Sergej M. Ėjzenštejn (1898-1948) – Ho raccolto alcuni dei problemi cinematografici che si trovano «al di là delle stelle». Come frontespizio per questi materiali ho scelto l’immagine di Nicola Cusano che sporgendo la testa oltre i limiti della volta celeste, curioso si affaccia su altri mondi.

Sergei Michajlovic Eisenstein, Il metodo
Sergei Michajlovic Eisenstein, Il metodo, I, a cura di A. Cervini e M. Meringolo, Marsilio, 2020
Sergej Michajlovič Ėjzenštejn

Al di là delle stelle

Nella primavera del 1926 ero molto agitato. Lasciai Berlino prima che il Potëmkin uscisse sugli schermi in Germania, il primo tra i paesi esteri in cui sarebbe stato proiettato. Alla vigilia della mia partenza avevo avuto una discussione con gli inesperti distributori del film circa la tesi fondamentale della pubblicità che avrebbe accompagnato l’uscita del film. Avevo insistito perché comparisse ovunque la dicitura «Un film senza stelle». I distributori, però, temevano che essa avrebbe avuto un effetto disastroso sugli incassi. In un secondo momento, avrebbero addirittura indicato nei titoli la partecipazione di … attori dello MChAT di Mosca. Ebbi ragione io: il giorno successivo all’uscita sugli schermi, fiumi di recensioni positive scorrevano proprio nel segno di un «film senza stelle».
Ricordo ora questo episodio perché l’assenza di stelle fu uno dei motivi per cui in questo film l’attenzione si rivolse naturalmente agli innumerevoli problemi cinematografici che di solito, nelle altre produzioni, rimanevano inevitabilmente in ombra, offuscati dal fulgore stellare dei protagonisti. Il film gettò uno sguardo «al di là delle stelle», oltre i confini della volta celeste del cinema dentro cui ruotavano, in sostanza, tutti i problemi dell’estetica cinematografica.
Mi sentivo un monaco, un seguace di Nicola Cusano così come è raffigurato in un’incisione del XVI secolo: sporgendo la testa curiosa oltre i limiti della volta celeste, egli si affaccia su altri mondi. Negli articoli che seguono ho raccolto alcuni dei problemi cinematografici che si trovano «al di là delle stelle». E come frontespizio per questi materiali ho scelto l’immagine del monaco curioso: ci sta troppo bene!

Sergej M. Ėjzenštejn, Il metodo, I, a cura di A. Cervini e M. Meringolo, Marsilio, Venezia 2020, pp. 3-4.


Alessia Cervini
Con gli occhi di Ėjzenštejn

[…] la ricerca vygotskijana sul discorso interiore  […] sembra indicare a Ėjzenštejn la chiave attraverso cui tentare almeno di dare una risposta ai problemi fondamentali dell’arte e del suo funzionamento. A differenza di «altri ambiti ad essa vicini, simili, analoghi e somiglianti, nei quali pure si verificano fenomeni propri delle forme primordiali del pensiero», infatti, «la dialettica dell’opera d’arte si fonda su una curiosissima “bi-unità”. L’efficacia dell’opera d’arte si costruisce sul fatto che in essa avviene contemporaneamente un duplice processo: un’impetuosa ascensione progressiva verso i gradini più alti delle idee e della coscienza, e contemporaneamente la penetrazione, attraverso la struttura della forma, negli strati del pensiero sensibile più profondo». Solo tramite la straordinaria tensione fra queste due tendenze opposte si può dunque ottenere l’unità della forma e del contenuto che ogni vera opera d’arte deve realizzare.

[…] Naturalmente, però, Ėjzenštejn comprende benissimo il carattere problematico delle sue posizioni e forse per questo riconosce in una certa dedinazione leniniana della dialettica, intesa come «studio dell’unità degli opposti», il presupposto teorico a fondamento del «metodo» che intende costruire. Ma è soprattutto grazie al richiamo insistito a Engels, e in particolare alla sua Dialettica della natura, che il metodo di cui stiamo parlando diviene lo strumento per scrivere, a partire dalla comprensione del funzionamento della singola opera d’arte, non solo una più generale storia delle arti, ma anche una storia naturale delle forme viventi. Si tratta infatti dell’opera in cui Engels mette alla prova la possibilità di considerare la dialettica come la struttura che informa materialisticamente non solo l’andamento della storia e dell ‘economia, ma anche quello della natura. Per Ėjzenštejn, essa diviene il punto di partenza per la costruzione di una vera e propria Weltanschauung, di cui Il metodo porta senz’altro la traccia più significativa.

[…] Il metodo (dialettico) è dunque il titanico sforzo teorico a cui Ėjzenštejn affida il progetto di ricomposizione di ciascuna delle polarità con cui gli capita di scontrarsi, nel corso di una riflessione che accompagna costantemente la pratica artistica, da quella teatrale a quella cinematografica […]. Il metodo regala al suo lettore il ritratto prezioso di un mondo: quello personale, artistico e teorico di Ėjzenštejn (ripercorso, scandagliato, ossessivamente messo in discussione); e insieme quello di un’intera epoca, passata, eppure sorprendente mente vicina. Con gli occhi di Ėjzenštejn leggiamo il presente e non smettiamo di stupirci del fatto che, sebbene qualcosa sia scomparso, qualcos’altro pervicacemente resista […].

Alessia Cervini, Con gli occhi di Ėjzenštejn, in: Sergej M. Ėjzenštejn, Il metodo, I, a cura di A. Cervini e M. Meringolo, Marsilio, Venezia 2020, pp. IX-XXX.


Risvolto di copertina
Il metodo è l’ultima opera teorica di Sergej M. Ejzenštejn, lasciata incompiuta alla sua morte (1948). In queste pagine il regista riattraversa molti dei temi della sua riflessione, allo scopo di sciogliere i nodi teorici di una ricerca che accompagna costantemente la pratica artistica, da quella teatrale a quella cinematografica, senza dimenticare il disegno. Il risultato è un lavoro concepito per chiarire in via definitiva «il problema fondamentale» dell’arte: quello che, nella fattispecie, contiene il segreto del suo funzionamento o, per essere più precisi, della sua «efficacia». La messa a punto di un vero e proprio «metodo» consente a Ejzenštejn di svelare i meccanismi che regolano la vita di un’opera d’arte, dal momento in cui viene ideata fino a quello in cui entra in relazione con il suo spettatore. La tesi che si delinea è tanto chiara, quanto radicale: la forma di pensiero attivata dall’arte e dai suoi prodotti corrisponde, per struttura e funzionamento, a quella del pensiero primitivo. Il «metodo» di cui stiamo parlando diviene così uno strumento prezioso per scrivere, a partire dalla comprensione di una singola opera, non solo una più generale storia delle arti, ma anche una storia naturale delle forme viventi.


Sergej Michajlovič Ėjzenštejn (1998-1948) – Ieri ho pensato molto a «Il Capitale». Alla sua struttura, che nascerà dal metodo del linguaggio cinematografico, all’immagine …
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Lucia Palpacelli – ZENONE E PLATONE: DUE DIALETTICHE A CONFRONTO. Da una realtà aporetica a una realtà unimolteplice

Lucia Palpacelli 01
Humanitas
Humanitas
Lucia Palpacelli

ZENONE E PLATONE: DUE DIALETTICHE A CONFRONTO
Da una realtà aporetica a una realtà unimolteplice

«L’uno è molti e infiniti e i molti sono uno».
Filebo 15E3-4

In questo contributo si intende delineare un quadro comparativo della dialettica così come intesa da Zenone di Elea e poi inverata e, allo stesso tempo, superata da Platone. A questo fine ci muoveremo su tre fronti:

  1. la delineazione dei tratti essenziali della dialettica di Zenone;
  2. il giudizio platonico sulla dialettica di Zenone, ricavabile dall’incipit del Parmenide;
  3. la presentazione della dialettica di Platone come superamento e inveramento di quella zenoniana.
  1. Una premessa terminogica

Prima di entrare nel vivo del confronto tra Zenone e Platone è necessaria però una breve premessa, perché il termine dialettica ha assunto, nel corso della storia della filosofia, una pluralità di sensi e di accezioni che è bene distinguere. Essenzialmente incontriamo tre figure di dialettica:

  1. intesa come filosofia, cioè come uno strumento che svela la natura di una realtà che è essa stessa dialettica, nella quale positivo e negativo convivono;
  2. come dialogica, cioè come tecnica della discussione;
  3. come tecnica di confutazione.

[…]

La concezione zenoniana della dialettica risulta conservata e innovata dalla dialettica platonica: risulta conservato infatti il processo di innalzamento, per cui dalla contraddizione delle conseguenze si traggono risultati che concernono le premesse (nel caso del paradosso della freccia abbiamo visto come la conclusione contraddittoria permette di invalidare la premessa), ma in un senso nuovo. L’analisi dialettica, svelando la complessità dei nessi che costituiscono il reale, ci costringe a cercare la chiave per capire la non contraddittorietà della struttura apparentemente aporetica e ci indica il cammino per superare la contraddizione tramite un trascendimento ontologico. Il fatto di risalire a una dimensione filosoficamente più alta, però, non dissolve l’aporia ma, lasciandola essere tale al suo livello, consente di inquadrarla in una visione coerente e vera del reale: un qualsiasi essere umano, in sé considerato, è realmente e irriducibilmente uno e molti.

Questo richiede una visione estremamente articolata del reale, una visione multifocale, e un metodo che sia, per sua natura, adeguato alla comprensione di una realtà uni-molteplice, ma implica anche la consapevolezza che è impossibile trovarsi di fronte a un modello unico di descrizione del reale: infatti nella dialettica platonica c’è la movenza dell’unificazione, della risalita ai principi (quindi della sintesi), ma c’è anche il senso dell’irriducibilità del reale: l’infinito è irriducibile e resta in perenne conflitto con il limite, come ci ricorda il Filebo:

«SOCRATE: Dunque, poiché le cose sono così ordinate, bisogna che cerchiamo di porre in ciascuna situazione sempre un ‘unica Idea per ogni cosa: infatti, noi ve la troveremo insita; se dunque l’abbiamo individuata, dobbiamo esaminare se dopo una ve ne siano due, se no tre o qualche altro numero, e, di nuovo, allo stesso modo per ciascuna di quelle, fino a che non si vede dell’uno posto all’inizio non solo che è uno, molti e infiniti, ma anche quanti è; l’Idea dell’ illimitato non bisogna attribuirla alla molteplicità, prima di averne individuato il numero totale, mediano tra l’infinito e l’uno, e solo allora lasciare che ciascuna unità di tutte le cose vada nell’illimitato» (16C7-E2).

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Sommario

Una premessa terminologica
La dialettica din Zenone
I molti simili e dissimili e il paradosso della freccia
Il confronto tra Zenone e Platone: il Parmenide
La dialettica platonica come superamento e invermento di quella di Zenone
Il nesso tutto-parte
I nessi tra le Idee: il Sofista
Considerazioni conclusive


 


Un tuffo …

… tra alcuni dei  libri di Lucia Palpacelli…


L’Eutidemo di Platone. Una commedia straordinariamente seria, Vita e Pensiero, 2009

L’analisi di Lucia Palpacelli affronta in modo nuovo il testo, rifiutando la tradizionale lettura ‘panironica’, che consente di aggirare le tante ‘stranezze’ del dialogo interpretandole come giochi ironici, in ultima istanza poco comprensibili. Al contrario, l’autrice mostra come il dialogo rifletta il pensiero platonico e si riveli un’opera molto significativa all’interno del corpus. L’Eutidemo diventa così un prototipo della ‘scrittura filosofica’ di Platone, che lancia una continua sfida al lettore, chiamato a intendere i problemi proposti e a sviluppare autonomamente le linee di soluzione offerte in forma allusiva.


Aristotele interprete di Platone. Anima e cosmo, Morcelliana, 2013

Il volume mette a confronto analiticamente le opere fisiche di Aristotele con i dialoghi platonici sulle stesse tematiche (in particolare con il Timeo), per ricostruire la complessa articolazione del concetto di physis, dal cosmo alla considerazione degli esseri viventi. La via critica seguita, e indicata dai testi stessi, permette di ricostruire un percorso che si configura sempre come bifronte: le innegabili e, in alcuni casi, fondamentali divergenze tra Aristotele e Platone si innestano su comuni tematiche e domande, per cui, lì dove si segna una distanza, si deve anche riconoscere un punto di accordo. Il rapporto tra Aristotele e Platone va delineandosi in queste pagine nella cifra distintiva di un movimento di vicinanza/lontananza, che rende possibile cogliere il senso e l’effettivo valore della critica aristotelica.


Aristotele, La generazione e la corruzione
Testo greco a fronte, a cura di M. Migliori e L. Palpacelli, Bompiani, 2013

Il “De generatione et corruptione”, opera poco conosciuta e sottovalutata, svolge un ruolo importante nelle riflessioni fisiche di Aristotele. Lo Stagirita affronta e risolve le questioni concernenti i quattro tipi di mutamento, distinti secondo la categoria di riferimento: la generazione e corruzione secondo la sostanza, l’aumento-diminuzione secondo la quantità, l’alterazione secondo la qualità, la traslazione secondo il luogo. L’articolazione di tali temi si sviluppa in un ricco confronto con i filosofi del tempo, con la ripresa della centrale tematica delle cause fisiche e con espliciti riferimenti al Motore immobile trattato nella Metafisica. L’ampia introduzione di Maurizio Migliori, che affronta le questioni di fondo proposte in questo testo, è completata da un saggio bibliografico di Lucia Palpacelli che espone criticamente tutti gli studi apparsi nell’ultimo trentennio. La traduzione e il commentario di Migliori sono stati rivisti e arricchiti sulla base di un analogo aggiornamento bibliografico. Il lettore ha così a disposizione un testo completo, presentato in un’ottica unitaria e sorretto da una lettura critica aggiornata.


La natura intermedia di Eros. Pausania e Aristofane a confronto con Socrate,
in: «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», 3 – 2016, Vita e Pensiero, 2016

In this paper, speeches of Socrates, Pausanias and Aristophanes are analysed combining them together. This analysis is performed starting from the concept of intermediate (metaxuv) which allows us to construe Pausians’ speech as preparatory with respect to Socrates’ speech, and Aristophanes’ speech as its denial. Indeed, the concept of intermediate is applied to Eros 1) in embryo in Pausianas’ speech (which finally distinguishes two kinds of Eros) and 2) openly in Socrates’ speech. In this regard, the two speeches are connected and they show a progression 1) from a strictly practical and ethical-behavioural level (Pausanias’ speech) 2) to a theorical-metaphysical level based on Eros’ nature (Socrates’ speech). Aristophanes, on the other hand, defines Eros as a desire of total fusion, his view is corrected and downscaled by Socrates enforcing the concept of intermediate.


Claudia Baracchi, Enrico Berti, Arianna Fermani, Silvia Gastaldi, Luca Grecchi, Silvia Gullino, Alberto Jori,
Giulio A. Lucchetta, Lucia Palpacelli, Luigi Ruggiu, Mario Vegetti, Carmelo Vigna, Marcello Zanatta

Teoria e prassi in Aristotele

indicepresentazioneautoresintesi

 

Il presente volume è il terzo di una serie di collettanei aristotelici, cominciata nel 2016 con Sistema e sistematicità in Aristotele, e proseguita nel 2017 con Immanenza e trascendenza in Aristotele, tutti editi a mia cura presso questa casa editrice. A questi volumi hanno partecipato alcuni fra i maggiori studiosi italiani dello Stagirita, che desidero nuovamente ringraziare per la loro disponibilità e gentilezza, ma soprattutto per l’ennesimo dono che hanno voluto fare agli studi aristotelici.
Il volume di quest’anno, Teoria e prassi in Aristotele, nasce con l’intento di esaminare alcune distanze, spesso rilevate dagli studiosi, fra la teoria e la prassi nel pensiero aristotelico. Il tema è stato analizzato, come di consueto, secondo una pluralità di punti di vista ed approcci.
L’apertura del volume, come da tradizione, è stata anche stavolta un dialogo generale tra lo scrivente e Carmelo Vigna. A questo dialogo, sempre come da tradizione, ha fatto seguito un commento di Enrico Berti, caratterizzato da notazioni profonde ed essenziali. Di seguito, vi sono stati interventi assai puntuali inerenti soprattutto il piano etico (Marcello Zanatta), politico (Arianna Fermani, Silvia Gastaldi, Alberto Jori), teoretico (Claudia Baracchi, Mario Vegetti), economico (Silvia Gullino, Luigi Ruggiu), sociale (Giulio Lucchetta) e scientifico (Lucia Palpacelli).
Il volume è già sufficientemente ampio, per cui mi posso limitare, in questa occasione, ad un ricordo speciale, quello dell’amico Mario Vegetti, che ci teneva molto ad essere presente con un saggio. Rammento con affetto la sua ironia sui «dialogoni metafisici» fra me e Vigna che aprono questi volumi.
Per il 2019, l’intenzione è di iniziare una trilogia sul pensiero platonico, cominciando con un collettaneo sulle Leggi, un dialogo relativamente poco indagato, rispetto almeno alla Repubblica. Tutto questo, come sempre, si potrà attuare – oltre che mediante la collaborazione di ottimi studiosi, negli anni divenuti amici – grazie alla passione culturale di Carmine Fiorillo, fondatore e “reggitore” di Petite Plaisance, al quale anche stavolta esprimo la mia vicinanza e gratitudine.

Luca Grecchi

 

 

 

Lucia Palpacelli
La pluralità metodologica nel pensiero aristotelico: tra teoria e prassi

Le diverse prospettive possibili per conoscere la realtà
Ogni scienza considera lo stesso oggetto da punti di vista diversi
Ogni scienza ha i suoi principi
La relazione tra il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto: in sé e per noi
La coscienza del limite umano nella conoscenza
Il rapporto tra lo statuto ontologico dell’oggetto e il livello epistemologico
L’estrema varietà della prassi metodologica
L’approccio dialettico
Un problema terminologico
Alcuni esempi della movenza dialettica
La diversa articolazione della movenza “dal generale al particolare”
Da ciò che è più chiaro per noi a ciò che è più chiaro per natura
Il valore dell’esperienza e dei fatti
L’acqua più fredda che umida: la necessità teorica vince sul dato empirico
La scienza non sbaglia, ma lo scienziato sì
Considerazioni conclusive

 

 


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – La moltiplicazione dei bisogni indotti comporta l’inibizione dell’autentico desiderio che così diviene immediatezza, sensazione da soddisfare in tempi brevi, alienazione da se stessi e dalla comunità, luogo dove si incontrano la libertà e la solidarietà.

G.W.F. Hegel - C. Preve
Salvatore Bravo
La moltiplicazione dei bisogni indotti comporta l’inibizione dell’autentico desiderio
che così diviene immediatezza, sensazione da soddisfare in tempi brevi,
alienazione da se stessi e dalla comunità,
luogo dove si incontrano la libertà e la solidarietà.

L’animalizzazione dell’essere umano
Il Regno animale dello spirito si manifesta nella moltiplicazione dei bisogni. L’animale non umano nella sua fissità naturale sviluppa bisogni che gli consentono di sopravvivere in un determinato ambiente (Umwelt), ne diviene parte integrante ed indistinguibile. In assenza di intelletto l’animale non ha i mezzi per creare nuovi bisogni, ma deve inevitabilmente rispondere con i suoi istinti all’ambiente a cui è adattato. La natura umana, invece, è dotata di intelletto e dunque moltiplica i suoi bisogni per soddisfare aspirazioni materiali. La moltiplicazione dei bisogni in modo illimitato finisce per disorientare ed annichilire l’essere umano. Essi hanno l’effetto di animalizzarlo in modo particolare: la vita finalizzata all’utile ed ai bisogni senza limiti nega la natura dell’essere umano, la quale si realizza nella storia mediante la relazione comunitaria. L’essere umano, come definito da Marx, è ente generico (Gattungswesen), si definisce nella storia, le sue potenzialità prendono forma nel tempo storico creando mondi (Welt), poiché la temporalità progettante permette di trascendere lo stretto orizzonte dell’ambiente. Il mondo è il luogo degli esseri umani, nel quale operano mediante il lavoro ed i concetti e significano i loro gesti per trascendere la contingenza.

Il bene, ovvero l’universale concreto, procede mediante la conoscenza di sé e del mondo storico: non vi può essere universale concreto che nella feconda tensione tra particolare ed universale. Nella storia l’essere umano mette in atto le sue potenzialità, si conosce e si definisce. Se ciò non avvenisse non vi sarebbe che violenza, poiché l’universale senza particolare è solo annichilimento del concreto. L’universale d’altronde necessità di un lungo processo educativo; perché si giunga ad esso necessita della conoscenza di sé mediante il riconoscimento dell’altro e l’autoriconoscimento. Sono momenti sincretici senza i quali l’essere umano resta in bilico tra l’essere ed il nulla. Lo stare in bilico tra condizioni non definite consente al potere il dominio.

 

Bisogni inautentici e potere
Nella produzione dei bisogni non vi è solo la necessità imperiale del mercato-plusvalore, ma in essi è iscritta la violenza e la razionalità del potere. La moltiplicazione infinita dei bisogni, particolarizza, individualizza nelle intenzioni del mercato che in tal modo si autorappresenta e si legittima nella funzione di soddisfare i bisogni individuali. Già in tale scopo vi è la negazione dell’universale, il soggetto deve atomizzarsi, deve separarsi dal concreto legame con la comunità, per viversi nella sovranità individuale. Hegel evidenzia che in tale individualizzazione dei bisogni, nell’io ipertrofico, in realtà, il soggetto si perde nella moltiplicazione dei bisogni indotti e nell’agire secondo il solo utile personale. In tale attività l’essere umano disperso tra desideri inautentici è solo un vuoto vaso in cui il caos regna. Si è così preda del mondo, cadono le difese del pensiero per essere parte del sistema che si trasforma in ambiente-mercato senza mondo. Si è gettati in un ambiente che chiede l’adattamento senza concetto ed immaginazione. La memoria, non più coniugata con la razionalità, perde la sua funzione di ricordare per concettualizzare ed orientare: essa si riduce al calcolo mediato, a semplice operatività applicativa di schemi predeterminati. Hegel rileva che il soggetto, ormai oggetto dell’economicismo nella corsa alla soddisfazione degli stimoli, non sente fortemente più nulla, diviene un essere anonimo disperso in desideri immediati. Il desiderio, sostituito dalle vogliuzze una per il giorno e una per la notte, come dirà Nietzsche, perde la capacità di favorire la conoscenza di sé, le proprie passioni, per regredire in dipendenza compulsiva. Il soggetto umano, mentre insegue l’iperstimolazione, diviene oggetto del sistema, che lo astrae dalla vita. Hegel constata e profetizza “l’ultimo uomo”, il quale non è un’improvvisa apparizione della storia, ma è l’effetto della “bestia del mercato”:

 

 

«L’animale è un che di particolare, ha il suo istinto e i limitati, non oltrepassabili mezzi dell’appagamento. Ci sono insetti che sono legati ad una pianta determinata, altri animali, che hanno una cerchia più ampia, possono vivere in differenti climi; ma interviene sempre un che di limitato di fronte alla cerchia che è per l’uomo. Il bisogno dell’abitazione ed abbigliamento, la necessità di non lasciar più il cibo crudo, ma di renderlo adeguato a sé e di distruggerne l’immediatezza naturale, fa sì che l’uomo non abbia la vita comoda come l’animale e che, inteso come spirito, neanche possa averla. L’intelletto, che concepisce le distinzioni, porta moltiplicazione in questi bisogni e, dal momento che gusto e utilità divengono criteri della valutazione, anche i bisogni stessi ne sono affetti. È da ultimo non più il bisogno, bensì l’opinione che deve venir appagata, e appartiene appunto alla cultura di scomporre il concreto nei suoi elementi particolari. Nella moltiplicazione dei bisogni risiede per l’appunto una inibizione del desiderio, poiché, quando gli uomini abbisognano di molte cose, la spinta verso una, di cui avrebbero bisogno, non è così forte, e ciò è un segno che la necessità in genere non è così potente».[1]

 

L’inibizione del desiderio diviene alienazione da se stessi e dalla comunità; al suo posto non resta che un mediocre succedaneo: il desiderio diviene immediatezza, sensazione da soddisfare e godere in tempi brevi. Di sensazione in sensazione si realizza la dispersione di sé, l’esistenza è così curvata “dalle passioni tristi” che rafforzano il potere, poiché il soggetto divenuto mezzo del sistema capitale non resiste allo svuotamento dell’io, il quale paradossalmente, diviene un io pieno ed ingombro di stimolazioni ingovernabili.

 

Dialettica e comunità
Al nichilismo individualistico e predatorio Hegel contrappone l’economia fondata sui bisogni della persona e della comunità. Tale fondazione necessita della dialettica, quale modalità per trascendere la minaccia del nichilismo. Il soggetto che si radica nella famiglia e nello stato fonda la sua vita sull’etica, ovvero nel riconoscimento della presenza dell’altro, ciò comporta l’autolimitazione dei bisogni inautentici, e dunque la libertà. Quest’ultima è possibile solo se il soggetto si sottrae all’iperstimolazione perpetua: la libertà è sospensione delle sollecitazione per pensarle e razionalizzarle astraendone la verità storica. Il soggetto impara ad ascoltare se stesso, mentre razionalizza il mondo. Tali disposizioni e desideri autentici si materializzano nella comunità, la quale dà forma storica e vita all’individualità. Lo stato, in tale contesto, è il luogo in cui il soggetto si radica nella storia patria per aprirsi al mondo, per disporsi al riconoscimento ed all’ascolto dell’alterità nella quale ritrova se stesso:

 

 

«Con ciò, che l’uomo debba esser qualcosa, intendiamo che egli appartenga ad uno ‘stato’ determinato; poiché questo qualcosa vuol dire che allora egli è qualcosa di sostanziale. Un uomo senza ‘stato’ è una mera persona privata e non sta in una reale universalità. Dall’altro lato, il singolo può ritener sé nella sua particolarità per l’universale, e presumere che si abbandonerebbe ad un che di inferiore, se entrasse in uno ‘stato’. È questa la falsa rappresentazione per cui, se qualcosa guadagna un esserci che gli è necessario, con ciò si limiti e rinunci a sé».[2]

 

Utilitarismo e vita astratta
L’atomizzazione, la privatizzazione dei desideri rendono il soggetto astratto. L’utilitarismo è una forma di vita astratta, in quanto il soggetto è avulso dal contesto, e si autopercepisce come creatore di se stesso, niente lo precede, per cui il mondo è a sua disposizione, sempre pronto all’uso. Il cosmopolitismo attuale è di ordine nichilistico ed utilitarista, poiché il soggetto senza legame patrio, linguistico e culturale non ha responsabilità alcuna verso qualsiasi comunità: è solo un atomo consumante che divora il mondo.
L’atomizzazione non è un destino, l’essere umano è molto più di ciò che il sistema capitale rappresenta. Il pensiero crea concetti, porge ascolto al disagio, cerca parole per capire. La speranza non è solo potenzialità astratta, ma è racchiusa in ogni vita, in quanto il pensiero creante può essere condizionato, ma mai determinato. La sfida è fendere la caverna capitale con i suoi miti per ritrovarsi comunità. Razionalità e socialità non sono scindibili, la natura umana esige la socialità e l’umanità, senza le quali non resta che il cosmopolitismo nichilistico attuale, il quale è il regno della violenza dell’astratto contrapposto all’internazionalismo, il quale è invece, l’incontro delle patrie, il riconoscersi nella differenza. L’esodo dall’utilitarismo e dal cosmopolitismo nichilistico non può che avvenire mediante il radicamento comunitario, il quale non tribalizza, ma permette alle differenze di ritrovarsi per conoscere e conoscersi in processi storici inesauribili:

 

 

«La comunità è allora il luogo dove si incontrano la libertà e la solidarietà. Una libertà senza solidarietà è una illusione narcisistica destinata a sparire quando l’umana fragilità materiale costringe anche l’individuo più riluttante a relazionarsi con i suoi simili. Una solidarietà senza libertà è una coazione umanitaria estrinseca e di fatto ricade nella precedentemente ricordata tipologia dell’organizzazione politica dell’atomismo. Solidarietà e libertà sono entrambe necessarie. Questa è la logica conclusione di ogni elogio al comunitarismo».[3]

 

L’animalizzazione dell’essere umano si configura mediante la dispersione utilitaristica che aliena dalla profondità del logos calcolante e senziente a cui si unisce la sottrazione della memoria. Senza storia, senza riflessione sulla storia individuale e collettiva il soggetto è disintegrato in attimi senza futuro e senza passato. La resistenza civile e politica non può che fondarsi sul riappropriarsi del tempo predato dall’utile e dal consumo immediato acefalo.

 

Salvatore Bravo

***

[1] G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari 1999, p. 344.

[2] Ibidem, p. 346.

[3] C. Preve, Elogio del comunitarismo, Controcorrente, Napoli 2006, pp. 253-254.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Albert Einstein (1879-1955) – La cosa importante è di non smettere mai di interrogarsi. Cercare ogni giorno di capire un po’ il mistero. Non perdere mai una sacra curiosità.

Albert Einstein 006

«La cosa importante è di non smettere mai di interrogarsi. La curiosità esiste per ragioni proprie. Non si può fare a meno di provare riverenza quando si osservano i misteri dell’eternità, della vita, la meravigliosa struttura della realtà. Basta cercare ogni giorno di capire un po’ il mistero. Non perdere mai una sacra curiosità».

Albert Einstein, Pensieri di un uomo curioso, a cura di A. Calaprice, Mondadori, Milano 1999.


Albert Einstein – Perché il socialismo? Why Socialism?
Albert Einstein (1879-1955) – Al primo posto lo sviluppo dell’attitudine generale a pensare e a giudicare indipendentemente.
Albert Einstein (1879-1955) – La libertà dello spirito consiste nell’indipendenza del pensiero dalle limitazioni dei pregiudizi autoritari e sociali come dagli automatismi acritici e dagli abiti acquisiti.
Albert Einstein (1879-1955) – Il mondo si è lentamente abituato a questi sintomi di decadenza morale. Non dobbiamo sfuggire alla lotta, quando essa è inevitabile, per conservare il diritto e la dignità dell’uomo! Non dobbiamo semplicemente sopportare le differenze fra gli individui e i gruppi, ma anzi accoglierle come le benvenute, considerandole un arricchimento della nostra esistenza.
Albert Einstein (1879-1955) – Senza la convinzione che con le nostre costruzioni teoriche è possibile raggiungere la realtà, senza convinzione nell’intima armonia del nostro mondo, non potrebbe esserci scienza.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Friedrich Hölderlin (1770-1843) – Il nobile porta i segni del destino sotto cui è sorto. Il bello assume di necessità una certa forma. Nessun uomo nella sua vita esteriore può essere ogni cosa nello stesso tempo. Per avere un’esistenza e una coscienza nel mondo è necessario determinarsi per qualche cosa.

Friedrich Hölderlin 06
Coraggio! È degna dei dolori, questa vita.

Friedrich Hölderlin, A Neuffer, marzo 1794, in Id., Tutte le liriche,  (trad. di Luigi Reitani), Mondadori, Milano 2001.

Se cerchi di rendere ciò che è nobile senza l’ordinario,
esso se ne starà come il più innaturale di tutti, come il più insulso.
Il nobile, nella misura in cui giunge a espressione, porta i segni del destino sotto cui è sorto.
Il bello, per come si espone nella realtà effettiva,
assume di necessità una certa forma in base alle circostanze entro cui sorge.
***
Riflettere sulla cultura e sull’impulso formativo, sul suo fondamento
mi ha suggerito il progetto di un giornale umanistico,
che approfondisca storicamente e filosoficamente il punto di vista dell’umanità
***
L’errore degli uomini è che il loro impulso formativo si perda, che prenda una direzione indegna.
***
Nessun uomo nella sua vita esteriore
può essere ogni cosa nello stesso tempo.
Per avere un’esistenza e una coscienza nel mondo è necessario determinarsi per qualche cosa
 
 
«Il vivente nella poesia è adesso ciò che occupa maggiormente i miei pensieri e i miei sensi. Avverto con così tanta profondità quanto io sia ancora lontano dal coglierlo e tuttavia la mia anima intera vi si sforza affannosamente, e io ne sono spesso così commosso da dover piangere come un bambino quando sento come alle mie rappresentazioni, in questo e in quel punto, manchi il vivente. Ma non riesco a tirarmi fuori dagli errori poetici tra i quali vago […]. Mi manca meno la forza della leggerezza, meno le idee delle sfumature, meno un tono principale di una molteplicità ordinata di toni, meno la luce dell’ombra, e tutto ciò dipende da una sola ragione. Io rifuggo troppo dall’ordinario e dal comune della vita reale […].
Temo di raffreddare la calda vita che è in me al cospetto della storia gelata del giorno e questa paura deriva dal fatto che tutte le vicende distruttive in cui mi sono imbattuto sin da ragazzo, io le ho accolte in maniera più sensibile di altri, e tale sensibilità mi sembra che abbia in ciò il suo fondamento: che io, in rapporto alle esperienze che ho dovuto fare, non ero organizzato in maniera abbastanza solida e salda. Ora me ne rendo conto. […] Poiché sono più vulnerabile di altri, devo tanto più cercare di ricavare vantaggio dalle cose che agiscono in modo distruttivo su di me, non devo prenderle per come sono in se stesse, ma solo in quanto sono utili alla mia vita più autentica. Là dove le trovo, io devo già in anticipo assumerle come materia indispensabile, senza cui la parte più intima di me non potrà rappresentarsi mai completamente. Devo accoglierle in me stesso per disporle all’occasione (come artista se un giorno vorrò e dovrò essere artista) come ombre alla mia luce, per restituirle in quanto toni subordinati da cui emerge tanto più vivo il tono della mia anima. Il puro può rappresentarsi solo nell’impuro e se cerchi di rendere ciò che è nobile senza l’ordinario, esso se ne starà come il più innaturale di tutti, come il più insulso, e questo appunto perché il nobile, nella misura in cui giunge a espressione, porta i segni del destino sotto cui è sorto; perché il bello, per come si espone nella realtà effettiva, assume di necessità una certa forma in base alle circostanze entro cui sorge, e questa forma non gli è naturale: diventa naturale solo per il fatto di considerare, accanto al bello, appunto anche quelle circostanze che gli diedero necessariamente una tale forma. […] Dunque senza l’ordinario non si può rappresentare alcun nobile: e io voglio ripetermelo sempre, quando mi imbatto nell’ordinario nel mondo: ti è tanto necessario quanto ai vasai la colla, perciò accettalo sempre, non allontanarlo da te, non averne paura».
 
F. Hölderlin a Neuffer, 12 novembre 1798, in Friedrich Hölderlin, Sämtliche Werke und Briefe [Tutte le opere e le lettere], a cura di M. Knaupp, vol. II, München-Wien 1992-1993, pp. 710-712;  Friedrich Hölderlin, Tutte le opere. Prose, teatro e lettere. Tutte le liriche, a cura di L. Reitani, 2 voll., LXVII-3887 pp., Mondadori, Milano 2020.
 
***

Riflettere sulla cultura e sull’impulso formativo, sul suo fondamento
mi ha suggerito il progetto di un giornale umanistico,
che approfondisca storicamente e filosoficamente il punto di vista dell’umanità
 
«La mia riflessione e i miei studi si sono quasi esclusivamente limitati a ciò che anzitutto mi premeva, la poesia, in quanto essa è arte vivente e scaturisce a un tempo da genio, esperienza e riflessione ed è ideale, sistematica e individuale. Ciò mi ha condotto a riflettere sulla cultura e sull’impulso formativo, sul suo fondamento e la sua Bestimmung, nella misura in cui esso è ideale e attivamente formante. Ancora: [ho riflettuto] su come l’impulso formativo, consapevole del suo fondamento e della sua propria essenza a partire dall’ideale, ma istintivamente secondo la sua materia, agisce come arte e come impulso alla formazione ecc. Ho creduto, alla fine delle mie ricerche, di essere riuscito a porre in maniera più vasta e comprensiva di quanto non mi fosse noto precedentemente il punto di vista della cosiddetta umanità (almeno nella misura in cui si intende con esso l’elemento unificante e comune nella natura umana e nelle sue direzioni, piuttosto che l’elemento differenziante, di cui comunque è necessario che si tenga conto). Aver raccolto questi materiali mi ha suggerito il progetto di un giornale umanistico, che sia poetico anzitutto perché vi si pratica la poesia, ma che anche istruisca sulla poesia, sia dal punto di vista storico che da quello filosofico, e, in generale, approfondisca storicamente e filosoficamente il punto di vista dell’umanità».
 
F. Hölderlin, Lettera a Schelling, scritta tra l’1 e il 6 luglio 1798, in Friedrich Hölderlin, Sämtliche Werke und Briefe [Tutte le opere e le lettere], op. cit., II, pp. 792-794.
 
***
 
L’errore degli uomini è che il loro impulso formativo si perda, che prenda una direzione indegna
 
«L’errore degli uomini è che il loro impulso formativo si perda, che prenda una direzione indegna, generalmente falsa, oppure non trovi la sua dimensione specifica o, se pure l’ha trovata, si fermi a metà strada, ai mezzi che dovrebbero condurlo al suo scopo […]. E la ragione generale del tramonto di tutti i popoli è sempre stata, infatti, che la loro originalità, la loro propria natura vivente (ihre eigene lebendige Natur) ha soggiaciuto alle forme positive e al lusso che i loro padri avevano prodotto».
 
Friedrich Hölderlin, Sämtliche Werke und Briefe [Tutte le opere e le lettere], op. cit., II,, pp. 62-63.
 
***
 
Nessun uomo nella sua vita esteriore
può essere ogni cosa nello stesso tempo.
Per avere un’esistenza e una coscienza nel mondo è necessario determinarsi per qualche cosa
 
«Nessun uomo nella sua vita esteriore può essere ogni cosa nello stesso tempo, […] per avere un’esistenza e una coscienza nel mondo è necessario determinarsi per qualche cosa, e […] sono poi la singolarità e le circostanze ciò che in definitiva determinano l’uno verso una certa singolarità e l’altro verso un’altra. Questa singolarità, a dire il vero, è quella che più appare evidente, ma non è detto per questo che altri pregi, di cui avvertiamo la mancanza, manchino del
tutto in un carattere tipico, piuttosto rimangono in ombra».
 

Friedrich Hölderlin, Sämtliche Werke und Briefe [Tutte le opere e le lettere], op. cit., II, p. 67


Friedrich Hölderlin (1770-1843) – L’uomo che pensa deve agire, deve dispiegarsi. Egli può molto, stupenda è la sua parola che strasforma il mondo. Un potente anelito, con radici profonde, lo spinge verso l’alto.
Friedrich Hölderlin (1770-1843)– Dall’intelletto soltanto non può scaturire la filosofia, perché la filosofia è più della conoscenza limitata di ciò che esiste. Dalla ragione soltanto non può scaturire la filosofia, perché la filosofia è più della cieca pretesa di un progresso senza fine. Senza la bellezza dello spirito e del cuore, la ragione è soltanto come un supervisore.
Friedrich Hölderlin (1770-1843) – Quando un popolo ama il bello l’egoismo si scioglie. Se così non è, sempre più aridi e più desolati divengono gli uomini, cresce la sottomissione e con essa l’arroganza, l’opulenza cresce insieme alla fame e all’ansia per il cibo. Così il mondo intorno a noi diviene un deserto e il passato si sfigura in un cattivo auspicio per un futuro senza speranza.
Friedrich Hölderlin (1770-1843) – Dobbiamo uscire dalla pigra rassegnazione, dove non si vuole nulla, non ci sicura di nulla. L’originalità è intensità, profondità del cuore e dello spirito.
Friedrich Hölderlin (1770-1843) – Che cosa sono i secoli di fronte all’istante in cui due esseri si presagiscono e si accostano? Ancor prima che uno sapesse dell’altra, noi ci appartenevamo
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Eugène Minkowski (1885-1972) – L’attesa ingloba tutto l’essere vivente, sospende la sua attività e lo immobilizza. È una sospensione di quell’attività che è la vita stessa.

Eugène Minkowsk 06

«L’attesa ingloba tutto l’essere vivente, sospende la sua attività e lo immobilizza, angosciato nell’attesa. L’attesa contiene in sé un fattore di arresto brutale che toglie il respiro. Si direbbe che tutto il divenire, concentrato fuori dell’individuo, si avventi su di lui come una massa possente e ostile cercando di annientarlo, come un iceberg che si erge bruscamente davanti alla prua di una nave e contro il quale essa andrà facilmente a schiantarsi subito dopo. […]  L’attesa penetra così l’individuo fino alle viscere, lo riempie di terrore di fronte alla massa sconosciuta e inattesa – stavo quasi per dire – che tra un attimo lo inghiottirà. L’attesa primitiva è dunque sempre legata a un’intensa angoscia, è sempre un’attesa ansiosa. Ciò peraltro non può sorprendere poiché essa è una sospensione di quell’attività che è la vita stessa. Talvolta, apparentemente senza ragione, sorge in noi l’immagine della morte, della morte sospesa, in tutta la sua potenza distruttiva, sopra di noi, che si avvicina a grandi passi, 1’angoscia, il terrore ci stringono; impotenti, attendiamo il fatale e prossimo annientamento al quale siamo votati senza scampo. Di fronte a un pericolo imminente, noi l’attendiamo, inchiodati sul posto, paralizzati dal terrore».

Eugène Minkowski, Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia, Einaudi, 2004.

Eugène Minkowski – Il tempo vissuto – L’azione etica apre l’avvenire davanti a noi perché resiste al divenire: è la realizzazione di quanto vi è di più elevato in noi
Eugène Minkowski (1885-1972)  – La morte, mettendo fine alla vita, la inquadra interamente, in tutto il suo percorso. È la morte che trasforma il succedersi o la trama degli avvenimenti della vita in “una” vita. Non è nel nascere ma è col morire che si diventa un’unità, “un uomo”.
Eugène Minkowski (1885-1972) – La ricchezza dell’avvenire che libera dalla morsa dell’attesa
Eugène Minkowski (1885-1972) – È lo slancio vitale che dà un senso alla vita e costituisce quanto vi è in essa di più essenziale. Questo slancio sempre vivo crea l’avvenire e non può essere racchiuso in una sezione trasversale della coscienza, e si tende, come un arco, oltre tutte le sezioni di questo genere.
Eugène Minkowski (1885-1972) – La vita consiste in una ricreazione continua di una prospettiva di vita, tracciandola e costruendola con le nostre mani.
Eugène Minkowski (1885-1972) – Vivo, nella speranza, un avvenire piu lontano, piu ampio, pieno di promesse. E la ricchezza dell’avvenire si apre adesso dinanzi a me. Nella speranza intuisco tutto quanto può esserci al mondo al di là del contatto immediato stabilito dall’attesa tra il divenire e l’io.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Ernst Bloch (1885–1977) – La speranza non è rinunciataria. È superiore all’aver paura, non è né passiva come questo sentimento né, anzi meno che mai, bloccata nel nulla. Si espande, allarga gli uomini invece di restringerli.

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«Chi siamo? Da dove veniamo? Che cosa ci aspettiamo? E che cosa ci aspetta? Molti si sentono soltanto confusi. Il terreno vacilla, e non sanno perché e per che cosa. Una condizione d’angoscia, la loro, che diviene paura se assume più precisi contorni. […] L’importante è imparare a sperare. Il lavoro della speranza non è rinunciatario, perché di per sé desidera aver successo invece che fallire. Lo sperare, superiore all’aver paura, non è né passivo come questo sentimento né, anzi meno che mai, bloccato nel nulla. […] L’affetto dello sperare si espande, allarga gli uomini invece di restringerli. Non si sazia mai di sapere che cosa internamente li fa tendere a uno scopo e che cosa all’esterno può essere loro alleato. Il lavoro di quest’affetto vuole uomini che si gettino attivamente nel nuovo che si va formando a cui essi stessi appartengono».

Ernst Bloch, Il principio speranza. Immagini di un mondo migliore, 3 vol., Garzanti, 1994, vol. I.



Ernst Bloch (1885 – 1977) – Chi è scialbo si colora come se ardesse. La via esteriore è la più facile. Apparire più che essere: questo il suo motto.
Ernst Bloch (1885-1977) – Tutto ciò che vive ha un orizzonte. Dove l’orizzonte prospettico è tralasciato, la realtà si manifesta soltanto come divenuta, come realtà morta, e sono i morti, cioè i naturalisti e gli empiristi, che qui seppelliscono i loro morti.
Ernst Bloch (1885-1977) – È la filosofia la scienza in cui è viva, ha da esser viva, la consapevolezza del tutto. La filosofia ha a cuore soprattutto l’unità del sapere. La filosofia sta sul fronte.
Ernst Bloch (1885-1977) – L’utopia concreta sta all’orizzonte di ogni realtà. L’utopia non è fuga nell’irreale, è scavo per la messa in luce delle possibilità oggettive insite nel reale e lotta per la loro realizzazione.
Ernst Bloch (1885 – 1977) – «Vita brevis, ars longa», i regni passano, un buon verso resta eterno; in queste convinzioni legate all’arte ha posto solo l’opera plasmata. Nasce un’«ars longa», adornata dal nome della loro «vita brevis».
Ernst Bloch (1885-1977) – L’utopia è una forza di anticipazione, l’elemento più dinamico e attivo della coscienza anticipante, che costituisce l’anima profonda della speranza per creare spazio alla vita ed essenzializzarsi.
Ernst Bloch (1885-1977) – I filosofi dei nostri giorni hanno familiarizzato con il nihil. L’immagine di desiderio del nulla l’ha formulata Heidegger. il nulla di Jaspers e di Heidegger è tinto e ornato di penne di pavone, proprio in prospettiva del suo incanto di morte.

Arianna Fermani, speranza

Arianna Fermani
«Senza la speranza è impossibile trovare l’insperato»

La speranza “antica”, tra páthos e areté

ISBN 978-88-7588-258-7, 2020

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M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Le metamorfosi dell’ «Apprendista stregone». Dall’antica letteratura egizia a Luciano di Samostata, da J.W. Goethe a K. Marx e G. Anders, da P. Dukas a G. Faletti e A. Branduardi, da Topolino a N. Cage.

Le metamorfosi dell'apprendista stregone
Ascolta la musica
Paul Dukas, L’apprendista stregone, direttore  Arturo Toscanini e la NBC Symphony orchestra

Eucrate, l’apprendista stregone è un personaggio dei racconti della letteratura antica egizia.
Si tratta di una delle più antiche versioni della storia nota presso tante civiltà, dell’apprendista che riesce ad impossessarsi di un rito magico che però non è in grado di controllare.

Cfr. Favole e racconti dell’Egitto faraonico, a cura di Aldo Troisi, ed. Fabbri Editori, Milano, 2001 pa. 35-38.


L’«apprendista stregone» di Luciano di Samostata (120 -192)

Φιλοψευδής (Philopseudḗs , ovvero “l’amante del falso”) di Luciano di Samosata
Luciano di Samostata

“Ἐπειδὴ δὲ ἔλθοιμεν εἴς τι καταγώγιον, λαβὼν ἂν ὁ ἀνὴρ ἢ τὸν μοχλὸν τῆς θύρας ἢ τὸ κόρηθρον ἢ καὶ τὸ ὕπερον περιβαλὼν ἱματίοις ἐπειπών τινα ἐπῳδὴν ἐποίει βαδίζειν, τοῖς ἄλλοις ἅπασιν ἄνθρωπον εἶναι δοκοῦντα. Τὸ δὲ ἀπιὸν ὕδωρ τε ἐμπίπλη καὶ ὠψώνει καὶ ἐσκεύαζεν καὶ πάντα δεξιῶς ὑπηρέτει καὶ διηκονεῖτο ἡμῖν· εἶτα ἐπειδὴ ἅλις ἔχοι τῆς διακονίας, αὖθις κόρηθρον τὸ κόρηθρον ἢ ὕπερον τὸ ὕπερον ἄλλην ἐπῳδὴν ἐπειπὼν ἐποίει ἄν. Τοῦτο ἐγὼ πάνυ ἐσπουδακὼς οὐκ εἶχον ὅπως ἐκμάθοιμι παρ’ αὐτοῦ· ἐβάσκαινε γάρ, καίτοι πρὸς τὰ ἄλλα προχειρότατος ὤν. Μιᾷ δέ ποτε ἡμέρᾳ λαθὼν ἐπήκουσα τῆς ἐπῳδῆς, ἦν δὲ τρισύλλαβος σχεδόν, ἐν σκοτεινῷ ὑποστάς. Καὶ ὁ μὲν ᾤχετο εἰς τὴν ἀγορὰν ἐντειλάμενος τῷ ὑπέρῳ ἃ ἔδει ποιεῖν. Ἐγὼ δὲ εἰς τὴν ὑστεραίαν ἐκείνου τι κατὰ τὴν ἀγορὰν πραγματευομένου λαβὼν τὸ ὕπερον σχηματίσας ὁμοίως, ἐπειπὼν τὰς συλλαβάς, ἐκέλευσα ὑδροφορεῖν. Ἐπεὶ δὲ ἐμπλησάμενον τὸν ἀμφορέα ἐκόμισε, ‘Πέπαυσο,’ ἔφην, ‘καὶ μηκέτι ὑδροφόρει, ἀλλ’ ἴσθι αὖθις ὕπερον·’ Τὸ δὲ οὐκέτι μοι πείθεσθαι ἤθελεν, ἀλλ’ ὑδροφόρει ἀεί, ἄχρι δὴ ἐνέπλησεν ἡμῖν ὕδατος τὴν οἰκίαν ἐπαντλοῦν. Ἐγὼ δὲ ἀμηχανῶν τῷ πράγματι – ἐδεδίειν γὰρ μὴ ὁ Παγκράτης ἐπανελθὼν ἀγανακτήσῃ, ὅπερ καὶ ἐγένετο – ἀξίνην λαβὼν διακόπτω τὸ ὕπερον εἰς δύο μέρη· τὰ δέ, ἑκάτερον τὸ μέρος, ἀμφορέας λαβόντα ὑδροφόρει καὶ ἀνθ’ ἑνὸς δύο μοι ἐγεγένηντο οἱ διάκονοι. Ἐν τούτῳ καὶ ὁ Παγκράτης ἐφίσταται καὶ συνεὶς τὸ γενόμενον ἐκεῖνα μὲν αὖθις ἐποίησε ξύλα, ὥσπερ ἦν πρὸ τῆς ἐπῳδῆς, αὐτὸς δὲ ἀπολιπών με λαθὼν οὐκ οἶδ’ ὅποι ἀφανὴς ᾤχετο ἀπιών.”

Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini, Firenze, Felice Le Monnier, vol. 3, pagg. 74-75.

«Quando giungevamo in un albergo ei prendeva la sbarra della porta, o una granata, o un pestello, lo ravvolgeva in un mantello, vi diceva certe parole, e lo faceva camminare sì che a tutti pareva un uomo: e quello andava ad attingere l’acqua, ci preparava il cotto, ci rassettava le masserizie, ci faceva tutti i fatti di casa, come un ottimo servitore. Quando non c’era più bisogno di servigi, tosto egli con altre parole tornava granata la granata, e pestello il pestello. Io avevo una grande curiosità, e non sapeva come fare per imparar questo segreto, il solo che egli mi celasse, essendo facilissimo in tutt’altro. Un dì appiattatomi in un luogo scuro, udii l’incantesimo che era una parola di tre sillabe. Egli commesse al pestello ciò che si doveva fare, e uscì in piazza. Il dimani mentre egli per sue faccende stava fuori, io prendo il pestello, lo rivesto, gli dico le tre sillabe, e gli comando di portare acqua. Poiché ne portò e ne riempì le anfore: ‘Basta, dissi, non portarne più, e torna subito pestello’. Ma niente, non mi voleva più ubbidire, e portava acqua, e ne versava, e allagava la casa. Io non sapendo che farmi e temendo che se tornasse Pancrate non si sdegnerebbe meco per questo fatto, prendo un’accetta, e spacco il pestello in due pezzi: ma ciascun pezzo prende un’anfora e porta acqua: onde invece d’uno diventarono due servitori. In questa giunge Pancrate, che capita la faccenda, li tornò legni, come erano prima dell’incantesimo: e poi senza ch’io me ne avvedessi di botto mi piantò».

Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini, Felice Le Monnier, vol. 3, Firenze 1861, pp. 74-75.


Ed ecco il commento (tratto da Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini, Volume Primo, Firenze, 1861, Introduzione):

«Il titolo del Filopseude è la prima piacevolezza di questo dialogo piacevolissimo, nel quale Luciano deride coloro che facendo professione di sapienti, non erano vaghi della sapienza, ma della bugia, non filosofi, ma filopseudi; e andavano perduti dietro la medicina empirica, gl’incantesimi, la ciarlataneria, ed ogni specie di superstizioni religiose.
Essendo venuta meno quella forza d’intelletto che cercò la verità nel mondo della ragione e vi fece sì grandi conquiste, si cercava la verità nel mondo della natura e nel mondo dell’immaginazione. Onde questo dialogo, quantunque sia una satira dei filosofi del tempo, pure tratta di argomento religioso, e per dire più corretto, della superstizione religiosa. La quale non è dipinta in persone del volgo, ma in uomini di una certa intelligenza e conoscenza, cosicchè più spiccato è il contrasto che produce il ridicolo.Ecco adunque in casa di un filosofo, uomo assai riputato e dabbene, che giace in letto ammalato, una conversazione di filosofi di varie sètte, i quali ragionano di malattie risanate con rimedi strani e ridicoli, con parole ed incantesimi. In mezzo a questo mazzo di sapienti capita un uomo di buon senso che ride di tali sciocchezze, e quelli, come suole questa gente, dicono che egli non crede negli Dei. Or uno, or un altro raccontano di maghi ed incantatori che camminavano per l’aria e sull’acqua e sul fuoco, e risuscitavano morti, e facevano uscir dell’inferno le ombre, e scendere la luna dal cielo, e liberavano indemoniati: poi della virtù d’un anello; e dei prodigi che fa una statua che ogni notte scende del piedistallo, e va per la casa, e risana ogni specie di malattie.
Non sono impostori che vogliono ingannare, ma uomini ignoranti e fanatici, che credono pienamente alle loro fantasie, ed affermano di aver veduto con gli occhi loro quei prodigi che narrano, e che sono stati veduti da altri che essi allegano a testimoni. Specialmente il filosofo padron di casa racconta come in una selva ei vide la terribile figura di Ecate, e chiama in testimone un servo; e narra innanzi a due figliuoli giovanetti, come la madre loro e sua moglie già morta gli apparve una volta, e gli ragionò. Il medico presente a questo racconto dice, che anch’egli ha una statuetta d’Ippocrate, che la notte gli va camminando per la casa; e che egli conosce un uomo il quale morì e dopo venti giorni resuscitò. Il più leggiadro di questi racconti è quello dell’Egiziano, che sapeva fare d’un palo o d’un pestello un servitore che andava in piazza, spendeva, portava acqua, faceva il cotto, e tutte le faccende di casa: favola che il Goethe in una delle sue poesie ha saputo anche più illeggiadrire, e mettervi dentro un sentimento più vero.
Insomma costoro che insegnavano sapienza ai giovani, ed erano fiori di senno e di dottrina, raccontano le più matte fole di fantasmi, di anime, di miracoli, con la maggior fede e serietà. Quell’uomo di senno che sta ad ascoltare, li rimbecca e li punge con frizzi e motti; ma infine non potendo più, e parendogli scortesia contraddire più oltre, e motteggiare, vassene, lasciandoli liberamente scialare delle loro corbellerie. Il dialogo è fatto con arte assai fina; i racconti sono schietti ed efficaci per modo che ti pare di essere in mezzo a quei vecchi, e udirli parlare, e vedere le cose che raccontano. Quanto è vero il guizzare del giovanetto, quando il padre, parlando della mamma già morta, gli mette una mano su la spalla! Io crederei quasi che Luciano fosse stato presente a simili discorsi in casa di qualcuno: tanto al naturale ei ritrae le persone ed i discorsi, e con quella sobrietà e snellezza che è tutta greca, e tutta sua.

L’«apprendista stregone» di Johann Wolfgang von Goethe (1749 -1832)

ispirato a

Φιλοψευδής (Philopseudḗs , ovvero “l’amante del falso”) di Luciano di Samosata

Illustrazione di Ferdinand Barth dall’edizione di Der Zauberlehrling di Goethe del 1882 [Prima ed. originale del 1797]
J.W. Goethe, L’apprendista stregone, Donzelli, 2017

J. W. Goethe, Tutte le poesie, vol. I, tomo I, Mondadori, 1989

J. W. Goethe, L’Apprendista stregone: in J. W. Goethe, Tutte le poesie, vol. I, tomo I, Mondadori, 1989, pp. 273-279.

L’Apprendista stregone [prima esecuzione: 1897],
nel poema sinfonico di
Paul Dukas (1865-1935)

Ispirato dall’aopera letteraria di J.W. Goethe, esattamente un secolo dopo la pubblicazione della ballata goethiana.


Ascolta la musica
Paul Dukas, L’apprendista stregone, direttore  Arturo Toscanini e la NBC Symphony orchestra.
Paul Dukas, L’apprendista stregone, direttore  Arturo Toscanini e la NBC Symphony orchestra.
L’apprendista stregone, episodio del film Fantasia (1940)
con protagonista Topolino,
è a sua volta ispirato alla ballata di Goethe con l’accompagnamento della musica di Dukas.
Giorgio Faletti (1950-2014).
L’apprendista stregone è anche una canzone scritta da Giorgio Faletti

e interpretata da Angelo Branduardi nell’album Camminando camminando

.Angelo Branduardi.
Ascolta la musica
Giorgio Faletti, L’apprendista stregone, canta Angelo Branduardi.
Il film fantastico L’Apprendista Stregone,
di Jon Turteltaub del 2010 (con Nicolas Cage),
riprende vagamente l’episodio di Fantasia.
György Ligeti, Der Zauberlehrling,
titolo del decimo Étude pour Piano -secondo libro 1988-94),
dedicato a Pierre-Laurent Aimard.
Ascolta la musica
György Ligeti, Der Zauberlehrling, L’apprendista stregone,
Ching-Yun Hu plays Ligeti Etude No. 10
Aldo Carotenuto (1933-2005).
Lettera Aperta a un Apprendista Stregone (Bompiani, Milano 1998)
è un libro scritto nel 1998 da Aldo Carotenuto.

«La moderna società borghese, che ha evocato come per incanto così colossali mezzi di produzione e di scambio, rassomiglia allo stregone che si trovi impotente a dominare le potenze sotterranee che lui stesso abbia evocate».

K. Marx – F. Engels, Manifesto del partito comunista.

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Günther Anders (1902-1992)
G. Anders, La metamorfosi dell’Apprendista stregone [testo del 1966 ],
in Id., L’uomo è antiquato. La terza rivoluzione industriale,
Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 369-382.

Si possono leggere e stampare le pagine del testo cliccando qui sotto:

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Vasilij V. Kandinskij (1866 -1944) – L’arte che è solo figlia del suo tempo non ha avvenire, non diventerà mai madre del futuro, è un’arte sterile. La vita spirituale è movimento della conoscenza e senza il pane metaforico l’arte non ha più anima. In queste epoche cieche gli uomini danno importanza solo al successo esteriore, si preoccupano unicamente dei beni materiali.

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«Si è detto che l’arte è figlia del suo tempo. Un’arte simile può solo riprodurre ciò che è già nettamente nell’aria. L’arte che non ha avvenire, che è solo figlia del suo tempo ma non diventerà mai madre del futuro, è un’arte sterile. Ha vita breve e muore moralmente nell’attimo in cui cambia l’atmosfera che l’ha prodotta.
Anche l’altra arte, suscettibile di nuovi sviluppi, è radicata nella propria epoca, ma non si limita ad esserne un’eco e un riflesso; possiede invece una stimolante forza profetica , capace di esercitare un’influenza ampia e profonda.
La vita spirituale, di cui l’arte è una componente fondamentale, è un movimento ascendente e progressivo, tanto complesso quanto chiaro e preciso. È il movimento della conoscenza. Può assumere varie forme, ma conserva sempre lo stesso significato interiore, lo stesso fine. […] Allora però arriva un uomo, che ci assomiglia, ma ha in sé una misteriosa forza “visionaria”. Egli vede e fa vedere» (pp. 20-21).

«I periodi in cui […]  manca il pane metaforico, sono periodi di decadenza spirituale. Le anime continuano a cadere dalle sezioni superiori a quelle inferiori […]. In queste epoche silenziose e cieche gli uomini danno importanza solo al successo esteriore, si preoccupano unicamente dei beni materiali, e salutano come una grande impresa il progresso tecnico, che giova e può giovare solo al corpo. Le energie spirituali vengono sottovalutate, se non ignorate. I pochi che hanno ideali e senso critico sono scherniti o considerati anormali. Le rare anime che non sanno restare avvolte nel sonno e sentono un oscuro desiderio di spiritualità, di conoscenza e di progresso, infondono una nota di tristezza e di rimpianto nel grossolano coro materiale. La notte diventa sempre più fitta. Il grigiore si addensa intorno a queste anime tormentate e sfibrate dai dubbi e dalle paure, che spesso preferiscono un salto improvviso e violento nel buio piuttosto che una lenta oscurità.
L’arte, che in tempi come quelli ha vita misera, serve solo a scopi materiali. E poiché non conosce materia delicata cerca un contenuto nella materia dura. Deve sempre riprodurre gli stessi oggetti. Il “che cosa” viene eo ipso meno; rimane solo il problema di “come” l’oggetto materiale debba essere riprodotto dall’artista. Questo problema diventa un dogma. L’arte non ha più anima.
Su questa via del “come”, l’arte procede. Si specializza e diventa comprensibile solo agli artisti, che cominciano a lamentarsi dell’indifferenza del pubblico. Poiché in tempi simili l’artista medio non ha bisogno di dire molto e gli basta un minimo di “diversità” per farsi notare e osannare da certi gruppetti di mecenati e conoscitori (il che può comportare grandi vantaggi materiali), una gran massa di persone superficialmente dotate si butta sull’arte, che sembra cosi facile. In ogni “entro artistico” vivono migliaia e migliaia di artisti, la maggior parte dei quali cerca solo una maniera nuova, e crea milioni di opere d’arte col cuore freddo e l’anima addormentata.
La “concorrenza” cresce. La caccia spietata al successo rende la ricerca sempre più superficiale. I piccoli gruppi, che casualmente si sono sottratti a questo caos di artisti e di immagini si trincerano nelle posizioni conquistate. Il pubblico, che è rimasto arretrato, guarda senza capire, non ha interesse per un’arte simile e le volta tranquillamente le spalle» (pp. 24-25).

«In generale il colore è un mezzo per influenzare direttamente l’anima. li colore è il tasto. L’occhio è il martelletto. L’anima è un pianoforte con molte corde. L’artista è la mano che, toccando questo o quel tasto, fa vibrare l’anima. È chiaro che l’armonia dei colori è fondata solo su un principio: l’efficace contatto con l’anima. Questo fondamento si può definire principio della necessità interiore» p. 46).

Vasilij Vasil’evič Kandinskij, La vita spirituale nell’arte, a cura di E. Pontiggia, SE, Milano 1989.


Vasilij Vasil’evič Kandinskij (1866 -1944) – Si può osservare la strada stando dietro il vetro della finestra. Oppure si apre la porta: si esce dall’isolamento; ci si immerge in questa entità, vi si diventa attivi e si partecipa a questo pulsare della vita con tutti i propri sensi.
Vasilij Vasil’evič Kandinskij (1866 -1944) – Migliaia e migliaia di artisti creano oggi milioni di “opere d’arte” col cuore freddo e l’anima addormentata.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Rainer Maria Rilke (1875-1926) – Le mani di Rodin hanno vissuto come cento, una vita in cui tutto è vivo e presente nello stesso istante e nulla è perduto. Cercava la grazia delle grandi cose e una pacatezza radicata dentro di lui gli mostrò il saggio cammino. Diceva: «Non bisogna avere fretta».

Rainer Maria Rilke-Rodin

Prima di essere celebre, Rodin era solo. E la celebrità, una volta sopraggiunta, lo ha reso forse ancora più solo. […] L’opera di cui mi accingo a parlare è andata crescendo attraverso gli anni e cresce ogni giorno. come una foresta, incessantemente. Ci si aggira tra i suoi mille oggetti sopraffatti dalla ricchezza dei reperti e delle invenzioni che la compongono, e istintivamente si cercano le mani che hanno dato forma a questo mondo. Ci si rammènta quanto piccole siano le mani dell’uomo, come si stanchino presto e quanto sia breve il tempo loro concesso per agire. E nasce il desiderio di vedere le due mani che hanno vissuto come cento, come un popolo di mani destatosi prima dell’alba per incamminarsi sulla lunga via che conduce a quest’opera. Ci si chiede chi sia il dominatore di quelle mani. Che uomo è mai? La sua vita è una vita che non si lascia narrare. Ha avuto un inizio e procede, procede addentrandosi sempre più profondamente in una grande vecchiaia, e per noi è come se fosse trascorsa da molte centinaia di anni. Non ne sappiamo nulla. Avrà avuto un’infanzia, comune, un’infanzia povera, oscura, indagatrice e incerta. E forse ha ancora quest’infanzia, perché -come dice sant’ Agostino -dove mai potrebbe essersi persa? Forse ha ancora tutte le ore trascorse, le ore del dubbio e le lunghe ore dell’indigenza, è una vita che non ha perduto né dimenticato nulla, una vita che si è raccolta attorno al proprio fluire. Forse non ne sappiamo nulla. Ma solo da una simile vita, pensiamo, sono potute scaturire l’opulenza e la sovrabbondanza di questo operare, solo una simile vita, in cui tutto è vivo e presente nello stesso istante e nulla si è perduto, può conservarsi giovane e forte ed ergersi ripetutamente in opere somme. Forse verrà un tempo in cui per questa vita si inventerà una storia, con i suoi intrecci, con i suoi episodi, con i suoi dettagli. E saranno frutto di invenzione. Si racconterà di un bambino che spesso trascurava il cibo ritenendo più importante intagliare oggetti in un povero legno con un coltello spuntato, e nei giorni del giovane si vorrà inserire un qualche incontro implicante la promessa di una futura grandezza, una di quelle profezie a posteriori tanto popolari e commoventi. Potrebbero prestarsi adeguatamente le parole che, quasi cinquecento anni fa, si dice un monaco abbia rivolto al giovane Miche! Colombe: «Travaille, petit, regarde tout ton saoul et le clocher à jour de Saint-PoI, et les belles oeuvres des compaignons, regarde, aime le bon Dieu, et tu auras la grace des grandes choses». «E avrai la grazia delle grandi cose». Forse un sentimento interiore ha parlato così al giovane Rodin, ma con un tono infinitamente più sommesso delle parole del monaco, ad uno dei primi bivi della sua vita. Perché egli cercava proprio questo: la grazia delle grandi cose. […]
Ecco dunque un compito, grande quanto il mondo. E colui che lo affrontò fissandolo con lo sguardo era uno sconosciuto dalle mani che cercavano pane, nell’oscurità. Era totalmente solo, e se fosse stato un vero sognatore avrebbe potuto sognare un sogno bello e profondo, un sogno che nessuno avrebbe compreso, uno di quei sogni interminabili sui quali una vita può scorrere con la rapidità di un giorno. Ma questo giovane uomo che si guadagnava da vivere nella manifattura di Sèvres era un sognatore il cui sogno saliva lungo le mani, e subito iniziò a dargli una forma. Sapeva da dove fosse necessario cominciare: una pacatezza radicata dentro di lui gli mostrò il saggio cammino. Già qui si rivela il profondo accordo di Rodin con la natura, e su questo il poeta Georges Rodenbach, che lo definisce apertamente una forza naturale, ha saputo dire parole così belle. E in realtà c’è in Rodin una misteriosa pazienza che lo rende pressoché anonimo, una silenziosa, superiore longanimità, come un riflesso della grande pazienza e bontà della natura che si origina dal quasi invisibile per procedere, assorta e severa, nel suo lungo cammino verso la profusione. Anche Rodin non si misurò subito con l’albero. Iniziò dal seme, per così dire sottoterra. E questo seme crebbe verso il basso, affondò le radici sempre più nel profondo, si insediò prima di iniziare la lenta salita verso l’alto. Ci volle tempo, un lungo tempo. «Non bisogna avere fretta», diceva Rodin ai pochi amici a lui vicini, quando lo incitavano.

Rainer Maria Rilke, Rodin, trad. di C. Groff, SE, Milano 2004, pp. 13-19.



Rainer M. Rilke (1875-1926) – Non dimenticare mai di formulare un desiderio: i desideri durano a lungo, tutta la vita, tanto che non potremmo aspettarne l’adempimento.
Rainer Maria Rilke (1875 – 1926) – La pazienza è tutto
Rainer Maria Rilke (1875-1926) – E queste cose, che passano ma ci credono capaci di salvarle, noi che passiamo più di tutto, vogliono essere trasmutate, entro il nostro invisibile cuore in – oh Infinito – in noi! Quale che sia quel che siamo alla fine.
Rainer Maria Rilke (1875-1926) – Occorre raccogliere senso e dolcezza per tutta una vita. Anche i ricordi di per se stessi ancora “non sono”. Solo quando divengono in noi sangue, sguardo e gesto, non più scindibili da noi, solo allora può darsi che in una rarissima ora sorga nel loro centro e ne esca la prima parola di un verso.
Rainer M. Rilke (1875-1926) – Sicurezza significa non sospettare di nulla, non tenere nulla a distanza, non considerare nulla come un Altro irriducibile, significa spingersi oltre ogni concetto di proprietà e vivere di acquisizioni spirituali e mai di possessi reali.
Rainer M. Rilke (1875-1926) – On voudrait avoir les yeux toujours ouverts, pour avoir vu, avant le terme, tout ce que l’on perd.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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