Franco Toscani – Il rapporto etica-politica e il tema dell’amicizia in Aristotele.
a Lea e Attilio,
pazienti angeli custodi
- Il nesso ineludibile fra etica e politica in Aristotele
Il percorso che qui cerchiamo di proporre sul rapporto fra etica e politica e sul tema della philía in Aristotele non ha programmaticamente nulla di meramente storiografico. La nostra ricognizione parte dalla lucida consapevolezza della crisi devastante dell’etica e della politica nella civiltà odierna e dall’esigenza di ripercorrere criticamente alcuni tratti essenziali della tradizione culturale occidentale per contribuire a porvi rimedio. Ritrovare e tornare a meditare il nesso essenziale fra etica e politica nello Stagirita può servire ad affrontare i nodi più controversi della situazione spirituale del nostro tempo e a riscoprire il senso del bene comune, di ciò che può e deve essere condiviso nella nuova civiltà planetaria che ancora troppo faticosamente e contraddittoriamente intravediamo all’orizzonte.
Nella impossibilità di occuparci qui in modo esaustivo delle problematiche presenti nell’Etica Nicomachea e nella Politica dello Stagirita, del tutto consapevoli della inesauribile ricchezza tematica di queste opere, noi qui tenteremo una lettura selettiva e parziale di esse (con un particolare riferimento alla prima), mirante a mettere in luce alcuni aspetti basilari che possono costituire anche oggi motivo di grande interesse, attenzione e riflessione.
Vi sono per Aristotele tre tipi fondamentali di vita, propri della moltitudine (oi polloí), della vita etico-politica, della vita contemplativa. Sul tipo di vita più diffuso, quello della massa, il giudizio dello Stagirita – espresso nell’Etica Nicomachea con parole che non potrebbero essere per noi più drammaticamente attuali, soprattutto quando accenna alle «passioni di Sardanapalo», il re assiro Assurbanipal del VII sec. a. C. (di cui parla Erodoto), famoso per le sue ricchezze favolose e per la sua vita dissoluta, precursore di tanti nostrani imitatori potenti e prepotenti – è netto e duro: «La moltitudine, dunque, appare del tutto simile a una massa di schiavi, poiché sceglie una vita degna delle bestie; ma trova una giustificazione per il fatto che molti di coloro che coprono cariche direttive sono mossi dalle stesse passioni di Sardanapalo».1
Nel campo etico-politico noi ricerchiamo non per un mero e sterile sapere circa la virtù, ma per diventare buoni, virtuosi e per praticare la saggezza: «nell’ambito della pratica il fine non è contemplare e conoscere ogni singola cosa, ma piuttosto il compierla; e pertanto neppure riguardo alla virtù è sufficiente conoscerla, bensì bisogna tentare di possederla e di metterla in pratica» (Eth. Nic., X, 10, 1179 a 35 – 1179 b 1-4; ECA 489. Cfr. anche Eth. Nic., II, 2, 1103 b 26-29).
Ora, quale rapporto vi è fra etica e politica, sapendo che esse concernono l’uomo come essere capace di agire consapevolmente e liberamente in vista di un fine?2
Sul tipo di vita etico-politica, nell’Etica Nicomachea Aristotele osserva che l’etica non studia cose che «non possono essere diversamente da quelle che sono» e la cui modalità di esistenza è la necessità (ciò è oggetto delle scienze teoretiche), ma le «realtà che possono essere diversamente da quelle che sono», possono «sia essere che non essere» e sono quindi caratterizzate dalla contingenza.3
L’oggetto dello studio dell’etica è il bene umano supremo, il fine che «vogliamo per sé stesso», che è «oggetto della scienza più direttiva e architettonica al sommo grado; e tale è manifestamente la politica» (cfr. Eth. Nic., I, 1, 1094 a 19; 1094 a 26-27; EZA 84-85).
Qui sono in gioco i rapporti umani, che nel loro istituirsi sono etici e si determinano pure in senso politico. Etica e politica mostrano una convergenza fondamentale.
Come ha opportunamente osservato Franco Trabattoni, nel pensiero antico dell’epoca classica non vi è una distinzione netta fra etica e politica; ciò è dovuto probabilmente ad alcuni fattori: «In primo luogo, data la particolare struttura politica in cui era articolato il mondo greco (ossia il sistema delle poleis), il cittadino viveva profondamente immerso nella propria comunità, di cui era parte integrante e spesso attivamente partecipe (in particolare negli stati, come Atene, retti per lunghi periodi dal regime democratico). In questo quadro è ben comprensibile che i comportamenti privati assumessero una valenza pubblica, e che per converso il mondo della politica influisse in modo diretto sulle norme etiche. In secondo luogo, la stessa distinzione tra privato e pubblico, tra la sfera dei rapporti familiari e sociali e quella dei rapporti con le istituzioni, era molto più labile che nel mondo moderno. Infine, i pensatori politici dell’epoca classica, almeno fino ad Aristotele, non percepivano la politica come una attività tecnica dotata di meccanismi e di regole proprie, ma piuttosto come la più alta e completa forma di educazione».4
La dimensione etica, che riguarda in modo più specifico il bene dell’individuo, non può che rinviare ed essere strettamente collegata – pena la ricaduta in un “individualismo” (diremmo con termine moderno) inaccettabile – alla dimensione politica, ossia di un bene non meramente individuale, ma condiviso e condivisibile, comune, pubblico, di tutti. Ecco perché Aristotele scrive: «il bene (agathón) infatti è amabile (agapetón) anche nella dimensione dell’individuo singolo, ma è più bello e più divino (kállion dè kaì theióteron) quando concerne un popolo e delle città. A queste cose tende dunque la trattazione, che è una trattazione di politica» (Eth. Nic., I, 1, 1094 b 8-11; EZA 86-87).
Bene dell’individuo e bene della città sono così per Aristotele indisgiungibili. Abbiamo bisogno delle leggi, delle istituzioni e delle costituzioni statali, perché senza di esse le passioni non possono sottomettersi alla ragione, la massa (ancora oi polloí!) tende a non seguire il lógos, non è possibile alcuna umana convivenza e neppure diventare buoni (cfr. Eth. Nic., X, 10, 1179 b – 1180 a; 1181 b 15-23; EMA 9-10). Come hanno giustamente notato diversi studiosi, sembra che qui assistiamo ad una subordinazione sostanziale dell’etica alla politica. Ma non è così, le cose stanno anzi per noi esattamente al contrario.5
Rileva ad esempio Aristotele: «Studiare il piacere e il dolore compete a chi tratta filosoficamente la politica; questi infatti è architetto del fine (télous architékton), volgendo lo sguardo sul quale diciamo di ogni cosa che è un bene o un male in senso assoluto» (Eth. Nic., VII, 12, 1152 1-3; EZA 682-683). Non il politico, dunque, ma il filosofo politico è «l’architetto del fine» che ha il compito di studiare il piacere e il dolore mirando a stabilire ciò che è bene e ciò che è male in senso essenziale.
Per questi motivi sul rapporto fra etica e politica nello Stagirita concordiamo con ciò che lucidamente scrivono Gauthier e Jolif nella loro monumentale edizione critica dell’Etica Nicomachea: «L’oggetto della morale è il bene supremo dell’individuo; ma, benché essa, a rigore, possa accontentarsi di assicurare questo bene a un solo individuo, preferirà evidentemente assicurarlo a tutti gli individui. Ora, la città non ha altro fine che il bene dell’individuo o, più esattamente – ma ciò non fa alcuna differenza –, la somma dei beni individuali. Dunque la morale, per il fatto stesso che determina il bene dell’individuo, è la politica nel senso forte della parola, la politica architettonica che detta alla città il suo fine; in altri termini, la vera politica è la morale. Il perno di tutta questa argomentazione è l’affermazione dell’identità tra il bene dell’individuo e il bene della città; è l’affermazione di questa identità […] che permette ad Aristotele […] di subordinare la società all’individuo, del quale essa persegue i fini, e della politica alla morale, che ad essa fornisce il fine».6
- L’essenza della politica in Aristotele
Per lo Stagirita, l’uomo è un politikòn zôon (animale politico) che non può vivere isolatamente ed è definito essenzialmente dal suo vivere insieme agli altri: «politikòn gàr o ánthropos kài syzên pephykós» («l’uomo, infatti, è un essere sociale e portato per natura a vivere insieme con gli altri»).7
Riprendendo esplicitamente questa impostazione di Aristotele, a distanza di molti secoli Marx scriverà nella sua Einleitung zur Kritik der politischen Oekonomie (1857): «L’uomo è nel senso più letterale uno zôon politikón, non soltanto un animale sociale, ma un animale che solo nella società riesce ad isolarsi».8
La politica è la anthrópeia philosophía (filosofia delle cose umane) che ha di mira il bene supremo dell’uomo, la sua felicità (eudaimonía), ossia il bene «più compiuto» (con cui si perviene all’autárkeia, autosufficienza da intendere appunto in senso politico; perfezione e autosufficienza sono caratteristiche fondamentali del bene anche per Platone, Filebo 20 d), perché è il bene che realizza il proprio fine (télos) nel massimo grado e non cerchiamo di perseguirlo in vista di altro, ma per sé stesso (cfr. Eth. Nic., X, 10, 1181 b 16; ECA 495; Eth. Nic., I, 5, 1097 a 25-b 22; EZA 102-107; Pol., VII, 5, 1326 b 28-32; PLA 232; Pol., I, 2, 1253 a 2; PLA 6). Che cosa infatti si può volere di più, oltre che essere felici, realizzando la finalità interna alla propria natura?
Essendo la politica la scienza «più direttiva e architettonica al sommo grado» e avendo come fine il bene propriamente umano, il suo fine abbraccerà anche quello di tutte le altre scienze e tecniche (cfr. Eth. Nic., I, 1, 1094 a 22- 1094 b 11).
Se ogni pólis è una comunità che si costituisce in vista del bene comune, il politikós dovrà sempre agire di conseguenza, con un’autorità che si esercita su liberi ed eguali. Il vero uomo di stato non deve dominare (árchein), tiranneggiare o far violenza sui cittadini, ma esercitare il potere secondo giustizia e legalità (cfr. Pol., VII, 2, 1324 b 27-29; PLA 226). Nella realtà storica spesso accade invece che i potenti, «per i proventi che si traggono dai beni comuni e dalla carica, vogliono restare al potere ininterrottamente», mirando a formare delle costituzioni «pervase da spirito di dispotismo, mentre lo stato è comunità di liberi» (cfr. Pol., III, 6, 1279 a 14-22; PLA 83-84).
Quando l’uomo è perfetto è la migliore delle creature, ma è la peggiore fra tutte senza la virtù della giustizia (la dikaiosýne che regge lo stato) e senza il diritto (díke) che ordina la comunità sociale (cfr. Pol., I, 2, 1253 a 30-40; PLA 7; Pol., I, 7, 1255 b 21; PLA 14).
Mostrando insieme le affinità e le differenze con l’impostazione di Platone, all’inizio del II libro della Politica Aristotele osserva che per ricercare la migliore comunità politica occorre studiare tutte le costituzioni, «sia quelle vigenti in alcuni stati, di cui si dice che sono ben governati, sia talune altre esposte da certi pensatori e che hanno fama di essere buone, affinché si scorga quel che v’è di giusto e di utile e insieme non sembri dovuta solo a desiderio di cavillare a ogni costo la ricerca di qualche altra forma diversa da quelle, ma risulti anzi che abbiamo intrapreso quest’indagine proprio perché quelle ora esistenti non vanno bene» (Pol., II, 1260 b 29-35; PLA 31).
Essendo per natura gli uomini animali socievoli, «anche se non hanno bisogno d’aiuto reciproco, desiderano non di meno vivere insieme: non solo, ma pure l’interesse comune li raccoglie, in rapporto alla parte di benessere che ciascuno ne trae. Ed è proprio questo il fine e di tutti in comune e di ciascuno in particolare: ma essi si riuniscono anche per il semplice scopo di vivere e per questo stringono la comunità statale. C’è senza dubbio un elemento di bellezza nel vivere, anche considerato in sé stesso, a meno che non sia gravato oltre misura dai mali dell’esistenza. È chiaro del resto che i più degli uomini sopportano molte avversità perché attaccati alla vita, come se racchiudesse in sé stessa una qualche gioia e dolcezza naturale» (Pol., III, 6, 1278 b 21-31; PLA 82; cfr. anche Eth. Nic., IX, 9, 1270 a 20-1270 b 13). Il discorso circa la dolcezza del vivere e la bellezza della vita vale per lo Stagirita su tutti i piani, sul piano del vissuto individuale e sul piano dell’esistenza collettiva, su quello della philía e su quello della politica.
Più volte Aristotele nella Politica parla dell’esigenza di una «costituzione migliore», alla quale mira pure lui, benché in modo diverso da Platone. Le virtù dominanti nello stato migliore sono le stesse di quelle nominate da Platone nella Repubblica (Resp. IV, 427 e), ossia sapienza, coraggio, temperanza e giustizia, con la sola differenza significativa che Aristotele chiama phrónesis ciò che Platone chiama sophía (cfr. Pol., VII, 1, 1323 a 27-29; PLA 221).
Pure molto platonico è l’invito a non trascurare la necessità dell’educazione allo spirito della costituzione e alla coscienza del valore delle leggi (cfr. Pol., V, 9, 1310 a 13-19; PLA 179-180).9 Così come quello rivolto a concepire lo stato migliore in relazione al primato dell’anima sulle cose e sugli averi, non al primato delle cose e degli averi sull’anima (cfr. Pol., VII, 1, 1323 b 8-37; PLA 222-223).
Ma giustamente è stato da più parti notato che, nel modo in cui nel V libro della Politica lo Stagirita parla di come le tirannidi mantengono il potere, egli manifesta una concretezza, uno spirito realistico e una lucida coscienza della realtà politica che anticipano e ricordano molto da vicino Machiavelli. Lucidità e realismo che risaltano anche nell’osservazione secondo cui «i diversi popoli vanno a caccia della felicità in modo differente e con mezzi differenti, si costruiscono modi di vita diversi e costituzioni diverse» (Pol., VII, 8, 1328 a 41-1328 b 1; PLA 237).
- La felicità della «vita compiuta». Il nesso fra piacere, attività e virtù in Aristotele
Nella Politica Aristotele istituisce un nesso molto stretto tra felicità umana, virtù e politicità. La migliore costituzione è finalizzata alla felicità umana, che non è un semplice habitus, una éxis (disposizione), ma è «perfetta attività e pratica di virtù», «realizzazione e pratica perfetta di virtù» ( cfr. Pol., VII, 13, 1332 a 10; PLA 248; Pol., VII, 8, 1328 a 38; PLA 237; Eth. Nic., X, 6, 1176 a 33-34).
Nell’Etica Nicomachea, in piena consonanza con queste affermazioni, leggiamo che «il bene umano consiste in un’attività dell’anima secondo virtù» (tò anthrópinon agathón psychês enérgeia gínetai kat’aretén. Eth. Nic., I, 6, 1098 a 16-17; EZA 108-109) o che la felicità (eudaimonía) consiste nell’esercizio concreto della ragione, nell’«attività dell’anima conforme a virtù» (Eth. Nic., I, 10, 1099 b 26; EZA 120-121; X, 7, 1177 a 12; EZA 860-861), nell’uso (chrêsis) della «virtù perfetta» (teleía areté. Cfr. Eth. Nic., V, 3, 1129 b 30-31; EZA 326-327) per una vita compiuta.
Ogni essere segue la propria natura, realizza la finalità interna alla propria natura, la propria entelécheia. La perfezione/compiutezza di una vita è il bene supremo dell’uomo e di «vita compiuta» (bíos teleíos) parla esplicitamente Aristotele allorché scrive che «una rondine non fa primavera» e a proposito di una vita non caratterizzata dalla episodicità, ma sorretta costantemente, giorno dopo giorno, dall’impegno della ragione e della buona volontà (cfr. Eth. Nic., I, 6, 1098 a 18-19; EZA 108-109).
Il termine kalokagathía – così importante non solo per il nostro autore, ma per tutta la cultura greca – esprime tale compiutezza e compare due volte nell’Etica Nicomachea, una volta alla fine dell’opera (cfr. Eth. Nic., X, 10, 1179 b 10) e un’altra allorché si tratta della megalopsychía (magnanimità). Qui (cfr. Eth. Nic., IV, 7, 1124 a 3-4) lo Stagirita rileva che non si può essere magnanimi senza la kalokagathía, parola di difficile traduzione che indica la bellezza morale, la perfezione della virtù, un’idea unitaria di perfezione che comprende in modo strettamente congiunto la bellezza e la bontà.
Il fine di tutte le azioni che si compiono è il «bene realizzabile nella prassi» (tò praktòn agathón, Eth. Nic., I, 5, 1097 a 23; EZA 102-103).
Mentre in Platone il bene (tò agathón) è la suprema fra le idee e la realtà umana è orientata verso di esso senza mai poterlo attingere pienamente, per Aristotele (che non manca di fare dell’ironia sul «bene in sé» di Platone e dei platonici, cfr. Eth. Nic., VIII, 7, 1158 a 24-25)10 il bene umano autentico, il «più compiuto» (tò teleiótaton) va concretamente vissuto e praticato, è attuabile, consiste nel fine che si vuole di per sé stesso e non in vista di altro, ossia nella felicità (cfr. Eth. Nic., I, 5, 1097 a 25-1097 b 1; EZA 102-105), la quale non si risolve in una vita spesa all’inseguimento incessante e affannoso di piaceri, lucro, onori, ricchezze, poteri.
Contrariamente all’opinione dominante, la ricchezza, in particolare, non può essere altro che un mezzo e non può dare da sola la felicità, la quale ha certamente bisogno di beni esteriori e di mezzi, di condizioni strumentali favorevoli, ma non va confusa con essi.
Identificata la felicità col bene supremo, non è però ancora chiaro in che cosa essa consista; otteniamo una maggiore chiarezza se rispondiamo alla domanda difficile circa la funzione (érgon) specifica dell’uomo, che Aristotele, recuperando criticamente la concezione socratico-platonica dell’essenza dell’uomo come anima razionale, ravvisa nella capacità di pensare e di agire secondo ragione (cfr. Eth. Nic., I, 6, 1097 b 22-1098 a 20).
La eudaimonía non può darsi senza virtù come la moderazione (sophrosýne) e il coraggio (andreía), che non necessitano di eccesso o difetto, ma della mesótes, del giusto mezzo, della via di mezzo che non significa in alcun modo mediocrità. Anzi, la mesótes, sapendo evitare ciò che ci danneggia in un senso o in un altro, per eccesso o per difetto, rappresenta un vertice di perfezione e di eccellenza (tò áriston. Cfr. Eth. Nic., II, 6, 1107 a 7-8; EZA 166-167; Eth. Nic., II, 6, 1106 b 16-23; EZA 164-165).
Vedremo più avanti come la teleía eudaimonía (felicità perfetta) vada per Aristotele al di là dei confini dell’etica. Per il momento, soffermiamoci ancora sul fatto che la felicità per lo Stagirita implica il piacere (egli fa derivare makários, beato, da mála chaírein, gioire molto) e che il filosofo politico, come «architetto del fine», ha il compito di indagare di ogni cosa ciò che è bene e ciò che è male in senso assoluto, nella consapevolezza che la virtù e il vizio concernono i piaceri e i dolori (cfr. Eth. Nic., VII, 12, 1152 b 1-7; ECA 393-394).
Come ha messo bene in luce Claudio Mazzarelli, circa il tema del piacere nell’Etica Nicomachea (cui sono dedicati i capitoli 11-14 del libro VII e i capitoli 1-5 del libro X), Aristotele deve molto al Platone del Filebo, «non solo nella impostazione dei problemi, ma, talora, anche nelle soluzioni».11
Non possiamo qui addentrarci nei complessi riferimenti (oltre ovviamente a Platone, si pensi ad esempio alle tesi sul piacere di Aristippo, Eudosso, Antistene, Speusippo) e nelle mille sottigliezze del pensiero aristotelico nel merito della questione.
Limitiamoci allora a dire che per lo Stagirita piacere e dolore investono l’etica in quanto accompagnano costantemente la nostra vita e pesano fortemente sulla virtù e sulla vita felice. In qualsiasi campo coloro che operano con piacere pervengono a migliori risultati. Platone e Aristotele non condividono però la convinzione propria della teoria edonistica secondo cui tutti i piaceri hanno una natura identica e quindi sono tutti buoni (cfr. Platone, Filebo, 12 d-e; 13 c).
I due grandi filosofi sottolineano la diversità dei piaceri, diversità che secondo Platone è di natura ontologica, secondo Aristotele di natura etica. Per quest’ultimo i piaceri non sono tutti uguali e tutti buoni, perché alcuni alimentano l’attività, altri la ostacolano; essi sono buoni o cattivi per il fatto di conseguire a un’attività virtuosa o viziosa (cfr. Eth. Nic., X, 5, 1175 b 24-28; EZA 852-853; cfr. anche le note 2, 8 e 10 del commento di Zanatta, EZA 1095-1096).
Vi è un peculiare “edonismo” di Aristotele, un vivo senso del piacere, mai legato a sfrenatezze ed eccessi, del tutto lontano da ogni edonismo esasperato ed estenuato. L’uomo moderato e saggio (o sóphron) gioisce secondo la «retta regola» (orthós lógos. Cfr. Eth. Nic., III, 14, 1119 a 20).
I piaceri sani e genuini della vita sono attività (enérgeia) «non impedita», liberamente esercitata e fine (télos), corrispondono all’uso appropriato della vita: «I piaceri, infatti, non sono un divenire né si accompagnano tutti a un divenire ma sono attività e fine; e non si hanno nel corso del divenire, ma dell’uso; e non di tutti i piaceri il fine è qualcosa di diverso da essi, ma lo è quello dei piaceri di coloro che sono ricondotti alla perfezione della loro natura» (cfr. Eth. Nic., VII, 13, 1153 a 9-15; ECA 396; cfr. anche Pol., IV, 11, 1295 a 36-37; PLA 135).
Il piacere è un elemento di perfezionamento dell’attività conforme a natura; esso accompagna necessariamente ogni attività che venga esercitata secondo la sua propria natura, anzi si risolve in questa stessa attività, nell’esercizio della virtù: «Il piacere rende perfetta l’attività (teleioî dè tèn enérgeian e edoné). […] Il piacere perfeziona […] l’attività non come la perfeziona la disposizione immanente, ma come una sorta di fine che viene ad aggiungersi in sovrappiù, come ad esempio a coloro che sono nel vigore dell’età (akmaíois) si aggiunge la bellezza» (cfr. Eth. Nic., X, 4, 1174 b 23, 31-33; EZA 844-847).
Tutti i viventi, a partire dalla tensione vitale che li caratterizza, dalla tendenza naturale alla soddisfazione, desiderano il piacere. Non è umana l’insensibilità (anaisthesía) ai piaceri: «Persone che peccano per difetto in quel che concerne i piaceri e che si dilettano meno di quel che si deve non esistono proprio: infatti non è umana una tale insensibilità» (Eth. Nic., III, 14, 1119 a 5-7; EZA 246-249; cfr. anche Eth. Nic., II, 7, 1107 b 6-8).
Chiarire interamente il rapporto fra vita e piacere è possibile solo fino a un certo punto, ma il nesso stretto fra di essi è indubbio: «Se sia il piacere la causa per la quale scegliamo il vivere, o se sia il vivere la causa per la quale scegliamo il piacere, tralasciamo in questo momento. Vita e piacere sono infatti, in tutta evidenza, strettamente connessi e non ne è possibile una separazione, giacché senza attività non vi è piacere ed il piacere rende perfetta ogni attività» (Eth. Nic., X, 5, 1175 a 18-21; EZA 848-849).12
- Più di tutto l’oro di Dario. Necessità e bellezza della philía in Aristotele
Per una vita felice e davvero degna dell’uomo non bastano i beni materiali, le ricchezze, gli onori, la fama, i poteri. Per le persone felici e virtuose occorrono gli amici che, nel loro essere altrettanto virtuosi, risultano anche piacevoli e utili (cfr. Eth. Nic., VIII, 7, 1158 a 22-28, 33-34).
In piena linea di continuità con queste posizioni dello Stagirita appare l’alta consapevolezza del valore dell’amicizia che ebbe nel secolo dei Lumi Gotthold Ephraim Lessing, ad esempio nel primo dialogo di Ernst und Falk. Gespräche für Freimäuer (1778-1780): «Nichts geht über das Lautdenken mit einem Freunde» («Nulla vale più del pensare ad alta voce con un amico»).13
Aristotele dedica al tema dell’amicizia (philía) gli splendidi e inesauribili libri VIII e IX dell’Etica Nicomachea. Lucia Caiani pone un’avvertenza essenziale alla traduzione italiana del greco philía con amicizia: «Il termine greco philía ha un valore semantico più estensivo dell’italiano ‘amicizia’, con il quale l’abbiamo tradotto, ed esprime i sentimenti di affetto, di amore, di benevolenza verso gli altri; ossia (per usare una frase del Tricot…) ‘ c’est en somme l’altruisme, la sociabilité’. In connessione con philía troviamo l’aggettivo phílos, che può avere valore sia attivo che passivo ed indica tanto ‘colui che ama’ quanto ‘colui che è a sua volta amato’ (cfr. in proposito la definizione di Rhet., II, 4, 1381 a 1: phílos …estìn o philôn kaì antiphiloúmenos ‘amico…è colui che ama e che è a sua volta amato’)».14
In qualsiasi modo cerchiamo di definire l’amicizia, sappiamo che ogni definizione di essa non può che essere provvisoria, problematica e aperta, perché – come scrive Siegfried Kracauer in Ueber die Freundschaft (1917-1918) – essa presenta una «ricchezza insofferente del misero recipiente di una parola».15
Tenendo presente che per Aristotele la virtù (areté) è una éxis proairetiké (disposizione alla scelta), l’amicizia assomiglia a una disposizione (éxis) che, a differenza della passione (páthos), si accompagna ad una scelta deliberata (proaíresis. Cfr. Eth. Nic., II, 6, 1106 b 36; VI, 2, 1139 a 22-23; VIII, 7, 1157 b 28-31).
Lo Stagirita sottolinea a più riprese la necessità e la bellezza dell’amicizia (cfr. ad es. Eth. Nic., VIII, 1, 1155 a 4-6, 28-31; EZA 702-705), la quale si realizza meglio (si vedano i capitoli 12-13 del libro VIII dell’Etica Nicomachea) in una comunità politica, quando vi è qualcosa in comune da vivere, condividendo beni e interessi.
Il nesso qui istituito fra amicizia e politica, fra amicizia e giustizia è molto forte. Benevolenza (eúnoia, a cui è dedicato il capitolo 5 del libro IX) e concordia (omónoia, a cui è dedicato il capitolo 6 del libro IX) sembrano il punto di partenza dell’amicizia, ne preparano il terreno, ma non sono da confondere con essa, perché valgono soprattutto sul terreno sociale-politico.
La benevolenza non è da confondere con la phílesis (l’affetto), perché manca della tensione e del desiderio propri di essa, sorge anche per gli sconosciuti e manca dell’intensità propria della philía, della quale è però la condizione imprescindibile; la concordia sussiste fra i cittadini virtuosi non rivolti alla difesa dei meri vantaggi personali, è simile all’amicizia e si avvicina ad essa, ma è solo una «amicizia politica» (politiké philía), avente per oggetto gli interessi comuni dei cittadini e tutto ciò che riguarda la vita della pólis.16
Lo Stagirita non assume mai una posizione ingenuamente ottimistica, anzi mostra sempre notevole realismo e lucidità nel riconoscere che innumerevoli sono i mali e i dolori che tormentano la vita degli uomini, nel precisare che la maggior parte dei mortali preferisce ricevere benefici, ma si guarda bene dal compierne, «è priva di memoria e tende a ricevere il bene piuttosto che a farlo» (cfr. Eth. Nic., VIII, 16, 1163 b 28-29; IX, 7, 1167 b 26-27).
Il capitolo 2 del libro VIII dell’Etica Nicomachea prende l’avvio con un riferimento al Liside, il dialogo in cui Platone mette in bocca a Socrate l’affermazione secondo cui l’amicizia è da preferire a tutto l’oro di Dario (cfr. Liside, 211e-212 a). Aristotele riprende esplicitamente dal Platone del Liside la questione se l’amicizia sia fondata sulla somiglianza o sulla dissomiglianza degli amici. A questo proposito sia Platone sia Aristotele citano un celebre verso di Omero: «sempre il dio mena il simile al suo simile» (Odissea, XVII, 218).
Com’è noto, la conclusione del Liside (cfr. Liside, 222 d-223 b) ribadisce da un lato il valore dell’amicizia e dall’altro l’incapacità di trovare una soddisfacente definizione di essa. Forse uno dei motivi delle impasses del Liside consiste nel fatto che il suo autore non coglie – tale aspetto, peraltro, non verrà colto, mi sembra, nemmeno dallo stesso Stagirita in seguito – il valore dell’amicizia nella ricchezza della differenza capace di veicolare la reciprocità dell’affetto, della stima e della necessità degli amici. Dagli interrogativi e dai punti irrisolti del Liside riparte comunque Aristotele, pervenendo – diciamolo subito – alla conclusione che l’amicizia è fondata sulla somiglianza degli amici nella virtù.
E’ importante per lo Stagirita stabilire che cosa è tò philetón, ossia ciò che è amabile, è oggetto o suscettibile di amicizia, ciò per cui si ama quello che viene amato. In linea di principio, amabile, attraverso la mutua benevolentia e l’intimità degli amici, è il bene (tò agathón) e solo esso, ma di fatto gli uomini amano ciò che a essi sembra bene, «un amabile apparente» (tò philetón phainómenon. Cfr. Eth. Nic., VIII, 2, 1155 b 26-27; EZA 708-709).
- Le forme dell’amicizia secondo Aristotele e la teleía philía
Nelle tre principali forme che secondo Aristotele assume l’amicizia – secondo l’utile, secondo il piacere e secondo il bene o la virtù –, gli uomini amano ciò che ad essi sembra amabile, l’«amabile apparente».
Qui va sottolineato che questa celebre distinzione aristotelica tra le forme essenziali della philía (cfr. Eth. Nic., VIII, 3) ha molto da dirci anche oggi, se ad esempio pensiamo al fatto che l’amicizia secondo l’utile mostra un evidente filo di continuità con la ratio strumentale calcolante imperante nella civiltà moderna e contemporanea, non solo nell’ideologia borghese-capitalistica, liberista o neo-liberista che sia. Inoltre, l’amicizia secondo il piacere può essere facilmente collegata all’edonismo superficiale e disinvolto della società sirenico-spettacolare odierna, in cui trova sicuramente un suo forte revival.
Nelle amicizie secondo l’utile e secondo il piacere, l’amico – o, sarebbe meglio dire, il cosiddetto amico – non viene amato per quello che è in sé stesso, ma, appunto, per l’utile o per il piacere che procura, perciò esse sono accidentali (katà symbebekós, cfr. Eth. Nic., VIII, 3, 1156 a 14-19; VIII, 4, 1156 b 10-11; VIII, 6, 1157 b 1-5)17 e spesso effimere, non durature e sostanziali.
L’amicizia perfetta (teleía philía) è quella di coloro che sono buoni e simili nella virtù, è quella del tutto priva di invidia,18 in cui si ama l’amico per sé stesso: «L’amicizia dei buoni, vale a dire di coloro che sono simili in virtù, è perfetta. Questi infatti, in quanto buoni, vogliono in ugual modo l’uno ciò che è bene per l’altro, e buoni essi sono di per sé stessi» (Teleía d’estìn e tôn agathôn philía kaì kat’aretèn omoíon. Oûtoi gàr tagathà omoíos boúlontai allélois e agathoí, agathoì d’eisì kath’autoús. Eth. Nic., VIII, 4, 1156 b 7-9; EZA 712-713).19
La somiglianza degli amici nella virtù non li rende identici e indistinguibili come due gocce d’acqua, ma salvaguarda la fruttuosa differenza tra di essi. L’amicizia perfetta – in cui gli amici si accettano e si amano per quello che sono, così come sono – è duratura (almeno sino a quando i buoni rimangono tali; la virtù di solito è durevole, non capricciosa), massimamente utile e piacevole, ma pure molto rara (pochi infatti sono sempre i veri amici) e bisognosa di tempo (le persone non si conoscono bene in poco tempo e con una scarsa frequentazione) per realizzarsi e consolidarsi.
Il realismo e la lucidità di Aristotele qui avvertono che non «è possibile accogliere qualcuno nella propria amicizia né essere amici prima che ciascuno si sia mostrato amabile all’altro ed abbia ottenuto fiducia. Coloro che instaurano rapidamente tra loro i vincoli dell’amicizia, vogliono essere amici, ma non lo sono se non sono anche degni d’amore e lo sanno. Infatti il desiderio di amicizia sorge rapidamente, ma l’amicizia no» (Boúlesis mèn gàr tacheîa philías gínetai, philía d’oú. Eth. Nic., VIII, 4, 1156 b 28-32; EZA 714-717).
La philía degli agathoí non è katà symbebekós, tende a essere più solida e stabile, perché si ama l’altro innanzitutto per quello che egli è e non per quello che ci può dare in termini di utilità e piacere.
I buoni, «amando l’amico, amano ciò che è bene per loro stessi, giacché l’uomo buono, diventando amico, diventa un bene per colui al quale è amico» (Eth. Nic., VIII, 7, 1157 b 33-34; EZA 722-723).
Tali individui – rileva ancora Kracauer – «sono simili alla pietra di luna, nella quale affiorano sempre più colori man mano che lo sguardo vi si immerge. In loro è insita una profondità che non si può attingere con le parole, e ogni persona che entra in contatto con loro percepisce – spesso in un sorriso o in una parola densa di richiami – la ricchezza della loro natura».20
La forma migliore di amicizia, fondata sul bene o sulla virtù, sancisce il primato del rispetto e della fiducia, del dialogo (cfr. Eth. Nic., VIII, 6, 1157 b 11-13) e dell’intimità, del vivere insieme (tò syzên) e dell’essere, dell’affetto e dell’intenzione, della reciproca benevolenza e della libera comunicazione sull’avere, sul calcolo, sull’utile, sul vantaggio, sul divertimento, sul piacere, tutti aspetti, peraltro, che almeno parzialmente sono o possono essere presenti anche in ogni vera amicizia, ma in modo secondario.
Secondo Giorgio Agamben, il convivere proprio dell’amicizia è definito «da una condivisione puramente esistenziale e, per così dire, senza oggetto: l’amicizia, come con-sentimento del puro fatto di essere. Gli amici non condividono qualcosa (una nascita, una legge, un luogo, un gusto): essi sono con-divisi dall’esperienza dell’amicizia. L’amicizia è la condivisione che precede ogni divisione, perché ciò che ha da spartire è il fatto stesso di esistere, la vita stessa. Ed è questa spartizione senza oggetto, questo con-sentire originale che costituisce la politica».21
L’amicizia autentica non è di natura puramente oblativa né puramente ricettiva, non è mero éros né mera agápe, né mero dono né mero desiderio, ma è un insieme di dono e desiderio, dare e ricevere, un rapporto libero dal dominio e dalla costrizione.
Rilevano a questo proposito Gauthier e Jolif: «Il virtuoso, precisamente perché è virtuoso e perché amare fa parte della virtù, non potrà essere amico di un uomo meno virtuoso di lui, giacché non potrebbe amarlo nella stessa misura in cui è amato, ma potrà essere amico soltanto di un uomo virtuoso come lui, che egli amerà così come ama sé stesso. Aristotele non ha neppure supposto l’esistenza dell’amore-agápe. Se l’egocentrismo dell’éros si trova, nella sua concezione della philía, un poco corretto, questo non è per un annuncio, sia pur lontano, dell’agápe, ma esclusivamente per l’esigenza di reciprocità che vi è inclusa. La philía non è dono gratuito, non si tratta di donare senza ricevere; ma essa non è neppure puro desiderio, non riceve senza donare: misto di dono e di desiderio, essa ricambia ciò che riceve, ed è per questo che non è né, come l’éros, l’amore dell’inferiore per il superiore, né, come l’agápe, l’amore del superiore per l’inferiore, ma, propriamente parlando, l’amore dell’uguale per l’uguale, amore disinteressato nel senso che non richiede come prezzo del suo amore stesso che dell’amore, ma che non è per nulla meno uno scambio, giacché lo scambio per Aristotele è della stessa natura dell’amicizia».22
L’amicizia virtuosa è disinteressata e duratura perché qui gli amici amano i loro caratteri, il loro êthos, si amano l’un l’altro per sé stessi, per la loro personalità e non in vista di altro (cfr. Eth. Nic., IX, 1, 1164 a 10-13). Il buono non solo vuole, ma agisce concretamente per il proprio bene e per il bene dell’amico.
- La philía tra egoismo e altruismo
Nel capitolo 4 del libro IX dell’Etica Nicomachea Aristotele avvia l’analisi di quelli che chiama tà philiká, i tratti caratterizzanti l’amicizia dell’uomo virtuoso (o epieikés oppure o agathós). I philiká sono cinque, rivolti pròs éteron («verso l’altro») e altrettanti rivolti pròs eautón («verso sé stesso»).
Il virtuoso vuole infatti fare del bene all’amico e a sé stesso, augura una lunga vita all’amico e a sé stesso, ama vivere in compagnia dell’amico e di sé stesso, condivide le opinioni e i gusti con gli amici, sperimenta gioie e dolori con l’amico e sulla propria pelle (sui philiká cfr. tra l’altro ECA 443, nota 35; EZA 1047-1049). Per lo Stagirita c’è una corrispondenza tra i sentimenti d’amicizia che l’uomo virtuoso prova verso sé stesso e i sentimenti di amicizia che prova verso gli altri.
Il discorso aristotelico sulla philía ci aiuta ancor oggi a gettar nuova luce sulle controverse questioni concernenti l’egoismo e l’altruismo. Abbiamo già osservato che l’amicizia autentica non è affatto invidiosa e comporta anzi la volontà di fare ciò che è bene per l’amico (cfr. Eth. Nic., VIII, 2, 1155 b 31), senza però dimenticare che autô gàr málisth’ékastos boúletai tagathá («è soprattutto per sé stesso che ciascuno vuole ciò che è bene», Eth. Nic., VIII, 9, 1159 a 12; EZA 732-733; cfr. anche Eth. Nic., IX, 8). Questo stesso bene che riserva a sé stesso, il virtuoso lo riserva anche all’amico, ésti gàr o phílos állos autós (giacché l’amico è un altro sé stesso. Cfr. Eth. Nic., IX, 4, 1166 a 31-32; EZA 784-785; IX, 9, 1169 b 6-7; IX, 9, 1170 b 6-7).
E’ questa la fondamentale dimensione egoistica della philía aristotelica, sottolineata anche da studiosi come il Tricot – per il quale la philía si fonda sull’egoismo dell’uomo virtuoso che si confonde con l’altruismo (infatti o agathós «nei rapporti con l’amico sta come nei rapporti con sé stesso», pròs dè tòn phílon échein ósper pròs autón, Eth. Nic., IX, 4, 1166 a 30-31; EZA 784-785) – e come il Robin – per il quale il luogo sorgivo dell’altruismo nell’Etica Nicomachea è l’egoismo del buono che si estende fuori di sé con una sorta di «irraggiamento».23
Si tratta qui di un egoismo ben diverso dall’egoismo meschino e miope, perché l’egoismo del virtuoso (su cui si veda fra l’altro l’«Introduzione» di Marcello Zanatta, cfr. EZA 66-67)24 corrisponde all’amore bene inteso di sé, che vuole trasferire e proiettare il sano e necessario amore di sé anche all’altro e assume quindi i tratti dell’altruismo. Il vero amico è quello del phílautos che coltiva i sentimenti d’amicizia (i philiká) con gli altri a partire dal rapporto che ha con sé stesso, dall’amore sacrosanto e ineludibile di sé (cfr. Eth. Nic., IX, 8, 1168 b 1-10). L’egoismo più diffuso, quello biasimevole e meschino della moltitudine, è di chi antepone sempre e comunque i propri interessi a tutto il resto, mirando solo ad accumulare quanti più onori, ricchezze, poteri, piaceri corporei possibili.
L’egoismo sano del phílautos – come lo definirà anche Nietzsche in Also sprach Zarathustra (1883-1885), differenziandolo da quello «malato» – asseconda il suo vero sé, ama e coltiva la parte migliore di sé (tò kyriótaton, ossia il noûs. Cfr. Eth. Nic., IX, 8, 1168 b 30), non è akratés («che non si domina»), ma enkratés («temperante», inteso come «colui che domina su di sé», cfr. Eth. Nic., IX, 8, 1168 b 34-35), sa padroneggiare e controllare le sue passioni, presuppone un profondo dialogo interiore di sé con sé stesso, ricerca la bellezza morale (tò kalón), la stima in sé e negli altri, soppesa i veri grandi beni dell’esistenza, coltiva saggezza, senso della misura e del limite, uso della ragione.
Tale egoismo del virtuoso non costituisce un impedimento al rapporto con gli altri e un motivo di conflitto, ma, al contrario, agisce anche a loro vantaggio, si confonde con l’altruismo, è l’unica via per incontrare davvero l’altro. Uno splendido detto del buddhismo appare in grande consonanza con tutto ciò: «badando a sé stessi si bada agli altri, badando agli altri si bada a sé stessi».25
I veri amici sono phílautoi (egoisti o «amanti di sé»), nel senso che non fanno nulla che prescinda da sé stessi: essi vogliono e fanno il bene dei loro amici a partire da sé stessi, dal giusto e necessario amore che hanno per sé stessi.
L’uomo virtuoso ha addirittura il dovere di essere phílautos nel senso che abbiamo chiarito, perché in tal modo, sviluppando appieno le proprie potenzialità, qualità, capacità ed energie, gioverà a sé stesso compiendo belle azioni e sarà nel contempo generoso, utile agli altri, sino al punto di sacrificare talvolta la vita – se necessario – per il bene comune (cfr. Eth. Nic., IX, 8, 1169 a 3-20).
Sicuramente la vicinanza interiore, il dialogo fecondo, la confidenza intima, la partecipazione profonda caratterizzano questa modalità di philía. Gli esiti positivi dell’agire dei phílautoi si riscontrano sia nella sfera privata sia nella comunità, nel campo dell’agire sociale e pubblico. Delle cose belle amate dal phílautos fa parte anche la capacità di aiutare e di donare (Von der schenkenden Tugend, Della virtù che dona è non a caso il titolo dell’ultimo capitolo della Parte Prima di Also sprach Zarathustra di Friedrich Nietzsche).26
L’egoismo del virtuoso si fonde così indubbiamente con l’altruismo, con la disponibilità ad aiutare e a favorire gli altri. La sua attività – il suo compiere delle azioni – è l’attuazione delle proprie potenzialità che è in piena armonia con l’attuazione delle potenzialità altrui. Bisogna dunque essere “egoisti”, amanti di sé nel modo giusto.
Ciò vale anche per Spinoza, che sulla scia di Aristotele e nel pieno rispetto dello spirito autentico del suo pensiero, scrive mirabilmente nella sua Ethica ordine geometrico demonstrata (IV, 18): «Poiché la ragione nulla esige che sia contro natura, essa dunque esige che ognuno ami sé stesso, ricerchi il proprio utile, ciò che davvero è utile, e appetisca tutto ciò che conduce l’uomo ad una maggiore perfezione, e, in senso assoluto, che ognuno si sforzi di conservare il proprio essere per quanto dipende da lui. E questo è così necessariamente vero come è vero che il tutto è più grande della parte. […] All’uomo niente è più utile dell’uomo; gli uomini, cioè, non possono desiderare per la conservazione del proprio essere niente di più eccellente se non che tutti concordino in tutto, in modo che le menti e i corpi formino quasi una sola mente e un solo corpo, e tutti si sforzino insieme, per quanto possono, di conservare il proprio essere, e tutti insieme cerchino per sé l’utile comune; da questo segue che gli uomini, che siano guidati dalla ragione, cioè quelli che ricercano il proprio utile con la guida della ragione, non bramino per sé niente che non desiderino anche per gli altri, e perciò sono giusti, onesti e fedeli».27
- L’amicizia, la condivisione della vita e la dolcezza dell’esistere
Perché l’uomo virtuoso e felice ha bisogno degli amici, lui che sa star da solo ed è capace di autosufficienza (autárkeia), sia pure sempre relativa e mai assoluta? Per cominciare a rispondere dobbiamo riferirci a ciò che – come abbiamo visto nelle pagine precedenti – più volte ribadisce Aristotele nell’Etica Nicomachea e nella Politica circa l’essere dell’uomo inteso come animale sociale e politico.
L’uomo virtuoso e felice non può essere altro che un animale sociale, politico e culturale, incline al vivere sociale e bisognoso di amicizia. Per lo Stagirita la felicità (eudaimonía) è una sorta di attività (enérgeia) consistente nel vivere necessariamente insieme agli altri; si tratta di agire, di essere attivi in modo stimolante, piacevole e fruttuoso per sé e per gli altri.
Il vero e più profondo godimento dei beni non può essere un fatto meramente solitario, ma si dà attraverso la dolcezza naturale del vivere in società; delle cose belle e buone dell’esistenza si gioisce meglio insieme agli amici che provano un reciproco piacere e una reciproca volontà di amarsi, senza tutti quegli inutili risentimenti, invidie, meschinità e perfidie che avvelenano soltanto la vita.
Per gli esseri umani il vivere si definisce fondamentalmente con le facoltà della sensazione e del pensiero, ricordando che la dýnamis (facoltà, potenza) va sempre ricondotta all’elemento essenziale dell’enérgeia (attività, atto).
Vivere (tò zên), nel suo senso più pieno e profondo, equivale per lo Stagirita a sentire (aisthánesthai) e a pensare (noeîn) e tutto ciò è di per sé cosa buona e piacevole (cfr. Eth. Nic., IX, 9, 1170 a 19-26). Noi umani non soltanto svolgiamo tutte le nostre attività (il vedere, l’udire, il camminare, il pensare, etc.), ma siamo coscienti di svolgerle e proviamo piacere in esse: «esistere (tò eînai) significa infatti sentire e pensare. Sentire che viviamo è di per sé dolce, poiché la vita è per natura un bene (phýsei gàr agathòn zoé) ed è dolce sentire che un tale bene ci appartiene. Vivere è desiderabile, soprattutto per i buoni, poiché per essi esistere è un bene e una cosa dolce.
Con-sentendo (synaisthanómenoi) provano dolcezza per il bene in sé, e ciò che l’uomo buono prova rispetto a sé, lo prova anche rispetto all’amico: l’amico è, infatti, un altro sé stesso (éteros gàr autòs o phílos estín). E come, per ciascuno, il fatto stesso di esistere (tò autòn eînai) è desiderabile, così – o quasi – è per l’amico.
L’esistenza è desiderabile perché si sente che essa è una cosa buona e questa sensazione (aísthesis) è in sé dolce. Anche per l’amico si dovrà allora con-sentire che egli esiste e questo avviene nel convivere e nell’avere in comune (koinoneîn) discorsi e pensieri. In questo senso si dice che gli uomini convivono (syzên) e non, come per il bestiame, che condividono il pascolo» (Eth. Nic., IX, 9, 1170 a 33 – 1170 b 14).
La presa di coscienza non solo della nostra esistenza (di che cosa vuol dire per noi vivere), ma anche dell’esistenza degli amici e degli altri (di che cosa significa per loro stessi e per noi l’esistenza degli amici e degli altri) non può essere qui più netta e radicale. Massima è qui davvero l’apertura a un sentimento positivo dell’esistenza capace di investire col suo soffio energetico e accogliente tutti gli ambiti della vita quotidiana.
Desiderabile e piacevole è la compagnia degli amici, che sperimentano e avvertono assieme a noi i beni del sentire e del pensare, la piacevolezza dell’esistere, la comunanza dei pensieri, delle azioni e dei discorsi.
Così commenta Agamben queste indicazioni aristoteliche: «L’amicizia è l’istanza di questo con-sentimento dell’esistenza dell’amico nel sentimento dell’esistenza propria. Ma questo significa che l’amicizia ha un rango ontologico e, insieme, politico. […] L’amico non è un altro io, ma una alterità immanente nella stessità, un divenir altro dello stesso. Nel punto in cui io percepisco la mia esistenza come dolce, la mia sensazione è attraversata da un con-sentire che la disloca e deporta verso l’amico, verso l’altro stesso. L’amicizia è questa desoggettivazione nel cuore stesso della sensazione più intima di sé».28
Se la vita è naturalmente bella e orientata al piacere (cfr. Eth. Nic., X, 4, 1175 a 10-17) e se vivere insieme (syzên) è fondamentalmente con-sentire (synaisthánesthai), Aristotele può affermare con risolutezza che la philía è koinonía (comunione. Cfr. Eth. Nic., IX, 12, 1171 b 32-35; VIII, 11, 1159 b 31-32; VIII, 14, 1161 b 11), come condivisione delle dolcezze dell’esistenza e, aggiungiamo noi, pure delle sue pene, dei suoi immensi dolori.
Gli amici sono infatti necessari sia nelle situazioni di prosperità e positività sia nelle situazioni di avversità e negatività. Anche il buddhismo parla mirabilmente di Karuna – compassione, intesa come capacità di partecipare ai dolori altrui – e di Mudita – con-gioire, il Mitfreuden di Nietzsche, inteso come capacità di partecipare alle gioie altrui, senza alcuna invidia e bassezza.
La philía è koinonía, nel senso di una comunione esistenziale ed affettiva, in cui la fraternità dell’amicizia, purtroppo rara, rincuora per quanto possibile la vita fragile dei mortali. Ciò che importa è il modo, l’animo con cui gli amici ci sono vicini nelle sofferenze e nelle cose piacevoli.
Scrive a questo proposito Aristotele, esaltando pure la parresía, già indicata da Euripide nello Ione e nell’Ippolito come caratteristica saliente del cittadino e dell’uomo libero: «Verso i compagni e i fratelli occorre usare libertà di parola (parresía) e comunanza di ogni cosa» (Eth. Nic., IX, 2, 1165 a 29-30. Sul parresiastés cfr. anche Eth. Nic., IV, 8, 1124 b 29).
In Das zeugende Gespräch (Il dialogo fecondo, 1923), Kracauer parla del dialogo profondo proprio dell’amicizia, che produce mutamenti sostanziali nei soggetti coinvolti, diventa processo e unione esistenziale, un «con-vivere» in cui gli individui, mantenendo la loro piena libertà e l’autonomia della personalità, «esercitando reciprocamente un’azione maieutica, avanzano l’uno grazie all’altro nella loro esistenza».29
Ora, il dialogo degli amici non è di per sé l’assoluto, la verità intesa come dato oggettivo e definitivo, ma è un percorso, l’esperienza di un cammino, una tappa che avvicina i viandanti alla verità, senza poterla possedere, ma respirandone l’atmosfera.
Non può esserci philía se non vi è qualcosa in comune (tò koinón) tra gli umani e quanto «più comune è la vita» (koinóteros o bíos. Cfr. Eth. Nic., VIII, 14, 1162 a 7-9) tanto più l’amicizia è piacevole e utile.
Qui siamo ancora ben lontani dalla metafisica della soggettività illimitata coltivata dall’idealismo e massicciamente presente o serpeggiante nella storia della filosofia occidentale. Emerge invece un sano senso del vivere, del sentire e del pensare, dell’esistere e dell’essere, sotto il segno della misura e del limite, nell’ambito del destino a noi concesso.
- Saggezza e sapienza in Aristotele
Come si sa, essendo le virtù dianoetiche superiori a quelle etiche, per Aristotele la sapienza (sophía) è superiore alla saggezza (phrónesis) – forma di intelligenza pratica che indirizza l’azione nell’ambito dei beni umani – e la felicità trova la sua massima realizzazione nell’esercizio della sapienza. La felicità è infatti «attività secondo virtù» (kat’aretèn enérgeia); ora, la virtù più alta è ciò che in noi vi è di migliore, l’intelletto (noûs) o comunque vogliamo definire qualcosa che in noi ha conoscenza delle verità più alte, di tutto ciò che vi è di bello e divino, «o perché è in sé stessa divina, o perché è la cosa più divina (tò theiótaton) di ciò che è in noi»; tale attività non può essere che la theoretiké enérgeia (attività contemplativa), che costituisce la «felicità perfetta» (teleía eudaimonía. Cfr. Eth. Nic., X, 7, 1177 a 12-18; EZA 860-863).
Questa attività è la più elevata per vari motivi: perché è l’attività della parte in noi più alta, è la più continua, la più piacevole, la più autosufficiente, la più amata per sé stessa. Anche il sophós (sapiente) ha bisogno delle cose necessarie per l’esistenza ed è meglio se ha dei collaboratori attorno a sé, ma egli – rispetto al sóphron (saggio) che esercita la saggezza nel rapporto con gli altri – anche da solo è perfettamente capace di theoreîn (contemplare) ed è quindi massimamente autosufficiente (autarkéstatos), lontano dagli affari e dagli impegni pratici, dalle occupazioni politiche o militari che, pur avendo la loro importanza, gli tolgono quel tempo libero che è la sua risorsa più preziosa e gli consente – se una lunga e fruttuosa vita gli è concessa – di attingere la teleía eudaimonía e di diventare immortale (athanatízein), nei limiti delle possibilità umane (cfr. Eth. Nic., X, 7, 1177 a 19-1178 a 8).
Com’è noto, nella Metafisica lo Stagirita riserva a Dio l’assoluta autosufficienza, il bene nella sua pienezza, la perfezione massima della contemplazione e beatitudine eterne; contemplazione-beatitudine, theoretiké enérgeia che è propria anche dell’uomo, ma solo per brevi tratti e nei limiti della sua vita mortale.30
Nel capitolo 8 del libro X dell’Etica Nicomachea scrive su ciò lo Stagirita: «per gli dei tutta quanta la vita è beata, per gli uomini lo è nella misura in cui vi è in loro un’immagine di tale attività. Invece nessuno degli altri viventi è felice, poiché non partecipa in nessun modo della contemplazione (tôn d’állon zóon oudèn eudaimoneî, epeidè oudamê koinoneî theorías). Di quanto dunque si estende la speculazione si estende anche la felicità, e coloro ai quali maggiormente compete il contemplare (tò theoreîn) saranno anche maggiormente felici, non per accidente, ma in virtù della contemplazione stessa (ou katà symbebekòs allà tèn theorían): giacché questa di per sé stessa è degna di onore (timía). Di conseguenza la felicità consisterà in una certa contemplazione» (Eth. Nic., X, 8, 1178 b 25-32; EZA 872-873).
L’esistere è dunque secondo Aristotele un bene, ma per l’uomo è necessaria una ricerca, un travaglio, un lavoro di scavo al fine di individuare il proprio bene, di pervenire al proprio autentico ben-essere, una ricerca dagli esiti nient’affatto scontati, che deve far leva sulla parte migliore di noi stessi. Proprio in ciò si misura la differenza e la nostra distanza dal divino: «infatti Dio possiede già ciò che è bene» (échei gàr kaì nûn o theòs tagathón, Eth. Nic., IX, 4, 1166 a 21-22; ECA 444).
Ora, nel tentativo di rileggere criticamente queste tesi aristoteliche e di ripensarle ai fini di una migliore comprensione dei problemi del nostro tempo, proprio la teleía eudaimonía della vita contemplativa può essere rivalutata in modo provocatorio nella nostra epoca caratterizzata dal dominio pressoché incontrastato, a tutti i livelli, della ratio strumentale calcolante e di una ormai illimitata volontà di potenza economico-politica, scientifico-tecnologica e militare.
La perfetta felicità della theoría, però, non deve indurci a dimenticare o a sottovalutare il ruolo della phrónesis, della saggezza rivolta alle pratiche della vita umana e dei suoi rapporti.
- Aristotele e noi. La civiltà planetaria e la questione del bene comune
Al di là dei vecchi ideologismi sempre più fuorvianti e dannosi, la phrónesis ci comanda oggi di lottare per la difesa dei beni comuni, di diventare militanti dei beni comuni sempre più minacciati.
Non solo l’acqua, l’aria, la terra, gli elementi della phýsis cara al pensiero presocratico, ma anche i beni comuni più propriamente umani come la philía aristotelica, ossia l’amicizia e la capacità di stabilire rapporti umani davvero soddisfacenti vanno difesi e salvaguardati da un sistema economico, politico e militare imperniato sulla volontà illimitata di dominio, profitto, rapina e sfruttamento.
Ora, qualcuno potrebbe chiedersi che cosa c’entrano Aristotele e l’Etica Nicomachea con tutto ciò.
Osserva ad esempio Günther Anders in un’intervista del 1979 pubblicata in quello stesso anno col titolo Wenn ich verzweifelt bin, was geht’s mich an? (Se sono disperato, ciò non mi riguarda): «Nei settantacinque anni della mia vita, il mondo e la posizione dell’uomo nel mondo sono cambiati così radicalmente che io sono stato costretto a partire dalla verità stessa. Deviare attraverso le opinioni dei filosofi degli ultimi 2500 anni non solo sarebbe stato superfluo ma anche insensato, per non dire immorale. Avrei perso troppo tempo prima di arrivare a esercitare un’influenza sul mondo contemporaneo. Quando le testate nucleari si accumulano, non ci si può fermare a spiegare l’Etica Nicomachea. La comicità del novanta per cento della filosofia odierna è insuperabile. Le critiche che mi sono state rivolte per il modo ‘immediato’ del mio fare filosofia, come se i diecimila libri dei miei avi non fossero esistiti, e perché io non avevo saccheggiato quei tesori, non mi toccano molto. Io uso il mondo stesso come libro, e siccome è ‘scritto’ in una lingua quasi incomprensibile, cerco di tradurlo in un linguaggio comprensibile e forte».31
Sul terreno etico-politico e antropologico una ben diversa risposta, rispetto a quella fornita qui da Anders, è venuta dal dibattito suscitato dalla cosiddetta Rehabilitierung der praktischen Philosophie che in Germania, nella seconda metà del XX secolo, ha trovato in autori come Aristotele e Kant riferimenti fondamentali.32
Ora, proprio Aristotele nell’Etica Nicomachea ci ricorda, sia pure in riferimento a tutt’altro contesto storico-epocale rispetto al nostro: «A poca cosa si riducono […] le amicizie e il giusto (ai philíai kaì tò díkaion) nelle tirannidi; nelle democrazie, invece, la loro importanza è grande, giacché molte sono le cose comuni a coloro che sono uguali (pollà gàr tà koinà ísois oûsin)» (Eth. Nic., VIII, 13, 1161 b 8-10; EZA 748-749).
Oggi la minaccia concerne il Tutto del mondeggiare del mondo, del coseggiare della cosa e dell’umanità dell’uomo; il compito urgente del pensiero, forse sempre più disperato, riguarda la cura del Tutto.
In tempi remoti, con un detto memorabile il cui valore profetico e ammonitore risuona oggi con ancor più forza di quando fu pronunciato, scrisse Periandro corinzio, uno dei sette sapienti dell’antica Grecia: meléta tò pân (abbi cura del Tutto).
Il detto fu valorizzato e commentato da par suo già nei Grundbegriffe, un corso di lezioni che Martin Heidegger tenne a Freiburg nel semestre estivo del 1941.33
Diventa decisiva la riflessione su ciò che è comune (tò koinón), sul bene comune che deve essere condiviso e fruito equamente da tutti, non rapinato, saccheggiato, privatizzato, degradato come sta avvenendo sotto i nostri occhi secondo le modalità proprie della perversa forma attuale della cosiddetta globalizzazione.
Il mondo odierno vive un disagio e uno smarrimento enormi, una profonda crisi, un termine abusato e piuttosto logoro, ma che esprime innanzitutto una devastante sfiducia nell’uomo, nella possibilità di una nuova civiltà e di una nuova umanità.
Abbiamo invece un bisogno estremo di ritrovare fiducia in noi stessi, negli altri e nelle inedite possibilità umane. Seguiamo ancora le fertili indicazioni di Kracauer: «Come il vero amore, l’amicizia dona fiducia dell’uomo. Essa rimane sempre un luogo in cui rifugiarsi quando la sventura si abbatte sull’individuo e questi viene abbandonato da tutti. Appoggiandosi all’amico egli può e anzi deve risollevarsi, imparando ogni volta attraverso di lui a credere di nuovo negli uomini. Finché il suo essere può riscaldarsi al calore di un altro, l’estrema amarezza che rende insensibili non ha potere su di lui. L’amicizia allarga lo spirito».34
Come abbiamo mostrato sopra, Aristotele pone in evidenza il fatto che molte sono le cose comuni a coloro che sono eguali: ciò sembra anche nella situazione attuale il manifesto di un nuovo pensiero che, dismesse le vecchie armature ideologiche, ha responsabilmente a cuore il destino della civiltà planetaria, la cura del Tutto, la salvaguardia della terra, dell’umanità dell’uomo, del mondeggiare del mondo, del coseggiare delle cose. Esso ha a cuore, in altre parole, la verità, un termine che oggi non gode di buona fortuna nemmeno in molti ambienti filosofici e accademici ufficiali.
Noi non sappiamo se questo nuovo pensiero potrà radicarsi ed esercitare un’influenza effettiva sul corso del mondo oppure se resterà un reperto archeologico del mondo accademico e teorico, senza alcuna possibilità di incidenza nel mondo reale. Sappiamo però con certezza – come abbiamo cercato di mostrare in queste pagine – che pure Aristotele può aiutarci nella direzione del consolidamento di un pensiero caratterizzato dalla passione per la verità e rivolto alla cura del Tutto.
Franco Toscani
Il saggio è stato pubblicato su Koiné, Periodico culturale , Anno XVIII – NN° 1-3, Gennaio-Giugno 2011, pp. 149-167.
Note
1 Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, I, 3, 1095 b 14-22, in Etiche. Etica Eudemea, Etica Nicomachea, Grande Etica, a cura di L. Caiani, «Introduzione» di F. Adorno, Utet, Torino 1996 (d’ora in poi citata con la sigla ECA), p. 195. Sul problema dei tre tipi fondamentali di vita, cfr. l’«Introduzione» di F. Adorno, pp. 15-16.
2 Su tale rapporto s’interroga lucidamente anche Claudio Mazzarelli nella sua «Introduzione» ad Aristotele, Etica Nicomachea, a cura di C. Mazzarelli, Rusconi, Milano 1979 (d’ora in poi citata con la sigla EMA), pp. 7-10.
3 Cfr. Aristotele, Etica Nicomachea, VI, 3, 1139 b 20; VI, 4, 1140 a 1; VI, 4, 1140 a 13, a cura di M. Zanatta, Rizzoli, Milano 1998, 2 voll. (d’ora in poi riportata con la sigla EZA), vol. II, pp. 590-593.
4 F. Trabattoni, Platone, Carocci, Roma 2009, p. 109.
5 Favorevole alla tesi del primato della politica sull’etica nello Stagirita è invece G. Mari nel suo Pedagogia in prospettiva aristotelica, «Prefazione» di G. Vico, La Scuola, Brescia 2007, p. 26.
6 R.A. Gauthier-J.Y. Jolif, Aristote. L’Éthique à Nicomaque, Introduction, traduction et commentaire, 4 voll., Paris-Louvain 1970, II, 1, pp. 11-12.
7 Cfr. Eth. Nic., IX, 9, 1169 b 18-19; I, 5, 1097 b 8-11; EMA 24, 398; Eth. Eud., VII, 10, 1242 a 24-25; ECA 15, 161; Pol., I, 2, 1253 a 2-3; Pol., III, 6, 1278 b 21, in Aristotele, Opere. Politica, Trattato sull’economia, vol. IX, trad. it. di R. Laurenti, Laterza, Roma-Bari 1983 (d’ora in poi cit. con la sigla PLA), p. 6 e p. 82.
8 K. Marx, Einleitung zur Kritik der politischen Oekonomie (1857), trad. it. di E. Cantimori Mezzomonti, Introduzione a ‘Per la critica dell’economia politica’, in K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, I, 2, Appendici, trad. it. di E. Cantimori Mezzomonti, B. Maffi e G. Backhaus, Einaudi, Torino 1975, p. 1142.
9 Secondo Giuseppe Mari, l’attenzione specifica all’agire rende il pensiero aristotelico assai fruibile anche in un’ottica pedagogica. Cfr. G. Mari, Pedagogia in prospettiva aristotelica, cit., p. 61.
10 Sull’idea di bene o di “buono” in Platone, cfr. M. Vegetti, «Il ‘buono’ e l’‘uno’», in Quindici lezioni su Platone, Einaudi, Torino 2003, pp. 224-231.
11 C. Mazzarelli, «Introduzione», in Aristotele, Etica Nicomachea, cit., p. 39. Cfr. anche Platone, Filebo, a cura di C. Mazzarelli, Marietti, Torino 1975.
12 Sul tema del piacere in Aristotele si veda fra l’altro: A.-J. Festugière (Introduction, traduction et notes), Aristote. Le plaisir (Eth. Nic. VII 11-14, X 1-5), Paris 1936; J. Léonard, Le bonheur chez Aristote, Académie Royale de Belgique, Bruxelles 1948; G. Lieberg, Die Lehre von der Lust in den Ethiken des Aristoteles («Zetemata», Heft 19), München 1958.
13 G. E. Lessing, Ernst und Falk. Gespräche für Freimäurer (1778-1780), Ernst e Falk. Dialoghi per massoni, in G. E. Lessing, Opere filosofiche, a cura di G. Ghia, Utet, Torino 2006, p. 664.
14 ECA, p. 404, n. 1. Cfr. anche Reth., II, 4, 1381 b 26-27: «noi amiamo tutti coloro che ricambiano pienamente ai loro amici amicizia con amicizia».
15 S. Kracauer, Ueber die Freundschaft (1917-1918); trad. it. di L. Portesio, Sull’amicizia, «Postfazione» di K. Witte, Marietti, Genova 1989, p. 11.
16 Cfr. Eth. Nic., IX, 6, 1167 b 2-4; EZA 792-793; sulla omónoia cfr. anche Eth. Nic., VIII, 1, 1155 a 24-26; su benevolenza e concordia si veda anche Eth. Eud., VII, 7, 1241 a 1-35; ECA 157-158. Com’è noto, pure il libro VII dell’Etica Eudemia è dedicato all’amicizia (ECA 136-175).
17 A proposito del libro VIII dell’opera si veda fra l’altro L. Ollé-Laprune, Aristote. Morale à Nicomaque, livre VIII, Paris 1886; in particolare, cfr. p. 143, per ciò che riguarda il capitolo 3, le fini considerazioni dell’autore sull’impiego dei verbi phileîn, agapân e stérgein per denotare l’amore nelle differenti forme aristoteliche di amicizia; cfr. anche il commento di Zanatta, in EZA 998-999.
18 Su di essa si veda E. Pulcini, Invidia. La passione triste, Il Mulino, Bologna 2011.
19 Su questo aspetto fondamentale si veda il commento di R. A. Gauthier – J. Y. Jolif, op. cit., II, 2, p. 676.
20 S. Kracauer, Ueber die Freundschaft (1917-1918), trad. it. cit., Sull’amicizia, p. 33.
21 G. Agamben, L’amico, nottetempo, Roma 2007, p. 19.
22 R. A. Gauthier-J. Y. Jolif, op. cit., II, 2, p. 690.
23 Cfr. J. Tricot, Aristote. Éthique à Nicomaque (Introduction, traduction, notes et index), Paris 1967, p. 403, n. 3; L. Robin, Aristote, Paris 1944, p. 244; EZA 1015, 1031.
24 Di un egoismo «sano, naturale, necessario, irrinunciabile, identico alla vita» parla anche Ludwig Feuerbach nel suo ultimo scritto del 1868 Zur Moralphilosophie. Cfr. L. Feuerbach, Etica e felicità, a cura di F. Andolfi, Guerini e Associati, Milano 1992, p. 46.
25 Sull’etica buddhista si veda fra l’altro G. Pasqualotto, Fondamenti dell’etica buddhista, «Dharma. Trimestrale di buddhismo per la pratica e il dialogo», n. 5, aprile 2001, pp. 48-54.
26 Cfr. F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra (1883-1885), trad. it. di S. Giametta, Così parlò Zarathustra, a cura di G. Pasqualotto, Rizzoli, Milano 1985, pp. 92-97. Su queste stesse tematiche rinvio a F. Toscani, L’etica del soggiorno e il problema dell’identità, «Testimonianze» n. 432, novembre-dicembre 2003, pp. 26-32.
27 B. Spinoza, Etica e Trattato teologico-politico, a cura di R. Cantoni e F. Fergnani, Utet, Torino 1972, pp. 281-282.
28 G. Agamben, L’amico, nottetempo, Roma 2007, pp. 16-17.
29 S. Kracauer, Das zeugende Gespräch (Il dialogo fecondo,1923); trad. it. cit., Sull’amicizia, p. 80. Cfr. anche p. 47.
30 Cfr. Metaph., XII, 7, 1072 b 14-18, 25, in Aristotele, Metafisica, a cura di C. A. Viano, Utet, Torino 2002, pp. 511-512; cfr. anche Eth. Eud., VII, 12, 1245 b 14-19; ECA 172-173.
31 G. Anders, Wenn ich verzweifelt bin, was geht’s mich an? (1979), in Id.,Opinioni di un eretico, trad. it. di R. Callori, «Presentazione» di S. Velotti, Edizioni Theoria, Roma-Napoli 1991, pp. 81-82.
32 Su di essa si veda fra l’altro: AA.VV., Rehabilitierung der praktischen Philosophie, a cura di M. Riedel, 2 voll., Rombach, Freiburg 1972-74; F. Volpi, La rinascita della filosofia pratica in Germania, in AA. VV., Filosofia pratica e scienza politica, a cura di C. Pacchiani, Francisci, Abano Terme (Padova) 1980, pp. 11-97; Id., Heidegger e Aristotele, Daphne, Padova 1984 (ripubblicato con «Prefazione» di E. Berti, Laterza, Roma-Bari 2010); Id., La riabilitazione della filosofia pratica e il suo senso nella crisi della modernità, “Il Mulino” n. 35, 1986, pp. 928-949; Id., Tra Aristotele e Kant: orizzonti, prospettive e limiti del dibattito sulla ‘riabilitazione della filosofia pratica’, in AA.VV., Teorie etiche contemporanee, a cura di C. A. Viano, Bollati Boringhieri, Torino 1990, pp. 128-148.
33 Cfr. M. Heidegger, Grundbegriffe ( Sommersemester 1941), Herausgeberin P. Jaeger, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main 1981 (vol. LI della Gesamtausgabe); trad. it., Concetti fondamentali, a cura di F. Camera, il melangolo, Genova 1989.
34 S. Kracauer, Ueber die Freundschaft (1917-1918); trad. it. cit., Sull’amicizia, p. 42.
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