Jules Romains (1885-1972) – La salute non è che una parola che si potrebbe tranquillamente cancellare dal nostro vocabolario. Io non conosco gente sana. Noi dobbiamo organizzare gli abitanti di questo paese come un grande esercito … un esercito di ammalati e ciascuno con il suo grado … ammalati lievi, gravi, gravissimi, mortali … Nelle vene di ogni uomo c’è il germe della malattia. Coloro che si credono sani sono malati senza saperlo.

Jules Romains 001

Salvatore Bravo

Mercato e malattia

I popoli non sono più costituiti da cittadini, ma sono potenziali malati, e quindi consumatori di farmaci. La nuova plebe deve brucare farmaci. In questo modo è sancita la dipendenza dal mercato gestito dalle multinazionali e nel contempo i “farmaco-dipendenti” continuano ad essere ossessionati dalla “salute” del corpo senza spirito: scrutano dunque i sintomi di ogni potenziale malattia, ne inseguono pervicacemente l’evoluzione e le manifestazioni apprezzabili, e ne vogliono prevenire farmacologicamente lo sviluppo. La distinzione tra malati e sani diviene tanto sottile da non essere più distinguibile. L’anti-umanesimo si radica, anche, nel mito della salute ad ogni costo, del corpo come feticcio da adorare e servire, mentre la vita interiore avvizzisce e la creatività è addomesticata con la fobia della malattia. L’atomocrazia si espande mediante la paura dell’altro, il quale è portatore di virus e batteri. Ogni politica decade e si cancella nel timore che l’altro sia il latore della morte.

La trasformazione del cittadino in paziente è il successo delle multinazionali del farmaco colluse con la politica, in un flusso incontenibile e vorticoso di denaro. Non solo hanno rinnegato il Giuramento di Ippocrate, seppellendolo nella strategia di marketing, ma hanno trasformato i popoli in plebi impaurite dalla malattia. I nuovi pazienti sono sollecitati ad allungare i giorni della propria vita affidandosi religiosamente a medici e luminari che spesso sono rappresentanti delle multinazionali, sono la truppa che assalta il mercato diffondendo timori, incutendo il terrore, ammalando i pazienti che dovrebbero guarire. Il mercato trasforma il farmaco in prodotto e il cittadino in consumatore: per arrivare a questo obiettivo deve diffondere l’inquietudine della malattia. La minaccia è introiettata nel consumatore, che si auto-percepisce come malato perenne in continua lotta contro le malattie. L’attenzione è orientata alla difesa della sola “nuda vita”, ogni movimento interiore scompare nella battaglia contro le tempeste delle potenziali malattie.



Il mercato del farmaco[1] diviene “luogo dei veleni”, si inventano malattie, si aumentano gli effetti delle stesse, si insegna ad osservare i segni del suo apparire per medicalizzare i popoli e porli sotto custodia dei potentati farmaceutici e dei suoi “generali”, ormai divi televisivi che dispensano nelle loro liturgie l’imperativo categorico della medicalizzazione della vita. Sono i nuovi sacerdoti che castigano i nuovi peccati: la cura di sé dev’essere orientata al corpo biologico, ogni deviazione è un peccato che si paga con la malattia e con la morte. La nuova obbedienza è generale, la nuova chiesa è la multinazionale del farmaco che dispensa farmaci come fossero sacramenti. Si inventano malattie per aumentare, con i “sacramenti”, gli introiti. La sindrome disforica premestruale ne è un esempio: è stata creata per vendere il “Sarafem”, le inchieste lo hanno dimostrato. Il Prozac stava scadendo per cui è stato riciclato dandogli una nuova veste con cui giustificare la sua reintroduzione nel mercato. L’ansia sociale, una volta timidezza, è una nuova patologia da curare con il Paxil. Chiunque in una società competitiva mostri sintomi di ansia sociale risulta malato: per normalizzarlo si utilizza il farmaco.

Il mercato è sempre alla ricerca di nuovi malati: si può ipotizzare che il nuovo malato su cui si sta puntando possa essere “il maschio” rappresentato nelle cronache come “patologico aggressore”, e dunque, da curare. La cornice sociale con le sue dinamiche non compare, la violenza in tal modo è spiegata facendo riferimento alla “natura patologica”. Le patologie sono strategia di marketing che trovano nella cultura dell’astratto il loro humus di formazione. Se la capacità dei popoli di contestualizzare declina, è inevitabile che siano disarmati dinanzi all’esercito di “graduati” delle multinazionali. Verità e menzogna si confondono, la platea dei veri ammalati è minima, ma per vendere il farmaco è necessario allargare la platea degli ammalati. Il bio-potere colluso con la politica diviene un corpo unico che avanza con i suoi cingolati e slogan contro i popoli. Se lo dice la scienza tutti tacciono, la scienza è rappresentata come imparziale, come la divinità mondana che con i suoi oracoli indica la strada per la salvezza dalla malattia. L’astratto ancora una volta sostituisce il concreto. La letteratura umanistica e critica sempre meno praticate ci consentono di capire il presente con i suoi pericoli.

 

Knock, ovvero il trionfo della medicina
L’opera teatrale Knock, ovvero il trionfo della medicina (Knock ou Le triomphe de la médecine) di Jules Romains scritta nel 1923, denuncia la medicina che si trasforma in un affare. Il dottor Knock usa il tamburino, oggi si utilizzano i mezzi mediatici per penetrare nella psiche ed indebolire le difese critiche. Lo scopo è lo stesso: favorire la sensazione che non ci si curi abbastanza. È il nuovo peccato:

 

«K Comprendete, amico mio, quello che io voglio innanzitutto, è che la gente si curi. Se volevo guadagnare era a Parigi che m’installavo o a New York.
T Ah! Avete messo il dito sulla piaga. Non ci si cura mai abbastanza. Non ci si vuole ascoltare, e ci si tratta troppo duramente. Quando si ha male ci si sforza. Tanto varrebbe essere degli animali.
K Noto che ragionate molto giustamente, amico mio».[2]

 

A scuola di medicina
La nuova medicina per imporsi deve allearsi con l’istruzione, deve diffondere il terrore dei germi, deve favorire un’igienica distanza. Il dottor Knock si allea col maestro, l’istruzione dev’essere assimilata al bio-potere, dev’essere asservita per allevare i futuri consumatori nella paura della malattia che si trasforma nel timore dell’altro. La socializzazione dev’essere inibita in nome del terrore batteriologico, in modo da assicurarsi un fiorente mercato nel presente e nel futuro:

 

«K Vediamo! Voi eravate in relazioni costanti col dott. Parpalaid, vero?
B Lo incontravo di tanto in tanto al caffè dell’Hotel. Ogni tanto facevamo una partita al biliardo.
K Non è di quelle relazioni che voglio parlare.
B Non ne avevamo altre.
K Ma … ma … come vi eravate ripartiti l’insegnamento popolare dell’igiene, l’opera di propaganda nelle famiglie … che so … i mille compiti che il medico e il maestro non possono che svolgere d’accordo!
B Non ci eravamo spartiti nulla di nulla.
K Cosa?? Avete preferito agire ciascuno isolatamente?
B È più semplice. Non ci abbiamo pensato né l’uno né l’altro. È la prima volta che si parla di questo a San Maurizio.
K (con tutti i segni di una grande sorpresa) Ah! … Se non lo sentissi dalla vostra bocca, vi assicuro che non ci crederei.
B Sono desolato di causarvi questa delusione, ma non potevo prendere io una decisione di tal genere, l’ammetterete, anche se ne avessi avuto l’idea, e anche se il lavoro della scuola mi avesse lasciato più tempo libero.
K Evidentemente! Voi aspettavate un appello che non è venuto». [3]

L’assimilazione opera con “le parole buone che celano cattive intenzioni”. Il maestro è osannato come “autorità morale”, ma è solo il servo del nuovo marketing. La nuova medicina penetra nelle istituzioni per trasformarle in allevamento per i futuri consumatori, facendo appello al timore più inquietante, ovvero alla paura di ammalarsi e morire. Il nuovo terrore scorre e circola in nome della vita:

 

«B Qui l’acqua è buona, siamo in montagna.
K Sanno almeno cos’è un microbo?
B Ne dubito molto! Qualcuno conosce la parola, ma devono immaginare che si tratti di una specie di mosca!
K (si alza) E’ spaventoso. Ascoltate, caro signor Bernard, non possiamo riparare, noi due, in otto giorni anni di … diciamo d’incuria. Ma bisogna fare qualcosa.
B Non mi rifiuto, temo solo di non potervi essere di molto aiuto.
K Signor Bernard, qualcuno che vi conosce bene, mi ha rivelato che Voi avete un grave difetto: la modestia. Siete il solo ad ignorare che qui Voi avete autorità morale ed una influenza personale non comuni. Mi dispiace di dovervelo dire ma nulla di serio si può fare qui senza di voi.
B Voi esagerate dottore.
K Certamente, io posso curare i miei malati senza di Voi. Ma la malattia chi mi aiuterà a combatterla? Chi istruirà questa povera gente sui pericoli che ogni secondo attentano il loro organismo? Chi insegnerà loro che non bisogna aspettare di essere morti per chiamare il medico?
B Sono molto negligenti, non lo nego.
K Cominciamo dall’inizio. Ho qui il materiale di molte conferenze divulgative, note molto complete, belle figure e una lanterna (antico strumento per proiettare le diapositive). Sistemerete tutto ciò come sapete fare. Tenete, per cominciare, una breve conferenza, tutta scritta, certamente molto gradevole, sulla febbre tifoide, le forme insospettabili che prende, i suoi numerosi veicoli: acqua, pane, latte, molluschi, verdure, insalata, polvere, fiato, ecc… le settimane e i mesi durante i quali cova senza tradirsi, gli accidenti mortali che provoca immediatamente, le complicazioni temibili che trascina in seguito; il tutto abbellito da graziose vedute: bacilli ingranditi in modo formidabile, dettagli di escrementi tifoidi, gangli infetti, perforazioni intestinali, e non in bianco e nero, ma a colori, rosa, marrone, giallo, bianco verdastro come potete vedere Voi stesso (si siede di nuovo)».[4]

 

Conferenze e seminari divengono luoghi dell’ammaestramento al mercato, sono occasione per inoculare la paura e guadagnare clienti in nome della difesa della vita.

 

In farmacia
La rete medicale-mercantile si allarga, la nuova medicina trova nei farmacisti gli alleati per l’affare. Knock invita il farmacista Mousquet ad essere parte del dispositivo, bisogna trasformare la popolazione in graduati della malattia, bisogna spillare da ciascuno denaro offrendogli in cambio il prodotto salute. La persona non dev’essere più tale, ma deve sentirsi un ammalato in modo che la rete medicale possa ridurlo a cliente dell’apparto medico-mercantile, nessuno deve sfuggire al dispositivo, ma tutti vi devono partecipare:

 

«K Ammalarsi … vecchia nozione che non regge più di fronte ai dati della scienza attuale. La salute non è che una parola che si potrebbe tranquillamente cancellare dal nostro vocabolario. Io non conosco gente sana. Sa cosa diceva Pasteur: “Coloro che si credono sani sono malati senza saperlo”. Per parte mia io conosco solo gente più o meno affetta da malattie, più o meno numerose ad evoluzione più o meno rapida. Naturalmente se Voi andate a dir loro che stanno bene … non chiedono di meglio che credervi, ma Voi li ingannereste. Vostra sola scusa sarebbe che avete già troppi malati da curare per prendere di nuovi. Nelle vene di ogni uomo c’è il germe della malattia. Noi dobbiamo organizzare gli abitanti di questo paese come un grande esercito … un esercito di ammalati e ciascuno con il suo grado … ammalati lievi, gravi, gravissimi, mortali … così come in un esercito ci sono i soldati, i graduati, gli ufficiali, i generali …
M In ogni caso è una gran bella teoria.
K Teoria profondamente moderna, signor Mousquet, riflettete, è parente molto prossima dell’ammirabile idea della nazione armata che fa la forza dei nostri stati.
M Voi siete un pensatore dottor Knock, e i materialisti avranno un bel sostenere il contrario, il pensiero guida il mondo.
K (si alza) Ascoltatemi! (Tutti due sono in piedi) Può essere che io sia presuntuoso. Forse mi aspettano amare disillusioni. Ma se, in un anno, giorno dopo giorno, Voi non avrete guadagnato i venticinquemila franchi netti che vi sono dovuti, se madame Mousquet non avrà le gonne, i cappelli e le calze che la sua condizione esige, vi autorizzo a venirmi a fare una scena qui e vi porgerò le guance perché possiate schiaffeggiarmi.
M Caro dottore, sarei un ingrato se non vi ringraziassi con effusione e un miserabile se non vi aiutassi con tutto il mio potere».[5]

 

Moda per ammalati
I nuovi poteri si alleano con i nuovi. Si viene a riprodurre una nuova configurazione, una nuova geometria. La signora in viola è una nobile decaduta, comprende la finalità del medico e subodora l’affare. Propone di usare il suo prestigio sociale per incoraggiare “la pubblica salute”, per vincere reticenze e timori, in cambio risolverà i suoi problemi economici lanciando camicie da notte per gli ammalati. L’affare si allarga, diventa tentacolare:

 

 «SV Ecco. Ho voluto dare l’esempio. Trovo che voi avete avuto una bella e nobile ispirazione. Ma conosco la mia gente. Ho pensato: “Non ne hanno l’abitudine, non ci andranno. E questo signore ci resterà male per la sua generosità”. E mi sono detta: “Se vedono che una signora Pons, signorina Lempoumas, non esita a inaugurare le consultazioni gratuite, non avranno più paura di presentarsi”, perché i miei anche minimi gesti vengono osservati e commentati. Il gioco è fatto. Ci sarà la fila fra poco qui fuori, caro dottore.
K Il vostro comportamento è molto lodevole signora. Vi ringrazio.
SV (si alza e fa come per ritirarsi) Sono felice, dottore, di aver fatto la vostra conoscenza. Resto a casa tutti i pomeriggi. Viene sempre qualcuno. Facciamo salotto attorno a una vecchia teiera Luigi XV che ho ereditato dai miei avi. Ci sarà sempre una tazza a parte per Voi (Knock si inchina, la signora in viola avanza verso la porta). Sapete che io sono veramente molto, molto tormentata dai miei affittuari e dai miei titoli. Passo delle notti senza dormire. E’ orribilmente stancante. Non conoscete, dottore, un segreto per far dormire?».[6]

 

Vecchia e nuova medicina
Il dottor Parpalaid simbolo della medicina della cura e non dell’affare vorrebbe riprendere il suo posto, ma il dottor Knock riesce a gabbarlo, ad incutere anche in lui il timore della malattia. La vecchia medicina è sconfitta. Al suo posto vi è l’immenso potere della nuova medicina penetrata in ogni gesto, parola, pensiero e comportamento. Il paesaggio è impregnato di medicina e di ammalati. Il mercato ha fagocitato il paese vivo. Al suo posto vi è un immenso affare, pazienti intimoriti dalla malattia e dalla morte e dunque manipolabili:

 

 

«K Perbacco! Guardate un po’ qua, dottor Parpalaid, certo conoscete la vista che si ha da questa finestra, tra una partita di biliardo e l’altra, a suo tempo, non avete potuto non vedere: là in fondo il monte Aligre che segna il confine del Comune. I paesi di Mesclat e di Treburn si intravedono a sinistra; e se, da questo lato le case di San Maurizio non facessero una specie di rigonfiamento, avremmo d’infilata tutti i cascinali della valle. Voi non avrete visto in ciò null’altro che quelle bellezze naturali di cui siete avido. È un paesaggio rude, a malapena umano, che contemplavate. Oggi ve lo mostro tutto impregnato di medicina, animato e percorso dal fuoco sotterraneo della nostra arte. La prima volta che mi sono piantato qui davanti, il giorno dopo del mio arrivo, non ero molto fiero, sentivo che la mia presenza non aveva gran peso, che questo vasto territorio esisteva indipendentemente da me e dai miei simili. Ma ora io sono a mio agio qui come un organista davanti al suo grande organo. In duecentocinquanta di queste case – non le vediamo tutte a causa del fogliame – ci sono duecentocinquanta camere dove qualcuno s’inchina alla medicina, duecentocinquanta letti in cui un corpo steso testimonia che la vita ha un senso e, grazie a me, un senso medico. La notte è ancora più bello, perché ci sono i lumi. E quasi tutte le luci sono mie. I non malati dormono nelle tenebre. Sono spariti. Ma i malati hanno tenuto la loro lampada accesa. La notte mi sbarazza di tutto quello che è rimasto ai margini della medicina, me ne nasconde il fastidio e la sfida. Il cantone lascia il posto ad una specie di firmamento del quale io sono il creatore continuo. E non vi dico delle campane. Pensate che per tutti loro, il primo compito delle campane è ricordare le mie prescrizioni dato che esse ne sono la voce. Pensate che tra qualche minuto suoneranno le dieci, che per tutti i miei malati le dieci sono la seconda misurazione della temperatura rettale, e che tra qualche istante, duecentocinquanta termometri penetreranno allo stesso tempo…». [7] Atto III

 

L’opera del 1923 è profetica. È stata rappresentata a teatro come in film. Ci parla ancora, è viva nella sua verità, e pone il problema fondamentale che si vuole rimuovere, ovvero il senso della medicina e dell’informazione. Al suo posto, oggi, in attesa che la domanda si ponga, imperano le sirene delle multinazionali e dei suoi gendarmi.

Salvatore Bravo

[1] Farmaco deriva dal greco φαρμακον, pharmakon, che vuol dire “rimedio, medicina”, ma anche “veleno”.

[2] Knock, ovvero il trionfo della medicina, Knock e il tamburino.

[3] Ibidem, Knock e il maestro Bernard.

[4] Ibidem, Knock e il maestro Bernard.

[5] Ibidem, Knock e il farmacista Mousquet.

[6] Ibidem, Knock e la signora in viola.

[7] Ibidem, Atto III.

 

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Robert Musil (1880-1942) – La conoscenza della natura umana insegna a riconoscere e apprezzare l’altra persona da quella maniera nobile, quasi non tangibile e tuttavia essenziale e completa, di essere uomo e spirito.

Robert Musil 002

[in lui erano] le basi di quella conoscenza della natura umana che insegna a riconoscere e ad apprezzare un’altra persona – fino ad anticiparne l’individualità spirituale – dalla cadenza della voce, dal modo di prendere un oggetto, perfino dal timbro del suo silenzio e dall’espressione dell’atteggiamento con cui si inserisce in uno spazio, in breve da quella maniera nobile, quasi non tangibile e tuttavia essenziale e completa, di essere uomo e spirito: la quale racchiude il nocciolo nel suo aspetto palpabile e vagliabile come la carne racchiude lo scheletro.

 

Robert Musil, I turbamenti del giovane Törless, in Id., Racconti e teatro, trad. it. di Anita Rho, Torino, Einaudi, 1964.


Robert Musil (1880-1942) – Ogni grande libro spira amore per i destini dei singoli individui che non si adattano alle forme che la collettività vuol loro imporre. Abbiamo troppo poco intelletto nelle cose dell’anima.
Robert Musil (1880-1942) – Il senso della possibilità si potrebbe anche definire come la capacità di pensare tutto quello che potrebbe essere. Solo se si è pronti a considerare possibile l’impossibile si è in grado di scoprire qualcosa di nuovo.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Alberto Giovanni Biuso – Il «maestro vuoto» è la vittoria della separazione tra gli umani, della negazione della natura sociale di Homo sapiens, è il trionfo della distanza come vero e proprio paradigma antropologico, psicologico, etico.

Alberto Giovanni Biuso 025

La manipolazione consapevole ed intelligente delle abitudini e delle opinioni organizzate delle masse è un elemento fondamentale nella società democratica. Coloro che manovrano questo impercettibile meccanismo della società costituiscono un governo invisibile -l’autentico potere dominante nel nostro Paese. Uomini di cui non abbiamo mai sentito parlare governano i nostri corpi, modellano le nostre menti, suggeriscono le nostre idee.

Così scriveva nel 1929 Edward Louis Bernays in un testo fondativo del marketing: Propaganda. L’arte di manipolare l’opinione pubblica (cit. da F. Mazzoli e G. Paciello a p. 237). La vicenda Covid19 va letta anche in questa chiave sociologica, economica e politica, oltre che sanitaria. [continua a leggere]


Alberto Giovanni Biuso – Recensione del libro “Discorsi sulla morte” di Luca Grecchi.
Alberto Giovanni Biuso – Recensione al libro di Roberto Marchesini «Alterità. L’identità come relazione»
Alberto Giovanni Biuso – Recensione al libro di Renato Curcio «L’EGEMONIA DIGITALE. 
L’impatto delle nuove tecnologie nel mondo del lavoro». La colonizzazione dell’immaginario scandisce «un progresso tecnologico inesorabilmente avverso ad ogni anelito di progresso sociale»
Alberto Giovanni Biuso – Quei labirinti temporali che redimono il dolore. Recensione del libro «Fenomenologia e patografia del ricordo» di Pio Colonnello.

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Romano Guardini (1885-1968) – Non basta fare il bene, ma occorre anche farlo nel modo giusto. Si deve scegliere e si può ottenere qualcosa di più alto solo se si rinuncia a ciò che è più basso. L’esistenza dell’uomo che vive in modo degno implica questa trasposizione ad un piano più alto.

Romano Guardini 01

Non basta fare il bene, ma occorre anche farlo nel modo giusto; qui l’ordinamento etico si prolunga nella saggezza, che ammonisce in questi termini: guardati dal compiacerti coscientemente del bene che hai fatto e che ti rallegra, non soffermarti su di esso col tuo pensiero, non ripercorrere mentalmente la situazione per sentire te stesso entro di essa, perché se fai queste cose, il bene si corrompe. […]

Quel che a noi qui interessa è che la vita […] implica sempre il momento iniziale, in cui diviene operante la spontaneità, l’interiore energia originante dalla vita. Un procedere del decorso assolutamente uniforme condurrebbe alla paralisi e all’incapacità di vivere […]. Questo iniziare di nuovo è della massima importanza anche per la vita morale ed è parte integrante della saggezza […]. L’esistenza morale non procede nella forma di un ampliamento continuativo, ma in quella del continuo riproporsi dell’istante del nuovo inizio, perché l’arco dell’impulso cala, l’energia si affatica in seguito allo sforzo, lo slancio interiore si ottunde con la ripetizione di ciò che è abituale, con l’accumularsi degli insuccessi, il sentimento continuamente vissuto, della propria inadeguatezza e via dicendo.

[…] Non si può avere tutto, ma si deve scegliere; si può ottenere qualcosa di più alto solo se si rinuncia, nella misura suggerita dall’esperienza e dalla prudenza, a ciò che è più basso. L’esistenza dell’uomo che vive in modo degno implica dappertutto questa trasposizione ad un piano più alto […] Perciò è necessario avere senso della misura e prudenza. Ciò che si chiama saggezza, consiste anzi in buona parte in questo.

 

Romano Guardini, Etica, Morcelliana, Brescia 2001.


Romano Guardini (1885-1968) – Chi non ama la vita non ha pazienza con essa: la pazienza è l’uomo in divenire che comprende giustamente se stesso, è una forza tranquilla e profonda

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Fabio Merlini – Sotto il regime dell’immediatezza qualsiasi prospettiva di lungo periodo risulta preclusa. L’assenza di prospettiva è resa effettuale dall’immediatezza, cioè l’appiattimento sul dato. Vivere nell’immediatezza significa vivere nella ripetizione di sé, privarsi di quella ulteriorità che fa dell’esistenza, oltre che uno spazio di esperienza, anche un orizzonte di attesa.

Fabio Merlini 01

Dietro l’estetica innovativa della nostra odierna mondanità ultra-modernizzata si celano non di rado situazioni di vita barbariche, cioè neo-schiavistiche, indifferenti ai diritti del lavoro, alla vivibilità del paesaggio circostante e, in generale, all’ecosistema. È la riattualizzazione speculativa, nel cuore stesso dell’innovazione, di una storia di violazioni rinnegata, a suo tempo, dagli ideali emancipativi della società moderna. Più che un progetto incompiuto, la modernità appare qui come un progetto interrotto, abbandonato. Triste è dunque l’estetica fatta propria – per assicurarsi un appeal continuo – da quella innovazione che si afferma sfruttando strategicamente processi non ordinati a una uniforme temporalità storica. Dove, cioè, le conoscenze e le tecniche più raffinate, le forme più seduttive, vengono rese concorrenziali da un ricorso cinico a risorse esposte a utilizzazioni fuori controllo, indifferenti ai valori e ai diritti nei quali la nostra cultura afferma di riconoscersi, come esito di una storia gloriosa e sofferta di rivendicazioni e conquiste.
Dunque, come esiste una scienza triste, così esiste anche un’estetica triste. Il suo principale alleato, quando si tratta di diffondere prodotti su larga scala, è un design che si appoggia allo stesso meccanismo con cui la moda brucia il tempo di apparizione, uso e consumo degli oggetti.
[…]
Che cosa significa non disporre del tempo, vivere in un perenne affrettamento? Al di là della percezione immediata – una moltiplicazione di sollecitazioni e responsabilità, desiderate e temute al tempo stesso, cui è difficilissimo resistere –, l’essere senza tempo è una particolare stilizzazione della vita, dove mente e corpo stabiliscono una relazione privilegiata con l’immediatezza: tutto deve essere prodotto, promosso, richiesto, ottenuto e consumato all’istante. Di più: è l’esistenza stessa a essere chiamata a risolversi nell’istante. Per questo, essa si misura prioritariamente con una successione, rapida e irrelata, di «ora»: ora questo, ora quello, ora quest’altro ancora. Il non avere tempo è dunque una elisione reiterata del tempo, è la sua continua cancellazione più che la sua assenza. La velocizzazione che ne consegue – nei casi peggiori: l’essere in ritardo su tutto – risparmia il presente dalla sua dinamica temporale. Lo eternizza, grazie a una mobilitazione volta a sottacerne l’immobilità. Per poter rimanere saldo nel suo principio – l’economia capitalistica di mercato – esso agita e mette in moto soggetti e oggetti, programmando l’obsolescenza delle loro funzionalità, per chiamarli poi a una incessante renovatio.
[…]
L’ora, l’istante, l’urgenza elevata a regola impongono ai soggetti una identificazione totale con il presente. Quando la prassi non riconosce altro all’infuori del loro appello, allora l’immediatezza diventa l’immagine stessa del tempo che si azzera, a vantaggio di ciò che questo stesso presente, nel suo divenire autarchico, istituisce appunto come unico spazio dove chiamare i soggetti a dare (buona o cattiva) prova di sé. Mancare l’ora, l’istante, l’urgenza, significa mancare l’appuntamento con se stessi e con le cose. Sotto il regime dell’immediatezza, la prossimità al mondo è tale per cui qualsiasi prospettiva di lungo periodo risulta preclusa, perché l’accelerazione che ne deriva assorbe l’intera estensione del tempo. Se vi è protensione, essa si dà ancora solo nel dinamismo reso possibile da questa accelerazione, rispetto alla quale nulla sarà comunque mai sufficientemente rapido e performante. Ecco perché non è possibile vedere altro fine, se non l’esigenza di assecondare quanto l’immediatezza presenta come terreno di prova del valore (obiettivo raggiunto/obiettivo mancato), per un soggetto costantemente impegnato ad assicurarsi i mezzi del proprio potenziamento. Trovarsi così a «ridosso della realtà» significa affrontare le cose con uno sguardo deprivato di qualsiasi distanza prospettica. Un mondo in cui tutto è in movimento può benissimo essere un mondo in sé privo di movimento; un mondo congelato nella ripetizione infinita delle sue logiche riproduttive, il quale, per potersi ripetere in esse, ha appunto bisogno di questo movimento.

L’assenza di prospettiva, resa effettuale dall’immediatezza, cioè l’appiattimento sul dato […] definisce la nostra incapacità di guardare il mondo attuale come futuro del passato e, contemporaneamente, come passato del futuro. L’assolutizzazione del nostro presente presuppone questo sganciamento dal continuum temporale, per cui rispetto al passato, il presente non riconosce più alcun debito: esso ha innovato ciò che doveva essere innovato, potenziato ciò che doveva essere potenziato. Ha superato le sue insufficienze ed inefficienze, eliminando ciò che andava eliminato. Rispetto al futuro, invece, esso è ciò che lo attualizza incessantemente tramite l’innovazione: è la sua stessa garanzia, la sua condizione di possibilità. Per questo non vi è alcuna ragione di superare il presente. Perché mai sacrificarlo a qualcosa che esso stesso è benissimo in grado di produrre a partire dalle sue risorse?

Ma questa non è l’apertura sul futuro, come possibilità dell’affermazione di una divergenza, è la ripetizione di una identità: è il futuro del presente. In questo modo, il tempo viene privato di qualsiasi orizzonte. Vivere nell’immediatezza, nonostante le apparenze, significa allora vivere nella ripetizione di sé, privarsi di quella ulteriorità che fa dell’ esistenza, oltre che uno spazio di esperienza, anche un orizzonte di attesa.

 

Fabio Merlini, L’estetica triste. Seduzione e ipocrisia dell’innovazione, Bollati Boringhieri, Torino 2019, pp. 16 e 129-130.

Lorenzo Lippi, Allegoria della simulazione (1630), Musée des Beaux-Arts, Angers

Quarta di copertina

«Scienza triste»: l’economia non è più riuscita a liberarsi del suo epiteto ottocentesco, che metteva sotto accusa la brutalità di appetiti a malapena dissimulati dall’astrattezza dei principi regolatori del mercato. Motivi analoghi inducono oggi Fabio Merlini a qualificare come «triste» anche l’estetica, sfera a cui di solito assegniamo effetti rasserenanti, se non euforizzanti. La bella apparenza che tanto ci seduce nella scenografia della merce esercita infatti un potere di incantamento che da un lato occulta condizioni di produzione talora neoschiavistiche e offese all’ecosistema, e dall’altro stringe alleanze con i regimi di consunzione del tempo nei quali si estenua la nostra esistenza, convocata in un presente privo di orizzonte. Invece di disinnescarla, l’esuberanza delle cose potenzia la tonalità depressiva dell’innovazione, che vive di caducità indotta attraverso vettori di accelerazione: ogni novità presto confligge con la versione aggiornata di se stessa, condannandosi a rapida obsolescenza e denunciando la consanguineità tra moda e morte già colta da Leopardi due secoli fa. A questa inevitabile «tristezza» cooperano adesso la disintermediazione universale, il dinamismo immobile – immediatezza ostile a qualsiasi differimento – e la stilistica della prestazione, che all’insegna dell’easy style costringe in realtà a una sfibrante mobilitazione cognitiva. Di ossimoro in paradosso, Merlini con garbo ragionativo ispeziona il nostro mondo estetizzato e performante, in cui tutto è merce o aspira feticisticamente a diventarlo. Un mondo, conclude, sempre più inospitale.

 


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – Con questo libro sulla «Dolcezza» Luca Grecchi ci dona la possibilità di un riorientamento gestaltico con cui guardare ex novo il mondo nella sua verità. Non basta essere gentili. Senza gratuità e dolcezza non vi è comunità.

Luca Grecchi - Dolcezza - Salvatore Bravo

Salvatore Bravo

Globalizzazione della durezza e necessità della dolcezza

Con questo libro sulla «Dolcezza» Luca Grecchi ci dona la possibilità
di un riorientamento gestaltico con cui guardare ex novo il mondo nella sua verità.
Non basta essere gentili.
Senza gratuità e dolcezza non vi è comunità.

 

L’Occidente globalizzato nel suo tramonto nichilistico si caratterizza per un generale analfabetismo emotivo e sentimentale. L’analfabetismo dei sentimenti a cui si assiste, e di cui quotidianamente ci si scandalizza, può essere compreso solo all’interno della cornice crematistica che impera e regna. Il trionfo della razionalità calcolante e produttiva non ammette limiti al suo imperio. La natura morale universale è giudicata come elemento inibente nello sviluppo delle forze produttive, pertanto si scinde il legame tra teoria e prassi e tra razionalità e sentimento etico. La struttura economica necessita di un’umanità mutila della sua profondità etica nella quale razionalità oggettiva e vita emotiva trovano la loro massima configurazione.
L’antropologia capitalistica ha elaborato una visione dell’essere umano come di un essere devoto allo scambio e che realizza se stesso solo nell’attività mercantile. Il fine è creare un vuoto interiore in ogni essere umano da riempire con la logica dell’utile e dell’accumulo che devono sostituire ogni finalità etica. Il sistema non vuole solo atomizzare, ma deve anche recidere la totalità, fondamento della persona, e affinché questo possa essere deve isolare e spingere alla competizione, per mutilare l’umanità del senso etico.
Ogni mutilazione implica una ferita, la quale palesa l’irrazionalità dolorosa di tale pratica sociale, che vorrebbe fondare l’uomo nuovo, sogno di ogni totalitarismo, ma in realtà, ottiene solo un’umanità sofferente e senza speranza. Le passioni tristi di cui è intessuto il capitalismo nella sua fase neoliberista sono la verità di un sistema patologico ed irrazionale. Negare la natura morale significa consegnare l’umanità al caos della violenza, all’infelicità perenne tra le miserie dell’abbondanza per i privilegiati, ed alla miseria migrante per i nativi degli Stati neocolonizzati e sfruttati dalle logiche imperiali. In entrambi i casi regna l’anomia etica e l’incuria nelle relazioni umane ed ambientali:

Filosofia ed etica
In questo contesto connotato dall’anti-umanesimo la filosofia deve segnare la sua presenza critica e propositiva. Non si tratta della filosofia accademica: non è certo una filosofia all’ombra del potere che può riportare il problema morale alla sua comprensione storica. Solo la filosofia che non ha tradito la sua vocazione teorica e pratica ed ha come fine la buona vita degli esseri umani, può agire, affinché la “cura” della comunità sia il principio di un nuovo inizio a misura di essere umano e non di mercato:

Luca Grecchi procede per definizioni e distinzioni in modo da chiarire il problema, e far emergere dal caos delle parole – travolte dal flusso ininterrotto ed anonimo delle mercificazioni e dall’autopromozione – i significati con cui definire i problemi ed indicare l’alterativa all’anomia vigente. Definire e distinguere è già un atto che implica dolcezza e cura, in quanto riportare i significati alla loro verità è un atto etico con il quale si dona senso e si indica il percorso per ritornare a se stessi dopo la dispersione nichilistica:

Dolcezza e cura
L’economia privatistica ed acquisitiva non ha cura degli esseri umani, li omogeneizza alle merci, li riduce ad enti mossi dal valore di scambio.
La dolcezza è non solo cura, ma espressione del bene, ovvero della buona vita che necessita di relazioni fondate sulla razionalità etica.
La dolcezza è pratica della reciprocità nella cura liberata dal vincolo proprietario-acquisitivo. L’essere umano è, in tal modo, valorizzato per la sua umanità che necessita di essere guardata con lo sguardo della dolcezza, della reciproca e dialettica accoglienza con cui conoscersi nella propria totalità “irripetibile” e non “riproducibile”:

«Pensiamo agli uomini: se trattati con rispetto e cura, tendenzialmente, essi ricambiano con rispetto e cura, dato che le relazioni umane sono solitamente caratterizzate da reciprocità. Se le cose stanno così, rapportandosi agli altri enti con rispetto e cura sarà realizzato anche il nostro bene, poiché essi si rapporteranno a noi con rispetto e cura. La regola generale della reciprocità nelle relazioni etiche è ben esplicitata da quella che, verosimilmente, costituisce la regola etica più universale che sia mai stata formulata, ossia la cosiddetta “regola d’oro”, non a caso presente in molte civiltà antiche».[4]

Cos’è un mondo senza cura e senza dolcezza?
Lo viviamo ogni giorno: il quotidiano è nell’ottica dell’indifferenza. Ciascuno è solo un mezzo per l’altro. Tra l’essere umano e gli enti che normalmente si usano non vi è differenza, e ciò diviene abitudine alle cattive relazioni nelle quali ci si sente perennemente minacciati. La violenza non risparmia nessuno ed inquina, in primis, le parole: per trasmettere la violenza ad ogni elemento dinamico della vita. La normalità del male è codificato mediante le leggi del mercato che divengono leggi bronzee su cui curvare ogni atto e parola:

Definizione di dolcezza
La definizione di dolcezza consente di comprendere il presente mediante la sua assenza. Non si tratta solo di una fenomenologia della dolcezza, ma anche di ricostruire un quadro storico, in cui siamo implicati con le nostre personali responsabilità. La dolcezza definita mediante la medietà aristotelica non è mollezza, non è durezza, ma cura attiva dell’altro, consente un percorso di avvicinamento etico all’alterità nella consapevolezza che essa dev’essere declinata nel rispetto dei contesti e delle contingenze. La dolcezza non è antitetica alla razionalità, ma la presuppone, perché agire con dolcezza significa mediare la cura con le differenti situazioni, circostanze, personalità con cui si è in relazione. La dolcezza non è equivoca, né univoca, ma si declina in molti modi:

Dolcezza e gentilezza
La dolcezza non è gentilezza, perché quest’ultima non comporta la cura, ma si limita ad atti formali. La gentilezza può essere compatibile con il sistema capitalistico, poiché è forma che non esige cura e responsabilità verso l’altro, ma è solo una modalità d’approcciarsi gradevole che, in taluni casi, può essere strategia di mercato o un semplice surrogato di un vuoto emotivo ed esistenziale, pertanto può essere ingannevole, può indurre in un mondo di solitudine a false speranze. Solo se unita alla dolcezza ed alla cura la gentilezza è autentica:

Il male può assumere forme nell’aspetto esteriore gradevoli ma nella sostanza interiore ingannevoli. La gentilezza scissa dalla dolcezza in un sistema acquisitivo finalizzato al profitto è solo un mezzo, perché è il profitto che tutto guida, e pertanto la dolcezza è ripudiata e rimossa. Il sistema, nonostante le declamate affermazioni di facciata è intrinsecamente avverso alla cura comunitaria e pertanto censura la discussione sulle modalità relazionali che lo svelano nella sua essenza storica:

Gratuità e dolcezza
Senza gratuità e dolcezza non vi è comunità, ma solo una caotica giustapposizione di soggetti in lotta tra di loro. La lotta acquisitiva distrae ed allontana – pur senza neutralizzarla – dalla natura etica umana. L’effetto è la “cattiva vita” generalizzata, in cui la tonalità del grigio investe ogni componente della comunità conducendolo verso la depressione emotiva e razionale:



Senza dolcezza non vi è comunità, non vi è possibilità di ascoltare il proprio Daimon, il proprio io profondo nel quale l’universale si scopre nella sua particolarizzazione irripetibile. Luca Grecchi ci dona la possibilità di un riorientamento gestaltico con cui guardare ex novo il mondo nella sua verità. D’altra parte la filosofia è “meraviglia panica” che ci induce a vedere in profondità per capire, in modo da non restare anestetizzati dall’irrazionale con le sue violenze.

Salvatore Bravo

***

[1] Luca Grechi, Dolcezza, Mursia, Milano, 2021 pp. 27-28.
[2] Ibidem, pag. 80.
[3] Ibidem, pag. 33.
[4] Ibidem, pag. 36.
[5] Ibidem, pag. 39.
[6] Ibidem, pag. 46.
[7] Ibidem, pag. 70.
8] Ibidem, pag. 73.
[9] Ibidem, pp. 103-104.

Quarta di copertina

La dolcezza è una virtù fondamentale che rende migliori le relazioni umane, e mai come in questo periodo di grandi incertezze se ne sente il bisogno. Questo saggio di Luca Grecchi analizza dapprima, alla luce della filosofia greca classica, alcuni dei contenuti essenziali per la comprensione della dolcezza, come la verità, il bene, la virtù. In un secondo momento, descrive le principali strutture etiche affini alla dolcezza, ma che dalla stessa si differenziano, costituendone talvolta semplicemente delle componenti: la gentilezza, la tenerezza, l’umiltà, la misericordia, la gratuità, la forza, la semplicità e la finezza. Di queste qualità, che il nostro tempo spesso altera, la dolcezza costituisce il coronamento e la compiuta realizzazione.

Luca Grecchi (Codogno, 1972) insegna per le cattedre di Filosofia Morale e di Storia della Filosofia dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Fra i suoi libri più recenti, Leggere i Presocratici (2020) e tre volumi della collana «Questioni di filosofia antica» delle Edizioni Unicopli, ossia Natura, Uomo e Ricchezza (rispettivamente 2018, 2019 e 2021). Ha scritto inoltre Conoscenza della felicità (Petite Plaisance, 2005).

Pagine 170 – Euro 17,00


Indice

Introduzione di Silvia Vegetti Finzi

PRIMO CAPITOLO:
Per introdurre il discorso

La dolcezza come virtù

L’uomo: un ente da definire

Il bene: un concetto da definire

Il rispetto e la cura come relazioni costitutive del bene

Per una definizione della dolcezza

La dolcezza come giusta misura

La dolcezza come virtù filosofica

 

SECONDO CAPITOLO:
Cosa non è e cosa è la dolcezza

La dolcezza non è gentilezza

La dolcezza non è tenerezza

La dolcezza non è umiltà

La dolcezza non è misericordia

La dolcezza è (anche) gratuità

La dolcezza è (anche) forza

La dolcezza è (anche) semplicità

La dolcezza è (anche) finezza

Bibliografia


Luca Grecchi – i suoi libri

Luca Grecchi – Quando il più non è meglio. Pochi insegnamenti, ma buoni: avere chiari i fondamenti, ovvero quei contenuti culturali cardinali che faranno dei nostri giovani degli uomini, in grado di avere rispetto e cura di se stessi e del mondo.
Luca Grecchi – A cosa non servono le “riforme” di stampo renziano e qual è la vera riforma da realizzare
Luca Grecchi – Cosa direbbe oggi Aristotele a un elettore (deluso) del PD
Luca Grecchi – Platone e il piacere: la felicità nell’era del consumismo
Luca Grecchi – Un mondo migliore è possibile. Ma per immaginarlo ci vuole filosofia
Luca Grecchi – «L’umanesimo nella cultura medioevale» (IV-XIII secolo) e «L’umanesimo nella cultura rinascimentale» (XIV-XV secolo), Diogene Multimedia.
Luca Grecchi – Il mito del “fare esperienza”: sulla alternanza scuola-lavoro.
Luca Grecchi – In filosofia parlate o scrivete, purché tocchiate l’anima.
Luca Grecchi – L’assoluto di Platone? Sostituito dal mercato e dalle sue leggi.
Luca Grecchi – L’Italia che corre di Renzi, ed il «Motore immobile» di Aristotele
Luca Grecchi – La natura politica della filosofia, tra verità e felicità
Luca Grecchi – Socrate in Tv. Quando il “sapere di non sapere” diventa un alibi per il disimpegno
Luca Grecchi – Scienza, religione (e filosofia) alle scuole elementari.
Luca Grecchi – La virtù è nell’esempio, non nelle parole. Chi ha contenuti filosofici importanti da trasmettere, che potrebbero favorire la realizzazione di buoni progetti comunitari, li rende credibili solo vivendo coerentemente in modo conforme a quei contenuti: ogni scissione tra il “detto” e il “vissuto” pregiudica l’affidabilità della comunicazione e non contribuisce in nulla alla persuasione.
Luca Grecchi – Aristotele: la rivoluzione è nel progetto. La «critica» rinvia alla «decisione» di delineare un progetto di modo di produzione alternativo. Se non conosciamo il fine da raggiungere, dove tiriamo la freccia, ossia dove orientiamo le nostre energie, come organizziamo i nostri strumenti?
Luca Grecchi – Sulla progettualità
Luca Grecchi – Perché la progettualità?
 
Luca Grecchi – «Commenti» [Nel merito dei commenti di Giacomo Pezzano]
Luca Grecchi – Aristotele, la democrazia e la riforma costituzionale.
Luca Grecchi – Platone, la democrazia e la riforma costituzionale.
Luca Grecchi – La metafisica umanistica non vuole limitarsi a descrivere come le cose sono e nemmeno a valutare negativamente l’attuale stato di cose. Deve dire come un modo di produzione sociale ha da strutturarsi per essere conforme al fondamento onto-assiologico.
Luca Grecchi – Scuola “elementare”? Dalla filosofia antica ai giorni nostri
Luca Grecchi – La metafisica umanistica è soprattutto importante nella nostra epoca, la più antiumanistica e filo-crematistica che sia mai esistita.
Luca Grecchi – Logos, pathos, ethos. La “Retorica” di Aristotele e la retorica… di oggi. È credibile solo quel filosofo che si comporta, nella vita, in maniera conforme a quello che argomenta essere il giusto modo di vivere.
Luca Grecchi – Educazione classica: educazione conservatrice? Il fine della formazione classica è dare ai giovani la “forma” della compiuta umanità, ossia aiutarli a realizzare, a porre in atto, le proprie migliori potenzialità, la loro natura di uomini
Luca Grecchi – Mario Vegetti: un ricordo personale e filosofico
Luca Grecchi – «Natura». Ogni mancanza di conoscenza, di rispetto e di cura verso la natura si traduce in una mancanza di rispetto e di cura verso la vita tutta. L’attuale modo di produzione sociale, avente come fine unico il profitto, tratta ogni ente naturale – compreso l’uomo – come mezzo, e dunque in maniera innaturale.
Luca Grecchi – Scritti brevi su politica, scuola e società
Luca Grecchi – i suoi libri (2002-2019)
Luca Grecchi – L’UMANESIMO GRECO CLASSICO DI SPINOZA. Lo scopo della filosofia non è altro che la verità.
Luca Grecchi – «Uomo» – L’uomo è il solo ente immanente in grado di attribuire senso e valore alla realtà e di porsi in rapporto ad essa con rispetto e cura.
Luca Grecchi – Insegnare Aristotele nell’Università
Luca Grecchi – L’etica di Aristotele e l’etica di Democrito: un confronto
Maurizio Migliori, Luca Grecchi – Tra teoria e prassi. Riflessioni su una corsa ad ostacoli
Luca Grecchi – Multifocal approach. Una contestualizzazione storico-sociale. Occorre porsi con critica consapevolezza progettuale all’interno della totalità sociale.
Luca Grecchi – «Leggere i Presocratici». La cultura presocratica rappresenta tuttora una miniera in buona parte inesplorata.
Luca Grecchi – Questo volume cerca di colmare un vuoto, almeno nella letteratura specialistica in lingua italiana. Mancava infatti, ad oggi, un volume complessivo sul tema della ricchezza nella filosofia antica.
Luca Grecchi – La dolcezza rappresenta una disposizione del carattere volta a configurare in maniera eccellente la propria umanità, nei rapporti con gli altri uomini e con la natura, per favorire la realizzazione di una vita felice.
Luca Grecchi – Intervista sulla «Ricchezza».
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Armando Petrucci (1932-2018) – Le scritture ultime. Ideologia della morte e strategie dello scrivere nella tradizione occidentale. pratiche scrittorie e prodotti scritti adoperati dagli uomini per ricordare in modo pubblico i defunti.

Armando Petrucci 01


In questo libro non si vuole prendere in esame la sconfinata letteratura dedicata dalle diverse culture umane al tema della morte. Si vuole invece designare il complesso di pratiche scrittorie e di prodotti scritti adoperati dagli uomini per ricordare in modo pubblico i defunti. La ricostruzione di questo tipo di attività e dei suoi molteplici prodotti è sembrata particolarmente adatta per capire a quali fini e per quali categorie sociali queste pratiche sono state messe in atto, in quali modi esse si sono sviluppate, come si sono alternate nel tempo, chi hanno coinvolto e interessato, quale spazio hanno occupato e quale peso hanno avuto nelle culture scritte appartenenti alla tradizione occidentale.
È ben noto quanto, nella costituzione della cultura umana, abbiano avuto importanza, sin dai tempi pio remoti, i modi, gli strumenti, le cerimonie di quella che Jean-Paul Vernant ha felicemente definito la «politica della morte che ogni gruppo sociale per affermarsi coi suoi tratti specifici, per durare nel tempo nelle sue strutture e nei suoi orientamenti, deve instaurare e gestire con continuità secondo regole che gli sono proprie.

[…]

«I cedri verdeggianti sovra le sepolture, effigiati dalla spada in simulacri d’uomo, sorgono da lontano custodi della memoria d’egregi mortali; e a’ tronchi corrosi dalle stagioni sorrentrano ruvidi marmi, ove nel busto informe dell’eroe sono scolpite imitazioni di fiere e di piante, a ciascheduna delle quali e alle loro combinazioni sono consegnate piu serie d’idee che tramandano il nome di lui, le conquiste, le leggi date alla patria, il culto istituito agli iddii, gli avvenimenti, le epoche, le sentenze e l’apoteosi che l’associò al coro de’ beati: cosi prime are degl’immortali furono i sepolcri».

Sono parole di Ugo Foscolo, che in un discorso del 1809 (tre anni dopo la composizione de I Sepolcri) cos’ raffigurava retoricamente a sé e agli altri i modi e le forme delle più antiche sepolture. Oggi il quadro che possiamo farci delle prime fasi di questa attività tipicamente umana è più preciso e più articolato.
Oggi sappiamo che molte diecine di migliaia di anni fa, fra il 70.000 e il 35.000 a.C., l’uomo di Neanderthal, spinto da pulsioni di natura religiosa e da timori reverenziali, cominciò a seppellire alcuni almeno dei suoi morti in fosse contigue, a volte aggiungendovi offerte e doni; che più tardi, nel corso del paleolitico superiore (fra il 35.000 e l’8.500 a. C.) le consuetudini funerarie si fecero più frequenti e complesse e che a volte le sepolture vennero segnalate con pietra o ocra rossa, che servì anche a colorare alcuni cadaveri.
Che tutto ciò rappresentò un avanzamento enorme delle capacità di ragionamento e di astrazione dell’uomo, che evidentemente proprio allora cominciò a munirsi di strategie di controllo e di esorcizzazione del più terribile evento che lo colpiva direttamente nella struttura familiare cui apparteneva e che minacciava la sua stessa proiezione vitale. Che in questa lontanissima epoca furono poste le basi di pratiche funerarie che poi durarono anche nei pochi millenni della nostra sroria meglio conosciuta. Che le culture dei neanderthaliani e degli «homines sapientes’ sapientes» loro succeduti ‘si erano già posti i problemi fondamentali della inviolabilità, della durabilità e del ricordo dei depositi funerari e che avevano anche trovato ad essi alcune risposte, certamente inadeguate e fragili, ma entro certi limiti tutte funzionali e razionali. Soprattutto che essi erano riusciti ad organizzare un rapporto con la morte secondo il quale i defunti continuavano una qualche forma di vita in un mondo a sé, diverso da quello dei vivi; e che ad essi andava riservato un territorio delimitato, che permettesse loro di restare separati dal mondo dei viventi, senza intrusioni destabilizzanti; e che occorreva mantenerli nel loro mondo, sia provvedendo con offerte ai loro bisogni, sia impedendo loro di uscire dai luoghi riservati con recinzioni e coperture non soltanto simboliche.
Tutto ciò fini per comportare anche pratiche di segnalazione del luogo dei morti mediante cumuli di pietre, grosse pietre singole, recinzioni visibili e cosi via; mentre l’eventuale ricordo delle singole sepolture, cioè dei singoli defunti, restava probabilmente affidato alla memoria ed alla trasmissione orale delle relative informazioni all’interno di ciascuno dei gruppi interessati.
Quando, nel corso del neolitico, si passò da un sistema di fosse più o meno organizzato a veri e propri sistemi di tombe, allora il problema della segnalazione dei depositi funerari, in funzione sia della separazione dei morti dai vivi, che delle pratiche di offerte dei vivi ai morti, si pose in modi più concreti e complessi. In questo periodo, com’è noto, si passò a un sistema di produzione basato sull’agricoltura e sull’allevamento, si formarono i primi aggregati urbani, la società si articolò in classi e in categorie differenti per rango e funzioni. Ed è proprio allora, fra neolitico ed età del bronzo, che, in civiltà fra loro diverse e in diverse regioni d’Europa, d’Asia e d’Africa, si adottarono sistemi di segnalazione di alcune tombe (non di tutte) con alti tumuli di terra e pietre, si costruirono le tombe a dolmen per interi clan familiari e utili per più generazioni, si realizzarono infine a Micene le grandi tombe circolari a tholos per i re. In questi casi la volontà di segnalare il luogo dei morti si uni alla volontà di distinguere il luogo di alcuni morti da quello di altri; e dunque il messaggio contenuto nella segnalazione divenne più complesso e rivolto alla società nella sua interezza, non più soltanto ai pochi interessati diretti, appartenenti alla medesima famiglia, al medesimo nucleo e gestori del medesimo spazio funerario.

Armando Petrucci, Le scritture ultime. Ideologia della morte e strategie dello scrivere nella tradizione occidentale, Einaudi, Torino 1995, p. XIV e pp. 4-5.



Risvolto di copertina

Una storia che corre tra le testimonianze figurative dei morti in Occidente, attraverso 1’esame delle pratiche scrittorie e di quanto è stato prodotto per ricordare in modo pubblico i defunti, nelle civiltà mediterranee, in Europa, nell’ America settentrionale. Un racconto che segue un itinerario di millenni, a partire dagli inizi, dalla preistoria, e procede tra geografie e vicende svariatissime avendo come protagonisti epigrafi, sculture, monumenti, iscrizioni, graffiti, segnali ma anche quanto è stato messo in atto, via via, per riprendere e sottolineare nel tempo il bisogno di indicare e di testimoniare la presenza dei morti. Lo aveva anticipato Viollet-Le-Duc, sintetizzando al massimo: è possibile intendere la storia dell’umanità attraverso l’esame delle tombe. È questo il filo rosso del libro di Petrucci.

Storia non già «della morte» ma «dei morti », di uomini per i quali altri uomini hanno elaborato e scritto il ricordo. Di conseguenza, storia di ciò che è stata chiamata la« politica della morte», le figure e le regole con cui ogni gruppo sociale vuole sia riconosciuto e fatto valere nel tempo quanto gli appare caratterizzare meglio i propri tratti specifici, le strutture e gli orientamenti. Petrucci tesse il suo racconto, procedendo fra diseguaglianze e discontinuità, indagando su chi di questa strategia di identità è stato autore o protagonista, sul come le svariate «politiche» si sono alternate nel tempo, chi hanno coinvolto, quale spazio hanno occupato e quale peso hanno avuto entro le culture scritte della tradizione occidentale.

Accanto a questi aspetti, che possiamo definire di organizzazione collettiva, i personaggi, i protagonisti della nostra storia. Intanto chi progetta i modi dello scritto in memoria, ne fornisce i formulari e i modelli, guida le esecuzioni formali, fonda tradizioni formali e figurative sempre più vincolanti: – per il sacerdote, l’intellettuale, il politico, – una figura decisiva quanto dai tratti incerti. Quindi il pubblico, per il quale è innalzato il monumento o redatto lo scritto: è a lui che l’uno e l’altro vogliono sia noto un ricordo o un avvenimento. Infine il corpo stesso del defunto, lontano o vicino al luogo in cui ne compare la memoria, prossimo o rimosso dal territorio dei viventi.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Anna Beltrametti – Philosophical Fear and Tragic Fear: The Memory of Theatre in Plato’s Images and Aristotle’s Theory

Anna Beltrametti - Springer


L’indice del saggio

 

Introduction

The Fear of Tyrants and the Paradox of Tyrants

Fear, Speeches, and Theatre: Aristotelian Stimuli and Anaesthetics

Oresteia: Fear and Authority, Vengeance and Surveillance

The Sophoclean Diptych of Oedipus: Fear, Transgression, Guilt, and Innocence

From Theatre to Philosophy, and Back. Ancient and Modern Fears. Conclusions

References


The aim of the series Studies in the History of Philosophy of Mind is to foster historical research into the nature of thinking and the workings of the mind. The volumes address topics of intellectual history that would nowadays fall into different disciplines like philosophy of mind, philosophical psychology, artificial intelligence, cognitive science, etc. The monographs and collections of articles in the series are historically reliable as well as congenial to the contemporary reader. They provide original insights into central contemporary problems by looking at them in historical contexts, addressing issues like consciousness, representation and intentionality, mind and body, the self and the emotions. In this way, the books open up new perspectives for research on these topics.
This book series is indexed in SCOPUS.
For more information, please contact the publishing editor at christi.lue@33 springer.com

More information about this series at http://www.springer.com/series/6539



Sommario

Anna Beltrametti – C’è anche un pensiero delle donne? Le donne del teatro greco sono laboratori di utopia infiniti. Sono talmente forti in questa loro energia utopica di un mondo da rifondare, da rinnovare, di un mondo possibile, che è la filosofia stessa ad attingere al loro pensiero.
Anna Beltrametti – Il punto più alto che Platone tocca nelle riflessioni sulla paura è proprio il reciproco implicarsi di potere personale e paura. Paura che l’uomo di potere riesce ad incutere ai suoi governati, ma anche paura provata dall’uomo di potere nei confronti di chi è migliore di lui, come pure della paura che ha di tutta la schiera di manutengoli che, dopo averlo lusingato, vogliono essere lusingati e pretendono lusinghe.
Anna Beltrametti – Scritti per onorare la memoria di Diego Lanza e Mario Vegetti
Anna Beltrametti – Populismo: da oggi alla scena originaria, comica e nera di Aristofane. Per contendersi il favore del Popolo, trasformato da soggetto politico in oggetto (in merce), i contendenti si rivelano per quello che sono: strumenti, burattini di un’élite che li manovra e li usa senza apparire.
Anna Beltrametti – «La letteratura greca. Tempi e luoghi, occasioni e forme». L’intento è di contrastare periodizzazioni secche, di mostrare come le forme si modifichino o si conservino non solo nel tempo o in funzione delle occasioni a cui rispondono, ma anche in relazione ai luoghi segnati da cerimonie e rituali specifici, da consuetudini culturali precise.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Ignacio Marcio Cid – La psicoterapia filosófica de Epicuro

Ignacio MARCIO CID 01

Ignacio Marcio Cid

La psicoterapia filosófica de Epicuro

Peter Lang GmbH, Internationaler Verlag der Wissenschaften, Berlin 2000

 

Este libro versa sobre el sentido psicoterapéutico, de gran actualidad, que impregna todo el programa filosófico epicúreo. Estudia y recupera una función aplicada (curativa o sanadora) que ha sido omitida o sólo parcialmente abordada. Analiza, primeramente, los principios constitutivos y regulatorios que penetran la totalidad existente, la φύσις. Asumidos el antinihilismo axiomático, el pluralismo, el materialismo atómico, el movimiento y el clinamen como fundamento de libertad en un universo mecánico, presenta el proceso generativo de los compuestos, que atañen a toda entidad pluriatómica, se interesa por el ser humano, agregado singular, así como por el estatuto ontológico de su cuerpo psicofísico, carne y mente. La ψυχή recibe una atención especial por cuanto, primero, en ella se manifiesta la racionalidad humana y segundo posee formantes que la acomunan con las divinidades epicúreas. Estos dioses devienen objeto de estudio porque, insertos en la continuidad natural, ofrecen una regula uitae ejemplar para la felicidad plena, placentera y libre. Al propio tiempo permiten atisbar la curación o sanación que necesita el hombre. El estudio muestra, en efecto, que ésta no se halla en la eternización de un alma extracorpórea, sino en la supresión del dolor y del miedo. La ética, que aquí es considerada más bien práctica calmante, recibe una lectura eminentemente médica, para cuya recta comprensión se abordan, preliminarmente, los lazos históricos entre filosofía y medicina racional helena. Presentado el vínculo antedicho, el análisis pormenorizado del λόγος y sus derivados en Epicuro contribuye, como requisito, a evidenciar la importancia de la razón, que todo relaciona, la correlación y la analogía tanto en la naturaleza como en el ser humano; permite, además, calibrar la importancia de la palabra plena y significativa en la filosofía del Jardín. Por último, la psicoterapia ocupa el último tramo de la investigación: se expone el doloroso diagnóstico epicúreo pero también se aborda el despliegue medicinal que Epicuro y sus seguidores disponen felizmente. Entre las herramientas psicoterapéuticas, pueden mencionarse la integración racional y vital en la φύσις, la meditación, la confesión, el examen de conciencia, la detención de pensamientos obsesivos e invasivos, la risoterapia, la autogestión emocional de corte cognitivo, así como la socialización amorosa en forma de comunidad, compañía y amistad. Todas estas intervenciones persiguen, como objetivo nuclear, el restablecimiento de quienes sufren el carne o en la mente, doloridos y angustiados. Esa recuperación del bienestar pasa por la ἀναλγησία, que comprende una tanatología frente al malentendido humano de la finitud; incluye igualmente un arte del deseo natural y necesario, o sea, un manejo estratégico- instrumental y prudencial de las capacidades sensoperceptivas y reflexivas humanas, de forma que las aspiraciones no generen frustración o vanas esperanzas. El empeño estudioso finaliza con el estudio del último ingrediente de la terapia epicúrea: el amor al placer, la φιληδονία, acompañada de una discusión que procura esclarecer, contra los tópicos y las lecturas in malam partem, su enraizamiento en el todo natural, su fondo virtuoso, además de la importancia final de la activa paz de espíritu, el gozo catastemático.

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This book deals with the psychotherapeutic factor that permeates the whole Epicurean philosophical program. It is the aim of this study to research and to rehabilitate its healing function. Since the Garden’s philosophy is a very systematic one, the question about the natural reality, φύσις, had to be addressed firstly. Anti-nihilism, materialism, eternal atoms, infinite void, perpetual movement, clinamen and the plurality worlds are key notions of the axiomatic and scientific Epicurus’ physics. Once we had gained clarity about those core concepts, the central role of human beings in the system was to be discussed. As natural, yet exceptional, atomic compounds, men and women do have flesh and soul and are, therefore, completely mortal. Nevertheless, they possess numerous qualities, originating in their ψυχή, which render them unique : freedom, rationality and even a material community with the gods. According to Epicurus, there is a fourth element constituting the souls of both people and deities, so that a physical continuity and material formation are preserved through the entire nature. Gods are studied from a naturalistic physiologic perspective and at the very same time they act exemplary and, freed from any providential, governing tasks, they provide a regula uitae in order to achieve a pleasant, authentic happiness. In fact, this research tries to demonstrate that complete curation is not to be linked to an eternal extra-corporeal soul, but arises from the removal of pain and fear, aponia and ataraxia. These two are the paramount pleasures, far distant from a gross hedonism. Ethics are, then, presented as a soothing practice, having a nuclear medical purpose. Taking this into account, it was necessary to explore the historical connections between philosophy and rational Hellenic medicine before Epicurus. After that, multiple therapeutic forms conceived or applied by the Samian philosopher were analyzed. The λόγος proved to be the unifying element among them and involved not only human reason but also analogy. Epicurus’ diagnose is very sad: we are in pain. To reverse that, he presented exercises such as meditation, confession, self-examination, laugh therapy, emotional intelligence, intrusive thoughts control, companionship, solidarity and friendship. There are still two additional therapies completing the above mentioned: an Epicurean thanatology, because we miss the point when considering (im)mortality and forget about sensation as the ground of any life; and an ars desidrandi, because we should accept only natural and necessary desires, instead of chasing whimsy dreams with vain hopes. All this will help us regain our primal bodily and mental health and happiness, our essential, frugal and glad wellbeing. By means of prudence and reflection, governing our body and cultivating our mind we will liberate ourselves and taste a durable, profound, stable joy, comparable to that of the gods.




M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Ignacio Marcio Cid – Note e riflessioni sul libro di Enrico Berti, «Scritti su Heidegger»

Ignacio MARCIO CID - Enrico Berti

Scritti su Heidegger

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Ignacio Marcio Cid – La psicoterapia filosófica de Epicuro

Este Libro versa sobre el sentido psicoterapéutico, de gran actualidad, que impregna todo el programa filosófico epicúreo. Estudia y recupera una función aplicada (curativa o sanadora) que ha sido omitida o sólo parcialmente abordada. Analiza, primeramente, los principios constitutivos y regulatorios que penetran la totalidad existente, la φύσις. Asumidos el antinihilismo axiomático, el pluralismo, el materialismo atómico, el movimiento y el clinamen como fundamento de libertad en un universo mecánico, presenta el proceso generativo de los compuestos, que atañen a toda entidad pluriatómica, se interesa por el ser humano, agregado singular, así como por el estatuto ontológico de su cuerpo psicofísico, carne y mente. La ψυχή recibe una atención especial por cuanto, primero, en ella se manifiesta la racionalidad humana y segundo posee formantes que la acomunan con las divinidades epicúreas. Estos dioses devienen objeto de estudio porque, insertos en la continuidad natural, ofrecen una regula uitae ejemplar para la felicidad plena, placentera y libre. Al propio tiempo permiten atisbar la curación o sanación que necesita el hombre. El estudio muestra, en efecto, que ésta no se halla en la eternización de un alma extracorpórea, sino en la supresión del dolor y del miedo. La ética, que aquí es considerada más bien práctica calmante, recibe una lectura eminentemente médica, para cuya recta comprensión se abordan, preliminarmente, los lazos históricos entre filosofía y medicina racional helena. Presentado el vínculo antedicho, el análisis pormenorizado del λόγος y sus derivados en Epicuro contribuye, como requisito, a evidenciar la importancia de la razón, que todo relaciona, la correlación y la analogía tanto en la naturaleza como en el ser humano; permite, además, calibrar la importancia de la palabra plena y significativa en la filosofía del Jardín. Por último, la psicoterapia ocupa el último tramo de la investigación: se expone el doloroso diagnóstico epicúreo pero también se aborda el despliegue medicinal que Epicuro y sus seguidores disponen felizmente. Entre las herramientas psicoterapéuticas, pueden mencionarse la integración racional y vital en la φύσις, la meditación, la confesión, el examen de conciencia, la detención de pensamientos obsesivos e invasivos, la risoterapia, la autogestión emocional de corte cognitivo, así como la socialización amorosa en forma de comunidad, compañía y amistad. Todas estas intervenciones persiguen, como objetivo nuclear, el restablecimiento de quienes sufren el carne o en la mente, doloridos y angustiados. Esa recuperación del bienestar pasa por la ἀναλγησία, que comprende una tanatología frente al malentendido humano de la finitud; incluye igualmente un arte del deseo natural y necesario, o sea, un manejo estratégico- instrumental y prudencial de las capacidades sensoperceptivas y reflexivas humanas, de forma que las aspiraciones no generen frustración o vanas esperanzas. El empeño estudioso finaliza con el estudio del último ingrediente de la terapia epicúrea: el amor al placer, la φιληδονία, acompañada de una discusión que procura esclarecer, contra los tópicos y las lecturas in malam partem, su enraizamiento en el todo natural, su fondo virtuoso, además de la importancia final de la activa paz de espíritu, el gozo catastemático.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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