Luca Grecchi – «Il desiderio chiamato Utopia». Jameson indica la strada giusta, quella di chi ritiene necessario non solo criticare, ma soprattutto costruire: criticare senza costruire è cosa ancor più sterile del semplice stare a guardare.

Luca Grecchi

Il  desiderio chiamato Utopia. Jameson indica la strada giusta, quella di chi ritiene necessario non solo criticare, ma soprattutto costruire: criticare senza costruire è cosa ancor più sterile del semplice stare a guardare.

 

Fredric Jameson, critico letterario statunitense e teorico politico marxista nato nel 1934, è noto al grande pubblico soprattutto per i suoi studi letterari (è stato allievo di Erich Auerbach), nonché per la sua ottima analisi del postmoderno. In questo libro, tuttavia, egli tratta specificamente di un tema troppo spesso ingiustamente snobbato dalla teoria marxista, ovvero quello dell’utopia. Il suo approccio risulta in merito, come mostreremo (leggendo il suo libro Il desiderio chiamato Utopia, Feltrinelli, Milano 2007, ed. or. 2005.), non viziato dai consueti pregiudizi marxisti, in quanto la sua valutazione dell’utopia come ideale riferimento teoretico e politico, risulta essere nella sostanza molto positiva.

Jameson inizia sottolineando, come si fa di consueto, la ambivalenza del termine «utopia», interpretabile – secondo l’etimologia greca volta per volta preferita – sia come «luogo inesistente» (per i detrattori dell’utopia), sia come «buon luogo» (per gli ammiratori dell’utopia). A causa di Marx, ma soprattutto di Engels, il marxismo ha da sempre considerato l’utopia come un modello negativo, un luogo ideale irraggiungibile volto solo a rendere astratta ed inconcludente la progettualità politica, facendola confluire in sogni separati dalla realtà che non portano appunto in «nessun luogo». Jameson, non cadendo in questo pregiudizio, ricorda sin da subito che, nonostante questa sia la vulgata prevalente, «Lenin e Marx hanno scritto entrambi di Utopia, il primo in Stato e Rivoluzione del 1917, il secondo ne La guerra civile in Francia del 1871» (pag. 10). Jameson rimarca ciò in quanto si rende conto che, senza una progettualità alternativa, anche utopica, che sia radicalmente altra rispetto alla effettualità capitalistica, la proposta comunista è destinata a non trovare sbocco, e dunque – essa sì – a confluire in «nessun luogo», ossia a non produrre effetti.

Descrivendo le tendenze in atto nell’attuale modo di produzione capitalistico, che per Jameson «smantella instancabile tutti i progressi sociali strappati a partire dalla nascita del movimento socialista e comunista» (pag. 10), egli afferma giustamente che la maggiore «disgrazia non è la presenza di questo nemico, bensì la convinzione universale non solo della irreversibilità di questa tendenza, ma dell’impossibilità e della non praticabilità delle alternative storiche al capitalismo, la certezza che non sia concepibile né tantomeno realizzabile nella pratica alcun altro sistema socio-economico» (pagg. 10-11). La critica al modo di produzione capitalistico, infatti, non può vivere di solo “marxismo” (intendendo con questo termine, genericamente, la critica sociale alla effettualità esistente), ma deve vivere di una progettualità che, pur partendo dal nostro tempo, deve saper immaginare, basandosi su ciò che è in potenza presente nella natura umana, un modo di produzione sociale migliore, che consenta appunto di porre in atto ciò che è in tale natura presente. Per questo, secondo Jameson, è necessaria una ripresa di interesse per l’utopia (che io tradurrei – anche se lui non lo dice – come una ripresa di interesse per la filosofia classica, sulla base della quale soltanto è possibile progettare idealmente), in quanto «non è possibile immaginare un qualsiasi cambiamento fondamentale nella nostra società che non si sia dapprima annunciato liberando visioni utopiche» (pag. 11), ossia progetti alternativi.

Tutto questo discorso, davvero promettente, che Jameson svolge nelle prime pagine del libro, non possiede però, purtroppo, la base filosofica che pure gli sarebbe necessaria, e di conseguenza si smarrisce presto, subito dopo la pur corretta indicazione di principio; dopo le prime pagine, infatti, prende piede soprattutto l’amore per la letteratura di Jameson, che dell’utopia si mostra quasi più interessato alla forma letteraria che al contenuto rivoluzionario, tanto da affermare che essa risulta essere, a suo avviso, un «sottogenere socio-economico» della fantascienza (pag. 12). Nonostante questo “eruditismo”, però, l’approccio di Jameson può essere considerato – nelle sue linee generali – condivisibile, in quanto egli riprende l’approccio di Ernst Bloch presente soprattutto nel libro Diritto naturale e dignità umana, affermando che «vedere ovunque, come fa Bloch, tracce di pulsione utopica significa naturalizzarla, e implica che essa sia in una qualche maniera radicata nella natura umana» (pag. 27). L’uomo, infatti, è sempre il necessario fondamento onto-assiologico di ogni proposta filosofico-politica.

Dove, tuttavia, si può trovare, oggi, la speranza che questo afflato ideale non scompaia, dato che la mentalità capitalistica ha oramai pervaso pressoché tutti i campi della vita? Ritengo che l’unico «luogo» in cui sia possibile ritrovarlo sia proprio la natura umana, che richiede ragionevolezza e moralità, e che è comunque un «buon luogo», in quanto è in potenza presente in tutti gli uomini, sicché questa speranza ha una forte possibilità di realizzarsi, nonostante tutto oggi giochi in senso contrario. I pensatori utopisti, secondo Jameson, ancor più dei filosofi possono svolgere, in questo compito, un ruolo molto importante, in quanto «i grandi rivoluzionari mirano sempre alla attenuazione ed alla eliminazione delle fonti dello sfruttamento e della sofferenza» (pag. 29). In questo senso, egli scrive correttamente che «l’iniziale gesto utopico di Moro, l’abolizione del denaro e della proprietà privata, corre lungo la tradizione utopica come un filo rosso che talvolta affiora prepotente alla superficie, talaltra viene tacitamente presupposto in forma più blanda» (pag. 40), ma che comunque non può mai abbandonare l’ideale umano.

Jameson mostra dunque, in maniera pienamente condivisibile, che l’utopia non deve essere considerata, come ha fatto per decenni il marxismo (abituato a farsi dei nemici tra i “vicini di casa” per sfogare le frustrazioni che, per mancanza di mezzi, non poteva rovesciare sui “lontani capitalisti”), come qualcosa di negativo ed inutile, bensì come qualcosa di positivo ed utile, anzi indispensabile, e che è possibile coniugare – come fecero appunto i grandi utopisti, in primis Moro, ma anche Platone – con la critica del proprio tempo; come ha scritto infatti sempre il Nostro, «non è possibile alcuna Utopia moderna che non intenda porre a tema, tra le tante altre questioni, i problemi economici causati dal capitalismo» (pag. 249).

In Jameson manca certo, come ricordato, la base filosofica e la conseguente proposta politico-progettuale su come organizzare un modo di produzione sociale alternativo; tuttavia, nel bivio iniziale per dirimere la questione, ovvero quello fra «progettuali» (utopisti) e «critici» (marxisti), egli prende subito, a mio avviso, la strada giusta, ossia quella di chi ritiene necessario non solo criticare, ma soprattutto costruire; e di chi, anzi, ritiene quasi che criticare senza costruire sia cosa ancor più sterile del semplice stare a guardare.

Già pubblicato in, L. Grecchi, Il presente della filosofia nel mondo. Postfazione di Giacomo Pezzano: «Nur noch Griechenland kann uns retten», Petite Plaisance, Pistoia 2012, pp. 51-53 (indicepresentazioneautoresintesi ).


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M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Leonardo Boff – Di fronte alla follia dei cavalieri dell’Apocalisse: Russia e Stati Uniti, costruiamo le nuove arche con la forza del seme nuovo, con una mente nuova e con un cuore nuovo. 

Leonardo Boff

Di fronte alla follia dei cavalieri dell’Apocalisse: Russia e Stati Uniti, costruiamo le nuove arche con la forza del seme nuovo, con una mente nuova e con un cuore nuovo.



Il libro dell’Apocalisse che narra gli scontri finali della nostra storia, tra le forze della morte e quelle della vita, ci dipinge un cavallo di fuoco che simboleggia la guerra: «il cavaliere fu dato per bandire la pace dalla terra perché gli uomini si decapitino l’un l’altro» (6, 4). La guerra tra Russia e Ucraina e l’ordine del presidente russo di tenere in allerta le armi nucleari, ci suscitano l’azione del cavallo di fuoco, la decapitazione dell’umanità, vale a dire, un Armageddon umano.

Le severe sanzioni imposte dalla NATO e dagli USA alla Federazione Russa possono portare al collasso dell’intera sua economia. Di fronte a questo disastro nazionale, la possibilità che il leader russo non accetti la sconfitta come se Napoleone (1812) o Hitler (1942) avessero preso il paese, cosa che non riuscirono a fare. Quindi realizzerebbe le minacce e avvierebbe un attacco nucleare. Solo l’arsenale russo può distruggere la vita umana sul pianeta più volte. E una vendetta può danneggiare l’intera biosfera senza la quale la nostra vita non potrebbe sopravvivere.

Dietro questo confronto Russia-Ucraina si nascondono potenti forze in lotta per l’egemonia mondiale: la Russia, alleata con Cina, e gli USA. La strategia di quest’ultimi è più o meno nota, guidata da due idee principali: “one world and one empire” (gli USA), garantito da un dominio a tutto spettro: dominio in tutti i campi con 800 basi militari distribuite nel mondo, ma anche con il dominio economico, ideologico e culturale. Tale dominio completo sarebbe alla base della pretesa degli Stati Uniti di essere “eccezionali”, di essere “la nazione indispensabile e necessaria”, “l’ancora della sicurezza globale” o “l’unico potere” (lonely power) veramente mondiale.

In questa volontà imperiale, la NATO, dietro la quale si trovano gli USA, si è estesa fino ai limiti della Russia. Tutto ciò che serviva era l’inserimento dell’Ucraina per chiudere l’assedio. I missili piazzati al confine ucraino avrebbero raggiunto Mosca in pochi minuti. Da qui la richiesta della Russia che l’Ucraina rimanesse neutrale, altrimenti sarebbe stata invasa. Questo è quello che è successo con le perversità che ogni guerra produce. Nessuna guerra è giustificabile perché uccide vite umane e va contro il senso delle cose che è la condizione per continuare a esistere. La Cina, a sua volta, contende l’egemonia mondiale non con mezzi militari, anche alleandosi con la Russia, ma attraverso la via economica con i suoi grandi progetti come la Via della Seta. In questo campo sta superando gli USA e raggiungerebbe l’egemonia mondiale anche con un certo ideale etico, quello di creare “una comunità di destino comune partecipata da tutta l’umanità, con società sufficientemente rifornite”.

Ma non voglio prolungare questa prospettiva bellicosa, davvero folle fino al punto di essere suicida. Questo scontro tra potenze rivela l’incoscienza degli attori in campo sui reali rischi che gravano sul pianeta che, anche senza il ricorso ad armi nucleari, potrebbero mettere in pericolo la vita umana. Va detto che tutti gli arsenali di armi di distruzione di massa si sono rivelati totalmente inutili e ridicoli di fronte a un virus minuscolo come il Covid-19.

Questa guerra rivela che i responsabili del destino umano non hanno imparato la lezione fondamentale del Covid-19, che non ha rispettato le sovranità e i limiti nazionali. Ha colpito l’intero pianeta. L’epidemia richiede l’instaurazione di una governance globale di fronte a una problema globale. La sfida va oltre i confini nazionali, è costruire la Casa Comune.

Non si sono resi conto che il grosso problema è il riscaldamento globale. Già siamo immersi nella crisi climatica, gli eventi fatali di questi mesi – dovuti alle inondazioni di intere regioni, ai tifoni e alla scarsità di acqua dolce – sono visibili. Abbiamo solo 9 anni per evitare una situazione di non ritorno. Se entro il 2030 aumentiamo di 1,5 gradi Celsius la temperatura del pianeta, non saremo in grado di controllarlo e ci dirigeremo verso un collasso del sistema Terra e dei sistemi vita. Stiamo toccando i limiti di sostenibilità della Terra. I dati di sovraccarico della terra (Earth Overshoot) indicano che il 22 settembre 2020 le risorse non rinnovabili necessarie alla vita erano esaurite. Il persistere del consumismo, pretende dalla Terra quello che lei non può più dare. In risposta, lei ci invia virus letali, aumenta il riscaldamento, destabilizza i climi e distrugge migliaia di esseri viventi.

La sovrappopolazione associata a una nefasta disuguaglianza sociale, con la stragrande maggioranza dell’umanità che vive in povertà e nella miseria, quando l’1% della popolazione controlla il 90% della ricchezza e dei beni e servizi essenziali, può portare a conflitti con innumerevoli vittime e alla devastazione di interi ecosistemi. Questi sono i problemi, tra gli altri, che dovrebbero preoccupare i capi di stato, gli amministratori delegati delle grandi Corporation e i cittadini, poiché loro mettono direttamente a rischio il futuro dell’intera umanità. Di fronte a questo rischio globale, è ridicola una guerra per zone di influenza e di sovranità già obsolete.

Quelli che ci danno speranza sono quegli anonimi “Noè” che prosperano ovunque, a partire dal basso, costruendo le loro le arche salvifiche attraverso una produzione rispettosa dei limiti della natura, per un’agro-ecologia, per comunità solidali, per democrazie socio-ecologiche partecipative, lavorando a partire dai propri territori. Loro possiedono la forza del seme del nuovo e con una mente nuova (la Terra come Gaia), con un cuore nuovo (il legame di affetto e cura per e con la natura) garantiscono un nuovo futuro con la coscienza di una responsabilità universale e di un’interdipendenza globale. La loro guerra è contro la fame e la produzione di morte e la loro lotta è per la giustizia per tutti, la promozione della vita e la difesa dei più deboli e indigenti. Questo è quello che deve essere. E quello che deve essere, ha intrinsecamente una forza invincibile.

Leonardo Boff, http://www.leonardoboff.org

Fonte: Il faro di Roma, 9/3/2022.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Sante Notarnicola (1938-2021) – Sante il 22 marzo 2021 è volato via come una farfalla … Ne ricordiamo la vita con i manifesti che a sua memoria sono affissi in varie città. Lui diceva che: «La libertà ha bisogno di attenzioni, di cure continue e soprattutto ha bisogno di memoria».

Sante Notarnicola

A Sante,
alla sua capacità di esser stato,
e di essere ancora,
per sempre,
ad un tempo,
fragile e misteriosa
cristalide,
come gioventù
ricca di speranze,
di possibili metamorfosi,
matrice di trasformazioni
– condizione della realizzazione –
e farfalla
che col suo diafano
e lieve battito d’ali
punteggia
la trama
di Iride.

Carmine Fiorillo

La farfalla
Tentai di gettare l’anima al di là del muro … cercando di seguire la farfalla.

Chiara è una bimba felice.
Nata attrezzata
per i giochi infiniti.

Chiara lo sa, con lei
giocheremo tutta la vita.

Sante Notarnicola


Non c’è vita
che almeno per u n attimo
non sia stata immortale.
 
La morte
è sempre in ritardo di quell’attimo.
 
Invano scuote la maniglia
d’una porta invisibile.
A nessuno può sottrarre
il tempo raggiunto.

Wislawa Szymborska


I manifesti affissi in questo marzo 2022
per ricordare la vita di Sante Notarnicola


I manifesti affissi in questo marzo 2022
per ricordare la vita di Sante Notarnicola


[…] ci ho messo 50 anni a diventare comunista. E 20 anni 8 mesi e 1 giorno di prigione. E 11 anni di carcere di massima sicurezza. E 5 anni di celle punitive. E la posta censurata. E i vetri divisori ai colloqui […] E le cariche dei carabinieri nei corridoi delle prigioni. E il sangue nelle celle. E il sangue dal naso. E il sangue dalla bocca. E i denti rotti. E la fame all’Asinara. E il silenzio obbligatorio al bunker della Centrale, a cala d’Oliva. E i racconti dei torturati. E i colpi contro la porta per non farti dormire. E i colloqui respinti senza un motivo. E la posta sottratta. E il linciaggio del vicino di cella. E il vivere col cuore in gola. E la pressione che sale. E il cuore che senti ingrossare. E il compagno che se ne va con la testa. E le divisioni a 5 nei cortili. E le rotture politiche. E le divisioni che teoricamente dovevano rafforzarci. E il dilagare del soggettivismo. E i vetri infranti ai colloqui. E le rivendicazioni coi pugni chiusi. E la ritirata strategica. E gli scioperi della fame condannati. E i sorrisi spariti. E i soggettivisti sconfitti. E gli odi tra compagni. E le demolizioni personali. E la disgregazione umana. E le perquisizioni anali. E le sei diotrie perse. E l’assalto coi cani nelle celle. E i compagni colpiti da schizofrenia. E i primi tradimenti. E la massa di dissociati. E l’isolamento politico. E la piorrea che avanza. E gli anni che passano e i giorni che conti. E i silenzi, i silenzi, i silenzi.[1]

Poesia per comunicare in condizioni difficili. Poesia per rompere l’isolamento a cui vorrebbero costringere corpo e cervello. Poesia come difesa dall’abbrutimento della prigione. Poesia per amare ancora, per vivere ugualmente una vita complessiva.[2]

 

«Caro Sante,
Le tue poesie (alcune, come sai, le conoscevo già) sono belle, quasi tutte; alcune bellissime, altre strazianti. Mi sembra che, nel loro insieme, costituiscano una specie di teorema, e ne siano anzi la dimostrazione: cioè, che è poeta solo chi ha sofferto o soffre, e che perciò la poesia costa cara. L’altra, quella non sofferta, di cui ho piene le tasche, è gratis.

Primo Levi».[3]

***

[1] S. Notarnicola, Materiale interessante. Liberi dal silenzio, Edizioni della Battaglia, Palermo,1997, p. 10.

[2] Ibidem, p. 35.

[3] Lettera di Primo Levi a Sante Notarnicola, in S. Notarnicola, L’anima e il muro, a cura di D. Orlandi, disegni di Marco Perroni, Odradek, Roma 2013, pp. 19-20.






Sante Notarnicola – Tentai di gettare l’anima al di là del muro … cercando di seguire la farfalla.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Fernanda Mazzoli – Gli indifferenti, sempre loro! Il combinato disposto di analfabetismo politico ed atrofia etica corrode in profondità la linfa vitale dell’esistenza collettiva

Gli indifferenti, sempre loro!

Il combinato disposto di analfabetismo politico ed atrofia etica
corrode in profondità la linfa vitale dell’esistenza collettiva

di Fernanda Mazzoli

In uno degli ultimi giorni della Comune, un insorto replicò ad un tale il quale, arrestato come sospetta spia dei Versagliesi, rivendicava la propria innocenza e totale estraneità ai fatti, ricorrendo all’argomento che mai si era interessato di politica, che proprio per questo lo uccideva. Ed aggiungeva, dopo che il presunto traditore gli era stato tolto dalle mani per essere ascoltato dal Comitato di salute Pubblica:

«La gente che non si occupa di politica!…: Ma sono i più vigliacchi e i più furfanti! Aspettano, ‘sti tipi, per sapere su chi sbaveranno o chi leccheranno dopo il massacro!».[1]

Le parole dell’ignoto combattente delle barricate di Montmartre, che odiava gli indifferenti mezzo secolo prima di Gramsci, accompagnano da qualche tempo le mie giornate come un ritornello sconsolato o un commento tanto risolutivo quanto laconico all’attuale stato delle cose. E non perché io abbia intenzione di ammazzare qualcuno, ma per la loro capacità di individuare e considerare con lucidità quella zona grigia che rende possibile, con la sua indifferenza più o meno compiaciuta ed il ripiegamento sul particulare, il perpetrarsi di violenze ed ingiustizie, sino al massacro che, ai giorni nostri, per il momento prende il volto della messa al bando dalla società.

Quello che sta avvenendo da mesi nel nostro Paese ai danni di una considerevole minoranza di cittadini vittime di provvedimenti punitivi centrati sull’espulsione dal lavoro e misure di apartheid, preceduti e sostenuti da una criminalizzazione morale senza precedenti, non avrebbe potuto realizzarsi se milioni di altri cittadini non avessero voltato lo sguardo dall’altra parte, se non avessero nascosto la testa sotto le tonnellate di paura sparse a piene mani dal potere politico e dai suoi cani da guardia mediatici.

La strumentale divisione delle persone tra sì vax e no vax, funzionale ad uno dei principi cardine delle strategie di dominio, il divide et impera, spostando artatamente il baricentro della questione sui vaccini, ha efficacemente contribuito ad occultare la natura politica delle decisioni prese: una grande rimozione, resa possibile da decenni di abulia civile, a vantaggio dell’adesione, ora entusiastica, ora rassegnata, alla grande abbuffata consumistica in cui ciascuno, ivi compresi i detrattori, si è ingegnato a ritagliarsi un posto, a seconda delle possibilità e delle inclinazioni.

Una volta rimosso, del binomio politiche sanitarie, il primo termine, ciò che resta si presta al riduzionismo più facile e di maggior effetto, ad una nuova declinazione del paradigma salutista – la difesa della nuda vita dai molteplici attacchi che possono minacciarla – particolarmente sensibile a tutte le torsioni securitarie, da sempre fertile humus per le svolte autoritarie.

L’indifferenza, che già forniva la necessaria protezione nella lotta darwiniana per la sopravvivenza o, nei casi più riusciti, per il successo nella società del neoliberismo rampante ha generato altra indifferenza per tutto ciò che non fosse la salvaguardia dal virus che la perdita di qualsiasi senso storico, di qualsiasi concreta contestualizzazione nel più vasto quadro in cui la pandemia si è dispiegata ha promosso a male assoluto, per difendersi dal quale non resta che l’obbedienza alle superiori disposizioni dei governanti e degli esperti a loro allineati.

E così, chi non si è arruolato in questa guerra, chi ha mostrato qualche esitazione o palesato qualche dubbio è incorso in un’esclusione brutale, in un ostracismo sociale impensabile in un Paese che vanta crediti di democrazia e modernità. Molti nostri connazionali, al riparo della loro indifferenza per la politica e tutti assorbiti dalla preoccupazione di saltare fuori il prima possibile e con il minor danno possibile da una situazione che la propaganda di regime ha costruito come apocalittica, con il loro silenzio, quando non approvazione, hanno aperto la strada alla carneficina sociale e psicologica che si sta consumando oggi. Il limbo degli ignavi è l’anticamera dell’inferno dove vengono spediti coloro che i primi hanno ignorato o dimenticato.

Se i presidi si fossero rifiutati di sospendere dal lavoro e dallo stipendio migliaia di lavoratori della scuola, se gli insegnanti avessero inondato i Collegi docenti, la stampa, il Ministero di mozioni di protesta contro l’allontanamento dei loro colleghi, se i negozianti e i ristoratori, o gli impiegati di servizi essenziali si rifiutassero di chiedere il greenpass, se i conducenti dei mezzi pubblici ricusassero di controllare il lasciapassare, se, in breve, si sviluppasse una diffusa campagna di disobbedienza civile, capace di coinvolgere ampi strati di popolazione, le misure coercitive del governo inciamperebbero nello scoglio della loro realizzazione e finirebbero per diventare lettera morta e/o per essere messe in discussione fino al loro ritiro.

Questo non è avvenuto: la maggioranza ha accettato senza fiatare l’emarginazione di milioni di concittadini, i quali, prima ancora di rifiutare un siero sperimentale, rifiutano di accettare l’inedito ricatto che si avvale della sola terapia anti Covid ammessa per introdurre una nuova e pericolosa forma di cittadinanza condizionata e limitata.

Ed è sempre la dimensione politica ad essere in gioco e sono sempre l’indifferenza o l’ignoranza nei suoi confronti a regolare la partita: non si tratta, infatti, di condividere nel merito le ragioni di chi non si è vaccinato, ma di allargare la propria visione delle cose al di là del meschino recinto eretto dalle veline di regime sul terreno delle paure irrazionali per collocare le decisioni governative nell’ambito più vasto di una società che, sull’onda della pandemia, sembra pronta a rinunciare alle libertà costituzionali e al diritto al lavoro, a quanto, cioè, era stato conquistato in due secoli di lotte sul terreno e di battaglie culturali.

Essere vaccinati non significa necessariamente approvare il greenpass e negare a chi ha fatto una scelta sanitaria diversa l’esercizio di diritti civili e sociali primari, come hanno sottolineato a più riprese i portuali triestini, incapaci di accettare che i loro colleghi non vaccinati, e con i quali avevano costruito insieme una trama significativa di relazioni interpersonali, subissero discriminazioni. E non solo per elementare, ma basilare solidarietà umana, ma anche perché i diritti negati oggi agli uni, potrebbero essere domani rifiutati, per ragioni diverse, agli altri.

Invece, apatia ed insensibilità si trincerano nell’orticello del presente, cercando di strapparne qualche frutto avvizzito che, in epoche tribolate come la nostra, può dare l’illusione di avercela comunque fatta. E peggio per chi è restato fuori, avrebbe potuto obbedire invece di opporre sfida o diniego laddove i più hanno seguito la corrente, con minore o maggiore convinzione, ma con la comune voglia di lasciarsi trasportare e chiudere gli occhi per non vedere chi veniva travolto, fosse anche un familiare, o un amico di vecchia data, o un collega di lavoro.

I vincoli comunitari si sono terribilmente allentati e l’intera società è divenuta più fragile, più disperata e più smarrita, banco di prova perfetto per esperimenti di ingegneria sociale atti a traghettare i popoli verso nuove forme di vita, di lavoro, di produzione, di consumo, di cittadinanza, maggiormente funzionali alla distruzione creatrice con la quale il capitale rinnova se stesso.

Analfabetismo politico ed atrofia etica vanno di pari passo, mentre il loro combinato disposto corrode in profondità la linfa vitale dell’esistenza collettiva; se a ciò si aggiunge il ben noto conformismo italico, maturato, collaudato ed assimilato nel corso di secoli di storia, il nostro presente assomiglia sempre di più ad un incubo che proietta la sua ombra nera anche sul nostro futuro. C’è da temere che lo sfregio operato sul corpo di un intero Paese (perché è la totalità ad essere lacerata, quando una delle sue parti è così duramente colpita) sia una ferita che continuerà a sanguinare a lungo, dalla cui suppurazione prolifereranno altre cancrene. E l’incubo, tanto per non farci mancare nulla, esibisce i caratteri della distopia, in quanto la bacchetta magica dell’ideologia generosamente dispensata dal governo e distillata giornalmente dai media ha provato a rivestire la vecchia, opportunistica, timorosa, interessata indifferenza delle vesti pulite e ammodo della responsabilità, della subordinazione all’interesse generale, del sacrificio per il Bene comune.

Ma questa è un’altra storia, ancora più inquietante ed ancora più densa di moniti e di riflessioni.

 

Fernanda Mazzoli

 

 

[1]L’episodio è riportato da Jules Vallès nel suo testo largamente autobiografico, Linsurgé. La citazione è presa dalla traduzione italiana, Linsorto, Petite Plaisance, Pistoia, 2019, p. 281.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Giorgio Riolo – Contro la guerra, sempre. Contro l’egemonia Usa e Nato. Per un mondo multipolare


Nikolaj Aleksandrovič Jarošenko, Il prigioniero, 1878.

Contro la guerra, sempre. Contro l’egemonia Usa e Nato. Per un mondo multipolare

di Giorgio Riolo

 

La guerra è un tragico catalizzatore. È la più grande politica di destra. Spegne il pensiero, la ragione, lo spirito critico. Alimenta istinti primordiali di sopraffazione, il tribalismo, lo sciovinismo. Arruola, inquadra, schiera, arma. “Noi” contro “loro”.
Dall’altra parte, induce donne e uomini di buona volontà a combattere con le armi spirituali della scelta etica, della cultura e della politica i soliti malvagi poteri che traggono profitto dalla guerra. Contro chi vuole sempre dominare, egemonizzare, contro i mercanti d’armi, il sempre attivo e feroce complesso militare-industriale.
Donne e uomini, la migliore umanità. La pace è sempre “pane, pace, lavoro”. È sempre a difesa dei deboli, di chi subisce morti, patimenti, distruzioni, stupri.

I.

È in corso l’immane ipocrisia e la ributtante retorica dei sempiterni “valori occidentali”, della libertà e della democrazia, delle guerre umanitarie, della missione civilizzatrice dell’Europa, degli Usa e della Nato contro i barbari di sempre. Nell’Est e nel Sud del mondo. Prima contro i “comunisti” e poi semplicemente contro i “russi”.
La mente colonizzatrice agisce sempre, dalle Crociate alle nefandezze dell’olocausto IndoAfroAmericano, al colonialismo e all’imperialismo dell’epoca moderna.
I mass media si sono scatenati qui in Europa, in Occidente, con i giornalisti “democratici” in prima fila. A incitare, a disinformare, a reclutare. Un’impressionante manipolazione è dispiegata. L’impero del bene contro l’impero del male. Il baraccone massmediatico costituisce un braccio armato indispensabile.
Il barbaro, folle, ultracorrotto, despota, Hitler contemporaneo, Putin è il bersaglio. È la Russia che minaccia l’Occidente e non il contrario. La Nato essendo un pacifico consorzio di pacifici signori i quali, per esempio, ogni anno tengono manovre chiamate “Defender Europe”. Nell’ultima, maggio 2021, per due mesi, attorno alla Russia, 28.000 soldati e migliaia di mezzi, blindati, aerei, navi. La motivazione delle manovre  “contro una possibile aggressione in Europa da parte della Russia”.

II.

Un poco di storia come retroterra. La Nato e l’atlantismo non hanno alcuna ragione d’essere. Allora. Ancor più dopo la fine dell’Urss e del cosiddetto socialismo reale nel 1991. È organismo sovranazionale di offesa. Contro l’Est, allora e oggi, e contro il Sud del mondo oggi. A guida e controllo totale Usa. Ed è lo strumento degli Usa per tenere l’Europa sotto scacco e ben schierata dietro di essa.
Con la fine dell’Urss, gli Usa e l’Occidente hanno voluto stravincere. Con lo smembramento dell’Unione Sovietica e con l’incitamento nazionalistico (come avverrà poi in Jugoslavia). Con il corrotto Boris Eltsin, a loro asservito, e con le bande oligarchico-mafiose imperversanti nei tragici dieci anni 1991-2000. A causa del capitalismo selvaggio e della rovina di molta parte della popolazione russa. Umiliando letteralmente quella parte del mondo. Ha detto recentemente l’ammiraglio tedesco Kay-Achim Schönbach “Putin e la Russia chiedono rispetto”. Semplice. Lo stesso ammiraglio subito fatto dimettere.
Il nostro Draghi, l’Unione Europea e il baraccone massmediatico all’unisono “la prima guerra in Europa dopo la seconda guerra mondiale”. Totalmente falso.
Nel 1999 la Nato a guida Usa, compresa l’Italia dell’allora governo D’Alema, aggredirono la Jugoslavia di Milosevič, ormai ridotta alla sola Serbia. La giustificazione fu la “guerra umanitaria” contro i serbi a difesa del Kosovo. 78 giorni di bombardamenti con 1.100 aerei, Usa e italiani in primo luogo. Bombardata Belgrado e nessuna immagine della popolazione terrorizzata nelle cantine. Come si fa oggi abbondantemente con gli ucraini. Ma i serbi erano “cattivi”, gli ucraini sono “europei” e buoni.
Nel tempo, la Nato si è allargata ai paesi ex Patto di Varsavia. Accerchiamento della Russia e grandi commesse militari da parte di questi paesi a vantaggio Usa. Mancava l’Ucraina.
Nel 2014 si inscena l’ennesimo “colpo di stato democratico” contro il presidente democraticamente eletto Janukovyč in Piazza Majdan a Kiev. Filorusso e quindi da eliminare. Con regia della Cia e con protagonisti i nazisti di Settore Destro e di Svoboda (dal nome di Stepan Svoboda, capo dei feroci collaborazionisti ucraini dei nazisti tedeschi nel 1941. Ogni anno nella innocente Ucraina si tengono sfilate per onorarlo).
Henry Kissinger dall’alto del suo sinistro realismo politico, in un articolo dello stesso 2014, metteva in guardia dal non portare la Nato sotto casa della Russia e di lasciare l’Ucraina come stato cuscinetto. Nel Donbass, la popolazione russofona nello stesso 2014 si ribella. La guerra nel Donbass ha fatto 14/15.000 morti e con protagonisti i nazisti del Battaglione Azov inquadrati nella Guardia Nazionale ucraina. Costoro hanno ammazzato vecchi inermi e hanno compiuto la strage di Odessa, dando fuoco alla sede del sindacato nella quale erano rinchiuse senza scampo 41 persone.

 

III.

Putin e la Russia agiscono da puro realismo politico. Da stato-nazione e da richiamo nazionale e nazionalistico del ruolo storico svolto nel passato, dall’impero zarista e dalla potenza dell’Urss, o da svolgersi oggi e domani. Molto revanscismo dell’umiliazione subita. Nessuna giustificazione della guerra. Ma almeno la comprensione dei processi storici che determinano questi esiti nefasti.

 

IV.

Occidente contro Oriente e contro Sud. Prima la Russia, poi verrà la Cina. Armi all’Ucraina. La Germania si riarma, l’Italia sempre obbediente manda armi.
Non arruoliamoci e adoperiamoci per un mondo multipolare antiegemonico. Dove ogni popolo e ogni stato-nazione possano contare.

 

Milano, 1 marzo 2022

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Dove porta la smodata ricerca di ricchezze, andando oltre i limiti dello stretto necessario, a “occidente” come a “oriente”?


Dove porta la smodata ricerca di ricchezze,

andando oltre i limiti dello stretto necessario,

a “occidente” come a “oriente”.

 

La smodata ricerca di ricchezze, andando oltre i limiti dello stretto necessario, in “occidente” come in “oriente”, porta alla guerra dei «vicini», come dei più lontani, contro vicini e lontani, ed alla guerra contro la cultura universale, perché la guerra «spegne il pensiero, la ragione, lo spirito critico».Certamente No alla guerra! di Putin.

Ma qualcuno onestamente può negare che l’Europa e il cosiddetto “occidente” non si siano «abbandonati ad una smodata ricerca di ricchezze» per il proprio esclusivo e prioritario benestare?

Ai politici europei e “usaoccidentali”, ai militari della NATO (dimentichi delle loro pur recenti  “guerre umanitarie”, dei “bombardamenti etici” in Jugoslavia come altrove), ai nostrani “progressiti” (novelli censori di Dostoevskij), gioverebbe meditare, oltre che sugli esiti perversi della smodata dimensione crematistica del modo di produzione capitalistico globalizzato, sulle parole del profeta Osea (v. 8, 7): «Quia ventum seminabunt, et turbinem metent» (“Chi semina vento, raccoglie tempesta”).

Accadeva già ai tempi di Platone.

 

Καὶ ἡ χώρα γέ που, ἡ τότε ἱκανὴ τρέφειν τοὺς τότε, σμικρὰ δὴ ἐξ ἱκανῆς ἔσται. ἢ πῶς λέγομεν; […] Οὐκοῦν τῆς τῶν πλησίον χώρας ἡμῖν ἀποτμητέον, εἰ μέλλομεν ἱκανὴν ἕξειν νέμειν τε καὶ ἀροῦν, καὶ ἐκείνοις αὖ τῆς ἡμετέρας, ἐὰν καὶ ἐκεῖνοι ἀφῶσιν αὑτοὺς ἐπὶ χρημάτων κτῆσιν ἄπειρον, ὑπερβάντες τὸν τῶν ἀναγκαίων ὅρον;

 

E così pure il territorio, quello che una volta bastava a nutrire i cittadini di prima, ora si è fatto insufficiente e non basta più, non è forse così? […]

Ecco quindi che saremo costretti a strappare una parte del territorio dei vicini, se vorremo avere abbastanza terreno da mettere a pascolo e a coltura? Ma non è forse vero che anche i confinanti avrebbero bisogno dei nostri territori, quando come noi si abbandonassero ad una smodata ricerca di ricchezze, andando oltre i limiti dello stretto necessario?

 

Platone, Repubblica, 373 d, trad. di R. Radice.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Con il viaggio interiore di Pinocchio, e attraverso i simboli che attorniano il burattino, l’autrice osa sfidare l’immaginario pietrificato del nostro presente.

In copertina: Marc Chagall, Self-portrait with muse (dream), 1918 [Autoritratto con musa (sogno)].

indicepresentazioneautoresintesi


 In viaggio con Pinocchio
di Fernanda Mazzoli

Con il viaggio interiore di Pinocchio, e attraverso i simboli che attorniano il burattino,
l’autrice osa sfidare l’immaginario pietrificato del nostro presente.

Il Pinocchio di Fernanda Mazzoli è un viaggio tra letteratura di formazione, archetipi e critica sociale, è un processo cairologico come il titolo del saggio ci indica: In viaggio con Pinocchio. Nessun viaggio è mono-tono, ma comporta una serie di aspetti che l’autrice magistralmente tiene assieme in una sintesi armonica ed organica. Il viaggio con Pinocchio non termina mai con la subitanea lettura del libro di Collodi, ma continua più in profondità proprio dopo la comprensione del testo. Se il lettore ha vissuto le metamorfosi di Pinocchio, nelle trasformazioni ritrova se stesso e, specialmente, dinanzi a lui si apre un campo aperto di possibilità: deve scegliere il percorso migliore che lo riporta a se stesso, dopo i processi di reificazione in cui ha rischiato di perdersi. Il saggio di Fernanda Mazzoli osa sfidare l’immaginario pietrificato del nostro presente con Pinocchio ed i suoi simboli. Senza attività di simbolizzazione non vi è significato, per cui il nostro presente riposa nel “niente”. Rinunciando al viaggio interiore la politica è solo un far carriera e la comunità una giustapposizione di individui senza profondità e prassi. Non a caso dopo l’interessante prologo si sofferma sulla rilevanza della figura della fata Turchina, la quale è il logos, perché è la personificazione del fatum, da fari, ovvero di ciò che è stato annunziato. La fata preordina il percorso, è il concetto che prepara la prassi, fino a far coincidere teoria e prassi. Il logos è la fata Turchina, e senza logos non vi è formazione, non vi è crescita qualitativa, ma solo tempo cronologico senza speranza. Il tempo del viaggio è processo che deve maturare al contatto consapevole con il negativo. Pertanto la strada che il burattino deve svolgere per passare dallo stadio legnoso al corpo vissuto è segnato dalla fioritura del legno. Il legno non è materiale inerte, in esso scorre la vita in potenza che deve portare in atto i suoi germogli interiori fino alla completa trasformazione. Nulla è banale in un processo di crescita, ma tutto è meravigliosamente eccezionale:

«La banalità qui non è di casa: è storia, piuttosto, di una contrastata acquisizione della coscienza di sé e del mondo che si fa strada attraverso mille peripezie di carattere iniziatico».[1]

Il viaggio di Fernanda Mazzoli non si limita a cogliere i rapporti tra il testo di Collodi e la letteratura di formazione, rintraccia nel percorso interno al saggio elementi di divergenza e convergenza con il genere picaresco, ma è presente, anche, una lettura critica e sociale del romanzo. Nell’Italia che si avvia verso la sua prima rivoluzione industriale riemerge l’utopia dell’arricchimento facile con il Gatto e la Volpe e il desiderio utopico ed antico di un’abbondanza che  si autoproduce senza l’intermediazione del  lavoro:

«È il vagheggiamento di un’abbondanza che nasce direttamente da se stessa, senza l’intermediazione del lavoro, ad animare le strabilianti narrazioni, ora divertite, ora ingenuamente partecipi, messe in scena dalla letteratura dotta  e da quella popolare».[2]

Il romanzo ci induce a guardare al presente, da esso si dipanano piani di temporalità: vi è l’eternità dei simboli, il tempo coevo di Collodi e il nostro tempo. Il paese della Cocaigne è accostato al mondo debordante di merci dei nostri ipermercati, ma in essi la Cocaigne non è sogno, ma disincanto, perché senza il denaro nulla è possibile; si può solo guardare, ma si è respinti nel grigiore dell’impotenza e della frustrazione:

«Un grande centro commerciale che esibisce sui propri scaffali, accuratamente disposte, merci di ogni tipo e per tutti i gusti e che basta allungare per cogliere, fare proprie e soddisfare tutte le brame, potrebbe essere la versione moderna di Cocaigne».[3]

Pinocchio alla fine della sua iniziazione comprende che la crescita non è l’accumulo dell’individuo proprietario, ma è la luce interiore dei legami di significato senza i quali nulla ha senso. Il burattino ci insegna a non cadere nella trappola degli ipermercati e delle miserie dell’abbondanza. Solo la crescita qualitativa e la chiarezza del bene liberano dai processi di alienazione. Il bene è discreto e silenzioso, ed è Geppetto nel romanzo che testimonia la profondità del bene con la sua vita al limite della miseria, ma incentrata nel dono di sé, nella cura e nella misura:

«Se non modello, Geppetto identifica però un ideale di vita, fondato sulla misura, l’onestà, la sobrietà e il senso del dovere, che Pinocchio farà suo».[4]

In questo tempo bellicoso, il saggio di Fernanda Mazzoli non è fuga dalla realtà, ma ci è di ausilio per riscoprire ciò che è fondamentale per ogni comunità umana degna di essere definita tale: i processi di formazione e germinazione della vita, i quali non terminano con l’adolescenza, ma sono i tempi veri ed autentici di tutta l’esistenza. Il prezzo da pagare è la separazione dall’inautentico per una superiore qualità di vita. Ciò può avvenire in ogni periodo della vita, per cui Pinocchio è l’eterno nella condizione umana:

«È il prezzo da pagare per diventare se stessi, separazione dopo separazione, per raggiungere un’unità più alta, una forma che emerge dal caos dell’indistinto e conquista una sua faticosa libertà».[5]

[1] Fernanda Mazzoli, In viaggio con Pinocchio, Petite Plaisance, Pistoia 2022, pag. 76.

[2] Ibidem, pag. 57.

[3] Ibidem, pag. 66.

[4] Ibidem, pag. 42.

[5] Ibidem, pag. 86.


Pieter Bruegel the Elder, Luilekkerland (“The Land of Cockaigne “), oil on panel (1567; Alte Pinakothek, Munich).jpg
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Sabrina Grimaudo, «Difendere la salute. Igiene e disciplina del soggetto nel “De sanitate tuenda” di Galeno». Problema medico o questione filosofica?

Galeno

Sommario del volume

Introduzione

La salute: problema medico o questione filosofica?

Le definizioni  galeniche della salute tra arcaismo e modernità

La misura della salute

Salute, percezione, congettura. Un bene fragile e i suoi criteri

Le parti dellamedicina e il primato dell’igiene

L’igiene e il suo specialista. Dalla cura di sé al controllo dell’esistenza

L’uomo di ottima costituzione: un canone per la trattazione igienica

Auctoritas e avversari

Bibliografia


Sabrina Grimaudo, Difendere la salute. Igiene e disciplina del soggetto nel “De sanitate tuenda” di Galeno, Bibliopolis. Napoli 2008

Imponente summa di una riflessione sulla salute e sui modi per tutelarla già avviata in alcuni scritti del Corpus Hippocraticum, il trattato di Igiene di Galeno presenta al tempo stesso caratteri profondamente innovativi rispetto ai testi sulla dietetica dei sani di epoche precedenti, e sviluppa una teoria della salute che per ampiezza e spessore concettuale non ha confronti nel mondo antico. Incentrando l’analisi sul trattato di Igiene e sul Trasibulo, ma con uno sguardo complessivamente rivolto all’intera opera di Galeno, il libro ricostruisce l’ideologia galenica della salute, mettendone in luce i legami con la tradizione medica e filosofica ed evidenziandone, anche attraverso il filtro del dibattito contemporaneo sul tema, gli elementi di interesse per il lettore moderno.

Sabrina Grimaudo è docente presso l’Università di Palermo. I suoi studi soni principalmente rivoilti ad aspetti storico-epistemologici della scienza antica, al lessico greco della parentela e all’analisi del rapporto potere/violenza nei testi greci. Oltre avari contributi su riviste specializzate, ha pubblicato Misurare e pesare nella Grecia antica. Teorie, storia, ideologie, L’Epos, Palermo 1998.

Curriculum e pubblicazioni di Sabrina Grimaudo.



Plutarco

«E fra le arti liberali la medicina non è inferiore a nessuna per raffinatezza, eccellenza e diletto e assicura a chi ne ama lo studio un grosso vantaggio, la conservazione della vita e la salute. Quindi bisogna guardarsi dall’accusare i filosofi di varcare i confini quando discutono questioni di salute (οὐ παράβασιν ὅρων ἐπικαλεῖν δεῖ τοῖς περὶ ὑγιεινῶν διαλεγομένοις φιλοσόφοις), anzi vanno disapprovati se non ritengono opportuno sopprimere del tutto i confini e dedicarsi ai loro nobili studi in comune, come in un terreno unico (ὥσπερ ἐν μιᾷ χώρᾳ κοινῶς ἐμφιλοκαλεῖν), mirando a un tempo, nelle loro discussioni, al piacevole e al necessario».

Plutarco, De tuenda sanitate praecepta, 122 D-E.


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Serge Latouche con Simone Lanza – Una società che mira alla crescita per la crescita è una società assurda e condannata al fallimento. Si può arrivare alla felicità solo se si sanno limitare i propri bisogni e i propri desideri con una austerità frugale e in vista di un benessere comune.

I testi di questo libro provengono dalla trascrizione di due interviste a Serge Latouche realizzate da me nel 2014 e nel 2016 per la trasmissione radiofonica «400 colpi» di Radio Bechwith Evangelica, una piccola emittente ribelle in val Pellice vicina alla Chiesa Valdese, che qui si ringrazia per aver messo a disposizione le registrazioni.

Le domande e risposte delle due interviste qui riportate non seguono sempre l’ordine originale. La terza parte si basa su scambi a distanza tenutisi in occasione della stesura della prefazione di Latouche al mio libro, Perdere tempo per educare, e ne contengono alcuni stralci; questo scambio si è svolto durante la pandemia da Covid-19, dal marzo 2020 a giugno 2021.

Il testo finale, in parte in italiano e in parte in francese, è stato tradotto e rivisto da entrambi con l’aiuto insostituibile di Claudia Romagnoli. Si è cercato di mantenere la caratteristica parlata e dialogica,  ma si sono verificate e inserite le citazioni delle fonti originali. Inoltre ogni tema affrontato ha delle note minime ed essenziali che permettono di rintracciare nelle varie opere di Latouche eventuali approfondimenti.

Questo testo permette sia di avvicinarsi per la prima volta al pensiero complessivo di Serge Latouche percorrendo temi già trattati in varie opere (prima parte), sia di approfondire la questione pedagogica nel mondo di oggi (seconda parte), sia di entrare nello specifico delle sfide pedagogiche concrete e contemporanee (terza parte). Il testo riprende, rielabora e unisce i numerosi spunti pedagogici già contenuti in molte opere di Latouche, ma li compendia e approfondisce in un discorso unitario e originale, che ha il merito di mostrare con grande chiarezza la relazione tra la sfida pedagogica orientata a un nuovo mondo nel segno della decrescita e le sfide politiche che si impongono in un mondo dominato dal conformismo del disincanto e dall’immaginario colonizzato dall’economia.

Simone Lanza

Serge Latouche con Simone Lanza, Il tao della decrescita. Educare a equilibrio e libertà per riprenderci il futuro, Il Margine, Trento 2021, pp. 9-11.

 


Risvolto di copertina


«Una società che mira alla crescita per la crescita è una società assurda e condannata al fallimento» La società del consumo di massa globale si trova in un vicolo cieco. L’idea di una crescita senza limiti – quando la realtà fisica, biologica e geologica del pianeta appare invece limitata – contiene in sé i prodromi della catastrofe. Ecco allora che un nuovo paradigma economico, che abbia come obiettivo l’armonia con l’ambiente, proprio come avviene ad esempio nelle tradizioni orientali, potrebbe essere la nostra scialuppa di salvataggio. In un dialogo serrato con Lanza, Latouche rivela che avrebbe potuto, e forse dovuto, proclamarsi un «ateo della crescita» o, a essere più rigorosi, un fautore dell’«a-crescita». Dal momento che, mentre alcune cose posso crescere esponenzialmente, altre invece non devono farlo, se ci si accorge che minano le basi del nostro vivere insieme. In un mondo minacciato dai cambiamenti climatici, anche l’espressione «sviluppo sostenibile», oggi sulla bocca di tutti, è di fatto un ossimoro: lo sviluppo in sé e per sé è palesemente non sostenibile e la nostra stessa sopravvivenza richiede nuovi schemi di pensiero.


Sommario

 

Premessa

Prima parte

Il progetto della decrescita

 

Seconda parte

Decrescita e pedagogia

 

Terza Parte

Le sfide pedagogiche contemporanee: decolonizzare il disincanto.

 

Note al testo

Bibliografia


 

Simone Lanza – Perdere tempo per educare. Di fronte a una società che non perde tempo, il compito della pedagogia oggi è quello di rallentare ancora di più. Come già insegnava Rousseau, saper perdere tempo, lasciare spazio all’imprevisto, all’incontro, per dialogare con bambini/e, per sorprenderci e stupirci.
Simone Lanza – Le nuove tecnologie digitali stanno privando infanzia e adolescenza della possibilità di sviluppare memoria, senso critico, capacità cognitive. La realtà virtuale non è l’opposto della realtà, è la dimensione peggiore della realtà odierna: questo libro è dedicato a chi creda che abbia ancora senso sollecitare tutta la comunità educante a perdere tempo per educare.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Karel Čapek (1890-1938) – Chi fiorisce e porta il frutto non sa nulla della decadenza, ma della germogliazione. Questa è la vera primavera; quello che non è pronto ora, non sarà pronto nemmeno in aprile. Il futuro non è davanti a noi, poiché è già qui, sotto foglia di germoglio; è già tra di noi; e ciò che non è tra di noi, non ci sarà nemmeno in futuro. La cosa migliore di tutte è essere una persona viva; ovvero una persona che cresce.

«Per tutto l’anno è primavera e per tutta la vita è gioventù; sempre qualcosa fiorisce.

È solo un modo di dire che è autunno; noi intanto fioriamo di altri fiori, cresciamo sotto terra, fondiamo sui nuovi virgulti; c’è sempre qualcosa da fare.

Solo quelli che tengono le mani in tasca dicono che il tempo volge al peggio; ma chi fiorisce e porta il frutto, anche se fosse novembre, non sa nulla dell’autunno, bensì dell’estate d’oro; non sa nulla della decadenza, ma della germogliazione. Aster autunnale, amico mio, l’anno è tanto lungo che non ha nemmeno fine».

«Diciamo che la primavera è l’epoca della germogliazione; in realtà l’epoca della germogliazione è l’autunno. Per quanto riguarda la natura, è vero sì che l’autunno è la fine dell’anno, ma è ancor più vero che l’autunno è l’inizio dell’anno. È opinione corrente che in autunno cadano le foglie, e davvero non lo posso negare, affermo solo che in un certo senso, più profondo, l’autunno è l’epoca in cui effettivamente germogliano. Le foglie si seccano perché arriva l’inverno: ma si seccano anche perché già arriva la primavera; perché già si creano i nuovi germogli, piccoli come capsule esplosive, da cui scoppierà la primavera. È un’illusione ottica che gli alberi e i cespugli siano spogli in autunno; infatti, sono cosparsi di tutto ciò che si aprirà e si svilupperà in primavera. È solo un’illusione ottica che il fiore in autunno appassisce; giacché in realtà nasce. Diciamo che la natura riposa, mentre penetra impetuosamente sempre più avanti. […]

Gente, questa è la vera primavera; quello che non è pronto ora, non sarà pronto nemmeno in aprile.

Il futuro non è davanti a noi, poiché è già qui, sotto foglia di germoglio; è già tra di noi; e ciò che non è tra di noi, non ci sarà nemmeno in futuro.

Non vediamo i germogli, perché sono sotto terra; non conosciamo il futuro, perché è in noi.

A volte ci sembra di puzzare di decomposizione, ingombri dei residui secchi del passato; ma se potessimo guardare quanti grassi e bianchi virgulti si aprono la strada in quel vecchio terreno di coltura che si chiama l’oggi; quanti semi germogliano segretamente; quante vecchie piante si raccolgono e si concentrano in una gemma viva, che un giorno esploderà in una vita fiorente; se potessimo guardare il segreto formicolio del futuro tra di noi, evidentemente ci diremmo che grande sciocchezza sono la nostra malinconia e la nostra sfiducia; e che la cosa migliore di tutte è essere una persona viva; ovvero una persona che cresce».

Karel Čapek, L’anno del giardiniere, a cura di Daniela Galdo, Sellerio, Palermo 2021, pp. 112 e 149.

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