto non ha senso per Foucault, in quanto pura forma per giustificare l’assoggettamento coercitivo: «Per secoli siamo stati convinti che fra la nostra etica, la nostra etica personale, la nostra vita quotidiana da un lato, e le grandi strutture politiche sociali ed economiche dall’altro, vi fossero delle relazioni analitiche. E abbiamo creduto di non poter cambiare nulla, ad esempio, della nostra vita sessuale, o della nostra vita famigliare, senza mettere in pericolo la nostra economia, la nostra democrazia, e così via. Penso che dovremmo sbarazzarci di questa idea di una relazione analitica o necessaria tra l’etica e le altre strutture sociali, economiche o politiche.» (ibidem – pag. 264).
Affinché ciò si possa realizzare è necessario che l’intellettuale agisca nel suo iperattivismo non solo per denunciare, ma anche per indicare le fragilità istituzionali, dare strumenti di indagini ed analisi pubblici e trasparenti, in modo da far apparire il potere dove si rende più insidioso e più invisibile: «Quel che l’intellettuale può fare è dare strumenti di analisi; è questo oggi il compito dello storico. Si tratta, infatti, di avere del presente, una percezione spesso di lunga durata, che permetta di individuare dove sono le linee di fragilità, dove i punti forti, a cosa siano legati i poteri; sulla base di un’organizzazione che ha ormai centocinquant’anni, dove si sono impiantati. In altri termini fare un rilievo topografico e genealogico della battaglia. E’ questo il ruolo dell’intellettuale.» (M. F. – Microfisica del potere – Einaudi – pag. 26).
Le parola appena citate di Foucault conducono ad una relazione tendenzialmente o fortemente individualistica.
Non vi è una natura umana come afferma in La Natura Umana pertanto svelato il potere e le sue forme di ripetizione e di autoriproduzione il soggetto per mezzo delle cure del sé può trasformare la sua esistenza in un’opera/pratica estetica ovvero sceglie le forme di assoggettamento in modo libero e consapevole.
La cura del sé non necessariamente accade in una pratica che conserva la relazione sociale quale momento fondante, l’uomo per natura non è un animale sociale è pura potenza.
E’ possibile con le tecniche del sé trasformarsi in un’opera d’arte, lavorando le tensioni della carne o liberandole, autopossedendosi.
Risuona la lezione di Pierre Hadot negli Esercizi Spirituali secondo cui la filosofia nella sua fase aurorale è pratica, è orizzonte vissuto, per cui la teorizzazione filosofica è l’effetto del sentire cognitivo nella carne.
Pensare diviene azione, ovvero modificare se stessi in un’ottica di autonomia.
Non manca riferimenti nietzscheani, all’individualismo di Nietzsche secondo cui l’Oltreuomo, vive e sperimenta forme di vita, più vite nella stessa vita, e è un tendere verso le forme testimoniato dalla vita stessa, la parola si fa silenziosa dinanzi alla coerenza di un ‘Über’, non vi sono nature o sostanze ma solo un oltre, per cui nell’iperattivismo pessimistico di Foucault, prevale il momento della parresia.

La parresia è dire il vero.
Qual è il significato generale della parola parresia? Etimologicamente, παῤῥησιάζομαι (parresiàzomai) significa «dire tutto», da «pan» (tutto) e «rhema» (ciò che viene detto).
Dunque la parresia è la relazione tra il parlante e ciò che viene detto.
Nei suoi sei corsi californiani il tema è trattato secondo canoni non convenzionali.
La relazione è con se stessi, trasformare se stessi mediante la parola in verità.
L’attenzione è posta sull’individuo, sul soggetto, ogni legame con l’altro diventa secondario.
La concretezza di un’individualità legata alla comunità da una relazione ontologica è assente, non vi è famiglia, non vi è società né stato, l’individuo sperimenta mancando una natura, una individualità senza limiti, o quanto meno nella lettura di Foucault del mondo greco predilige una parte occultando il senso della comunità.
Nei presocratici ma anche in Platone ed in Aristotele è la comunità fondata sulla natura dell’individuo ad essere l’elemento imprescindibile del ben vivere, la comunità è garanzia della misura, come lo sfero di Parmenide, ogni punto è equidistante dal centro, è il tutto a fare la sfera, secondo un ordine di proporzioni e misure.
Nel caso di Foucault l’individuo libero dal potere è schiacciato su se stesso, come fosse eternamente sclerotizzato nella fase dello specchio di Lacan.
La liberazione avviene in solitudine, senza legami necessari con la comunità verso la quale non vi sono doveri naturali.
Le tracce dell’etica in Foucault portano ad un individualismo che se può essere accolto come coerente con il 68’ e gli anni successivi in funzione del contropotere, oggi può essere veicolo e parte della logica della dismisura, del capitale quale feticcio che non vuole regole e limiti ma solo individui pronti ad abbattere ogni radicamento relazionale in quanto limite alla circolazione dei desideri e dunque del mercato.
Pertanto mentre svela con la genealogia il binomio poter – verità, cade nell’invisibile del potere ovvero favorire la libera circolazione delle individualità, ammiccare ad esse, ridicolizzare ogni regola della misura, ed ogni idea di natura fondata dialetticamente per rendere l’atomo individuo con i suoi desideri illusoriamente libero.
Il Foucault della Storia della Sessualità ripiega sulla liberazione dal potere, lascia l’individuo al suo sé, certo non ritiene che i modelli stoici o cinici possano rivivere, ma diventano un orizzonte dal quale poter trarre considerazioni sul tipo di società a cui tendere.
Manca un progetto di comunità, anzi quest’ultima è giudicata con sospetto come un potenziale limite alla libera metamorfosi pensante del soggetto.
Il male è ‘anche’ in ogni comunità dove vige la dialettica come veicolo di una verità condivisa, perché ci sia l’individuo per Foucault la comunità deve lasciar spazio alle libere soggettività le quali sono prioritarie rispetto alla comunità, il regno del nichilismo e dell’ultimo uomo rischia di trasformarsi nel regno osannato delle libertà dei liberi voleri.
Sentire se stessi senza l’altro nella concretezza delle forme medie di comunità tra l’individuo e lo stato, non potrebbe diventare il regno degli egoismi?
Più in generale per Foucault la liberazione delle individualità dal giogo – gioco dei poteri avviene respingendo l’antitesi tra identità e contraddizione, superando la dialettica hegeliano platonica, il soggetto è liberato da ogni processo di normalizzazione e paradigma di normalità a cui tendere quale dovere, Sollen kantiano, resta l’individualità da scegliere, da autofondare .
L’orizzonte della liberazione in mancanza di una prassi comunitaria, ravvisata nella storia, si sposta in avanti, finisce con l’assumere i caratteri utopici di un mondo a venire, in cui la pacificazione delle differenze delinea l’irruzione nella storia del possibile: «Il gioco così famigliare di mirarci all’altro termine di noi stessi nella follia, e di protenderci all’ascolto di voci che, venute da molto lontano, ci dicono da vicino ciò che noi siamo, quel gioco, con le sue regole, con le sue tattiche, le sue invenzioni, le sue astuzie, le sue illegalità tollerate, non sarà più, e pur sempre, se non un rituale i cui significati saranno ridotti in cenere. Qualcosa come le grandi cerimonie di scambio e di rivalità nelle società arcaiche.» (M. Foucault – la follia, l’assenza d’opera – pag 627).
Si comprende il successo di Foucault di cui si prediligono gli studi sulle tecniche del sé piuttosto che la denuncia sugli effetti del potere ed in particolare del biopotere.
Ogni fondamento ontologico è sostituito da uno spazio cavo dove poter operare quanto una macchina può operare sulla materia infinitamente con infinite trasformazioni.
Non si può non considerare l’affermazione citata secondo cui è possibile la cura di sé senza temere gli effetti sulla realtà socio politica, un’etica con un’impronta così fortemente individualistica è infondata in una società globalizzata in cui, benché la valorizzazione del capitale e delle merci spinga verso forme di individualismo parossistico, non si può non considerare che ogni vita e legata in modo indissolubile al pianeta ed alle persone contigue e lontane.
La spinta verso la globalizzazione individualistica necessita di un’etica contro la paura che rischia di ridurre in tensione bellicosa ogni relazione famigliare, duale, politica.
La società della paura esige la cura dell’altro conosciuto e non, come rimedio all’atomizzazione terrorizzante, così Bauman descrive l’attuale condizione: «In un mondo come il nostro gli effetti delle azioni si diffondono ben oltre il raggio dell’effetto routinizzante del controllo, e della conoscenza che occorre per progettarlo. Il nostro mondo è vulnerabile soprattutto ai pericoli la cui probabilità non è calcolabile: un fenomeno totalmente differente da quello cui fa di solito riferimento il concetto di <<rischio>>. I pericoli per principio non calcolabili sorgono in un contesto irregolare per definizione, in cui le sequenze interrotte e non ripetute sono divenute la regola e l’assenza di normalità è ormai norma. Esse sono incertezza sotto altro nome.» (Zygmunt Bauman – Paura liquida – Laterza Bari 2008).
La descrizione di Bauman è esplicativa, la paura monta nell’irregolarità divenuta legge e paradigma della contemporaneità, al pari di Jonas fa appello ad un’etica della responsabilità, della partecipazione e della cura della comunità.
La paura si accresce nello smantellamento di ogni tutela sociale cui si aggiungono flussi di variabili infinite utilizzate per giustificare lo smantellamento di ogni forma di socialità solidale codificata politicamente.
Per vincere la paura e ritrovarsi essere umani piuttosto è la relazione con l’altro, consapevole e dialogica, che può e deve riportare al centro la persona piuttosto che il ‘dispositivo’ sociale anonimo quale è la struttura sociale cognitiva ed epistemica descritta da Foucault nella Volontà di sapere.
Il sistema attuale tende ad utilizzare teorizzazioni che possano autogiustificarla; l’individualismo così codificato può rafforzare l’anonimo sistema in cui il mercato, l’Europa, la globalizzazione decidono: ipostasi senza volto, senza responsabilità, nuovi feticci totemici che lasciano muto e solo il suddito globale.
Manca una prassi contro la paura, la genealogia e l’impegno destrutturato di M. Foucault non hanno effetto se non vi è una prassi comunitaria capace di trasformare la paura in lettura delle contraddizioni ed in programma politico, fino a quando le scelte saranno strettamente individuali anche in presenza di una consapevolezza, elemento raro dell’attualità, nessun effetto si avrà sulle dinamiche, sul governo della globalizzazione.
Il primo momento attraverso cui riscoprire per rivivere un’azione nella comunità è il sentirsi parte in senso cognitivo ed emotivo delle comunità in cui si vive il quotidiano, ogni forma altrimenti di critica è pura teoria senza prassi, favorita anche dai potentati politico finanziari, poiché una critica o una libera individualità sciolta dal contesto è pura astrazione da cui nulla temere, può servire al pavoneggiarsi falso democratico della cultura lobbistica.
Solo con una categoria della totalità in cui si misurano e si legano soggetto – oggetto e storia – natura, il distaccarsi dell’individuo atomo può e deve fondare un’etica della prassi e della liberazione collettiva.
La responsabilità verso il presente è gravida del futuro.

Chi ha paura della totalità?

Già György Lukács in Storia e coscienza di classe afferma che la Borghesia ha paura della totalità, oggi potremmo dire che la filosofia negando la totalità rende impossibile la prassi storica.
L’appello a cui non ci si può sottrarre per riformalizzare un’etica è riattivare la categoria della totalità quale mezzo interpretativo e d’azione.
Nella totalità entrano in scena i soggetti nelle loro connessioni ideologiche, riattivano le energie sopite da processi di reificazione che ha trasformato la complessità della persona in cliente globale.
La vicinanza della parola e del programma è il fondamento epistemico da ricostruire per dare risposte alle urgenze attuali.
Nello scambio dialogico e dialettico la partecipazione politica disseminata e diffusa può essere l’ancora di salvezza per la comunità.
L’individualismo etico di Foucault somiglia al giorno dopo la catastrofe, nel nulla del presente storico, il curvarsi dello spazio e delle temporalità nell’individuo alle ricerca di una salvezza che diventi rivoluzione interiore.
L’Aufhebung della reificazione generalità vuole che il soggetto si riscopra non astratto dalla comunità ma che senta e pensi la vocazione alla comunità senza la quale è nulla e cade nel niente globalizzato.
Vi è il rischio che senza tensione dialettica, polemòs eracliteo, nell’anonimato dei significati del mercato, sia quest’ultimo la voce della sua coscienza, sia allagato il suo io, divenuto tempo dell’economia integrale.
L’urgenza di un’etica comunitaria è tanto più vera se si considera ”il pericolo” della manipolazione tecnologica, Gestell a cui bisogna ridare il governo.
Non si può non mettersi in ascolto dell’imperativo categorico di H. Jonas, “Agisci in modo che gli effetti della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita sulla terra”.
Difendere la vita e per questo ogni azione quotidiana si ritrova nella meraviglia del legame con l’altro, ogni spazio è condivisione di effetti, delle pluralità che si incontrano per viverne la responsabilità dell’attualità proiettata nel presente.
Non si può in un contesto storico in cui la permanenza della vita in senso biologico e di espressione delle differenze tradizioni è minacciata, rifugiarsi in una cura di sé, sciolta da ogni relazione.
Pertanto il recupero della categoria della totalità è il recupero di un’etica potenziale che possa nel suo farsi ridare un ruolo alla Filosofia appiattita da un’analitica trascendentale kantiana che legittima il fenomeno.
Negare la totalità è negare la funzione della filosofia, la quale indica la meraviglia, il thauma, per rifondare il presente nella sua complessità storica, la quale esige il mormorio di una relazione sociale senza la quale si potrebbe dire nietzschianamente “Il deserto avanza, guai chi fa avanzare il deserto”.
L’ultimo uomo, nel Così Parlò Zarathustra, definito come il più disprezzabile degli uomini, è la figura che minaccia un’etica della comunità, dedito al nichilismo, indifferente al bene quanto al male, o meglio redige un’idea di bene che coincide con la propria individualità mercantile.
La Verfallenheit è la sua condizione, spregevole perché reso cosa tra le cose volutamente
Trionfo del nichilismo e del mercato, con la morte di dio non resta che il proprio sé, ingiudicabile, con Dio muore la dialettica, la verità dialogica ed ogni filosofia in cui le parti sono in tensione comunicante.
La dismisura dell’ultimo uomo, è il trionfo di un’esistenza frammentaria, ma che diventa tutto: l’unico orizzonte di senso della gabbia d’acciaio.
L’ultimo uomo rischia di diventare la versione volgare della cura di sé, anziché la cura dell’anima, la cura dei propri affari minimi.
L’ultimo uomo profezia realizzata di Nietzsche è osannato: paradigma di una verità mediocre.
L’atomizzazione globale ne incentiva i desideri del ventre ne ha sclerotizzato il reale in un rispecchiamento ideologico.
Ha espulso ogni idea di comunità la quale è giudicata un limite alla dismisura di un ego apolide e vorace.
La cura di sé a cui guarda M. Foucault, improbabile che non diventi la cura di un orto sempre più ristretto oltre il quale ciò che accade è il nulla.
La filosofia che si rifugia nelle élite di comunità di individui che hanno strumenti per la tecnica del sé e lasciano fuori di sé il proliferare dell’ultimo uomo e della politica minima, consegnano al totalitarismo delle cose il tutto favorendo processi di totalitarismi nel disimpegno dalla politica e dall’economia.
La totalità rinnegata e di cui si sente l’assenza deve riformulare se stessa nella categoria del complesso: ogni elemento riportato al suo ordito, alla trama che ne svela la tessitura costituita di parti il cui senso è inscritto nella complessità.
La negazione della totalità – complessità quale categoria critica ha come effetto il favorire la riattivazione di forme succedanee, la nostalgia di un tutto in cui il mito si sostituisce all’approccio autenticamente olistico.
Ne era consapevole A. Hitler, il quale somministrò alle classi medie immiserite e senza riferimenti, strette nella paura del presente, il falso mito della razza compensatorio delle frustrazioni e delle tensioni del primodopoguerra a cui non riuscivano a dare risposte dialettiche, così H. Rauschning riporta le parole del Führer: «So bene anch’io come i vostri intellettuali, i vostri pozzi di scienza, che non esistono razze nel significato scientifico della parola. Ma voi, che siete un agricoltore e un allevatore, voi certamente siete costretto a basarvi sulla nozione di razza, senza la quale ogni allevamento sarebbe impossibile. Ebbene, io che sono un uomo politico, ho necessità anch’io di una nozione che mi consenta di infrangere un ordine radicato nel mondo e di contrapporre alla storia la distruzione della storia. Capite quel che intendo dire? Bisogna che io liberi il mondo dal suo storico passato (…). Con la nozione di razza il nazionalsocialismo spingerà la sua rivoluzione fino alla fissazione di un ordine nuovo.» (H. Rauschning – Hitler mi ha detto – Mondadori Milano 1945 – pp. 245 246).
La totalità autentica e da intendersi in senso ologrammatico: la parte è nel tutto, il tutto è nella parte, questo principio metodologico e programmatico indica in sé il concetto di male.
Ogni forma di esemplificazione è male, può diventare male.
Non è sufficiente liberare l’individuo dal confine della dialettica per evitare la violenza del potere, un individuo che diviene protagonista della costruzione del proprio sè, relativizzando la relazione complessa con la prassi politica può diventare portatore di male.
Rischia di affermarsi nella differenza liberamente scelta una forma di esemplificazione, poiché si perde la consapevolezza della formazione collettiva del sé.
Ogni persona è portatrice di un multiuniverso in cui sono stratificate in modo dinamico le temporalità della comunità.
Per cui ciascuno è un ologramma “microcosmo” di un ologramma più vasto.
Si tratta di riattivare una multidimensionalità non totalitaria per tessere la rete delle relazioni che possano ridare una narrazione alla “gabbia d’acciaio”.
Per fare questo non la filosofia dell’impotenza e dell’ineluttabile deve prevalere dato che essa induce alla fatalizzazione esemplificatoria.
Piuttosto il coraggio di non sentirsi inattuali ridando vita e storicità ad una tradizione filosofica che ha in sé gli strumenti concettuali e metodologici per una speranza collettiva, la quale non ha nulla di messianico, ma la concretezza del presente, nel coraggio della complessità.
Quest’ultima può dare l’incanto di leggere il presente con nuovi sguardi, facendosi voce del mutismo interiore, a cui rispondere con gli strumenti interpretativi della filosofia, che mentre svelano, già indicano orizzonti possibili.

Antoine de Saint-Exupéry (1900-1944) – AMORE E POSSESSO. L’amore non fa soffrire. Quello che fa soffrire è l’istinto della proprietà, che è il contrario dell’amore

Antoine-DeSaintExupery

L’amore vero non fa soffrire.

Perché esso è puro dono e non si attende nulla in cambio, dunque non può essere deluso. Solo l’amore del possesso e della proprietà fanno soffrire, perché puoi essere danneggiato in quello che possiedi, ma non certamente in quello che doni gratuitamente..

     Non confondere l’amore col delirio del possesso, che causa le sofferenze più atroci. Perché contrariamente a quanto comunemente si pensa, l’amore non fa soffrire. Quello che fa soffrire è l’istinto della proprietà, che è il contrario dell’amore. Perché se amo Dio me ne vado a piedi sulla strada zoppicando per portarlo agli altri uomini. Non riduco Dio in schiavitù. Io mi nutro di tutto ciò che egli concede agli altri. In tal modo si riconosce chi ama veramente dal fatto che egli non può essere danneggiato.

 […] L’amore vero non attende nulla.

L’amore vero e la preghiera vera non attendono nulla in cambio: semplicemente sono aperture sull’infinito, nel dono e nel colloquio..

[…] L’amore vero inizia là dove non attendi più nulla in cambio. E se l’esercizio della preghiera si rivela così importante per insegnare all’uomo  l’amore degli uomini, ciò avviene soprattutto perché essa non ottiene risposta.

 

L’amore interessato è disgustoso

Non è amore la ricerca della preda o la pretesa di essere ascoltati e ricompensati. Nulla ha il potere invece di disonorare o di deludere l’amore vero..

    Il vostro amore è basato sull’odio, poiché fate della donna o dell’uomo i vostri schiavi considerandoli dei beni di cui solo voi dovete godere e cominciate a odiare, come i cani quando girano attorno al truogolo, chiunque adocchia il vostro pasto. Voi chiamate amore questo pasto da egoista. Appena l’amore vi è concesso, di questo dono spontaneo, come nelle false amicizie, fate una servitù e una schiavitù, e dal momento in cui siete amati cominciate a scoprirvi danneggiati e a infliggere agli altri, per meglio asservirli, il triste spettacolo della vostra sofferenza. Voi soffrite veramente ed è proprio questa sofferenza che mi disgusta. Per quale motivo secondo voi dovrei ammirarla? […]

L’amicizia io la riconosco dal fatto che non può essere delusa e riconosco l’amore vero dal fatto che non può essere oltraggiato. Se qualcuno viene a dirti: “Ripudia quella donna perché ti disonora..”, ascoltalo con indulgenza, ma non mutare il tuo comportamento, poiché chi ha il potere di disonorarti? E se qualcuno viene a dirti: “Ripudiala, tanto tutte le tue cure sono inutili..”, ascoltalo con indulgenza, ma non mutare il tuo comportamento, poiché un giorno hai fatto la tua scelta. Se ti possono rubare ciò che ricevi, chi ha il potere di rubarti quello che offri? E se qualcun altro viene a dirti: “Qui hai dei debiti. Qui non ne hai. Qui si riconoscono i tuoi meriti. Qui sono beffeggiati”, tappati le orecchie per non sentire simili calcoli. A tutti costoro dovrai rispondere: “Amarmi significa anzitutto collaborare con me”.

 Amore e collaborazione.

Non bisogna confondere l’amore con la schiavitù del cuore. L’amore che prega è bello, ma l’amore che supplica è degno di un servo. Se il tuo amore urta in qualcosa di assoluto come il dover superare l’impenetrabile muro di un monastero o dell’esilio, allora ringrazia Dio se quella donna ricambia il tuo amore, anche se in apparenza è sorda e cieca. Poiché c’è una lampada accesa per te nel mondo. Non importa se non puoi servirtene. Chi muore nel deserto possiede una casa lontana che lo rende ricco anche se lui muore. Se io plasmo delle anime nobili e scelgo la più perfetta per murarla nel silenzio, nessuno apparentemente riceve qualcosa da lei. Eppure quest’anima nobilita tutto il mio impero. Chiunque passa in lontananza si prostra. E sorgono i segni rivelatori e i miracoli. Perciò se qualcuno ti ama, anche se inutilmente, e tu ricambi il suo amore, allora camminerai nella luce. Perché se esiste la divinità, è grande la preghiera cui risponde soltanto il silenzio. E se il tuo amore è accettato e qualcuno apre le sue braccia, allora prega Dio di salvare questo amore dalla morte, poiché io temo per i cuori appagati.

Antoine de Saint-Exupéry, Cittadella.

Consuelo de Saint ExupéryConsuelo de Saint Exupéry.

Gianluca Cavallo – Potere e natura umana. Paradigmi a confronto

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Premessa

Che cosa sono io? E poi: che cosa è l’uomo, in quanto concetto universale? È possibile definirlo o sono tali e tante le differenze interne al genere cui ciascuno di noi appartiene da rendere questo uno sforzo vano?
Anche se l’uomo è a se stesso il primo e più immediato oggetto di riflessione, queste domande lo seguono da sempre, in maniera forse insolubile. Tuttavia, col rischio di fare un passo più lungo della nostra gamba, tenteremo qui, passando in rassegna le risposte più comuni nella storia del pensiero, di individuare quella che ci pare più corretta o, quanto meno, più persuasiva.
Siccome l’uomo è necessariamente inserito in un contesto sociale (o culturale) che in qualche modo ne determina le credenze e dunque il comportamento, prendere in considerazione diverse ipotesi di risposta su cosa sia l’uomo, significa porre attenzione anche al problema della sua relazione con il potere. Si vedrà, infatti, come diverse idee di “natura umana” coincidano con altrettante concezioni del potere, essendo facilmente assimilabili nel suo discorso di legittimazione.
Occorre allora chiarire, in via preliminare, che per “natura umana” si intende una caratteristica universale che sia condivisa dagli uomini di ogni tempo e di ogni luogo e perciò come un dato inemendabile che determina il comportamento degli individui sul pianeta e, per reazione, una risposta politica che si ritiene adeguata a questo. Le risposte alla domanda “che cos’è la natura umana?” che abbiamo individuato nella storia del pensiero e che abbiamo chiamato “paradigmi” sono le seguenti: 1) il paradigma realista, che considera la natura umana come qualcosa di realizzato e negativo (conflittuale); 2) quello moderno, che ritiene che l’uomo occidentale-europeo abbia realizzato pienamente la natura umana in termini positivi; 3) quello edenico, che considera la natura umana perfettamente realizzata come un dato perduto e irrecuperabile; 4) quello riduzionista, che considera il solo dato biologico dell’essere-umano; 5) quello negazionista, che afferma che una natura umana universale non esiste; 6) quello aristotelico-umanista, che considera la natura umana come una potenzialità da realizzare in base a determinati criteri universali.

Una natura umana compiuta e realizzata
Il paradigma realista
Nella maggior parte degli esempi di riflessione sull’uomo che ci fornisce la storia della filosofia troviamo una concezione della natura umana come un dato di fatto, facilmente constatabile da chiunque osservi la storia, la realtà politica, o, semplicemente, guardi con onestà dentro la propria anima. Tale atteggiamento è stato definito realista, in quanto considera la realtà umana come un fatto di cui il pensiero vero deve essere un rispecchiamento. Ogni proposizione espressa sull’argomento, potrà allora essere facilmente identificabile come vera, se ad essa corrisponde un elemento della realtà (cioè se è dotata di un referente); falsa, altrimenti.
Gli elementi che i pensatori aderenti a questa concezione ritengono di poter con esattezza individuare come caratteristiche universali sono tutti negativi: l’umanità è malvagia ed egoista, caratterizzata dal desiderio di sopraffazione in vista dell’ottenimento di una sempre maggiore quantità di beni ad uso esclusivamente personale (quella che in greco era detta pleonexia); tra gli uomini vige perciò naturalmente uno stato di odio e di guerra, cui solo una società artificialmente istituita può porre un rimedio, mai, peraltro, del tutto sicuro.
Il più prestigioso pensatore dell’antichità ad aver espresso per la prima volta in modo esplicito e compiuto queste idee è Tucidide, autore di quell’ opera fondamentale (per la filosofia, la storia e la storiografia) che è La guerra del Peloponneso. Nell’antichità classica, idee simili a quelle espresse da Tucidide furono sostenute soprattutto dai Sofisti. Che La guerra del Peloponneso narri di rapporti politici di alleanza e conflitto e che i sofisti esercitassero prevalentemente la loro professione nell’ambito della polis greca, sono dati che è utile qui ricordare per sottolineare lo stretto legame che una determinata idea di natura umana intrattiene con la riflessione politica.
Per mettere in luce i rapporti tra un’antropologia così pessimista e le risposte che si suppone la politica debba essere pronta a dare ai conflitti scatenati dall’egoismo umano, è bene fare riferimento all’opera di Thomas Hobbes, il quale può essere considerato il “sistematizzatore” della concezione di natura umana che stiamo descrivendo. Egli visse nell’Inghilterra del XVII secolo, in un’epoca in cui il paese era dilaniato dalle guerre civili, dai conflitti religiosi e politici; da questi fatti egli trasse, con un’induzione di dubbia validità, quelle che riteneva essere le caratteristiche universali dell’umanità e che aveva trovato descritte proprio in Tucidide, del quale, non a caso, egli fu uno dei primi traduttori moderni.
Secondo Hobbes, la natura umana si caratterizza per tre aspetti che la portano inevitabilmente ad ingenerare il conflitto tra i singoli: la competitività, la diffidenza e l’orgoglio. Vi è, poi, il fondamentale istinto alla conservazione della propria vita e dell’integrità del proprio corpo. La «somma» del diritto naturale è infatti «difendersi con tutti i mezzi possibili» [1] e questo è l’unico diritto inalienabile, tanto che nemmeno il sovrano assoluto può forzare il suddito a subire il male senza difesa. Questo è il bene assoluto che viene messo in questione nello «stato di natura», ossia nello stadio prepolitico dell’umanità. In questa condizione, non esistendo alcuna autorità che freni il diritto naturale che ciascuno ha su qualsiasi cosa e che tende a conseguire con qualsiasi mezzo, gli uomini «si trovano in quella condizione che è chiamata guerra e tale guerra è quella di ogni uomo contro ogni altro uomo.  […] La natura della guerra non consiste nel combattimento effettivo, ma nella disposizione verso di esso che sia conosciuta e in cui, durante tutto il tempo, non si dia assicurazione del contrario.  […] In tale condizione non c’è posto per l’industria, perché il frutto di essa è incerto, e per conseguenza non v’è cultura della terra, né navigazione, né uso dei prodotti che si possono importare per mare, né comodi edifici, né macchine per muovere e trasportare cose che richiedono molta forza, né conoscenza della faccia della terra, né calcolo del tempo, né arti, né lettere, né società, e, quel che è peggio di tutto, v’è continuo timore e pericolo di morte violenta, e la vita dell’uomo è solitaria, misera, sgradevole, brutale e breve».
L’uomo è infatti indotto a ricercare il proprio vantaggio a danno di quello degli altri in parte per necessità, poiché egli deve contendere i pochi beni offerti dalla natura, in parte per sua propria volontà, poiché per natura egli è incline non già alla socievolezza, ma all’aggressività nei confronti del prossimo: «gli uomini non hanno piacere (ma al contrario molta afflizione) nello stare in compagnia, ove non ci sia un potere in grado di tenere in soggezione tutti».
Per uscire da questo stato di natura, in cui la vita e i beni di ciascuno sono costantemente esposti al pericolo, gli uomini debbono allora istituire la società, la quale è dunque un costrutto artificiale, contrario alla natura dell’uomo e limitante le sue libertà, e tuttavia necessario. Questo corpo sociale è descritto da Hobbes con la celebre metafora del Leviatano, figura mostruosa tratta dal libro Giobbe e usata dal filosofo inglese per descrivere l’unione di una moltitudine in una sola persona dei cui atti «ogni membro… con patti reciproci, l’uno nei confronti dell’altro e viceversa, si è fatto autore, affinché possa usare la forza e i mezzi di tutti, come penserà sia vantaggioso per la loro pace e la comune difesa».
Il potere che viene a costituirsi per ovviare agli inconvenienti dello stato di natura è un potere assoluto e coercitivo: la «logica realista» di Hobbes vuole che «dove c’è eguaglianza  […] non può esserci che conflitto, e dove si supera il conflitto non può esserci che gerarchia e struttura di dominio»[2]. Il governo del sovrano dev’essere teso alla conservazione più duratura possibile dell’ordine sociale, pena la ricaduta nello stato di guerra; dev’essere inoltre garantita la continuità al governo, quando un sovrano per qualche ragione decada, di modo che il Leviatano disponga di una «eternità di vita artificiale».
Se è vero che lo Stato hobbesiano è una monarchia assoluta, il cui sovrano può agire secondo arbitrio, non si deve tuttavia supporre che il potere da lui descritto sia di una forma superata da secoli e che non riguardi i nostri attuali regimi di governo, detti democratici. Lo Stato sempre assume le caratteristiche di violenza e coercizione che Hobbes gli attribuisce: il dissenso è disciplinato in maniera tale che non possa nuocere all’autorità e all’ordine costituito e «tutti gli uomini che non sono sudditi o sono nemici, oppure hanno cessato di esserlo per un patto precedente»[3]. Basti pensare a ciò che, in merito, sostiene Kant, considerato uno dei padri del liberalismo moderno: «in una costituzione civile già sussistente il popolo non dispone più di alcun giudizio giuridicamente valido che determini come essa debba essere amministrata»; l’unica libertà concessa è la «libertà della penna», la quale non può però istigare alla sovversione nei confronti del sovrano[4].
È chiaro, allora, come il paradigma realista diviene (se è vero) o è (se è falso) strumento dell’ideologia del potere statale moderno e della società mercantile capitalistica, che all’epoca di Hobbes non era ancora certamente sviluppata in senso industriale, ma di cui già si coglievano le prime avvisaglie.
Date queste premesse, infatti, il potere statale, per quanto coercitivo o violento che sia, o scarsamente rappresentativo degli interessi comuni del popolo di cui è fatto portavoce, è comunque legittimo e la forma peggiore di governo sarà comunque un male da tollerare in quanto migliore di uno stato di anarchia che si suppone asociale e necessariamente conflittuale. Un governo tirannico andrà magari sovvertito in vista di uno più democratico (Hobbes e Kant non contemplavano questa ipotesi, ma l’ha fatto la storia dell’istituzione statale, senza uscire dalle linee fondamentali del loro paradigma teorico), tuttavia il suo potere ordinatore e pacificatore sarà comunque considerato intoccabile ed indiscutibile. In effetti, le società statali occidentali non prevedono nell’ordine del loro discorso5 una riflessione sulla forma e le modalità del potere che metta in dubbio la forma statale, la quale si è trasformata in un corpo dotato di una eterna vita artificiale (come diceva Hobbes) e che non può e non deve mai morire.
Per comprendere meglio questo punto può essere utile esemplificare un atteggiamento opposto, quale quello rintracciabile nella storia di numerosi regni africani di epoca precoloniale, presso i quali era uso tracciare profondi solchi nella temporalità del potere, rendendola discontinua. Ciò era realizzato con l’apertura di una fase di interregno alla morte del sovrano in carica, il quale non veniva sostituito se non dopo una guerra fratricida tra i contendenti al potere, durante la quale la società cadeva nell’anarchia. Addirittura, la capitale del regno veniva abbandonata (o anche distrutta) e ricostruita in un luogo diverso, dove il potere si sarebbe instaurato nuovamente, ponendosi in discontinuità tanto spaziale quanto temporale rispetto alla fase di governo precedente. Contrariamente a quanto è considerato ovvio nella cultura statalista occidentale, secondo la filosofia politica rintracciabile nei regni dell’Africa equatoriale, sarebbe una contraddizione o un non senso l’operazione che invece è stata compiuta nell’Europa tra Medioevo e Rinascimento: ovvero, la concettualizzazione dello Stato come un “corpo” e la sua trasformazione ideologica in un corpo imperituro, che non conosce la morte.  […]
Nei regni dell’Africa equatoriale è individuabile una biologizzazione del potere: per quanto esso si astragga e cerchi di sottrarsi al tempo, il potere viene pur sempre ricondotto alle dimensioni e ai ritmi della vita, periodicamente inglobato nella società e nella natura. La biologizzazione del potere è una rappresentazione che prevede anche, periodicamente, l’ineluttabilità della sua scomparsa[6].

Questa lunga citazione permette di cogliere per contrasto come la nostra cultura abbia ereditato da Hobbes la teoria e la pratica del Leviatano come potere assoluto e imprescindibile. Ma che lo Stato sia un’istituzione neutrale con l’unico compito di rappresentare i cittadini (o sudditi), è un’ideologia che è stata messa in dubbio con serie ragioni da pensatori di diversa appartenenza politica. Per Rousseau e Spinoza soltanto la democrazia diretta realizzata in comunità di ristrette dimensioni potrebbe porre fine al dato coercitivo e violento del potere, che secondo Rousseau rappresenta ciò che non si può rappresentare e dunque inevitabilmente devia dall’esprimere la volontà del cittadino [7]. Per Marx e i marxisti la forma moderna di Stato non è altro che un prodotto della borghesia e, come tale, istituito a bella posta per l’espressione degli interessi particolari di questa classe (perciò lo Stato si sarebbe “dissolto” nella società comunista, dove nessun interesse particolare avrebbe dovuto prevalere su quelli comuni).
Ma, come accennavamo sopra, la concezione realista della natura umana, costituisce anche un terreno ideologico fertile per la società capitalistica. Se si suppone, infatti, che l’uomo sia per natura acquisitivo, individualista ed egoista, tutto teso a massimizzare il proprio interesse privato, la conseguenza logica sarà l’istituzione di una società capitalistica, la quale, così, potrà pure avere tutti i difetti che le si possono imputare, ma tuttavia sarà la migliore e infine anche l’unica possibile, perché rispondente alla natura dell’uomo.
Ci sembra che questa concezione della natura umana sia falsa, in quanto assume come naturale ciò che è invece un prodotto interamente culturale. Infatti sono le logiche di instaurazione e riproduzione del potere politico ed economico che plasmano gli individui in modo da renderli così come i realisti li descrivono, e non il contrario. La persona è portata a massimizzare il proprio interesse privato perché inserita in un contesto sociale in cui prevale la crematistica (criticata dai filosofi dell’antichità classica) o, in termini moderni, la logica del profitto capitalista. Che il contesto strutturale (in termini marxiani) sia determinante nei confronti delle soggettività e della loro elaborazione simbolica ci pare evidente dal momento che sia esempi storici che etnografici possono fornirci un dato valido contro le pretese universalistiche di questa impostazione di pensiero. Non tutte le società che nella storia e nel mondo sono esistite ed esistono vedono agire in esse individui malvagi ed egoisti, frenati nelle loro pulsioni distruttive soltanto dal potere istituito. Non è, infatti, un prodotto universale né lo stato centralizzato, né il capitalismo, che pure sembrano essere indispensabili a chi si ponga in questa prospettiva.
Come ha scritto MacIntyre, «a uno stadio particolare dello sviluppo storico di qualsiasi cultura particolare, la configurazione predominante di emozione, desiderio, soddisfazione e preferenza sarà compresa adeguatamente solo se questi saranno intesi come espressione di una particolare posizione morale e valutativa. Le psicologie intese in questo senso esprimono e presuppongono delle concezioni morali» [8]. In altre parole, se si suppone che certe inclinazioni siano “naturali”, in realtà si sta presupponendo che esse siano moralmente lecite, cosicché la morale precede sempre una teoria degli affetti e dunque non può basarsi su essa, se non in maniera ideologica.
La concezione realista della natura umana è, quindi, falsa, e tuttavia è la più diffusa. Questo non può essere spiegato che in termini di aderenza del discorso esposto alle logiche della riproduzione simbolica della cultura occidentale, la quale è in prevalenza legata ad un antiumanesimo crematistico, legato cioè a doppio filo con le logiche della massimizzazione dei profitti, che invertono mezzi e fini laddove l’economia diventa il fine dell’attività umana, e l’uomo è ridotto a mezzo di funzionamento del sistema. Luca Grecchi ha sostenuto in maniera convincente come questo antiumanesimo sia presente fin dalle origini della cultura occidentale, anche se inizialmente come atteggiamento minoritario (basti pensare che i più grandi filosofi dell’antichità erano ben distanti da posizioni simili, sostenute appunto dai sofisti), storicamente divenuto preminente fino ad assumere la quasi totalità della dimensione simbolica della nostra cultura odierna [9].

Il paradigma moderno
Vi è una seconda concezione che considera la natura umana come qualcosa di compiuto e reale, ma che si differenzia dalla precedente in quanto caratterizza l’umanità come dotata di caratteri essenzialmente positivi. La natura umana, in questa prospettiva, è qualcosa di realizzato in pienezza, ma ancora soltanto da una parte dell’umanità, che si trova in capo al treno della storia e del progresso. Inutile dire che questa minoranza del mondo è localizzata in Europa (o in Occidente) ed è caratterizzata dal trionfo della ragione sulla superstizione, della scienza sulla magia, dell’uomo sulla natura circostante, eccetera. Il resto del mondo è ancora intrappolato nei propri costumi arretrati, che si tratterebbe si spazzare via come un che di superfluo, in modo da far emergere finalmente la vera natura dell’uomo [10]. Fra gli innumerevoli esempi storici possibili, scegliamo quello di un filosofo tanto amato dagli illuministi e ancora oggi da molti filosofi di matrice analitica, cioè David Hume, il quale scrisse: «la grande superiorità degli europei inciviliti rispetto ai barbari indiani ci ha indotto ad immaginarci di essere, nei loro riguardi, allo stesso livello degli uomini rispetto agli animali e ci ha fatto buttar via tutti i freni della giustizia e perfino dell’umanità nei nostri rapporti con loro» [11].
La modernità illuminista elaborò una filosofia della storia essenzialmente ottimistica; formulata in maniera esplicita da Kant e soprattutto da Condorcet, essa divenne un dogma che, pur non accettato da tutti, rimase intatto fino al XX secolo, e vedeva nella modernità un’epoca di progresso sia nel campo della scienza che nel campo della morale e quindi della politica. Lo sviluppo della ragione umana avrebbe infatti portato ad una conoscenza scientifica sempre più dettagliata e onniesplicativa, ma avrebbe altresì garantito l’espulsione dal dominio dell’umano della barbarie morale che caratterizzava i tempi bui precedenti alla nova aetas. In questo modo la violenza ingiustificata dell’uomo sull’uomo sarebbe rimasta soltanto un ricordo lontano.
Analogo ottimismo sul futuro del genere umano mostrano tutte le grandi narrazioni di filosofia della storia elaborate nel secolo successivo: positivismo, hegelismo, marxismo. Il primo si gettava con cieca fiducia nelle mani della scienza, la quale sarebbe stata in grado, presto o tardi, non solo di dare ragione di ogni esistente, ma anche di estendere il dominio della società sull’uomo (in base alla conoscenza scientifica della natura umana si sarebbe infatti potuta costruire una società solida e fondata su dati certi) e sulla natura (conoscendola nei dettagli, la si sarebbe potuta sfruttare con il massimo profitto). «L’uomo, divenuto onnipotente, avrà soggiogato la natura utilizzandone le leggi per fare regnare su questa terra tutta la giustizia e libertà possibili. Non vi è scopo più nobile, più elevato, più grande. In esso consiste il nostro compito di esseri intelligenti: penetrare il come delle cose per dominarle e ridurle allo stato di meccanismi ubbidienti» [12]. L’hegelismo individuava nella storia il dispiegarsi dell’autocoscienza della libertà umana e pretendeva di individuare una forma statale entro la quale si sarebbe realizzata in sommo grado la libertà dell’uomo. Il marxismo, da canto suo, individuava un futuro regno della libertà che le leggi dialettiche intrinseche dello sviluppo delle forze produttive e dei mezzi di produzione avrebbero dovuto rendere prevedibile come esito certo della crisi del capitalismo industriale.
Che questa concezione della natura umana sia falsa è ovvio ormai anche per il senso comune. Da una parte, i progressi stessi della scienza hanno contribuito a metterne in crisi le pretese di onniesplicatività, di conoscenza e dominio (basti pensare al Principio di indeterminazione); dall’altra, la storia ha fatto riemergere, nel XX secolo, una barbarie e una violenza così sconvolgenti da rendere impensabile un ottimismo così ingenuo come a noi giustamente appare quello di certa filosofia moderna. La retorica postmoderna, del resto, ci ha abituati a ritenere che il Novecento abbia posto la parola fine a qualsiasi progetto della modernità, a qualsiasi possibilità di pensiero che domini la totalità del reale pretendendo di indicarne gli esiti futuri.
Se il paradigma moderno della natura umana è ormai inservibile, esso ha comunque avuto un’importanza storica fondamentale e non è del tutto scomparso, sotto certi aspetti, nemmeno oggi. L’individuazione dei caratteri della vera natura umana in ciò che la cultura occidentale aveva prodotto, ingenerava un sentimento di superiorità che portava a considerare l’Europa il luogo della civilizzazione e il resto del mondo vittima della barbarie, dell’inciviltà, dell’ignoranza, che sarebbe stato non solo lecito, ma anche giusto e buono per loro, conquistare e sottomettere, per impiantarvi i germi di una vera civiltà, di modo che tutto il mondo potesse assurgere allo splendore che l’Occidente vedeva nel suo specchio truccato (cioè l’ideologia, ancora una volta). La storia è nota: colonialismo, schiavismo, imperialismo, eccetera.
Naturalmente, abbiamo ancora una volta a che fare con un’ideologia di legittimazione non solo del potere politico, ma anche del capitalismo, il cui sviluppo necessita di un ampliamento costante dei propri spazi d’intervento, sempre e soltanto in nome della massimizzazione del profitto. È evidente, allora, che quest’ideologia non cessa di avere i suoi effetti nel mondo odierno, laddove si identifica l’Occidente con la Democrazia e si giustificano conflitti e mascherano interessi economici dietro la retorica democratica di quei governi che non si fanno problemi ad appoggiare dittatori quando questi sono ligi al dovere e che li abbattono quando diventano fastidiosi o pericolosi.
Se i filosofi postmoderni hanno perlopiù cessato di credere in qualsiasi valore universale e nelle metanarrazioni moderne, i potenti del mondo non hanno cessato di inzuppare di universalismo la loro retorica, attribuendo alla democrazia grosso modo lo stesso ruolo che aveva il comunismo nella teoria ortodossa marxista: un destino, la cui realizzazione deve essere favorita con ogni mezzo e il cui avvento porterà la libertà universale di tutti gli individui. I pensatori postmoderni non possono che prendere atto di questa realtà, ma si esimono dal darne una spiegazione coerente. Perché mai il progetto della modernità dovrebbe considerarsi fallito, quando ancora la maggioranza delle persone del mondo è succube di una retorica modernista e capitalista che ritiene ancora l’Occidente il modello a cui tutto il mondo dovrebbe guardare? La risposta di Lyotard è che l’universalismo cui fa riferimento la retorica politica è falso ed il progetto moderno è fallito proprio in quanto il capitalismo è portatore di un’universalità puramente ideologica [13], mentre qualsiasi alternativa ad esso sembra non poter avanzare alcuna pretesa, essendo peggiore del sistema attuale e pericolosamente totalitaria.
Ciò che qui si vuole sostenere è che il discorso politico odierno è, almeno in parte, assimilabile ad una metanarrazione di stampo illuministico, che vede nel corso della storia la possibilità di realizzare il modello occidentale su scala globale. Da questo punto di vista, il grand récit moderno è sempre stato fautore di un’universalità falsa ed ideologica e la retorica odierna non può esserne considerata il fallimento, bensì la naturale prosecuzione.
A parere di chi scrive, tuttavia, l’universalismo di per sé non costituisce un vizio della modernità da abbandonare in quanto ideologico o fallimentare. Si tratta di capire cosa si intende con universalismo, di modo da abbracciare con questo concetto qualcosa che non sia l’universalizzazione di un particolare (come nel caso della cosiddetta «occidentalizzazione del mondo», secondo un’espressione ormai celebre di Serge Latouche), bensì, se mi si passa il gioco di parole, una particolarizzazione dell’universale. Ma, su ciò, più diffusamente nel seguito.

Il paradigma edenico
Possiamo qui elencare una terza concezione della natura umana, che definiamo edenica, in quanto suppone che vi sia stato un uomo originario (ad esempio Adamo nella tradizione ebraica e cristiana) o un’umanità originaria (ad esempio i popoli primitivi, considerati paradigmi della buona naturalità dell’uomo, nella visione edulcorata che di essi avevano taluni intellettuali occidentali, come Rousseau) in cui erano presenti i caratteri della vera natura umana, i quali sono stati successivamente perduti, a causa del peccato o della corruzione dei costumi originari causata dalla cosiddetta civilizzazione.
Come ha notato Marshall Sahlins, si tratta, evidentemente, di un’inversione, rispetto al paradigma hobbesiano, del rapporto tra natura e cultura, tra physis e nomos, alle quali vengono assegnati qui valori assiologici opposti rispetto a quelli attribuiti da Hobbes e dai realisti. Ma le due concezioni si ricongiungono negli esiti, laddove viene considerata la natura umana corrotta degli edenisti in termini del tutto analoghi a quelli della natura umana originaria degli hobbesiani [14].
Va a finire, così, che anche il paradigma edenico diviene facilmente integrabile nel discorso di legittimazione del potere politico ed economico, il quale corrisponde a determinate caratteristiche umane. In questa prospettiva, tuttavia, la carica ideologica è meno pressante, in quanto, pur facendo propria una concezione realistica della natura conflittuale dell’uomo, non si suppone che questa sia originaria, e perciò si comprende come essa sia un prodotto culturale, contrario alla vera natura dell’uomo.
Il pensiero cattolico ritiene sì che gli uomini, discendenti di Adamo, portino sulle loro spalle il peso del peccato originale ed agiscano malvagiamente per l’inclinazione peccaminosa dei loro animi; tuttavia è sempre presente l’idea del riscatto. A differenza di certa teologia luterana e calvinista, che assume a propria base un rigido determinismo legato alla predestinazione di ciascuno alla vita eterna o alla perdizione, il pensiero cattolico ritiene pur sempre che la volontà umana, per merito della grazia divina, sia in grado di indirizzarsi verso il bene, in maniera tale da tendere ad una condizione adamitica di perfezione morale. È vero, dunque, che anche il pensiero politico cristiano vede nell’istituzione coercitiva una necessità, a causa della prevalente peccaminosità dell’uomo, ma lascia tuttavia aperto lo spiraglio della redenzione e l’ideale della comunità cristiana originaria o della «città di Dio» (Agostino) continua a valere come metro di paragone nei confronti della società esistente.
Per il pensiero roussoviano15 la civiltà ha compromesso definitivamente la naturalità spontanea e positiva dell’umanità originaria, la quale, allo stato odierno, è dunque costretta ad entrare in un sistema gerarchico ed istituzionalizzato che regoli la vita umana, divenuta nel frattempo di una tale complessità da non poter essere gestita dalle persone comuni. Ma anche Rousseau lascia aperta la via del riscatto, che passa attraverso la famiglia (La Nuova Eloisa), l’educazione (Emilio) e la politica (Il contratto sociale).
Pur essendo facilmente integrabile in un discorso di legittimazione del potere, il paradigma edenico mantiene una forza critica che va persa tanto nella concezione realista che in quella moderna della natura umana. Infatti, la condizione originaria (o anche il regno dei Cieli futuro, ove tutti sono uguali al cospetto di Dio) resta pur sempre un paradigma rispetto al quale si può valutare e giudicare la degenerazione del mondo odierno.

La natura umana tra biologia e cultura
Il paradigma riduzionista
Con lo sviluppo delle scienze biologiche, negli ultimi decenni è emersa una concezione della natura umana che intende identificare alcuni dati biologici universali, che si suppongono fondanti alcune caratteristiche tipiche dell’uomo rispetto ad altre specie animali. Queste caratteristiche possono essere positive (ad esempio il linguaggio, la creatività, l’altruismo) ovvero negative (l’egoismo, l’individualismo, l’utilitarismo).
Noam Chomsky è uno dei più prestigiosi teorici a sostenere l’esistenza di caratteristiche universali del comportamento umano determinate, almeno in parte, da meccanismi biologici. Egli sostiene infatti che esiste un insieme di schemi mentali innati, biologicamente determinati, che guidano il comportamento sociale e intellettuale degli individui, ed attribuisce a questi schemi proprio il concetto di «natura umana». In sintesi, si tratta di schemi di elaborazione che permettono al singolo di elaborare una risposta complessa a partire da un input di dati assai ristretto. Un esempio di questo meccanismo è il linguaggio: il bambino – sostiene Chomsky – ha un’esperienza linguistica «limitata e priva di ordine», che gli fornisce una quantità di dati «esigua» e di «bassa qualità». Per comprendere come sia possibile che il bambino, a partire da ciò, giunga ad una conoscenza «articolata, altamente sistematica e profondamente organizzata», è necessario supporre che esistano schemi innati che permettano l’elaborazione dei dati da parte del bambino, il quale fornisce un «contributo straordinario» alla creazione dell’output in termini di «creatività» [16]. Detto altrimenti, «le parole si apprendono, ma il linguaggio si sviluppa (come lo scheletro) più di quanto non s’impari» [17].
Com’è noto, Chomsky, oltre che ad essere un celebre linguista, è anche un militante e pensatore politico. Ancora una volta, dunque, la concezione della natura umana è strettamente legata ad una determinata visione della politica. Nella fattispecie, Chomsky, partendo dal dato della creatività intrinseca nei processi intellettuali umani, afferma che «una società più giusta dovrebbe massimizzare le possibilità di realizzare questa fondamentale caratteristica umana» [18] (cioè, appunto, la creatività).
Come si possa, da un dato biologico definito in maniera così generica, giungere con coerenza logica all’anarco-sindacalismo, non è del tutto chiaro. A parere di chi scrive, voler fondare una progettualità politica su un’astratta nozione di creatività, che si suppone determinata biologicamente, non è né efficace né coerente. È un tentativo che lascia insoddisfatti, per quanto si possa condividere la proposta politica di Chomsky, o il suo discorso sulle capacità innate nel soggetto umano; sono discorsi che restano separati e che possono avere una validità autonoma, ma sembra davvero difficile unirli in maniera convincente.
Possiamo considerare quello di Chomsky una forma di riduzionismo, in quanto riduce tutte le dimensioni dell’umano alla sola biologia, volendo fondare su di essa un cosmo sociale che implica il simbolico, il morale, il politico, ecc. In questo modo l’essere viene ricondotto «nell’angustia della semplice categoria della quantità», in linea con quella tradizione che principia grosso modo con Cartesio e che intende ridurre «il tutto dell’essere a ciò che la scienza ne può conoscere» [19]. Tuttavia, è lo stesso Chomsky a dover riconoscere che «è del tutto probabile che molte delle cose che ci piacerebbe comprendere,  […] come la natura umana o la natura di una società giusta o molto altro ancora, ricadano al di fuori dall’ambito di quel che la scienza può spiegare» [20].
Il riduzionismo biologico, d’altro canto, è utilizzato da alcuni per sostenere tesi sulla natura umana che, con l’apparenza di essere scientificamente fondate, sono opposte a quelle di Chomsky e in parte analoghe a quelle hobbesiane. Per usare le sintetiche parole di Sahlins, «l’idea che l’egoismo sia innato è stata recentemente rinforzata da un ondata di determinismo genetico che trova la sua espressione nel “gene dell’egoismo” dei sociobiologi e nel redivivo darwinismo sociale degli psicologi evoluzionisti» [21]. Ma non solo.
Nel XIX secolo alcuni scienziati positivisti tentarono di dimostrare come supposte differenze biologiche fossero delle barriere immutabili che impedivano lo sviluppo di una società più egualitaria. Il darwinismo ben presto si trasformò in «darwinismo sociale», utilizzato come metodo pseudoscientifico per giustificare le differenze economiche tra gli strati della società e tra le popolazioni in ambito coloniale. Nel XX secolo questa pseudobiologia è stata utilizzata per servire la causa della supremazia dell’uomo bianco o della razza ariana. Più recentemente, la psicologia evolutiva è diventata, nelle mani di qualcuno, una fonte per ammettere il patriarcato [22].
Queste teorie purtroppo non sono state abbandonate, hanno semmai cambiato faccia, e sono alla base delle presunte spiegazioni di qualsiasi tipo di comportamento umano, dall’omosessualità alla depressione, alla violenza, alla criminalità. Addirittura c’è chi millanta di aver individuato un gene per la condizione di senza tetto.
Esattamente come proposto dall’ambiziosa utopia positivista espressa da Zola ne Il romanzo sperimentale, le politiche della Rockefeller Foundation, in seno alla quale nacque negli anni Trenta quella disciplina che ha preso il nome di biologia molecolare, erano orientate – come ebbe a sostenere uno dei direttori della fondazione – «verso il problema generale del comportamento umano, con lo scopo di comprenderlo e quindi controllarlo.  […] La Scienza medica e le Scienze naturali propongono uno studio strettamente coordinato delle scienze che si occupano della comprensione della persona e del suo controllo» [23]. Il direttore della celebre rivista Science, alla domanda «perché dovremmo spendere soldi per il Progetto Genoma quando ci sono tante persone senza casa e senza lavoro?» rispose: «Il Progetto Genoma è più importante per quelle persone che per chiunque altro perché l’essere senza casa e senza lavoro sono una forma di handicap che sarà possibile curare una volta che si conosceranno a fondo i geni» [24].
La neurogenetica, una scienza “giovane”, nata dalla sintesi fra gli studi genetici e quelli neurologici, offre la prospettiva di identificare i geni che influiscono sulle funzioni cerebrali e quindi sul comportamento, ascrivendo loro un potere causale e alla fine modificandoli. La neurogenetica afferma di essere in grado di rispondere a questa domanda: in un mondo pieno di sofferenza individuale e di disordine sociale, dove dovremmo guardare non soltanto per spiegare, ma, ancor di più, per cambiare la nostra condizione?
La più naturale risposta ad una simile domanda, se priva delle premesse strettamente deterministiche che i neurogenetisti avanzano, sarebbe che la soluzione va ricercata in un affinamento delle leggi che regolano la vita sociale. Nel corso dei secoli il compito di risolvere questi problemi è stato affidato alla politica e alle scienze sociali, mentre oggi sembra che questa speranza non sia più sensata, anche perché non si è mai venuti, in nessuna epoca storica e in nessun contesto sociale, a capo di queste problematiche. La soluzione è dietro l’angolo, ed è solo questione di scienza. Del resto, se sono i geni a stabilire che cosa noi siamo e saremo, perché non dovrebbe darsi la possibilità di comprendere tutto solo in base ad essi?
Così, questo riduzionismo-determinismo riconduce il problema della natura umana ad una questione di genetica e la fondazione di una società politica alle scoperte della scienza. Ma sappiamo che queste ricerche sono ben lungi dall’essere neutrali, e identificano l’uomo con quell’atomo sociale utilitarista ed individualista che è l’idealtipo richiesto dal sistema capitalistico. Se infatti l’essenza dell’uomo va rintracciata unicamente nei suoi geni, l’identità di ciascuno sarà determinata in maniera endogena (indipendentemente dal contesto sociale) e gli eventuali comportamenti altruisti non saranno che il riflesso di una necessità biologica di riprodurre i propri geni (questa è la tesi di Richard Dawkins [25]). È facile constatare la somiglianza fra queste tesi e quelle che sostengono come il legame sociale derivi e si mantenga soltanto se i singoli ne derivano un’utilità individuale: tale è la verità per certo pensiero liberale, per il quale l’individualismo possessivo è sinonimo di libertà.
Ma il determinismo genetico è una posizione controversa all’interno della comunità scientifica ed ha ricevuto le sue fondate critiche. Come ha sottolineato in un’intervista Richard Lewontin, genetista di fama mondiale, «anche se avessi la sequenza completa del DNA di un organismo, se non conoscessi la sequenza degli ambienti in cui l’organismo si sviluppa, non potrei sapere quale aspetto avrebbe quell’organismo». Ma nemmeno l’ambiente [26] può servire da spiegazione sufficiente: la differenza, per esempio, tra le impronte digitali della mano destra e della mano sinistra non può essere spiegata né a livello genetico (i geni sono gli stessi per entrambe le mani), né a livello ambientale (l’ambiente in cui le due mani si sono sviluppate è lo stesso, cioè l’utero materno). Come si spiega allora una differenza come questa? Semplicemente non si spiega. Lewontin afferma che «durante lo sviluppo di un organismo probabilmente accade qualcosa a livello di movimenti evolutivi casuali, divisioni di cellule che si verificano per caso, su un lato piuttosto che sull’altro, e che non sono determinati né dai geni né dall’ambiente nell’accezione comune del termine, ma che incidono in maniera rilevante sull’aspetto finale dell’organismo» [27].
Quando si parla specificamente di esseri umani, che è la questione che maggiormente ci interessa, la questione si fa ancora più ardua, a causa dell’estrema complessità del nostro sistema nervoso: le connessioni sinaptiche si sviluppano in buona parte in maniera pressoché casuale, e ciò determina (in un certo senso) il nostro essere, senza nessuna influenza genetica.
Come ha sostenuto Clifford Geertz, le informazioni genetiche fornite dal nostro organismo non sono sufficienti a guidare il nostro comprtamento; per funzionare, lo stesso nostro cervello necessita di acquisire delle informazioni esterne, che sono tratte dal contesto culturale in cui l’individuo (e specialmente il bambino nella fase di formazione delle connessioni cerebrali) è inserito [28].
Alla base della vita sta dunque la complessità: l’espressione dei geni, l’ambiente cellulare ed extra-cellulare, nonché l’ambiente esterno all’organismo sono relazionati tra loro in una rete inestricabile: non vi è unidirezionalità causale; i livelli microscopici condizionano e sono condizionati dai livelli superiori.
Il riduzionismo dunque non è una strada percorribile per ottenere una risposta soddisfacente alle domande sulla natura umana e sulla società politica.

Il paradigma negazionista
Constatando l’inadeguatezza di tutte queste formulazioni del problema della natura umana e forti dei loro studi etnologici, alcuni antropologi hanno proposto di abbandonare l’idea, sostenendo che sia impossibile rintracciare un dato universale che caratterizzi la specie umana, siccome ogni diversa cultura porta a compimento forme diverse di umanità. Scrive Sahlins: «la natura umana è un divenire basato sulla facoltà di comprendere e mettere in atto lo schema culturale appropriato» [29]. La natura umana, secondo questa prospettiva, è qualcosa di non naturale, e viene a coincidere con la cultura; il che equivale a dire che una natura umana non esiste. Coma ha sintetizzato Francesco Remotti, secondo gli sviluppi più recenti dell’antropologia culturale si sostiene «l’irreperibilità dell’uomo al di là delle sue usanze, l’impossibilità di scoprirlo nudo nella sua ‘purezza’ originaria e preculturale» [30]. Essendo poi i costumi e le usanze sempre particolari e soggetti a mutamento, tale sarà allora anche l’idea di uomo, che non sarà più un concetto universale, ma sempre particolare e destinato anch’esso a mutare, in parallelo con il mutare dei costumi. In questo modo, la natura umana perde la sua stabilità e la sua unità, sicché «risulta ormai difficile parlare di ‘essenza’» [31] riferendosi all’uomo.
Il bambino nasce aperto a potenzialità pressoché illimitate (per fare un esempio, un bambino appena nato può potenzialmente apprendere qualsiasi lingua si trovi a sentire), le quali vengono gradualmente selezionate dalla cultura entro la quale si trova inserito, sicché da una parte la cultura si configura come un completamento di potenzialità che, selezionate, vengono attualizzate, e dall’altra come una rinuncia a potenzialità che vengono escluse. Ma la cultura non giunge mai a saturare completamente le possibilità di un individuo, sicché la si può caratterizzare anche come un processo che non giunge mai a compimento, perché l’uomo resta sempre aperto al mondo. L’incompletezza umana è, come ha scritto Remotti, «il presupposto  […] della capacità poietica e autopoietica che contraddistingue Homo sapiens» [32].
Se l’uomo è plasmato dal contesto culturale in cui è inserito, sarà allora impossibile parlare sia di uno stadio preculturale che di uno stadio prepolitico. Così è fatta cadere quella dicotomia fra individuo e società che il pensiero contrattualista dà per scontata e la dimensione sociale viene ad essere immediata, di modo che la caratterizzazione aristotelica dell’uomo come zoon politikon viene ad assumere un significato più preciso.
Tuttavia, questa prospettiva culturalistica, che nega qualunque contenuto alla natura umana, non è esente da rischi. Infatti, se l’uomo è determinato nelle sue scelte comportamentali in buona parte dalla cultura (pur essendo questa frutto di una convenzione sempre precaria ed esposta alla possibilità della revoca) e se di questa la dimensione simbolica è fondamentale per il controllo e la comprensione del comportamento umano, dovremo riconoscere che il potere ha larga parte nel plasmare le diverse forme di umanità. Il potere è infatti ciò che ordina il corpo sociale e ne organizza le forme della produzione e della riproduzione, che investono non soltanto – e nemmeno principalmente – la dimensione materiale, ma anche e soprattutto quella simbolica.
Tenendo conto del carattere gerarchico e coercitivo della maggioranza delle forme di potere diffuse al mondo, possiamo affermare che il potere gerarchizza il corpo sociale e in tal modo opera, all’interno di una stessa cultura, un’imposizione di diverse forme di umanità. L’equazione tra una cultura e una specifica forma di umanità, sostenuta da Geertz, ci sembra approssimativa. Il potere non è soltanto ciò che si differenzia dal resto della società e che opera una differenziazione tra la società da esso rappresentata e le altre [33]; esso è anche ciò che differenzia il corpo sociale. Inoltre al potere è ascrivibile l’organizzazione del discorso, che della cultura è un elemento fondamentale, coinvolgendo la dimensione del simbolico. È anzi mediante la produzione di regimi di discorso che il potere si legittima e in questo modo fonda e riproduce la gerarchia sociale che lo mantiene in vita dal punto di vista materiale.
Michel Foucault, nella lezione inaugurale che tenne al Collège de France il 2 dicembre 1970, individuò una serie di stratagemmi mediante i quali il potere organizza il discorso di una cultura. Quelle che ci paiono più importanti, nonché più diffuse, sono quelle che egli chiamò «procedure d’esclusione». Esse sono 1) l’interdetto; 2) la partizione; 3) l’opposizione del vero e del falso. Brevemente, l’interdetto consiste nell’esclusione di taluni argomenti da ciò che può essere detto: si concretizza in «tabù dell’oggetto, rituale della circostanza, diritto privilegiato del soggetto che parla» [34]. Come Foucalt sottolinea, gli ambiti in cui l’interdetto si applica maggiormente sono quelli della sessualità e della politica.
La partizione consiste nell’organizzare il discorso secondo opposizioni di termini il cui significato è socialmente e storicamente determinato. Ad esempio, l’opposizione tra ragione e follia, che va ben oltre il suo significato psichiatrico (anch’esso, comunque, secondo Foucault, non neutrale), e può essere utilizzato per screditare facilmente una posizione scomoda: un discorso critico radicale nei confronti del potere può essere facilmente tacciato di “follia” o di “utopismo”, termini che non sono poi così distanti.
L’opposizione del vero e del falso non riguarda ovviamente il livello logico della proposizione, ma ha a che fare con quella che Foucault chiama «volontà di verità» o «volontà di sapere», la quale è espressione del potere nelle varie forme che esso ha assunto nella storia. In questo senso, la volontà di verità è «storia dei piani d’oggetti da conoscere, storia degli investimenti materiali, tecnici, strumentali della conoscenza» [35]. Foucault descrive in tratti concisi ma estremamente efficaci quella volontà di verità che è emersa tra il XVI e il XVII secolo e che caratterizza ancora in buona parte la nostra cultura odierna: «una volontà di verità che imponeva al soggetto conoscente (e in certo modo prima di ogni esperienza) una certa posizione, un certo sguardo e una certa funzione (vedere più che leggere, verificare più che commentare); una volontà di sapere che prescriveva (e con modalità più generali di ogni strumento determinato) a che livello tecnico le conoscenze tecniche avrebbero dovuto investirsi per essere verificabili e utili» [36].
Può essere interessante, a questo punto, adottare le categorie elaborate da Ferruccio Rossi-Landi [37], secondo le quali, come il capitalista detiene i mezzi della produzione e della riproduzione materiale, così il potere politico detiene i mezzi della produzione e della riproduzione simbolica. In tal modo, il regime di discorso può essere paragonato al capitale costante di una determinata cultura, mentre ogni parlante può essere paragonato ad un “lavoratore linguistico” che, non detenendo i mezzi della produzione, non può modificarli, ma è costretto ad utilizzare materiale linguistico e comunicativo (generalizzando: simbolico) prestabilito. Si può dunque parlare di una vera e propria alienazione linguistica che, esattamente come l’alienazione del lavoratore nella teoria marxiana, può essere rotta soltanto con un atto rivoluzionario che sconvolga la cultura esistente.
Se si afferma che la cultura è la dimensione che realizza l’umano, non si può ignorare questa dimensione politica; ma se la si prende seriamente in considerazione, una prospettiva culturalistica che strumenti può offrire per un discorso valutativo che chiarisca quali forme di umanità (di cultura, di potere) sono accettabili e quali no? Ci sembra che l’idea che stiamo seguendo, che nega qualsiasi contenuto alla natura umana, non sia in grado di offrirne alcuno. Se non esiste un universale, infatti, non può esistere alcun valore, ed è soltanto in base a questi che si può sostenere con coerenza un discorso valutativo.
Alla base di questo negazionismo, possiamo individuare tre tesi filosofiche fondamentali: 1) non può essere affermata alcuna verità universale se si ritiene che l’uomo sia interamente plasmato dai costumi particolari; 2) ciascun essere particolare è in sé completo e vero: ogni cultura particolare è valida e giustificata secondo i parametri di giudizio da essa stessa elaborati; 3) supporre l’esistenza di una verità assoluta significa universalizzare un ‘noi’ culturale particolare, il quale si pone come superiore agli altri e come tale sempre potenzialmente violento. Com’è facile notare, queste tre tesi confluiscono in un evidente relativismo culturale. Geertz sostiene che il relativismo è una forma di sapere «coraggiosa», che destabilizza le rassicuranti certezze di chi vorrebbe attaccarsi ad una presunta verità. In realtà è il contrario: il relativismo è il frutto della paura della Verità, la quale – si sostiene – è violenta e totalitaria e porta con sé inevitabili derive, di cui gli orrori del XX secolo costituirebbero l’emblema.
Il relativismo è vecchio quanto il veritativismo, ma nella sua forma specificamente postmoderna esso (ri)nasce proprio dalla paura, come elaborazione di un lutto. Lyotard afferma esplicitamente (ne Il postmoderno spiegato ai bambini) che occorre negare validità alle pretese veritative delle grandi narrazioni perché esse hanno avuto come conseguenza – a suo dire – le guerre mondiali e le dittature del Novecento. È quindi una paura per la verità a far sostenere un facile relativismo, che, lungi dall’essere una posizione coraggiosa, è perfettamente inerente al discorso politically correct ed è una forma, nemmeno molto velata, di legittimazione dell’esistente. Si afferma che il relativismo mette al riparo dalla «paura per le differenze», ma lo fa semplicemente negando la possibilità della critica, tanto nei confronti del “noi” quanto dell’ “altro”.
Come insegna Alain Badiou [38], una Verità non può essere paurosa delle differenze, perché ad esse superiore. La Verità è sempre un universale che, come tale, considera, di fronte a se stesso, le differenze come non discriminanti; non già come inesistenti o da sopprimere, ma come un dato di fatto ineliminabile che tuttavia non può intaccare l’universalismo, che vale per chiunque. Anzi, la Verità si realizza solo tramite e grazie alle differenze, non già con una negazione di esse a favore di un Noi che si impone sugli Altri. In un certo senso, verità e universalismo vengono a coincidere, perché ogni verità non può che essere universale.
In tal modo si preserva la possibilità del discorso valutativo, dal momento che potremo considerare una cultura che, ad esempio, tolleri lo schiavismo, la discriminazione, lo sfruttamento, come non aderente al Vero, non già in quanto particolare (ogni cultura è infatti particolare), ma perché negatrice dell’universalismo ed esaltatrice delle differenze. Si noti, peraltro, che valutare non significa discriminare: come ha spiegato chiaramente Diego Marconi, nel considerare un valore che una cultura ritiene tale, noi possiamo benissimo sforzarci di comprenderlo e anche di scusarlo, ma ciò non significa che esso sia vero, per il semplice fatto che coloro che appartengono a quella cultura lo ritengono tale. Né voler riconoscere tutti i valori come equivalenti può sostenere davvero la possibilità di un dialogo interculturale, perché «i valori esigono di essere messi a confronto», sia per mettere alla prova la loro validità, sia per poter comprendere (anche se non giustificare) quelli propri o altrui che risultano falsi [39].
La critica dei relativisti contro la verità assoluta ha di mira un discorso ideologico che universalizza una verità particolare (e che, secondo la classificazione qui proposta, possiamo identificare con il paradigma moderno). In tal senso, la loro critica è indubbiamente corretta e filosoficamente valida. Tuttavia ci sembra che essi gettino via, per così dire, l’acqua sporca della verità così intesa con il bambino della verità tout court.
Seguendo il discorso di Badiou possiamo invece affermare che la Verità non è l’universalizzazione di un particolare, bensì una particolarizzazione dell’universale, nel senso che la speculazione filosofica ci ha insegnato: ogni concretizzazione di un concetto assoluto è storicamente (e geograficamente) determinata; nondimeno, essa corrisponde pur sempre all’Idea.
In tal modo, possiamo concludere che: 1) un’idea di Verità siffatta è perfettamente compatibile con la particolarità dei costumi; 2) non si può affermare che ogni cultura è valida secondo i suoi stessi criteri, ma, adottando il punto di vista dell’universale, si dovrà valutare se e quale cultura è eticamente e politicamente vera; 3) la Verità così intesa non è affatto prevaricatrice e violenta, ma si pone come un universale di fronte al quale le differenze non sono discriminanti.

Il paradigma aristotelico-umanista
Vi è un modo di intendere la natura umana che finora non abbiamo considerato, avendo deciso di porlo al fondo del nostro lavoro, quale conclusione positiva, dopo una serie di presentazioni in negativo di paradigmi che abbiamo ritenuto poco convincenti. Quest’ultima maniera di intendere la natura umana la considera come pura potenzialità, esattamente come il paradigma che abbiamo definito negazionista. A realizzare queste potenzialità (che includono certamente anche un dato biologico, ma che non possono essere limitate a questo, come fanno i riduzionisti), sarà ogni specifica e particolare cultura. A differenza del paradigma culturalista, tuttavia, il paradigma aristotelico-umanista considera tale potenzialità come indirizzata verso un telos determinato, che è la natura dell’uomo completa e realizzata, e che si realizza in una vita felice. Perciò questa prospettiva è insieme teleologica e eudemonistica, ciò che fa storcere il naso alla gran parte dei pensatori moderni e postmoderni, attaccati ai valori di una scienza sperimentale assolutamente non teleologica e ad un’etica che non considera più la felicità come una condizione stabile raggiungibile dall’uomo, ma semmai come momentanea soddisfazione di desideri sempre crescenti e alla fine insoddisfatti.
Siccome l’uomo non vive fuori dalla società, per definire la sua condizione di felicità occorrerà definire anche quale condizione sociale sarebbe la migliore per lo sviluppo delle sue potenzialità, cosa che ancora una volta è contraria al paradigma liberale e individualista, secondo il quale, se una felicità c’è, essa è un fatto individuale e dipende semmai da quanto il singolo è riuscito a sfruttare le occasioni che la società gli ha dato e non certo da una società eventualmente diversa e migliore dalla presente.
Per comprendere come si strutturi la teoria aristotelica (o di quei filosofi che si rifanno ad Aristotele), occorre leggere la sua famosa tesi secondo la quale «l’uomo è per natura un animale politico» [40] a partire dalla sua dottrina della potenza e dell’atto. Secondo quest’ultima, la potenza (dynamis) è capacità, movimento orientato ad un fine; l’atto (energheia) è la causa finale, il telos verso il quale tende qualsiasi dynamis. Per questo, «secondo la sostanza» esso «è anteriore» rispetto alla potenza: «tutto ciò che diviene procede verso un principio, ossia verso il fine: infatti, lo scopo (telos) costituisce un principio e il divenire ha luogo in funzione del fine. E il fine è l’atto (energheia)» [41]. Ogni cosa realizza pienamente la propria natura soltanto quando perviene all’attualizzazione, in quanto «l’atto è l’esistere della cosa» [42]. In base a questo principio possiamo dire che la politicità è l’essere-in-potenza dell’uomo, una dynamis che può realizzarsi soltanto nella comunità giusta. Il conflitto (il contrario della buona vita politica) e il vizio (il contrario della virtù), sono ciò che si frappone al raggiungimento dell’energheia. Infatti l’uomo è sì un essere naturale, ma soltanto le sue potenzialità fisiche e biologiche possono giungere all’atto «per virtù propria». La sue caratteristiche razionali, che fanno di lui uno zoon politikon logon echon, possono attualizzarsi soltanto «quando siano volute e non intervengano ostacoli dal di fuori» [43].
È chiaro, allora, come, nella definizione, «per natura» non significa che la politicità dell’uomo sottostia a regole naturali del tipo di quelle che regolano la fisica o la biologia. Così si potrebbe intendere se la socialità si risolvesse semplicemente nell’ambito dell’utile, in considerazione del fatto che l’uomo non può fisicamente e biologicamente sopravvivere da solo e perciò ha un bisogno naturale degli altri; ma per Aristotele la polis è molto di più:
la comunità cittadina non è costituita soltanto dall’identità del luogo, dall’astinenza dal danno reciproco e dalla garanzia dei rapporti commerciali, perché, sebbene queste cose siano imprescindibili per l’esistenza della città, tuttavia, anche se si realizzano tutte, non c’è ancora una città, ma questa è la comunità che garantisce la buona vita e alle famiglie e alle stirpi, e ha come fine una vita indipendente e perfetta [44].

Il termine greco per «natura» (physis) include nel proprio campo semantico un dinamismo, che Aristotele concettualizza appunto in termini di passaggio dalla potenza all’atto. Come si vede, secondo questa prospettiva, l’uomo realizza la propria natura soltanto quando vive in una comunità giusta (che secondo Aristotele significa che essa dà a ciascuno quanto gli spetta secondo il proprio merito, il quale va misurato a seconda di quanto il comportamento virtuoso del singolo abbia contribuito alla realizzazione del bene comune) e realizzi una vita «indipendente e perfetta». Come anche per Marx, infatti, l’uomo può realizzare la propria individualità soltanto in un contesto comunitario, il quale non è però oppressivo e totalitario, come sarebbe secondo una concezione meramente organicistica della comunità, ma è la condizione essenziale per il dispiegamento delle potenzialità dell’uomo «onnilaterale» [45].
Secondo la filosofia greca classica al concetto di uomo era immediatamente associata l’idea di ciò che lo rende pienamente e perfettamente tale. Alasdair MacIntyre ha notato come «uomo» sia, così inteso, un concetto funzionale. Esattamente come «il concetto di orologio non può essere definito indipendentemente dal concetto di buon orologio» e «il criterio che fa di qualcosa un orologio e il criterio che fa di qualcosa un buon orologio non sono indipendenti l’uno dall’altro», così l’uomo non può essere definito indipendentemente dall’idea della sua piena realizzazione. Un concetto funzionale può essere poi inserito in asserzioni del tipo ‘questo è un buon x’ (dove ‘x’ sta per un concetto funzionale) e tali asserzioni, che si concludono assiologicamente, saranno argomentazioni valide la cui premessa è basata su dati empirici (conoscendo la natura e la funzione di x potrò dire con certezza cosa è buono per x) [46].
Secondo Luca Grecchi, che interpreta la tradizione classica inserendosi positivamente nel suo solco, nell’uomo sono ritracciabili tre componenti: a) quella razionale, b) quella morale e c) quella simbolica. La a) non va intesa nel senso illuministico del termine (cioè come portatrice di progresso e di superiorità culturale dell’Occidente sulle altre culture), bensì nella sua accezione classica: essa riguarda «non tanto l’operatività sulle cose», quanto il significato che l’uomo attribuisce «ad ogni ente e relazione della vita» e quindi alla «trama complessiva di rapporti che unisce gli uomini fra loro ed al mondo» [47]. La componente b) va invece intesa, secondo Grecchi, come «cura che ogni uomo deve realizzare, per essere realmente uomo, nei confronti di ogni altro essere vivente e del mondo» [48], giacché soltanto in questo modo l’uomo può realizzare una comunità da cui sia espunto il conflitto e in cui la vita possa realizzarsi felicemente alla maniera aristotelica. Infine, la c) include la dimensione del sacro e di tutto ciò che assume un significato per l’uomo indipendentemente dalla sua utilità pratica: se quest’ultima presuppone l’attribuzione ad ogni cosa di un significato e una funzionalità specifica, lo spazio simbolico è ciò che resta aperto «alla ambivalenza dei contenuti» [49]. Il simbolico è forse la dimensione che maggiormente segna la differenza fra le culture, e tuttavia esso non va escluso in nome della verità, ma, proprio in base a questa, ha da essere valorizzato.
In questo modo non giungiamo a conclusioni così distanti da quelle cui giunge chi adotta il paradigma negazionista. Se questi ultimi possono assumere un atteggiamento critico nei confronti di un capitalismo che riduce la vivacità e la varietà culturale e che è in qualche modo percepito (correttamente) come indebita universalizzazione di un particolare, con caratteristiche di violenza e sopraffazione, ingiustizia e criminalità (seppur abilmente mascherate), noi possiamo adeguare la medesima critica al fondamento filosofico che proponiamo di assegnarle ed affermare che un tale sistema è deplorevole in quanto agisce contro la possibilità dell’uomo di realizzare le proprie potenzialità di vita felice e di giustizia. Ma, a differenza dei «negazionisti», non si intende qui destituire il capitalismo inteso come verità universale per valorizzare le differenze e negare la verità; al contrario, si afferma che il sistema che ci domina oggi è falso (in quanto non universale e discriminante le differenze) e che occorre affermare una Verità che confligga tanto con esso quanto con qualsiasi alternativa che debba essere destinata a restare un particolare, chiuso in se stesso e portatore di una verità parziale.

Note

1 Le citazioni seguenti sono tratte dal Leviatano, nella traduzione edita da Rizzoli, Milano, 2011.
2  P. P. Portinaro, Il realismo politico, Laterza, Roma-Bari, 1999, p. 26.
3 Leviatano, XXVIII.
4 I. Kant, Sul detto comune: questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la prassi, in Id., Scritti di storia, politica e diritto, Laterza, Roma-Bari, 20098, p. 146 e p. 150.
5 Uso qui un’ espressione desunta da Foucault, su cui tornerò in seguito.
6 F. Remotti, Centri di potere. Capitali e città nell’Africa precoloniale, Trauben, Torino, 2005, p. 156.
7 Rousseau e Spinoza consideravano questa democrazia difficilmente realizzabile e tuttavia ponevano con coerenza un problema che non può essere ignorato.
8 A. MacIntyre, Giustizia e razionalità. Vol. 1. Dai greci a Tommaso d’Aquino, Anabasi, Milano, 1995, p. 98.
9 Cfr. L. Grecchi, Occidente. Radici, essenza, futuro, Il Prato, Padova 2009.
10 Cfr. F. Remotti, Cultura. Dalla complessità all’impoverimento, Laterza, Roma-Bari, 2011, p. 14.
11 D. Hume, Ricerca sui principi della morale, Laterza, Roma-Bari, 1997, p. 41.
12 E. Zola, Il romanzo sperimentale, tr. it I. Zaffagnini, in G. Baldi et al., Dal testo alla storia dalla storia al testo, vol. E, Paravia, Torino, 2000, p. 157.
13 Cfr. J.-F. Lyotard, Il postmoderno spiegato ai bambini, Feltrinelli, Milano, 1987, p. 28: «la vittoria della tecnoscienza capitalistica sugli altri candidati alla finalità universale è un altro modo di distruggere il progetto moderno con l’aria di realizzarlo».
14 Cfr. M. Sahlins, Un grosso sbaglio. L’idea occidentale di natura umana, elèuthera, Milano, 2010, p. 41.
15 Sahlins ricorda come questo pensiero “nostalgico”, che vede nella storia un declino dalla condizione originaria, fosse già presente nella mitologia greca, in riferimento alla perduta età dell’oro di Crono; aggiunge inoltre che resoconti, in epoca moderna, di simili concezioni sono giunte anche dall’America o da Tahiti. Cfr. M. Sahlins, Un grosso sbaglio, op. cit., p. 44.
16 N. Chomsky, M. Foucault, Della natura umana. Invariante biologico e potere politico, DeriveApprodi, Roma, 2005, pp. 8-11.
17 D. Marconi, Il ritorno della natura umana, in N. Chomsky, M. Foucault, Della natura, op. cit., p. 95.
18 N. Chomsky, M. Foucault, Della natura umana …, op. cit., p. 47.
19 C. Vigna, L. Grecchi, Sulla verità e sul bene, Petite Plaisance, Pistoia, 2011, p. 67.
20 N. Chomsky, M. Foucault, Della natura umana …, op. cit., p. 36.
21 M. Sahlins, Un grosso sbaglio …, op. cit., p. 100.
22  B. Ehrenreich, J. McIntosh, The New Creationism, «The Nation», 9 giugno 1997.
23 Cit. in S. Rose, Linee di vita. La biologia oltre il determinismo, Garzanti, Milano, 2001, p. 314.
24 Cit. in R. Lewontin, Il mito del DNA: le false promesse del Progetto Genoma, intervista dell’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, 1 gennaio 1992, Rai Educational, http://www.emsf.rai.it/interviste/interviste.asp?d=445. Il Progetto Genoma Umano (HGP, Human Genome Project) è stato un progetto di ricerca finanziato per 3 miliardi di dollari da Stati Uniti e alcuni paesi europei, il cui scopo, raggiunto all’inizio del terzo millennio, era quello di mappare l’intero genoma umano. Di questo progetto Lewontin fu sempre oppositore. Si veda anche R. Lewontin, Il sogno del genoma umano e altre illusioni della scienza, Laterza, Roma-Bari, 2002.
25 Celebre è l’affermazione di questo scienziato secondo la quale «noi siamo macchine per la sopravvivenza, veicoli robotici ciecamente programmati per conservare molecole egoiste note come geni». Cfr. R. Dawkins, Il gene egoista, Arnoldo Mondadori, Milano, 1995, cit. in S. Rose, Linee di vita, op. cit., p. 15. Per una sintetica esposizione delle posizioni di Dawkins e un confronto con una posizione critica, si veda B. Goodwin, R. Dawkins, What i san organism? A discussion, in N. S. Thompson, ed., Perspective in Ethology, Volume II: Behavioral Design, Plenum Press, New York, 1995, pp. 47-60, disponibile su google books oppure all’indirizzo http://www.fortunecity.com/emachines/e11/86/organism.html.
26 Con questo termine si intende ciò che va dall’intracellulare all’extracorporeo.
27 R. Lewontin, Critica al riduzionismo genetico, intervista dell’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, 2 giugno 1992, Rai Educational, http://www.emsf.rai.it/interviste/interviste.asp?d=446#torna.
28 Cfr. C. Geertz, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna 1987; cit. in F. Remotti, Cultura, op. cit.,, p. 22. Cfr. anche gli scritti di G. Pezzano editi da Petite Plaisance in questi anni.
29 M Sahlins, Un grosso sbaglio …, op. cit., p. 122.
30  F. Remotti, Cultura …, op. cit., p. 15.
31  Ivi, p. 16.
32  Ivi, p. 155.
33  Cfr. F. Remotti, Luoghi e corpi. Antropologia dello spazio del tempo e del potere, Bollati Boringhieri, Torino 1993, p. 49.
34  M. Foucault, L’ordine del discorso e altri interventi, Einaudi, Torino, 2004, p. 5.
35  Ivi, p. 9.
36  Ibidem.
37  F. Rossi-Landi, Il linguaggio come lavoro e come mercato, Bompiani, Milano, 1968.
38  A. Badiou, San Paolo. La fondazione dell’universalismo, Cronopio, Napoli, 20102.
39  D. Marconi, Per la verità. Relativismo e filosofia, Einaudi, Torino, 2007, pp. 135-138.
40  Etica Nicomachea I, 5, 1097b 11; Politica I, 2, 1253a 2
41  Metafisica Θ, 8, 1050a 7-9.
42  Metafisica Θ 6, 1048a 32.
43  Metafisica Θ, 7, 1049a 5-17.
44  Politica III, 9, 1280 b 31-35.
45  Cfr. D. Fusaro, Marx pensatore della libera individualità, «Giornale Critico di Storia delle Idee», 2009, 1, http://www.giornalecritico.it/ (url visitato 14/11/12)
46  Cfr. A. MacIntyre, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Armando Editore, Roma, 2007 [1981], pp. 92-93.
47 L. Grecchi, Conoscenza della felicità, Petite Plaisance,  Pistoia, 2005, p. 41.
48  Ivi, p. 44.
49  Ivi, p. 47.

Rodolfo Mondolfo (1887-1976) – Che cosa è la rivendicazione della humanitas

Rodolfo Mondolfo

Rodolfo Mondolfo

«Che cosa è questa rivendicazione della humanitas, se non l’affermazione storica più vasta e universale di quella coscienza e dignità della persona umana in quanto tale, che è l’essenziale concetto di Rousseau, ispiratore degli immortali ideali della Rivoluzione Francese?».

Rodolfo Mondolfo, Umanismo di Marx, Einaudi, Torino, 1975, pag. 272.

«In realtà, se esaminiamo senza prevenzioni il materialismo storico quale ci risulta dai testi di Marx ed Engels, dobbiamo riconoscere che non si tratta di un materialismo ma di un vero umanesimo, che al centro di ogni considerazione e discussione pone il concetto di uomo».

Rodolfo Mondolfo, Umanismo di Marx, Einaudi, Torino, 1975, pag. 312.

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