Enrico Berti – La mia esperienza nella filosofia italiana di oggi.

Enrico Bert

Negli anni Cinquanta del secolo scorso, quando ho compiuto i miei studi universitari di filosofia, il panorama filosofico italiano era dominato da correnti che, con poche eccezioni, avevano in comune il rifiuto della metafisica: sviluppi del neoidealismo (U. Spirito, G. Calogero), storicismo (C. Antoni, E. Garin), esistenzialismo (N. Abbagnano, L. Pareyson), marxismo (A. Banfi, C. Luporini, N. Badaloni), neopositivismo (L. Geymonat, A. Pasquinelli, N. Bobbio), spiritualismo cristiano (A. Guzzo, L. Stefanini, M.F. Sciacca). Favorevoli a una forma di metafisica, detta «metafisica classica», erano le scuole filosofiche dell’Università Cattolica di Milano (A. Olgiati, G. Bontadini, S. Vanni Rovighi) e dell’Università di Padova (U. Padovani, M. Gentile).

L’esistenzialismo francese esercitava la sua influenza attraverso Sartre e Marcel e quello tedesco attraverso Heidegger e Jaspers; accanto ad esso anche il personalismo di Mounier e di Maritain influì sulla filosofia italiana degli anni Cinquanta, ma soltanto nell’area cattolica. Il neopositivismo era conosciuto attraverso le opere del primo Wittgenstein (il Tractatus), di Carnap e in generale del Circolo di Vienna; la filosofia analitica inglese cominciava a farsi conoscere attraverso Austin e Ryle (quest’ultimo tuttavia interpretato come un comportamentista attraverso la traduzione di Rossi-Landi). Negli anni Sessanta cominciò l’influenza dello strutturalismo (Lévy-Strauss, Foucault), del pensiero di K.R. Popper, dell’ermeneutica filosofica tedesca (Gadamer) e francese (Ricoeur), della Scuola di Francoforte (Horkheimer, Adorno, Marcuse).

Ciò che mi ha spinto a fare filosofia è stato soprattutto il desiderio di verificare se i problemi umani, quelli di carattere teoretico, cioè conoscitivo, potessero essere risolti tutti dalle varie scienze, oppure richiedessero soluzioni di carattere trascendente, tali quindi da aprire lo spazio ad un’eventuale fede religiosa. Una conoscenza, anche soltanto superficiale, della metafisica antica (Aristotele) e medievale (Tommaso d’Aquino) mi convinse della necessità di una soluzione trascendente e quindi mi consentì un’adesione alla fede cristiana.

Ma non scelsi la metafisica per fare spazio alla fede, bensì, al contrario, mi aprii alla fede in conseguenza di un’adesione alla metafisica, percorso – credo – abbastanza raro e in genere rifiutato sia dai credenti che dai non credenti.

Dato questo orientamento, mi trovai a mio agio nell’Università di Padova, soprattutto nella corrente della «metafisica classica», che faceva capo a Umberto Padovani per la componente tomistica e a Marino Gentile per la componente aristotelica. Volevo fare una tesi di laurea sui rapporti tra la metafisica e la filosofia contemporanea, per “confutare” la pregiudiziale antimetafisica di quest’ultima, ma Marino Gentile, al quale avevo chiesto di farmi da relatore, mi spinse a studiare Aristotele, per cui feci la tesi sulla genesi della dottrina della potenza e dell’atto. In quel momento lo studio di Aristotele, in Italia, era ritenuto una scelta del tutto priva di interesse filosofico, perché lo storicismo imperante induceva a considerare Aristotele un filosofo del tutto superato dalla scienza e dalla filosofia moderna. In realtà si ignorava che il più grande filosofo tedesco del momento, cioè Heidegger, si era formato soprattutto attraverso lo studio di Aristotele, e che la migliore filosofia inglese, quella di Austin e di Ryle, non era che un’applicazione dei metodi di Aristotele all’analisi del linguaggio. Pertanto i rapporti della mia “scuola” di appartenenza con il resto dell’ambito filosofico italiano erano di totale opposizione, un’opposizione condotta da una posizione assolutamente minoritaria. Invece i miei studi su Aristotele, che si espressero per la prima volta nel libro su La filosofia del primo Aristotele (Padova 1962), oltre a farmi ottenere la cattedra universitaria, mi aprirono la strada a numerosi contatti internazionali e mi fecero entrare nel giro prestigioso dei Symposia Aristotelica, a cui sono stato invitato dal 1966 per più di 40 anni (fino al 2011).

Il primo nodo centrale che si è maturato nella mia posizione filosofica è stato il concetto di esperienza come problematicità pura, appreso dal mio maestro Marino Gentile e ricostruito nella sua genesi storica nella metafisica di Aristotele. Esso consiste nel mettere in questione tutto ciò di cui abbiamo esperienza, oggetto, soggetto, natura, storia, individuo, società, realizzando quello che M. Gentile definiva «un domandare tutto che è tutto domandare» e che corrisponde perfettamente alla «meraviglia» da cui, secondo Platone e Aristotele, ha origine la filosofia. Si tratta di quello che potremmo chiamare il terzo grado di meraviglia, cioè la meraviglia che investe non i problemi della vita quotidiana, né i fenomeni di cui si occupano le scienze, ma il perché del tutto, la ragione ultima della totalità del reale.

Di questo atteggiamento ho trovato la prima formulazione rigorosa in Aristotele, nella sua concezione della metafisica come ricerca delle cause prime, alcune delle quali trascendono il mondo dell’esperienza. A parte i condizionamenti storici della metafisica di Aristotele, cioè la

sua dipendenza dalle conoscenze scientifico-cosmologiche della sua epoca, la sua classicità consiste da un lato nell’essere stata costruita con risorse unicamente umane, senza presupporre, come le posteriori filosofie medievali, alcuna fede religiosa; dall’altro nella sua apertura al monoteismo, come hanno compreso i filosofi musulmani (Avicenna, Averroè), ebrei (Maimonide) e cristiani (Alberto e Tommaso).

Un secondo nodo per me centrale è stato la scoperta, in Aristotele, del metodo dialettico inteso nel senso antico del termine, cioè dialogico-confutatorio, come struttura del discorso filosofico. Praticato nell’antichità da Platone e da Aristotele, questo metodo è stato ripreso nella filosofia del Novecento dall’ermeneutica di Gadamer, dal fallibilismo di Popper, dall’etica del discorso di Apel e Habermas, dalla teoria dell’argomentazione di Perelman, ma anche di Ryle, insomma dai più critici ed aperti tra i filosofi contemporanei.

Un terzo nodo, legato al secondo, è stato per me la critica della dialettica intesa nel senso moderno del termine, cioè hegeliano-marxiano, in particolare la critica della realtà della contraddizione, condotta alla luce del principio aristotelico di non-contraddizione.

Questa critica è stata occasionata per me dal dibattito inaugurato con l’intervista filosoficopolitica di Lucio Colletti (1975), al quale ho partecipato intensamente, attraverso confronti con lo stesso Colletti, con Emanuele Severino, con Ludovico Geymonat, con Franco Chiereghin, e all’estero, più recentemente, con i fautori del “dialeteismo” (Graham Priest).

Un quarto nodo, il più recente e probabilmente l’ultimo, è l’elaborazione di una metafisica povera, umile, “debole” dal punto di vista dell’informazione, anche se “forte” dal punto di vista dell’argomentazione. Esso consiste nella riduzione della «metafisica classica» a semplice riconoscimento della problematicità dell’esperienza e della conseguente necessità di un principio trascendente, senza aggiungere a questo alcuna ulteriore indicazione, conseguibile razionalmente, circa la natura di tale principio, i suoi rapporti con il mondo, con l’uomo, con la storia, temi considerati tutti come materia di fede.

Naturalmente ho anche delle idee di carattere politico, o di filosofia politica, che riguardano l’attualità del concetto classico di polis come società politica autosufficiente, il conseguente superamento dello Stato sovrano moderno, la necessità di una società politica di dimensioni mondiali, e idee simili, per le quali tuttavia non posso pretendere alcuna originalità.

Se dovessi indicare gli aspetti della mia filosofia che considero più originali, distinguerei la mia posizione filosofica generale dai miei studi su Aristotele, che pure considero parte della mia filosofia. Per quanto riguarda la prima, non ho mai preteso di essere originale, perché mi interessa di più essere nel vero, cioè sapere come stanno realmente le cose, che essere originale. Per questo ho aderito alla «metafisica classica», in particolare alla formulazione che di essa ha dato Marino Gentile. Rispetto a questa tuttavia, credo di avere contribuito all’approfondimento, o alla precisazione, di qualche aspetto di essa. Per esempio, in collaborazione con alcuni amici che erano al pari di me allievi di Marino Gentile (Romano Bacchin e Franco Chiereghin), abbiamo precisato che la problematicità pura non è un’introduzione alla metafisica, come forse riteneva Marino Gentile, ma ne costituisce l’intero corpo. Abbiamo precisato inoltre che, dal punto di vista logico, il discorso metafisico è un discorso di tipo dialettico, nel senso antico del termine, cioè dialogico-confutatorio, il che in Marino Gentile non era dapprima chiaro, ma lo divenne in seguito, e lui stesso riconobbe il nostro contributo al riguardo. Personalmente poi ritengo di avere ulteriormente essenzializzato il discorso metafisico di Marino Gentile, riducendolo a quella che ho chiamato metafisica povera, o umile, o debole dal punto di vista dell’informazione.

Per quanto riguarda invece lo studio di Aristotele, credo di avere contribuito a presentare il suo pensiero in modo più autentico, cioè più fedele ai testi, sfrondandolo dalle numerose incrostazioni accumulatesi nei secoli e dovute alle diverse forme di scolastica. In tal modo esso è risultato anche più attuale, cosa di cui più volte mi è stato dato atto. Più particolarmente ancora, credo di avere mostrato che la metafisica di Aristotele non è né una teologia, come si credeva nella tarda Antichità e nel Medioevo, né un’ontologia, come si è creduto nella filosofia moderna, ma è invece una ricerca delle cause prime, proseguita in gran parte dalla scienza moderna (nella ricerca della causa prima materiale e della causa prima formale) e in parte dalla filosofia contemporanea (l’etica della felicità nella ricerca della causa prima finale, la «metafisica classica» nella ricerca della causa prima efficiente).

Infine ritengo di avere proposto alcune interpretazioni originali della causalità del motore immobile, mostrando che essa è di tipo efficiente (pur non essendo creazione), e della vexata quaestio dell’intelletto attivo, mostrando che questo non è una mente, ma un complesso di conoscenze già acquisite dal genere umano (i princìpi delle scienze).

Ho accennato all’inizio all’inattualità dello studio di Aristotele e della metafisica in generale negli anni Cinquanta del secolo scorso, almeno in Italia. Ebbene, nel corso degli anni Sessanta si è verificata nel mondo occidentale la perdita di fiducia nelle scienze umane, specialmente nella sociologia, come capaci di risolvere tutti i problemi. Questa perdita di fiducia, o crisi delle scienze umane, ha portato alla nascita della «teoria critica della società», cioè della sociologia filosofica della Scuola di Francoforte, che è sfociata nella contestazione studentesca, la quale ha scosso l’intero mondo occidentale con le rivolte di Berkeley (1964-65), di Berlino (1967), di Parigi (1968), e in Italia di Torino, di Roma, e di quasi tutte le università. Essa ha determinato la cosiddetta «rinascita della filosofia pratica», cioè di una modalità razionale, non ideologica o religiosa, né soltanto scientifica, ma filosofica, di affrontare i problemi etici e politici, la quale è consistita essenzialmente nella riscoperta della filosofia pratica di Aristotele, ad opera di Gadamer, Ritter, Apel, Habermas, in Germania, Arendt, MacIntyre, Nussbaum in America, Aubenque e la sua scuola in Francia, Franco Volpi in Italia. Aristotele è risultato così improvvisamente attuale, molto più di quanto lo fosse negli anni Cinquanta, e si è determinata una rinascita dell’interesse per la filosofia aristotelica negli ultimi decenni del secolo scorso, alla quale credo di avere contribuito anch’io con i miei studi.

Contemporaneamente si sono avuti in Occidente eventi storici di tipo diverso, quali la progressiva presa di coscienza dei diritti umani, il Concilio Vaticano II, il pontificato di alcuni importanti papi (Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II), la scoperta e i progressi dell’informatica, che hanno contribuito con altri fattori al crollo dell’Impero sovietico e quindi alla sconfitta del comunismo “realizzato”. Tutto questo ha determinato anche la crisi del marxismo come filosofia, in particolare del materialismo dialettico, che aveva dominato la filosofia europea negli anni Sessanta e Settanta del Novecento (anche nella prima Scuola di Francoforte), per cui i miei studi sulla contraddizione e la dialettica moderna sono risultati del tutto attuali e hanno determinato la fortuna del mio libro Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni (Palermo 1987), che è stato pubblicamente lodato, ad esempio, da un ex materialista dialettico come Ludovico Geymonat.

Infine la scoperta e la diffusione nell’Europa continentale e in Italia della filosofia analitica anglo-americana, la quale aveva superato la fase neopositivistica ed aveva quindi abbandonato la sua pregiudiziale antimetafisica, ha portato anche in Europa ad una rinascita di interesse per la metafisica. Questo ha fatto apparire più attuale, o meno inattuale, anche la metafisica di ispirazione aristotelica, e quindi la mia posizione filosofica si è trovata ad essere meno isolata che in passato, anzi spesso in linea con i dibattiti più recenti (sull’identità personale, sull’individuazione, sulla sostanza, sulla forma). Mi riferisco a posizioni come quelle di Strawson e Wiggins in Inghilterra, Chisolm e van Inwagen negli USA, Ricoeur in Francia, con le quali mi è accaduto di confrontarmi e di incontrarmi in anni recenti. Tutto questo ha determinato una certa attualità della mia posizione filosofica.

Se dovessi dire cos’è mutato oggi nel rapporto tra filosofia e vita, farei riferimento soprattutto alla situazione italiana, che conosco meglio, anche se, girando il mondo, partecipando a congressi mondiali (quelli organizzati dalla FISP, Fédération Internationale des Sociétés de Philosophie, di cui sono stato vice-presidente) e presiedendo istituzioni internazionali (l’Institut International de Philosophie), ho riportato l’impressione che altrove la situazione non sia molto diversa. In Italia la filosofia era già uscita dall’ambiente accademico, cioè universitario, negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, ma per impegnarsi sul piano politico; esempio emblematico: Toni Negri. Negli anni più recenti la filosofia accademica è entrata nei mass media (giornali quotidiani, settimanali, televisione), si è diffusa in innumerevoli festival filosofici, facendosi sentire nei teatri e nelle piazze, ma ha perduto l’aggressività polemica, e anche l’influenza politica, che aveva negli anni Settanta, per diventare una forma di intrattenimento, o di passatempo intelligente. Molti filosofi sono stati coinvolti in dibattiti, soprattutto di bioetica, entrando a far parte di comitati di consulenza locali e nazionali. Pochi invece sono stati coinvolti nell’attività dei partiti politici, anche per la crisi che ha colpito questi ultimi. La mia impressione è che nei rapporti reciproci tra i filosofi ci sia meno ideologia e più tolleranza che in passato, o almeno io mi sento rispettato, nelle mie idee e nei miei studi, più di quanto lo fossi all’inizio della mia attività (indubbiamente anche a causa della mia età ormai avanzata).

Un tema di importanza perenne, e quindi anche futura, per la filosofia è il suo rapporto con le scienze. Mano a mano che queste si sviluppano, dalla fisica alla biologia, dall’economia alla psicologia, esse pongono continuamente nuovi problemi, che la filosofia non può ignorare e con cui deve confrontarsi, pur nel rispetto delle competenze. Ci sono poi i problemi dovuti alla globalizzazione, cioè le crisi economiche, le migrazioni di popoli, i conflitti etnici e religiosi, le opportunità offerte dalle nuove tecnologie: tutti temi importanti per la filosofia, specialmente per la filosofia pratica e la filosofia politica.

Naturalmente i filosofi di professione, che in genere sono professori, di scuola media superiore o di università, difficilmente possono influire sulla soluzione di tali problemi. Essi possono tuttavia fornire informazioni e indicazioni a chi non è filosofo di professione, cioè ai politici, agli amministratori, agli economisti, agli scienziati. L’ideale sarebbe che tutte le persone di cultura, qualunque sia la loro professione (medici, giuristi, informatici, giornalisti, artisti, gente di spettacolo, ecc.), avessero un minimo di formazione filosofica, per poter riflettere da un punto di vista generale sui problemi particolari, per confrontare opinioni diverse, per argomentare in modo corretto.

Secondo Hegel la funzione del filosofo era di capire il proprio tempo, cosa possibile – a suo avviso – solo al termine di un’epoca, quando ormai gli eventi storici erano compiuti e si apriva lo spazio alla riflessione, o meglio alla comprensione razionale, senza più nessuna possibilità di intervenire. Secondo Marx, invece, la funzione del filosofo era di trasformare il mondo, cioè di renderlo più razionale, più umano, più giusto, anche a prezzo di violenza, per esempio con la rivoluzione. Oggi mi sembra difficile, per il filosofo, svolgere sia l’una che l’altra funzione, benché egli disponga di informazioni indubbiamente molto più vaste che in passato, e benché i mezzi per influire sul modo di pensare della gente siano molto più efficaci che in passato. Il difficile è capire come stanno realmente le cose, data l’enorme complessità delle situazioni che si determinano a livello mondiale, ed inoltre sapere esattamente che cosa bisogna fare, cioè essere sicuri di poter fare bene.

Una cosa credo che il filosofo di professione debba fare, cioè esercitare con onestà la propria professione. Mi richiamo qui a quanto disse Max Weber nella sua famosa conferenza su La scienza come professione: il filosofo non deve fare il profeta, il predicatore, l’agitatore di folle; soprattutto non deve servirsi della cattedra per imporre agli studenti le sue idee, sottraendosi al confronto aperto con i propri simili. Il filosofo deve argomentare onestamente, cioè correttamente dal punto di vista logico, sottoponendosi all’esame altrui ed esaminando a sua volta le opinioni altrui, cioè deve discutere. La figura di Socrate, paradossalmente, può essere ancora attuale, ma nella discussione pubblica. Nell’attività professionale il filosofo deve ricercare onestamente la verità, fornendo possibilmente contributi di nuove conoscenze, e insegnare qualcosa di preciso, di determinato, di non vago, non fumoso, non generico. A questo proposito mi permetto di rinviare a ciò che ho scritto nel mio ultimo libro, La ricerca della verità in filosofia, Roma, Studium, 2014.

Ai giovani vorrei dire: non vi invito a scegliere la filosofia come professione, perché rischiate di non poter sopravvivere; vi invito ad occuparvi di filosofia facendo altre professioni, nel tempo libero, nelle domeniche, nelle vacanze. Vedrete quanta soddisfazione la filosofia vi può dare, e forse essa vi darà anche qualche indicazione per ciò che dovete fare, o qualche consolazione per ciò che avete già fatto.
A chi sceglie la filosofia come professione, sperando che egli abbia delle motivazioni fortissime, raccomando di non farla in modo generico, ma di farla in modo serio, cioè di non fare troppe chiacchiere, di non occuparsi di tutto, ma di specializzarsi in qualche cosa di preciso, pur tenendosi al corrente di tutto.

Enrico Berti

Enrico Berti – Per una nuova società politica

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Incontri con la filosofia contemporanea

Enrico Berti – Incontri con la filosofia contemporanea

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Luca Grecchi, Il pensiero filosofico di Enrico Berti (2013), con presentazione di Carmelo Vigna e postfazione di Enrico Berti, è un testo monografico introduttivo sul pensiero di questo importante filosofo contemporaneo, uno dei maggiori studiosi mondiali del pensiero di Aristotele. Rapportandosi a tematiche quali l’interpretazione degli antichi, la storia della filosofia, l’educazione, l’etica, la politica, la metafisica, la religione, Grecchi non si limita a descrivere il pensiero dell’autore considerato ma, come è nel suo approccio, valuta; in maniera solitamente concorde, eppure talvolta anche critica, in particolare nella opposizione fra metafisica classica e metafisica umanistica.

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Simone Weil, «Oppressione e libertà», Orthotes Editrice, 2015

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weil, Oppressione e libertà

Questo libro raccoglie gli scritti di Simone Weil militante nel movimento operaio e commentatrice critica di Marx e del marxismo. I testi qui riuniti – molti pubblicati, altri rimasti inediti lei viva, con titolo originale o postumo, alcuni occasionali, altri maturati nel tempo, tutti compresi nel decennio 1933-43 – sono attraversati da temi alcuni dei quali arrivano direttamente fino a noi o sono traducibili nel nostro presente. Tra questi, mettiamo al primo posto quello dei rapporti tra l’individuo, da una parte, e la collettività, la società, le masse, dall’altra. Scrive Weil: «non dimentichiamo che noi vogliamo fare dell’individuo e non della collettività il valore supremo» per cui «la subordinazione della società all’individuo, ecco la definizione della vera democrazia e anche quella del socialismo». Questa netta presa di posizione, che nei primi anni Trenta Weil condivide con i militanti del sindacalismo rivoluzionario, per capirne il significato tutt’altro che individualista, va messa in rapporto a una scoperta politica tutt’ora valida. Simone Weil ha scoperto l’esistenza di un potere oppressivo che si sviluppa con le esigenze stesse di organizzare e di coordinare, a cominciare dallo Stato con il suo apparato burocratico, poliziesco e militare (segnalato già da Marx), che si estende alla produzione, come potere della nascente tecnocrazia (non considerato da Marx), di suo indipendente dal regime capitalistico. E che arriva a compenetrare le stesse organizzazioni di massa che lottano contro il capitalismo. Per prima Weil si rese conto che stava prendendo piede la dittatura di un potere trasversale e senza nome, presente nel funzionamento dello Stato, nell’organizzazione della produzione come anche nei partiti e nei sindacati, e che struttura l’intera società (dall’Introduzione di Lia Cigarini e Luisa Muraro).

Simone Weil, Oppressione e libertàOrthotes Editrice, Napoli-Salerno 2015, 220 pp., 18 euro (collana: Dialectica)

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Platone, «Filebo» – Senza possedere né intelletto né memoria né scienza né opinione vera, tu saresti vuoto di ogni elemento di coscienza

 

Plato Silanion, Musei Capitolini

Socrate: Accetteresti tu, Protarco, di vivere tutta la vita nel godimento dei piaceri più grandi?

Protarco: Certo, perché no?

Socrate: Penseresti dunque di aver bisogno ancora di qualcosa se possedessi ciò integralmente?

Protarco: Nient’affatto.

Socrate:   Guarda bene: forse nell’avere senno, del pensare, del ragionare e di quante cose sono sorelle di queste, non avresti un po’ bisogno?

Protarco: E perché? Con il godimento avrei in un certo qual modo tutto.

Socrate: Se tu vivessi così sempre, per tutta la vita potresti godere i piaceri più grandi?

Protarco: Perché no?

Socrate: Ma senza possedere né intelletto né memoria né scienza né opinione vera, non avverrebbe necessariamente che tu ignori innanzi tutto proprio questo, se godi o non godi, tu saresti vuoto di ogni elemento di coscienza?

Protarco: Necessariamente.

 

Platone, Filebo, Marietti edizioni, pag. 54.

Johann Gottlieb Fichte (1762-1814) – Libero è solo colui che vuole rendere libero tutto ciò che lo circonda

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“Libero è solo colui che vuole rendere libero tutto ciò che lo circonda”.

“La nostra destinazione nella società è un perfezionamento comunitario, un perfezionamento di noi stessi grazie all’uso della libera azione degli altri su di noi e un perfezionamento degli altri mediante l’influenza della nostra azione su di essi come enti liberi”.
                                           J.G. Fichte, La missione del dotto.

“Chiunque crede nello spirito, e alla libertà dello spirito, e vuole il progresso all’infinito dello spirito per mezzo della libertà, dovunque sia nato e qualunque lingua parli è della nostra razza; egli ci appartiene; egli verrà con noi”.
                                         J.G. Fichte, Discorsi alla nazione tedesca

“L’uomo che si isola rinuncia al suo destino, si disinteressa del progresso morale. Parlando in termini morali, pensare solo a sé è la stessa cosa che non pensarci affatto, perché il fine assoluto dell’individuo non è dentro di lui; è nell’umanità intera”.
                                         J.G. Fichte, Sistema di etica
J.G. Fichte

Walter Benjamin (1892-1940) – Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera

Walter Benjamin,1928

Walter Benjamin, 1928.

«C’è un quadro di Klee che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fisso lo sguardo. I suoi occhi sono spalancati, la bocca è aperta, e le ali sono dispiegate. L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Là dove davanti a noi appare una catena di avvenimenti, egli vede un’unica catastrofe, che ammassa incessantemente macerie su macerie e le scaraventa ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e riconnettere i frantumi. Ma dal paradiso soffia una bufera, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che l’angelo non può più chiuderle. Questa bufera lo spinge inarrestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle, mentre cresce verso il cielo il cumulo delle macerie davanti a lui. Ciò che noi chiamiamo il progresso, è questa bufera».

Walter Benjamin, dalle tesi Sul concetto di storia, Einaudi, 1997, pp. 35.

 

Paul. Klee, Angelus NovusPaul Klee, Angelus Novus.

Karl Marx – Cristalli di denaro: “auri sacra fames”

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«Tutto diventa vendibile o acquistabile. La circolazione diventa il grande alambicco sociale dove tutto affluisce per tornare ad uscirne come cristallo di denaro. A questa alchimia non resistono neppure le ossa dei santi e meno ancora altre meno rozze, res sacrosanctae, extra commercium hominun».

Karl Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma, 1977, vol. I, pag. 164.

 

«Il denaro non è soltanto un oggetto della brama di arricchimento, è invece il suo oggetto. Essa è essenzialmente auri sacra fames. La brama di arricchimento in quanto tale, come forma particolare di appetito […], è possibile soltanto quando la ricchezza generale, la ricchezza in quanto tale, è individualizzata in oggetti particolari […]. Il denaro non è dunque soltanto l’oggetto della brama di arricchimento, ma ne è in pari tempo anche la fonte. […] Di qui i lamenti degli antichi sul denaro come fonte di ogni male».

Karl Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, Einaudi, Torino, 1977, vol. I, pag. 161.

La locuzione latina Quid non mortalia pectora cogis, / Auri sacra fames, è un verso di Virgilio (Eneide, 3. 56-57), ripreso da L. A. Seneca (Lettere a Lucilio) nella forma «Quod non mortalia pectora coges, auri sacra fames», che significa «A cosa non spingi i petti mortali, miserabile cupidigia dell’oro».
I “Padri Fondatori” degli Stati Uniti d’America non potevano certo iscrivere questo verso virgiliano nel Great Seal (Grande Sigillo) USA che tuttora campeggia sul retro della banconota da un dollaro. Ma vollero comunque mutuare (la “vocazione imperiale” cercava una preziosa ed antica nobiliare ascendenza) dal poeta mantovano – ideologo dell’Impero romano iniziato da Ottaviano Augusto –, due delle tre iscrizioni  in latino che su quel sigillo si possono leggere: Annuit coepitis è la versione affermativa («Dio è favorevole all’impresa») della preghiera troiana a Giove «Audacibus annue coepitis» (Eneide, IX, 625); e «Novus ordo s[a]ec[u]lorum» viene dalla Ecloga IV.

Jddu Krishnamurti (1895-1986) – Gli uomini che non sanno lavorano per ricercare ricchezza e potere

iddu Krishnamurti

«Gli uomini che non sanno lavorano per ricercare ricchezza e potere».

«Studia soprattutto ciò che ti può rendere meglio capace di aiutare gli altri.
Persevera pazientemente nei tuoi studi, non perché gli uomini ti considerino erudito,
e nemmeno per la felicità di essere saggio,
ma perché soltanto l’uomo saggio può maggiormente aiutare».

«Per quanto grande possa essere il tuo desiderio di aiutare,
se sei ignorante il tuo intervento potrà fare più male che bene […]

Chi desidera percorrere il sentiero deve imparare a pensare con la propria testa,
perché la superstizione è uno dei peggiori mali che ci siano al mondo».

«L’egoismo ha molte forme e, quando credi di averlo finalmente ucciso in una di queste,
esso risorge in un’altra più forte che mai».

«Le cose desiderate dalla maggioranza degli uomini,
come ad esempio la ricchezza ed il potere,
non hanno valore».

«Per riuscire utile alla umanità,
il tuo pensiero deve estrinsecarsi in azione».

«Considera tutti, allo stesso modo, con amorevolezza, dolcezza e tolleranza».

«Rnuncia ad ogni sentimento di possesso».

 Jddu Krishnamurti, Ai piedi del maestro, Bis, Torino, 1995, pagg. 12-48.

Virginia Held – La cura di sé non è cosa distinta dalla cura degli altri

V. Held, The Ethics of Care

Aristotele suggerisce di considerare non solo il ricevere ma anche il fare il bene fra le cose piacevoli. Dice infatti « […] poiché ricevere il bene significa ottenere ciò di cui si ha desiderio mentre farlo vuol dire possedere più del normale: entrambe le condizioni sono ambite. E dal momento che è piacevole fare il bene, è allora piacevole per gli esseri umani anche migliorare chi sta vicino a loro» (Retorica, 1371b).

Non diversamente scrive Virginia Held: «[…] nelle relazioni di cura le persone agiscono allo stesso tempo per sé e per gli altri. La postura che le caratterizza non è né egoistica né altruistica […] il ben-essdere di una relazione di cura implica il ben-essere condiviso di quelli che sono in relazione e il ben-essere della della relazione in sé» (V. Held, The Ethics of Care, Oxford, 2006, p. 12)

Alessandra Papa, L’identità esposta. La cura come questione filosofica. La tecnobiomedicina ha deformato la relazione ippocratica, stravolgendola nei suoi principi fondamentali.

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Alessandra Papa, L’identità esposta. La cura come questione filosofica, Vita e Pensiero, 2014

La tecnobiomedicina ha abbandonato l’idea di salute come equilibrio di natura, e propone l’idea di uomo non nel suo aspetto di fragilità creaturale, bensì immaginandolo come un mero organismo tessutale e facendone un antifragile: a partire cioè dalla malattia considerata non più come condizione umana, ma come comportamento di segno negativo, raffigurando l’uomo nella sua forma originaria come antico e ormai facile da superare.

Nei nuovi scenari culturali della tecnobiomedicina, la salute diviene infatti suscettibile di continue forzature, con pretese miglioristiche e di potenziamento: si compie un’aggressione sistematica dell’uomo nella sua forma originaria, aggressione che passa attraverso nuovi criteri di liceitàe interventi profondi di alterazione strutturale della persona stessae della sua identità biologica.
«[…] La sofferenza è, con la gioia, il rifugio ultimo della singolarità […] Considero precetto primo della saggezza pratica, esercitata sul piano medico, il riconoscimento del carattere singolare di cura, innanzi tutto di quella del paziente stesso. Questa singolarità implica il carattere non sostituibile di una persona con un’altra […]; la diversità delle persone umane fa sì che non sia la specie ad essere curata, ma ogni volta un esemplare unico del genere umano» (P. Ricoeur, Il giudizio medico, 206, pp. 31-35).
Se quindi la scienza medica procede, mediante l’utilizzo di modelli epistemologici, per investigazioni universali, la medicina come téchne, invece, si realizza proprio in quanto pratica particolare. Per usare un lessico aristotelico, in effetti, corre una differenza fondamentale tra la conoscenza degli universali e il giudizio pratico.
Da qui il distinguo tra la medicina come conoscenza dell’universale, dove per universale ci si riferisce alla malattia come morbo nei suoi aspetti causali che colpisce tutti gli esseri umani e che in quanto tale va indagata, e la medicina come conoscenza del particolare, per cui a essere colpita dalla malattia è la persona con nome e cognome. Nel primo scenario, infatti, si investigano soltanto i principi che costituiscono nei tratti generali una teoria, per cui per esempio rispetto alla medicina in quanto scienza si ricercano le sole cause della malattia, deducendone poi l’andamento secondo regole. All’opposto, in un secondo contesto di indagine battesimale, vale a dire quello più artistico e narrativo, la medicina come tecnica rinvia a una speciale forma di conoscenza che inerisce il singolo nella sua specificità. Così appunto accade in ambito medico quando la cura, all’interno della relazione medico-paziente, è pur sempre necessariamente riferita a quell’unicum che e la persona umana.
C’è, dunque, uno scarto tra la dimensione della, medicina come conoscenza delle cause e che, in quanto tale, è perciò trasmissibile come sapere universale e, viceversa, la medicina come render conto in termini esperienziali. Quest’ultima, infatti, comporta l’obbligo precipuo non semplicemente di riconoscere la malattia, ma anche quello di orientare la terapia, individuando cioè la cura che possa giovare a questa persona, nella sua unicità. Tuttavia, non si tratta di realizzare un mero scarto produttivo, bensì ancora di riconoscere una peculiarità ontologica, che fa sì che lo scientifico debba comunque sempre rassegnarsi a una perdita di autonomia radicale, là dove l’uomo da se stesso si ponga come limite conoscitivo.
A segnare la differenza tra la cura dell’impersonale scientifico e la cura come terapia orientata fortemente sulla persona umana è anzitutto, perciò, la richiesta d’aiuto, il pathos, quella che Ricoeur chiama sofferenza. È, infatti, proprio l’appello patetico del malato a costringere il medico a uscire dai modelli della causalità e dai quadri di comprensione meramente eziologici della malattia. Ci si ammala tutti dello stesso morbo, ma si soffre in modo differente in quanto persone e perciò insostituibili nel soffrire. Cosicché la richiesta d’aiuto è diversa da uomo a uomo.
Ne risulta, allora, che il patologico è fortemente condizionato dall’esperienza concreta del vivere della persona malata e non potrebbe essere altrimenti, perché se per un verso, per usare un’espressione di Georges Canguilhem, sono i malati che «chiamano il medico» (Il morale e il patologico, Torino, 1998, p. 171), dall’altra il medico non può esimersi dal rispondere all’appello che viene dal malato, superando la curiosità dei principi patogeni e guardando oltre il mero fisiologico. Scrive, infatti, Canguilhem a questo proposito: «È stato per primo il malato che un giorno ha constatato che ‘qualcosa non andava’, ha notato certe modificazioni sconvolgenti o dolorose della struttura morfologica o del comportamento. Ha attirato su di esse, a torto o a ragione, l’attenzione del medico. Questi, avvertito dal malato, ha proceduto all’esplorazione metodica dei sintomi evidenti e più ancora dei sintomi latenti. […] Ora vi è qui un oblio professionale […]. Il medico ha la tendenza a dimenticare che sono i malati a chiamare il medico […]. La vita non si innalza alla coscienza e alla scienza di se stessa se non tramite […] il dolore» (ibidem).
Un mutamento di paradigma Il malato, in quanto persona vulnerabile, è dunque uno stilema ontologico complesso. È la persona umana messa a nudo dalla malattia, sguarnita di “vita buona” in senso aristotelico (Aristotele, Metafisica, Z 7, 1032 a 12-1034 a8), che richiede solidarietà e assistenza, a causa di una sopravvenuta condizione di squilibrio; circostanza che la espone tanto all’incertezza quanto alla necessità di stabilire relazioni improntate su schemi e modelli di cura complessi. In particolare, il concetto di vulnerabilità, inteso appunto come nudità, rimanda per contenuti e semantiche ai ruoli riflessivi della biopolitica liberale di matrice anglosassone, allorquando è artificialmente parametrato su modelli sociali competitivi ed è inteso come mancanza di bene, secondo sistemi di azione utilitaristici.
In simili scenari, in tempi in cui si assiste a una medicina che sembra aver perso la grammatica ippocratica della beneficialità, ci si chiede se proprio l’homo vulnerabilis – icona fragile bandita dalla modernità – non sia sottoposto, con un forzato impoverimento ontologico, a pressioni utilitariste e funzionaliste, per essere tragicamente isolato e svincolato dal legame comunitario. Quanto poi è andato evidentemente perduto nei dogmatismi della medicina scientifica ancorata a parametri statistici è anzitutto l’antica idea di salute come equilibrio di natura, che si è trasformata in un’idea-forza dell’umano in grado di sostituire la ragione medica con una sorta di ragione progettante che ha smarrito la visione originaria, carnale, dell’uomo nel suo aspetto di fragilità creaturale, immaginandolo come un mero organismo tessutale e facendone un antifragile: un Über-Mensch della modernità di segno negativo.
Detto in altri termini, la salus come virtù naturale è andata oramai perduta nelle sue implicazioni semantiche antiche e va rapidamente dissolvendosi in un concetto artificiale di salute post-umana. Nei nuovi scenari culturali, la salute diviene infatti suscettibile di continue forzature, con pretese miglioristiche e perciò soggetta a lecite modificazioni, non solo rispetto alla patologia, ma anche rispetto a una condizione di normatività naturale, o meglio di normalità. Da qui è derivata un’aggressione sistematica dell’uomo nella sua forma originaria che passa attraverso nuovi criteri di liceità e interventi profondi di alterazione strutturale della persona stessa e della sua identità biologica, accampando sovente giustificazioni che, se pure oramai gradite al senso comune, non sono sempre accettabili rispetto alla grammatica etica di composizione profonda della soggettività.
La questione delle trasformazioni pratico-teoriche della condizione umana sul piano filosofico pone, dunque, un problema di gittata antropologica riguardo all’identità e alla comprensione stessa dell’uomo. In un’ottica funzionalista ed efficientista, l’introduzione di un fine esterno artificiale, che riduce l’essere umano alle sue capacità e alla sua portata qualitativa, autorizza a ritenere l’uomo mera natura biologica, comunque estraneo alla sua nascita, e pertanto non più temporaneo e finito, ma temporaneo e suscettibile di modificazioni successive e continue.
Con la medicina miglioristica e del potenziamento è, dunque, cambiato il paradigma di cura della modernità. Il gesto di cura, non solo come soccorso samaritano, ma anche inteso come il tentativo del medico di ristabilire un equilibrio tra la persona umana e il suo ambiente, è definitivamente collassato sotto gli urti di una medicina che da una parte ha forzato in modo lineare i propri aspetti scientifici in modo autoreferenziale, e dall’altra ha sormontato la sua stessa natura artistica travisandola nei compiti in un fare progettante che stressa continuamente la natura umana nelle sue forme originarie.
Se, infatti, l’antica idea di cura aveva ancora a che fare con il limite normativo del secundum naturae, con la medicina moderna invece la normatività naturale è stata messa in crisi dalle tecnologie avanzate che hanno prodotto una corporeità multi-buttons. In particolare, la cura affidata sempre più spesso all’imago della tecnologia, sposta continuamente, negli aspetti applicativi, il limite stesso della natura, oramai smarginalizzata.
Sotto i colpi dei bisogni e dei desideri individuali, è, infatti, il concetto di salute a diventare sempre più divaricato dal naturale in sé, proprio a causa di quella nuova capacità di lettura profonda che è propria della tecnobiomedicina. Da qui poi anche la torsione del concetto di ‘normalità’ della vita umana nella prospettiva di un utile contrattualistico e del soddisfacimento di aspettative sociali che, nei fatti, minimalizzano e riducono la corporeità al modello funzionalistico della performance e a criteri di efficienza sociale e di potenziamento artificiale, oltrepassando il modello della terapia e legittimando un nuovo ideale normativo, povero di semantizzazioni etiche.
Nata dal connubio tutto moderno tra biologia, medicina e tecnologia, la tecnobiomedicina ha deformato la relazione ippocratica, stravolgendola nei suoi principi fondamentali, e ha inaugurato una sorta di crisi dell’etica in cui la persona umana è divenuta oramai una vera e propria emergenza. Cosicché, in ambito bioetico, ne è scaturito un effetto domino che apre oggi un fronte di riflessione molto problematico: dalla medicalizzazione della nascita, all’interesse riabilitativo, al fine vita, alla salute a tutti i costi e al migliorismo. In questo senso ciò che oramai sembra essere messo definitivamente a rischio è allora proprio la persona umana.
A seguito di una sovraesposizione del personale e dell’identitario all’alta tecnologia e al biologisrno sono, infatti, venute meno quelle tutele che custodivano la persona ippocratica oltre l’uscio di casa (“In quante case entrerò – ammonisce Ippocrate nel suo Giuramento –, andrò per aiutare i malati, astenendomi dal recar volontariamente ingiustizia e danno […]”): l’erosione della sua dimensione privata, la violazione di quegli assetti strutturali della personalità che hanno sempre fatto rimando alla nominazione, hanno stravolto l’antica pratica medico-assistenziale, così come Ippocrate l’aveva per primo teorizzata.
Sul piano culturale ha poi fatto da cassa di risonanza l’idea della malattia come condizione difettiva, legittimando peraltro solo la natura umana come integrum e mettendo al bando quella corporeità ferita che entra in relazione proprio in quanto vulnus, poiché ferito-tra-gli-altri. In tal modo la medicina come ‘semplice’ scienza ha portato alle estreme conseguenze l’idea organicista dell’umano, ignorandone il pathos e anzi isolandolo come fatto a sé stante. L’appello patetico è oggi sottoposto a esame secondo logiche deterministiche e valori artificiali che lo condizionano nella loro nuova normatività: il normale diviene così il patologico rispetto al desiderio della perfezione immaginata. Al contempo la medicina come arte – sempre più decisa dalle ambizioni prometeiche di un degenere homo pictor (Hans Jonas, Organismo e libertà. Verso una biologia filosofica, 1999, pp. 204-223) – sembra avere pure essa completamente frainteso il suo compito originario, quando ha assunto storicamente come oggetto di trasmissione artistica l’uomo quale bios progettabile e oggetto puramente estetico.
Una zona sempre più consistente della medicina, esacerbata nei suoi compiti e radicalizzata nelle sue fisionomie di scienza e di arte, oscillando in maniera schizofrenica tra la spiegazione razionale e quella estetica, ha così cominciato a pensare l’uomo, ma affrancandosi dalla filosofia. E lo ha pensato come l’antifragile appunto, a partire cioè dalla malattia considerata non più come condizione umana, ma come comportamento di segno negativo, se non persino polarizzando biologicamente la differenza tra pathos e male, dunque interrompendo lo scarto ontologico tra la sofferenza (non più compresa come rivelatore universale dell’umano) e la malattia (oramai intesa come peccato biologico), per farne una distanza organica.
Da qui pure la distorsione del telos metafisico. L’uomo – che è un essere teleologico – con il suo cascame di materialità è oramai teorizzato come essere puramente casuale, un prodotto occasionale che ha totalmente deviato dalla finalità metafisica. I nuovi mezzi biotecnologici hanno generato, infatti, una nuova finalità dell’uomo: il miglioramento della natura umana, telos che risulta evidentemente più adeguato a un progetto solo provvisorio di natura umana. Gli aspetti puramente conoscitivi della medicina rischiano, in questi progetti, di sopraffare quelli artistici, forzati pure essi, in una formidabile volontà riedificativa dell’umano.
Ciò che si sta smarrendo, in questo processo di razionalizzazione della pratica di cura, è allora l’autocomprensione del soggetto stesso. Da qui il rischio inevitabile di una perdita valoriale del soggetto di cura come soggetto morale: trasformato in un individuo normato secondo canoni artificiali e oramai configurato secondo modelli teorici prestazionali preordinati.
In un’angolatura biopolitica, pertanto, l’uso crescente e potenziato delle tecnologie traccia oggi nuovi scenari rispetto alla relazione fra tecnoscienze e natura umana, ma anche rispetto alla stessa pratica medica.
La tecnica, infatti, in quanto oramai ‘cultura’ – che ha generato un linguaggio con cui pensare e progettare una nuova e artificiale identità umana, in nome del progresso e del miglioramento stimati come conquiste sociali – rischia, in effetti, di sovraordinare le categorie della salute, raffigurando l’uomo nella sua forma originaria come antico e ormai facile da superare.
Alessandra Papa, L’identità esposta. La cura come questione filosofica, Vita e Pensiero, 2014, pp. 118-124.

Seneca – De brevitate vitae. Non è breve la vita, ma tale la rendiamo

Seneca

«Non abbiamo poco tempo, ma ne perdiamo molto. La vita è sufficientemente lunga e ce ne viene elargita in abbondanza per il conseguimento di ciò che vi è di più grande, se si fa uso saggiamente di ogni sua parte; ma quando scorre via nel lusso e nell’ignavia, quando non la si mette a frutto e alla fine, con l’incalzare della estrema necessità, ci accorgiamo che è passata, ma non ci siamo resi conto del suo trascorrere.
È così: non è breve la vita che ci è stata data, ma tale la rendiamo e non siamo poveri di essa, la sprechiamo. […]
Cosa dunque dobbiamo mettere sotto accusa? Il fatto che vivete come se doveste vivere in eterno, e mai vi soccorre il pensiero della vostra fragilità, non vi rendete conto di quanto tempo sia già trascorso. […] Temete ogni cosa come mortali, bramate ogni cosa come se foste dèi immortali. […]
Credimi, è proprio dell’uomo grande e che si eleva al di sopra delle umane miserie non permettere che gli venga sottratto alcunché del suo tempo […]. Nessuno ti restituirà i tuoi anni, nessuno ti restituirà te stesso.

Seneca, De brevitate vitae, a cura di Tommaso Gazzarri, Mondadori.

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