Massimo Bontempelli – IL PREGIUDIZIO ANTIMETAFISICO DELLA SCIENZA CONTEMPORANEA

Determinismo

 

Sommario

 

Popper: la teoria come congettura

Hegel e la filosofia della scienza

La teoria della verità come idealità matematica

Godel: la logica matematica non può giustificare il proprio principio di coerenza

Matematica senza fondamento

Barrow: la base teorica universale della matematica

Hegel: la quantità come “qualità tolta”

Il gran libro della Natura è scritto in caratteri matematici?

Il risultato culturale della rivoluzione scientifica

La semplificazione galileiana del mondo reale

La quantità matematizzabile come dominabilità del mondo

I limiti del meccanicismo

La fisica delle particelle come pura astrazione teorica

Le teorie del tutto

Il determinismo dell’elettrodinamica quantistica

Feynman: la Natura è assurda

La povertà conoscitiva del determinismo matematico della fisica

Il crollo del determinismo fisico di fronte alle forme biologiche

La concezione biologistica della verità

La povertà della moderna coscienza antimetafisica

Il pregiudizio antimetafisico della mentalità odierna

Realtà e verità nella filosofia ontologica

La sapienza di Platone

 

 

POPPER: LA TEORIA COME CONGETTURA

Occorre rendere merito a Karl R. Popper di avere enunciato il più chiaro ed esemplare criterio di valutazione delle teorie scientifiche che sia concepibile nell’epoca del nichilismo della verità. Tale criterio non riflette l’effettivo sviluppo delle scienze, tanto che quando Popper, per fronteggiare le obiezioni mossegli, ha tentato di farlo aderire alla pratica scientifica, non ha fatto che introdurvi elementi di confusione e incoerenza. Ma ciò in quanto, nell’attuale contesto scientifico, le cui basi sono nichilistiche, ciò che determina l’affermazione di una teoria scientifica è soltanto la vastità e la durata del consenso della corporazione professionale degli scienziati, che dipende a sua volta sia dai loro codici culturali di riconoscimento, sia dal grado di incorporabilità della teoria in una qualche tecnica utile al sistema economico. Il bisogno di oggettività, però, per quanto negato da tutti i presupposti dello sviluppo sociale del nostro tempo, sopravvive inevitabilmente, per intrinseca necessità.·Popper ha dato una limpida risposta a questo bisogno. La sua grandezza è stata infatti quella di avere enunciato un criterio che, nella sua versione originaria, combina in maniera coerente i presupposti del nichilismo della verità della nostra epoca, per trame un criterio di oggettività scientifica che, ove potesse esistere su quei presupposti, non potrebbe avere che quella forma. Cosa dice infatti Popper? In primo luogo, che ogni teoria, non potendo trarre verità né dal puro pensiero né dall’osservazione dei fatti, è in ogni caso congettura. Tale assunto è perfettamente consequenziale all’assioma nichilistico dell’accettazione delle contingenze impostesi come fatti: se il dato di fatto è intrascendibile dal pensiero, il pensiero non può produrre verità, ma solo congettura, perché una verità tratta dall’osservazione dei fatti sarebbe comunque una generalizzazione che trascenderebbe l’ambito effettivamente osservato. In secondo luogo, Popper dice che una congettura è scientifica se contiene falsificatori potenziali, cioè fatti osservabili la cui eventuale osservazione equivalga, secondo la congettura stessa, a una sua falsificazione. Questo secondo assunto è, nello stesso tempo, un logico corollario del primo, e l’unica forma ragionevole di oggettività entro la mentalità creata daquelle che oggi si chiamano scienze: se i fatti sono la misura della conoscenza, e se essi non possono fondare alcuna verità, possono tuttavia, proprioin quanto misura ultima e intrascendibile della conoscenza, invalidare ogni conoscenza che risulti contraddirli. In terzo luogo, esiste secondo Popper un dovere di onestà scientifica di abbandonare le teorie falsificate dall’osservazione. Tutto ciò sembra a prima vista persuasivo, ed ha anche una sua approssimativa validità in taluni campi di giudizio. Ma non regge nella misura in cui pretende di descrivere l’impresa scientifica moderna: tutte le grandi teorie scientifiche, infatti, sono nate e si sono sviluppate in contraddizione con qualche fatto già accertato alloro tempo; i risultati di ogni osservazione dipendono in maniera forte dalla teoria adottata dall’osservatore; gli esperimenti cruciali della storia della scienza sono apparsi tali solo in un periodo successivo a quello in cui sono stati effettuati, in connessione con l’affermazione di teorie che li hanno valorizzati. Se si concepisce la teoria come congettura, non c’è poi modo di darle oggettività con i fatti.

HEGEL E LA FILOSOFIA DELLA SCIENZA

La filosofia della scienza degli ultimi decenni ha demolito l’epistemologia popperiana sul suo stesso terreno, mostrando come essa abbia fissato un criterio di demarcazione della scienza che non è né coerente né praticabile. Questo capitolo della filosofia della scienza è rivelatore di verità … ´[continua a leggere cliccando qui]

 

Leggi e stampa il testo di 17 pagine in formato PDF:

Massimo Bontempelli,
IL PREGIUDIZIO ANTIMETAFISICO DELLA SCIENZA CONTEMPORANEA

 

Questo saggio di Massimo Bontempelli è già stato pubblicato su Koinè, Periodico culturale, Anno X, nn. 1-2, Gennaio-Giugno 2002,  pp. 105-127; direttore responsabile Carmine Fiorillo; il volume collettaneo reca il titolo  Scienza cultura, filosofia.

Koiné

Scienza, Cultura, Filosofia

indicepresentazioneautoresintesi

Problemi tra scienza e cultura
Sintetizzare e interpretare/Darsi dei limiti/Sulla diffidenza per la filosofia/Una confutazione dello scientismo/I problemi della divulgazione/Specializzazione parcellizzante/Una catastrofe culturale?/Uno sguardo sulla cultura/Linee di resistenza/E se fosse colpa del capitalismo?/Conclusioni. Una modesta utopia.

Lucio Russo
Cosa sta accadendo alla scienza?
Premessa/Cos’è la scienza? La scienza esatta/Scienza esatta e tecnologia /Scienze biologiche (e altre scienze empiriche)/Il problema della verità/Divulgazione scientifica e imposture intellettuali/La crisi attuale/Il nuovo ruolo della biologia: le biotecnologie/Complessità /Quale futuro?

Marcello Cini
C’è ancora bisogno della filosofia per capire il mondo?
Introduzione/La svolta nella scienza dal XX al XXI secolo/L’epistemologia delle scienze della materia inerte/Una epistemologia delle scienze del mondo vivente/Il problema corpo/mente/Scienza e valori/Conclusioni.

Alberto Artosi
Lettera a uno scienziato sulla ragione, la razionalità e il razionalismo
Caro Scienziato/Bisogna guardarsi da un’immagine ingenuamente razionalistica della scienza/Anche gli scienziati più aperti sono dei razionalisti (e degli elitisti) ingenui/Bisogna sottrarsi al culto delle argomentazioni “razionali” /Il caso dell’archeoastronomia/ Il razionalismo ingenuo è intollerante/Sulla “cultura di massa”/Commiato.

Massimo Bontempelli
Il pregiudizio antimetafisico della scienza contemporanea
Popper: la teoria come congettura/Hegel e la filosofia della scienza/La teoria della verità come idealità matematica/Gödel: la logica matematica non può giustificare il proprio principio di coerenza/Matematica senza fondamento/Barrow: la base teorica universale della matematica/Hegel: la quantità come “qualità tolta”/Il gran libro della Natura è scritto in caratteri matematici?/Il risultato culturale della rivoluzione scientifica/La semplificazione galileiana del mondo reale/La quantità matematizzabile come dominabilità del mondo/I limiti del meccanicismo/La fisica delle particelle come pura astrazione teorica/Le teorie del tutto/Il determinismo dell’elettrodinamica quantistica/Feynman: la Natura è assurda/La povertà conoscitiva del determinismo matematico della fisica/Il crollo del determinismo fisico di fronte alle forme biologiche/La concezione biologistica della verità/La povertà della moderna coscienza antimetafisica /Il pregiudizio antimetafisico della mentalità odierna/Realtà e verità nella filosofia ontologic/La sapienza di Platone.

Fabio Bentivoglio
Scienza, Natura e destino dell’uomo. Riflettiamo con Aristotele
Che cosa è, oggi, la sapienza?/La Natura/Le onde e la scogliera/Un’etica per la civiltà tecnologica/Dogmi di ieri e dogmi di oggi/L’elogio del senso comune.

Jean Bricmont
Contro la filosofia della meccanica quantistica
Riassunto/Introduzione/Realismo e positivismo/Il problema della meccanica quantistica/La non località/Soluzioni possibili al problema della misura/Conclusioni/Appendice I: Il problema della misura/Appendice II: Il teorema di Bell/Appendice III: La teoria di Bohm/Appendice IV: Bibliografia/Ringraziamenti/Riferimenti.

Fabio Acerbi
Concetto ed uso dei modelli nella scienza greca antica
Il concetto di modello/La controversia storiografica: strumentalismo versus realismo/Cenni al dibattito epistemologico in età ellenistica/L’approccio per modelli nella scienza antica: alcuni esempi: a. Astronomia; b. Meccanica; c. Ottica; e. Teoria musicale; f. Medicina/Conclusioni.

Jules-Henri Poincaré
La matematica e la logica

 

 

 

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Costanzo Preve – Le avventure della coscienza storica occidentale. Note di ricostruzione alternativa della storia della filosofia e della filosofia della storia.

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1. Introduzione. Storicità e coscienza della storicità della filosofia occidentale.

2. Il pensiero greco classico. L’incorporazione della coscienza storica nel modello normativo della natura ricostruita idealmente come canone di riferimento della vita della comunità sociale umana.

3. La civiltà cristiana medioevale. L’assorbimento della coscienza storica nella sacralizzazione simbolica, piramidale e gerarchica, del mondo sociale umano.

4. L’età moderna borghese-capitalistica occidentale. Lo sviluppo della coscienza storica come costituzione ontologica ed assiologica dello sviluppo universale e veritativo del genere umano.

5. Il postmoderno come globalizzazione dell’occidentalismo senza coscienza infelice. L’annullamento della coscienza storica in una metafisica del presente integralmente de storicizzata e frantumata.

 

 

 

 

 

 

1. Introduzione. Storicità e coscienza della storicità della filosofia occidentale.

Sul fatto che l’uomo sia un ente storico non vi sono dubbi, almeno in superficie. Tutto ha una storia, ovviamente, anche i sistemi solari, i minerali, i vegetali e gli animali, ma la coscienza della storicità sembra appartenere soltanto al genere umano, almeno su questa terra. E tuttavia, il fatto di essere indubbiamente un ente storico, ed il fatto di avere coscienza della propria storicità non coincidono. Questa non-coincidenza dovrebbe essere messa al centro dell’attenzione filosofica, eppure questo non avviene. E tuttavia, uno dei modi (non l’unico, ovviamente) di ricostruire razionalmente l’intera storia dell’umanità (pensata unitariamente, e quindi “idealmente”, in un solo concetto trascendentale-riflessivo), è proprio quello di ricostruirla (sia pure sommariamente e con un grado inevitabile di semplificazione) sulla base della coscienza della storicità.
Questa coscienza della storicità non è affatto un dato, ma è un risultato che può anche essere perso o dimenticato. Facciamo solo due esempi sommari. I cosiddetti “primitivi” non avevano probabilmente un’adeguata coscienza della storicità, che pure caratterizzava
ontologicamente le loro comunità sociali, in quanto vivevano direttamente questa storicità nella forma della omogeneità ontologica (e quindi anche gnoseologica-conoscitiva) … [continua a leggere]

 

 

Leggi l’intero saggio di costanzo Preve in formato PDF.

Costanzo Preve, Le avventure della coscienza storica occidentale. Note di ricostruzione alternativa della storia della filosofia e della filosofia della storia [pubblicato su Koinè, Periodico culturale – Anno XVIII – Gennaio-Giugno 2011 – Direttore responsabile: Carmine Fiorillo – Direttori: Luca Grecchi, Diego Fusaro], pp. 43.

 

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Mario Vegetti – La filosofia e la città: processi e assoluzioni .

Mario-Vegetti

Mario-Vegetti

Ci sono stati, nel IV secolo, due processi contro la filosofia, che hanno avuto un ruolo in qualche modo epocale. Il primo, a tutti noto, è stato quello conclusosi nel 399 con la condanna di Socrate. A dire il vero, gli Ateniesi che processavano Socrate non sapevano di processare con lui la filosofia, bensì pensavano di avere a che fare con un nemico della città democratica. È stato Platone a vedere nel processo l’atto decisivo del conflitto fra la città e la filosofia – il segno di una malattia della politica che richiedeva un rovesciamento della situazione, la costruzione di una città capace di “prendersi cura della filosofia”, l’unico modo possibile per salvare se stessa insieme con quella che aveva creduto la sua rivale (Hegel, come è noto, avrebbe visto nel processo lo scontro destinale fra il principio dello stato e quello della libera individualità, destinato a ricomporsi storicamente solo nello stato

moderno).
Nel secondo processo, invece, la filosofia era esplicitamente imputata. Si tratta di quello, meno noto ma per noi non meno importante, originato nel 307 da un decreto proposto da un politico democratico di nome Sofocle, che chiedeva la messa al bando delle scuole
filosofiche da Atene, e il divieto sotto pena di morte di insegnarvi filosofia senza un esplicito permesso del popolo. Per un anno, Sofocle ottenne in effetti la messa al bando dei filosofi da Atene; l’anno seguente, fu a sua volta accusato da Filone di proposta illegale, graphe para nomon. Sofocle fu difeso da Democare, ma perse il processo, fu condannato e la filosofia questa volta assolta (la vicenda è narrata in Diogene Laerzio V 38 e in Ateneo XI 508f sgg.).
A noi interessano tanto l’atto d’accusa quanto le ragioni dell’ assoluzione … [continua a leggere]
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Mario Vegetti, La filosofia e la città: processi e assoluzioni [pubblicato su Koinè, Periodico culturale – Anno XVI – Gennaio-Giugno 2009 – Direttore responsabile: Carmine Fiorillo – Direttori: Luca Grecchi, Diego Fusaro], pp. 7.

 

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Walter Benjamin (1892-1940) – «Esperienza» . Il giovane farà esperienza dello spirito e quanto più dovrà faticare per raggiungere qualcosa di grande, tanto più incontrerà lo spirito lungo il suo cammino e in tutti gli uomini. Quel giovane da uomo sarà indulgente. Il filisteo è intollerante.

Walter Benjamin,1928
G. Klimt, Giardino fiorito
G. Klimt, Giardino fiorito.
La nostra lotta per divenire responsabili la combattiamo contro un essere mascherato. La maschera dell’adulto si chiama «esperienza». È inespressiva, impenetrabile, sempre la stessa. Quest’adulto ha già vissuto tutto: gioventù, ideali, speranze, la donna. Tutte illusioni. Ne siamo spesso intimiditi e amareggiati. Forse ha ragione. Che dobbiamo rispondergli? Non abbiamo esperienza.
Ma cerchiamo di sollevare la maschera.
Quale esperienza ha fatto questo adulto?
Cosa ci vuol dimostrare? Una cosa soprattutto: è stato giovane anche lui, ha voluto anche lui quello che vorremmo noi, anche lui non ha creduto ai genitori, ma anche a lui la vita ha insegnato che avevano ragione loro. Ridacchiando con sufficienza ci dice che succederà lo stesso anche a noi; svaluta in anticipo gli anni che viviamo, trasformandoli in anni di cretinate giovanili, in ebbrezza infantile che prelude alla lunga sobrietà della vita seria.
Così i benpensanti, gli illuminati. Conosciamo altri pedagoghi, la cui amarezza non ci concede neppure questi brevi anni di «gioventù»; severi e spietati, vogliono fin d’ora metterci di fronte alla fatica di vivere. Gli uni come gli altri svalutano e distruggono i nostri anni. E sempre più siamo sopraffatti da una sensazione: la tua gioventù è solo una breve notte (riempila di ebbrezza!), dopo verrà la grande «esperienza», gli anni dei compromessi, della povertà d’idee, e dell’apatia. Questa è la vita. Questo ci dicono gli adulti, questa è la loro esperienza.
Già! Questa è la loro esperienza, sempre questa, mai un’altra: l’insensatezza della vita.
La brutalità.
Ci hanno mai incoraggiato verso cose grandi, nuove, future?
Oh no! Questo non fa parte dell’esperienza… [continua a leggere]

 

Walter Benjamin, Esperienza [pubblicato sul n. 6 di “Der Anfang”, 1913], pp. 5.

 

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Dante Alighieri (1265-1321) – Nè si dee chiamare vero filosofo colui che è amico di sapienza per utilitade.

Alighieri Dante

Alighieri Dante

«Nè si dee chiamare vero filosofo colui che è amico di sapienza per utilitade, sì come sono li legisti, [li] medici e quasi tutti li religiosi, che non per sapere studiano ma per acquistare moneta o dignitade; e chi desse loro quello che acquistare intendono, non sovrastarebbero a lo studio».

Convivio

Dante Alighieri, Convivio, III, XI, 10.

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Gabriella Putignano – Quel che resta di Raoul Vaneigem

Trattato+di+saper+vivere+ad+uso+delle+giovani+generazioni

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«Imparare a diventare umani è la sola radicalità».

Raoul Vanegeim

 

 

 

  1. Un autore dimenticato: Raoul Vaneigem

 

 «[…] il Traité rimane uno scossone, un urlo
[…] a fare un bilancio rispetto a ciò che rimane
della soggettività come desiderio,
come piacere, come relazione solidale».

Pasquale Stanziale

 

 

In questo breve contributo critico ci proponiamo di analizzare il pensiero di Raoul Vaneigem, nato a Lessines, in Belgio, nel 1934 e tuttora vivente; intendiamo soprattutto comprendere quanto della sua opera resti più che mai vivo ed urgente nell’odierna attualità.
Vaneigem, insieme a Guy Debord (1931-1994), fu uno dei membri principali dell’Internazionale Situazionista, che lascerà nel 1970, ed il suo testo di capitale importanza è senz’altro Trattato di saper vivere ad uso delle nuove generazioni (1967) [1]. È un libro, questo, che – ha scritto giustamente Pasquale Stanziale – rimane ancora uno scossone, un richiamo a cambiare prospettiva, un urlo contro ogni forma di soggettività negata.
Tuttavia, se negli ultimi anni v’è stato un interesse esponenziale verso gli scritti di Debord [2], è come se Vaneigem fosse invece passato inosservato, rimosso tanto dall’ambiente dell’accademia quanto dall’“opinione pubblica” tout court. Proprio per questa ragione desideriamo oggi regalare al lettore un’analisi in grado di restituire il giusto peso, il significativo spessore del pensatore belga. Di più: riteniamo, con una certa cognizione di causa, che le riflessioni vaneigemiane possano aiutarci a penetrare all’interno del «nuovo spirito del capitalismo»[3], a recepire fino in fondo le implicazioni strutturali della controrivoluzione neoliberista.
Procederemo, inoltre, inserendo qui e lì delle “intermittenze” musicali, parole di due cantautori, Claudio Lolli e Gianfranco Manfredi [4], che hanno espresso artisticamente le esigenze situazioniste, la tensione libertaria ivi presente, e che, come tali, costituiscono un valido ed inusuale supporto per una maggiore comprensione. È, forse, inevitabile il riferimento al mondo musicale, poiché – in quell’«orda d’oro» [5] rappresentata dal decennio ʻ68-ʻ77 – esso ha davvero dato voce ai sogni giovanili, allo «sciamare d’energie»[6] – per dirla con Capanna – che si liberava in tutte le direzioni, al bisogno incontenibile di essere irriducibili e di non sottostare al fatalismo della storia. [7]
L’orizzonte del ʻ68-ʻ77 segna dunque una grandiosa rivoluzione dell’immaginazione, «un’incruenta rivolta per affermare il diritto alla felicità» [8]. Esattamente quest’ultimo aspetto, la volontà cioè di far «retrocedere dappertutto l’infelicità» [9], è quanto caratterizza l’Internazionale Situazionista (1957-1972), formatasi a Cosio d’Arroscia (Imperia) nel 1957. Essa nasce come contestazione artistica, influenzata dal lettrismo e dal surrealismo, e s’allarga poi al terreno politico, s’afferma quale critica serrata nei confronti dell’alienazione e della passività esistenziale, mira ad una rivoluzione permanente della vita quotidiana e ad una costruzione di situazioni [10]. I suoi testi fondamentali di riferimento sono quello già citato di Vaneigem e La società dello spettacolo di Debord, entrambi del 1967. Noi ci confronteremo in particolare con il primo e con la sua pars destruens: il morbo della sopravvivenza.

 

 

  1. Il morbo della sopravvivenza

 

«Lo sai che siamo tutti morti e non ce ne/
siamo neanche accorti, e continuiamo a dire/
e così sia». 

Claudio Lolli      

 

Il Trattato di saper vivere ad uso delle nuove generazioni si caratterizza, in primis, per una «fenomenologia della soggettività negata» [11], vale a dire per l’amara comprensione della riduzione della ragione a mera e squallida esecutrice di ordini.
Questa fase storica – scrive Vaneigem – non è né quella legata al principio di dominio della società feudale, né quella propria del principio di sfruttamento della società borghese, bensì essa reca il trionfo del principio d’organizzazione tipico di una società cibernetica, ove la ragione si svuota di senso, oblia del tutto l’idea di una qualche normatività morale e d’una finalità delle proprie scelte individuali e sociali. Essere ragionevoli – per dirla con il Max Horkheimer di Eclisse della ragione – significa infatti non essere ostinati, adattarsi alla realtà così com’è, diventare una semplice cellula di risposta funzionale. [12] Ma vuol dire anche divenire grotteschi personaggi che assomigliano, schopenhauerianamente, a burattini caricati come orologi [13], senza sapere il perché di quello che fanno; vuol dire trasformarsi in automi lobotomizzati da una insulsa «cascata di gadgets» [14]. Così il proprio io non si sente più e sembra alla fine rivolgerci queste desolanti parole: «Sono merce che un estraneo/scambia in me/tra me e me» [15], sono un feticcio che non ha più sogni, che si bea nell’ accettazione rassegnata dell’esistente.
Il tempo stesso si svalorizza, si frantuma in istanti seriali, equivalenti, intercambiabili. È il tempo-merce, del lavoro, del consumo, del potere, che congela l’orizzonte storico nella stagnazione di un presente perennemente indaffarato: «Istante per istante, il tempo scava il suo pozzo, tutto si perde, niente si crea…» [16], ciascuno si insegue senza mai raggiungersi, cambia di continuo status, pelle, ruolo, ma non la sua alienazione, non la sua dormiente sopravvivenza.
Dimenticare la propria coscienza storica implica, ipso facto, scordare l’identità finita di cui siamo intrisi, comporta essere impossibilitati ad aprirsi all’incontro con l’alterità, significa diventare potenzialmente manipolabili e strumentalizzabili da chi è al governo. Non resta se non «l’illusione di essere insieme» [17], poiché non riusciamo più a guardare il volto dei nostri fratelli e risultiamo sospesi in un limbo d’indifferenza generalizzata, ex-tranei a noi stessi ed al prossimo [18]. Siamo corrosi dentro da orride “tonalità emotive”: l’invidia, l’acredine, il rancore, che non ci danno pace e misurano il grado della nostra umiliazione. [19] Ci si scopre accomunati solo da questa espropriante lacerazione, solo dal consumo alienato, da un’apatia disarmante nei confronti del “senso”. Commenta, a questo proposito, in maniera molto lucida il giovane filosofo Giacomo Pisani: «Si afferma in questo modo un individualismo assolutamente particolare, in cui l’individuo risulta isolato non solo dagli altri, ma dalla sua stessa storia, perdendo qualsiasi occasione di ricerca di un senso. La sua vita è un continuo errare per sfuggire a questo vuoto, per mantenersi in un terreno neutro, in cui possa vivere chiunque, in cui possa essere un “chiunque”». [20]
Vale la pena soffermarsi su queste parole, perché svelano amaramente il modo in cui si vivono i rapporti interpersonali nel morbo della sopravvivenza: non già attraverso una condivisione (seppur, a volte, conflittuale) di pensieri, di sogni, di speranze, bensì nella modalità della scissione e dell’isolamento. Si è sì tutti insieme, «ma ognuno sta per sé/la ricomposizione si sogna ma non c’è/ognuno nel suo sacco/o nudo tra il letame/solo come un pulcino,/bagnato come un cane.» [21]
Questa dissociazione dall’alterità, denunciata da Vaneigem nel 1967, costituisce la base dell’odierno ʻnarcinismoʼ[22], pervaso da un’ipersoggettivazione individualista fatta di logorante competitività, prestazione, sfruttamento.
Invero tutta l’analisi di Raoul Vaneigem – come possiamo ora meglio comprendere – è un potente mezzo ermeneutico che ci permette di cogliere – per utilizzare un’acuta espressione di Mauro Magatti – l’attuale «capitalismo tecno-nichilista» [23], che ha risucchiato l’intera sfera del legein nel teukein, nel fare ansioso della propria ristretta competenza. Ed è un capitalismo che, tanto secondo il filosofo belga quanto secondo Magatti, si riflette in un preciso spazio urbano. Difatti, per Vaneigem, le nostre esistenze vengono stipate in angusti uffici o in sporche fabbriche, nel grigio di città che respinge le sue ʻvite di scartoʼ nelle «tristi balere di periferie» [24] ed accalca disperati su disperati negli angoli bui delle sue stazioni[25]. È un grigio che immalinconisce, in cui «la luna ha una faccia da strega/e il sole ha lasciato i suoi raggi in cantina» [26], è un grigio che purtroppo ci sembra riproporre l’attuale dicotomia fra il perbenismo del centro cittadino e le banlieues parigine [27], ove ciascuno patisce un’opprimente sensazione di emarginazione e cova dentro di sé risentimento, livore, invidia. Ma la città – potremmo aggiungere con Magatti – è pure lo spazio estetico deterritorializzato (SED) [28], che distrugge luoghi antropologicamente sociali/relazionali/“spirituali”, per far posto alla neutralità ed al disimpegno di grandi centri commerciali, nei quali si è “avviluppati” da un vortice consumistico, dall’«economia libidica del plusgodere» [29]. Ciò che si perde – sia nelle banlieues sia in questo centro deterritorializzato [30] – è la propria umanità, il senso di essere una comunità. A tal riguardo, Vaneigem descrive la riduzione dell’uomo allo stato di cosa ricordando i quadri di De Chirico o Ulisse di Malevič [31], dipinti di estremo pregio e valore. Troviamo, però, interessante affiancare oggigiorno a questi (soprattutto in virtù di quello che s’è detto poc’anzi a proposito dello spazio urbano) i quadri di Dino Di Bonito [32], perché essi ben rappresentano le «folle solitarie» della post-modernità, disperse in seriali metropoli e ridotte a fantasmi, ad anonimi esseri scarnificati.
Il morbo della sopravvivenza, adesso analizzato in tutte le sue sfaccettature, è quindi più che mai vivo e vegeto; quel che resta della pars destruens di Vaneigem è ancora tanto, troppo. Eppure anche la sua pars construens, che avverte l’assoluto bisogno di salvare “l’umanità dell’umano”, acquista oggi una notevole importanza. Ha scritto infatti Enea Bianchi: «[…] uno degli obiettivi più nobili dell’I.S. è stato quello di ridare dignità al termine “sociale”, distorto dalla propaganda neoliberista, la quale intende il sociale principalmente come avvicinamento delle distanze e come facilitazione delle interazione fra le persone». [33]
Da questo senso nobile del “sociale” dovremo ora muovere per comprendere il rovesciamento di prospettiva (détournement) operato dal Nostro.

 

 

  1. Il valore sovversivo dell’eros

 

«[…] quando due persone si amano, sottraggono
terreno al Leviatano, creano spazi che egli non controlla».

Ernst Jünger

 

Il détournement dobbiamo immaginarlo come uno stadio radicalmente antitetico rispetto al morbo della sopravvivenza, uno stadio che comincia a partire da una profonda insoddisfazione nei confronti dell’esistenza rinunciataria e parassitaria. È come una scossa che ci risveglia dal nostro torpore, le cui parole iniziali urlano questo: «Sono vivo/fammi uscire/dal cadavere,/dal cadavere di me» [34], e reclamano, altresì, lo squartamento di quel limbo d’indifferenza, dove ogni cosa ci scivola via senza toccarci mai.
Si tratta, in altri termini, di recuperare la nostra volontà di vivere in grado di infilzare la sua lama nella materia molle dell’inerzia; si tratta di rivendicare l’attività ludica contro il travaglio di un irrequieto teukein. È inscritta nella natura del gioco una venatura sovversiva, poiché essa risponde alla libera creatività che disfa il livellante principio di prestazione/organizzazione della società cibernetica. Del resto, in quegli stessi anni, anche Herbert Marcuse esprimeva concetti analoghi: «Gioco e libera espansività, come principi di civiltà, non implicano una trasformazione del lavoro, ma la sua assoluta subordinazione al libero evolversi delle potenzialità dell’uomo e della natura. Ora si comincia a intravvedere la vera distanza tra i concetti di gioco e di libera espansività, e i valori di produttività e di prestazione: il gioco è improduttivo e inutile proprio perché esso cancella i tratti repressivi e sfruttatori del lavoro e dell’agio». [35]
C’è nel gioco uno «stormire di spontaneità» [36], che ingloba i caratteri della gioiosità, della partecipazione, della gratuità. La temporalità dell’homo ludens è, dunque, tutt’altra cosa rispetto a quella quantitativa dell’heautontimorumenos [37]: è gonfiata di passione, di innocenza, di amore. Ed all’amore Vaneigem guarda quale decisivo punto di svolta per sottrarsi a questo mondo voyeuristico ed inautentico. Amare vuol dire, infatti, aprirsi alla sfera dell’intersoggettività, voler incontrare il prossimo, lasciare un pezzo di sé nell’altro. L’eros implica intensità, illuminazione del presente, uscita dal guscio economicista dei ruoli, per cogliere così la propria insostituibilità ed unicità.
Per Vaneigem, quando si ama davvero, lo si fa incondizionatamente e senza poter eludere il corpo (Leib): è come se si fosse dentro la fiamma di un fuoco che reca in sé il brivido della morte, la dissipazione delle «paure di sempre» [38], il trionfo su «tutte le costruzioni titaniche» [39]. Da questo punto di vista, l’amore non è un semplice modo per soddisfare i propri pruriti pubici, bensì è forza propulsiva al cambiamento, è «condivisione di un piacere che ci porti, insieme, al di là di quest’oggi meschino, almeno per un momento, un sogno di libertà, di infinitezza, di gioventù» [40].
Ecco quindi nascere la triade unitaria dell’autenticità: realizzazione-comunicazione-partecipazione [41], con cui le nozioni di castigo e di supplizio vengono liquidate e subentra una nuova innocenza, una nuova grazia di vivere [42]. Aspetti, questi, che intendono sconfiggere – per dirla con Franco Berardi (Bifo) – il «totalitarismo senza totalità» [43], il quale sottomette il singolo ad una regola fredda ed esige da lui solo un’alienata (ma efficiente) prestazione.
L’innocenza non è ignoranza né tantomeno riproposizione del narcinismo, ma indica una riappropriazione del divenire e del proprio essere, una capacità di danzare sugli abissi e di sottrarsi ad ogni greve fatalismo. [44] Occorre abbandonare la pesantezza degli stolti ʻpredicatori di morteʼ [45], che si cullano in frasi stereotipate e nihilistiche del tipo “è la vita”, “va come deve andare”, “bisogna farsene una ragione”, per far sorgere un’etica dell’impegno e della partecipazione, in cui ci si “sporca le mani” in prima persona a favore della comunità (parola quanto mai dimenticata) di riferimento, si dice di sì ad uno «stato di dono e di disponibilità» [46].
In tempi come il nostro, nei quali troppo spesso si cavalca l’onda dell’antipolitica per chiudersi in se stessi e credere che nulla possa essere cambiato, Vaneigem può dunque rappresentare un pungolo a tentare, a rischiare un «colpo di mondo» [47], a non adagiarsi nell’alibi della rassegnazione. Ed il «valore sovversivo dei sentimenti» [48], l’effetto sregolante, al di là del bene e del male, dell’amore costituisce il primo passo per incominciare ad intaccare la corruzione delle istituzioni stesse.

Gabriella Putignano

Bibliografia

Aa.Vv., Contro l’infelicità. L’Internazionale Situazionista e la sua attualità, Ombre Corte, Verona, 2014;
Aa.Vv.,
Situazionismo. Materiali per un’economia politica dell’immaginario, trad. it. di P. Stanziale, Massari Editore, Bolsena, 1998;
N. Balestrini – P. Moroni, L’orda d’oro. 1968-1977: la grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, Feltrinelli, Milano, 1997;
F. Berardi (Bifo), Dell’innocenza. 1977: l’anno della premonizione, Ombre Corte, Verona, 1997;
L. Boltanski – È. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano, 2014;
M. Capanna, Lettera a mio figlio sul Sessantotto, Rizzoli, Milano, 1998;
J. Giustini, Claudio Lolli. La terra, la luna e l’abbondanza, Stampa Alternativa, Viterbo, 2003;
M. Horkheimer, Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale, trad. it. di E. Vaccari Spagnol, Einaudi, Torino, 2000;
E. Jünger, Oltre la linea, trad. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano, 1998;
C. Lolli, Lettere matrimoniali, Stampa Alternativa, Viterbo, 2013;
M. Magatti, Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Feltrinelli, Milano, 2009;
H. Marcuse, Eros e civiltà, trad. it. di L. Bassi, Einaudi, Torino, 2001;
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, trad. it. di S. Giametta, Bur, Milano, 2004;
G. Pisani, Il gergo della postmodernità, Unicopli, Milano, 2012;
M. Recalcati, L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2010;
A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, trad. it. di P. Savj-Lopez e G. De Lorenzo, Laterza, Bari, 2008;
P. Stanziale, Dalla soggettività radicale all’internazionale del genere umano, in R. Vaneigem, Trattato di saper vivere ad uso delle nuove generazioni, trad. it. di P. Salvadori, Massari Editore, Bolsena, 2004;
R. Vaneigem, Trattato di saper vivere ad uso delle nuove generazioni, trad. it. di P. Salvadori, Massari Editore, Bolsena, 2004;
Id., Noi che desideriamo senza fine, trad. it. di S. Ghirardi, Bollati Boringhieri, Torino, 1999.

 

Discografia

C. Lolli, Aspettando Godot, EMI Italiana, 1972;
Id., Un uomo in crisi. Canzoni di morte. Canzoni di vita, EMI Italiana, 1973;
Id., Canzoni di rabbia, EMI Italiana, 1975;
Id., Disoccupate le strade dai sogni, Ultima Spiaggia, 1977;
Id., Extranei, EMI Italiana, 1980;
G. Manfredi, Ma non è una malattia, Ultima Spiaggia, 1976;
Id., Zombie di tutto il mondo unitevi, Ultima Spiaggia, 1977.

 

Sitografia

N. Martino, Sulla felicità come opera in lotta nel lavoro della conoscenza, in http://effimera.org/sulla-felicita-come-opera-in-lotta-nel-lavoro-della-conoscenza-di-nicolas-martino/, 26 ottobre 2015;
G. De Michele, La banlieue come volontà e rappresentazione, in http://www.euronomade.info/?p=4517.

 

 

 

Note

[1] Sarà tradotto in Italia per la prima volta nel 1973.

[2] Questo si deve anche all’apertura dei sui archivi. Nondimeno tale interesse non sempre si è tradotto in una dispiegata comprensione del pensiero debordiano, spesso ridotto ad una mera critica mediatica.

[3] Cfr. L. Boltanski – È. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano, 2014.

[4] C. Lolli e G. Manfredi sono, infatti, due cantautori “simbolo” del decennio ’68-’77.

[5] Cfr. N. Balestrini – P. Moroni, L’orda d’oro. 1968-1977: la grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, Feltrinelli, Milano, 1997.

[6] M. Capanna, Lettera a mio figlio sul Sessantotto, Rizzoli, Milano, 1998, p. 39.

[7] Ha scritto F. Berardi (Bifo): «Io credo che ’68 si debba ancora apprendere la lezione più profonda. E che il ’77 sia il punto di vista migliore per comprendere quella lezione. Penso alla consapevolezza della irriducibilità dell’esistenza alla storia, penso all’autonomia intesa come carattere asimmetrico della traiettoria singolare rispetto al destino sociale e di genere. Penso alla libertà come attivo sottrarsi al divenire necessario del mondo.», Dell’innocenza. 1977: l’anno della premonizione, Ombre Corte, Verona, 1997, pp. 34-35.

[8] M. Bellocchio, citiamo da M. Capanna, op. cit., p. 137. Corsivo nostro.

[9] È il titolo di un ciclo d’incontri, curato da Stefano Taccone nel 2013, presso il BAD Bunker Art Division di Casandrino (NA). Gli Atti sono oggi disponibili con il titolo Contro l’infelicità. L’Internazionale Situazionista e la sua attualità, Ombre Corte, Verona, 2014.

[10] Difatti nel numero 9 (agosto 1964) dell’ IS – alla domanda su che cosa significhi essere «situazionisti» – si legge: «Definisce un’attività che vuole creare le situazioni, non riconoscerle, come valore esplicativo o altro. Questo a tutti i livelli della pratica sociale e della storia individuale. Noi sostituiamo alla passività esistenziale la costruzione di momenti di vita, al dubbio l’affermazione ludica.», oggi in Aa.Vv., Situazionismo. Materiali per un’economia politica dell’immaginario, trad. it. di P. Stanziale, Massari Editore, Bolsena, 1998, p. 219.

[11] P. Stanziale, Dalla soggettività radicale all’internazionale del genere umano, in R. Vaneigem, Trattato di saper vivere ad uso delle nuove generazioni, trad. it. di P. Salvadori, Massari Editore, Bolsena, 2004, p. 11.

[12] Cfr. M. Horkheimer, Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale, trad. it. di E. Vaccari Spagnol, Einaudi, Torino, 2000, p. 16.

[13] Cfr. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, trad. it. di P. Savj-Lopez e G. De Lorenzo, Laterza, Bari, 2008, p. 352.

[14] R. Vaneigem, op. cit., p. 25.

[15] G. Manfredi, Puoi sentirmi?, in Ma non è una malattia (1976).

[16] R. Vaneigem, op. cit., p. 105.

[17] Ivi, p. 43. Corsivo nostro. Si veda su questo anche E. Bianchi, L’illusione di essere insieme, in Aa.Vv., Contro l’infelicità. L’Internazionale Situazionista e la sua attualità, pp. 34-43.

[18] Il termine ʻextraneiʼ allude ad un album di C. Lolli pubblicato nel 1980, che sancisce non solo il crollo degli ideali politici, ma anche lo sfacelo dei rapporti umani. Cfr. J. Giustini: «Anche i legami tra gli stessi uomini sono spariti. Si diventa inesorabilmente ex. Ma più che altro estranei a se stessi, incapaci di legarsi a niente.», Claudio Lolli. La terra, la luna e l’abbondanza, Stampa Alternativa, Viterbo, 2003, p. 14.

[19] Cfr. R. Vaneigem: «Invidio, dunque esisto. Cogliersi a partire dagli altri è cogliersi altro. E l’altro è l’oggetto, sempre. Sicché la vita si misura dal grado di umiliazione vissuta.», op. cit., p. 36.

[20] G. Pisani, Il gergo della postmodernità, Unicopli, Milano, 2012, pp. 35-36.

[21] G. Manfredi, Un tranquillo festival pop di paura, in Zombie di tutto il mondo unitevi (1977).

[22] Narcinismo è neologismo formato dalle parole “narcisismo” e “cinismo”. Si veda su questo M. Recalcati, L’uomo senza inconscio. Figure della nuova clinica psicoanalitica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2010, ma si veda anche e soprattutto N. Martino, Sulla felicità come opera in lotta nel lavoro della conoscenza, in http://effimera.org/sulla-felicita-come-opera-in-lotta-nel-lavoro-della-conoscenza-di-nicolas-martino/, 26 ottobre 2015.

[23] M. Magatti, Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Feltrinelli, Milano, 2009.

[24] C. Lolli, Hai mai visto una città, in Un uomo in crisi. Canzoni di morte. Canzoni di vita (1973).

[25] Si ascolti C. Lolli, Angoscia metropolitana, in Aspettando Godot (1972).

[26] C. Lolli, Incubo numero zero, in Disoccupate le strade dei sogni (1977).

[27] Si veda su questo, problema quanto mai attuale, G. De Michele, La banlieue come volontà e rappresentazione, in http://www.euronomade.info/?p=4517.

[28] M. Magatti, op. cit., pp. 80-88. Si veda anche G. Pisani, op. cit., pp. 30-32.

[29] Cfr. M. Magatti, op. cit., pp. 130-138.

[30] Si tratta, a ben vedere, di due facce della stessa medaglia.

[31] Scrive Vaneigem: «Il movimento Dada, il quadrato bianco di Malevič, Ulisse, le tele di de Chirico fecondano, con la presenza dell’uomo totale, l’assenza dell’uomo ridotto a stato di cosa», op. cit., pp. 167-168.

[32] D. Di Bonito è un artista tuttora vivente, nato a Pozzuoli e residente a Roma. Facciamo riferiamo, in particolare, alla sua prima personale intitolata “Metropolis”.

[33] E. Bianchi, art. cit., p. 43.

[34] G. Manfredi, Puoi sentirmi?

[35] H. Marcuse, Eros e civiltà, trad. it. di L. Bassi, Einaudi, Torino, 2001, p. 213.

[36] R. Vaneigem, Trattato di saper vivere ad uso delle nuove generazioni, cit., p. 246.

[37] Vaneigem utilizza questo termine, che riecheggia una commedia di Terenzio, per indicare il “punitore di se stesso”, ovvero l’uomo della sopravvivenza.

[38] C. Lolli, Donna di fiume, in Canzoni di rabbia (1975).

[39] E. Jünger, Oltre la linea, trad. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano, 1998, p. 97.

[40] C. Lolli, Lettere matrimoniali, Stampa Alternativa, Viterbo, 2013, p. 97. Corsivo nostro.

[41] Cfr. R. Vaneigem, Trattato di saper vivere ad uso delle nuove generazioni, p. 212.

[42] Ivi, p. 310.

[43] F. Berardi (Bifo), op. cit., p. 105.

[44] Il tema dell’innocenza è, chiaramente, nietzscheano. Si ricordi su tutto il concetto di innocenza del divenire.

[45] Nel lessico nietzscheano ʻpredicatori di morteʼ sono coloro per i quali niente vale la pena, sono «i tisici dell’anima: non sono ancora nati che già cominciano a morire, e sono avidi di dottrine della stanchezza e della rinuncia.», Così parlò Zarathustra, trad. it. di S. Giametta, Bur, Milano, 2004, p. 45.

[46] R. Vaneigem, Noi che desideriamo senza fine, trad. it. di S. Ghirardi, Bollati Boringhieri, Torino, 1999, p. 117.

[47] A. Trocchi, Tecnica del colpo di mondo, in “Internationale Situationniste”, 8, janvier 1963, pp. 53.62; trad. it in Internazionale Situazionista 1958-69, Nautilus, Torino, 1994.

[48] P. Stanziale, art. cit., p. 12.

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Giovanni Stelli – Senso e valore della filosofia. Tre domande, alcune risposte

Giovanni Stelli

Giovanni Stelli

Cercherò di rispondere alle domande con alcune considerazioni teoretiche che riflettono, a grandi linee e in modo schematico, il mio itinerario speculativo degli ultimi trent’anni. Ho indicato nelle note alcuni lavori in cui ho trattato i temi qui illustrati analiticamente e con i necessari passaggi argomentativi, che nei limiti di questo contributo sono stati omessi.
La definizione dell’attività filosofica contenuta nella prima domanda mi trova sostanzialmente d’accordo con alcune precisazioni. In primo luogo, direi che l’attività filosofica consiste non tanto nell’“attribuire” quanto nel “riconoscere e precisare il senso e il valore della vita umana nell’intero” per le ragioni che cercherò di esporre più avanti. In secondo luogo, credo che l’essenza dell’attività filosofica o della filosofia vada ulteriormente determinata. La definizione proposta potrebbe infatti riferirsi anche alla religione, che ha certamente un nesso profondo con la filosofia, ma che da essa va chiaramente distinta.
È stato Aristotele ad individuare con chiarezza ciò che costituisce lo specifico della filosofia rispetto alle scienze particolari: queste ultime studiano l’ente in quanto determinato in un modo o in un altro (come numero, come movimento, come vita, ecc.), mentre la filosofia studia l’ente in quanto tale, l’ente in quanto ente. Da ciò segue che la filosofia (più precisamente: la “filosofia prima”, che è quella che qui ci interessa) riguarda appunto sempre l’intero (tutti gli enti nelle loro connotazioni universali) e costituisce pertanto il fondamento di tutte le scienze particolari…

Leggi tutto il saggio di Giovanni Stelli
aprendo l’impaginato in PDF
.

Già pubblicato in: Koiné Periodico culturale
Anno XX  –  NN° 1-4 – Gennaio-Dicembre 2013, , pp. 41-60
Direttore responsabile: Carmine Fiorillo – Direttori: Luca Grecchi, Diego Fusaro.

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Alessandro Monchietto – Dialettica dell’illuminismo. Diagnosi della società contemporanea, critica della ragione strumentale

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L’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte, primo ente scientifico di esplicito indirizzo marxista, nacque nel 1923 grazie all’appoggio – essenzialmente finanziario – di Hermann Weil e di suo figlio Felix, due ricchi mercanti tedeschi simpatizzanti socialisti.
Il primo direttore che venne designato fu Carl Grünberg, insigne studioso di storia economica; durante il suo discorso di insediamento, costui manifestò la propriaconvinzione di “trovarsi al centro di una transizione dal capitalismo al socialismo”, e continuò affermando: …

Leggi tutto il saggio aprendo l’impaginato in PDF.

 

 

Indice
L’Istituto per la Ricerca Sociale di Francoforte.

La direzione di Max Horkheimer.

Il materialismo storico: dalla critica alla struttura alla critica alla sovrastruttura.

Sostituzione dell’analisi di classe con l’analisi del profondo.

Il materiale umano di cui sono formate le società.

La Scuola di Francoforte.

Le ipotesi di Neumann e di Pollock.

La pietra tombale del progetto originario della teoria critica.

Analisi di “Dialettica dell’illuminismo”.

Una tesi e due excursus storico-intellettuali.

Il rapporto tra mito e ragione.

Interpretazioni del totalitarismo.

La logica del dominio.

Soggettivizzazione della ragione.

L’illuminismo è la filosofia che identifica la verità al sistema scientifico.

La ragione come vuota razionalità formale.

Odisseo, il primo borghese della storia.

Implosione della dialettica servo-padrone.

L’industria culturale come degradazione della cultura.

La cultura prodotta come qualsiasi altra merce.

L’industria colonizzatrice del “tempo libero”.

Il feticismo in ogni ambito dell’esperienza.

La cultura di massa come humus di totalitarismo politico.

Le varie polemiche sul testo.

 

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Alessandro Monchietto, Dialettica dell’illuminismo. Diagnosi della società contemporanea, critica della ragione strumentale, Inedito, 2009 , pp. 30.

 

 

 

 

 

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Bhagavad-Gītā – Queste sono qualità proprie degli uomini virtuosi

Manoscritto della Bhagavadgītā risalente al XIX secolo (Southern Asian Collection, Asian Division, Library of Congress, Washington, DC)
Manoscritto della Bhagavadgītā risalente al XIX secolo (Southern Asian Collection, Asian Division, Library of Congress, Washington, DC)
Manoscritto della Bhagavadgītā risalente al XIX secolo
(Southern Asian Collection, Asian Division, Library of Congress, Washington, DC)

«L’assenza di paura, la purificazione dell’esistenza, lo sviluppo della conoscenza spirituale, la carità, il controllo di sé, il compimento di sacrifici, lo studio dei Veda, l’austerità, la semplicità, la non-violenza, la veridicità, l’assenza di collera, la rinuncia, la serenità, l’avversione per la critica, la compassione verso tutti gli esseri, l’assenza di cupidigia, la dolcezza, la modestia, la ferma determinazione, il vigore, il perdono, la forza morale, la purezza, la libertà dall’invidia e dalla sete di onori – queste sono qualità trascendentali, proprie degli uomini virtuosi …».

La Bhagavad-Gītā così com’è, a cura di Srila Prabhupada, Bhaktivedanta book trust, Firenze 2003, pag. 636.

Kṛṣṇa ed Arjuna a Kurukṣetra, pittura del XVIII-XIX secolo

Kṛṣṇa ed Arjuna a Kurukṣetra, pittura del XVIII-XIX secolo

Bhagavadgītā (sanscrito, sf.pl.; devanāgarī: भगवद्गीता, , “Canto del Divino” o “Canto dell’Adorabile” o, meno comunemente, Śrīmadbhagavadgītā; devanāgarī: श्रीमद्भगवद्गीता, il “Meraviglioso canto del Divino”[1]) è quella parte dall’importante contenuto religioso, di circa 700 versi (śloka, quartine di ottonari) divisi in 18 canti (adhyāya, “letture”), nella versione detta vulgata, collocata nel VI parvan del grande poema epico Mahābhārata.

La Bhagavadgītā ha valore di testo sacro, ed è divenuto nella storia tra i testi più prestigiosi, diffusi e amati tra i fedeli dell’Induismo.

In tale contesto la Bhagavadgītā è il testo sacro per eccellenza delle scuole viṣṇuite e kṛṣṇaite, eredi dell’antico culto devozionale del Bhagavat, ma è venerato come testo rivelato anche dagli śivaiti e dai seguaci dei culti śākta.

L’unicità di questo testo, rispetto ad altri coevi, consiste anche nel fatto che qui non viene data un’astratta descrizione del Bhagavat[2], qui inteso come il dio Kṛṣṇa, la Persona Suprema che si rivela, ma questa figura divina è un personaggio protagonista che parla in prima persona, offrendo all’uditore la sua darśana (dottrina) completa. (da Wikipedia)

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Costanzo Preve – Introduzione ai «Manoscritti economico-filosofici del 1844» di Karl Marx.

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Scritti fra l’aprile e l’agosto del 1844 a Parigi da un Marx ventiseienne, i Manoscritti economico-filosofici del 1844 sono un’opera non destinata alla pubblicazione, che Marx non ha mai sistematizzato ed organizzato come è d’uso quando un testo è destinato ad una pubblicazione a stampa. Essi presuppongono la lettura e lo studio del saggio dell’amico Engels Lineamenti di una critica dell’economia politica, pubblicato nel febbraio 1844. Si tratta essenzialmente di appunti di chiarimento ad uso personale, come è stato recentemente stabilito da un accurato esame filologico (cfr. Jürgen Rojahn, in “Passato e Presente”, 3, 1983). Pubblicati per la prima volta nel 1927 in URSS per opera di Rjazanov, essi non entrarono nel dibattito filosofico europeo prima del 1932, ed il primo intervento autorevole di quell’anno che ne segnala la grande importanza per la comprensione del pensiero globale di Marx è quello di Herbert Marcuse (cfr. H. Marcuse, Marxismo e rivoluzione. Studi 1929–1932, Einaudi, Torino 1975, pp. 61–116). La presa in considerazione dei Manoscritti è quindi del tutto estranea al processo di sistematizzazione e di coerentizzazione dottrinale del pensiero di Marx, che divenne appunto “marxismo” nel ventennio 1875–1895 per opera pressoché esclusiva di Engels e Kautsky. E questo non è un caso. Questo “marxismo”, costruito di fatto come una teoria del crollo della produzione capitalistica, non avrebbe saputo che farsene di una teoria dell’alienazione e neppure di una critica filosofica dell’economia. I Manoscritti hanno quindi letteralmente “dormito” per quasi un secolo. Si tratta di una sorte comune a molte altre opere filosofiche. L’Aristotele che conosciamo aveva “dormito” per tre secoli fino al primo secolo avanti Cristo, e Lucrezio, del tutto ignoto a Dante, dovette attendere il quindicesimo secolo per essere “scoperto” in Germania da un umanista italiano in “trasferta”.
Se mi chiedessero di consigliare ad un principiante che non ne sa assolutamente niente un’opera di Marx con cui cominciare non consiglierei mai i Manoscritti, la cui comprensione presuppone una specifica competenza linguistica a proposito del linguaggio filosofico di Hegel, ma consiglierei invece decisamente Il Manifesto del Partito Comunista del 1848, la cui “facilità” è peraltro anch’essa più apparente che reale, in quanto presuppone anch’essa la conoscenza delle varie correnti socialiste e comuniste degli anni quaranta dell’ottocento. Ma qui si tratta di introdurre alla lettura dei Manoscritti, ed allora la cosa più utile è dividere questa introduzione in due parti. In primo luogo, cercherò di riassumere criticamente – con qualche inevitabile notazione personale – il contenuto dei Manoscritti. In secondo luogo, cercherò di segnalare le interpretazioni principali che sono state date ai Manoscritti negli ultimi novant’anni, limitandomi all’essenziale e trascurando i pur significativi particolari.
In estrema sintesi, il contenuto dei Manoscritti può essere riassunto in tre punti principali: una critica globale dell’intera concettualizzazione dell’economia politica borghese del tempo, che culmina in alcune pagine di straordinaria efficacia dedicate al concetto di “lavoro alienato”; una prima tematizzazione esplicita del comunismo come risoluzione dialettica dei processi economico-sociali del mondo moderno; una critica radicale a Hegel, in particolare per quanto riguarda la dialettica “idealistica” della coscienza su cui è costruita logicamente ed ontologicamente la Fenomenologia dello Spirito. Tutti e tre questi punti meritano, a fianco della necessaria segnalazione, un breve commento.
Marx è il primo pensatore in assoluto che applica sistematicamente al mondo reale della produzione capitalistica il concetto di alienazione. Nell’Ottocento resterà praticamente il solo, mentre nel Novecento sarà seguito da alcuni altri grandi pensatori critici (Lukács e Adorno in primo luogo). È vero che già Hegel aveva criticato il punto di vista unilaterale ed astratto dell’economia politica, definendolo un sapere dell’intelletto (e quindi non della ragione), ma lo aveva fatto senza utilizzare il concetto di “alienazione”, che nel suo lessico significa soltanto oggettivazione, nel senso di fisiologica uscita da sé, e quindi estraniazione dialettica (Entäusserung) intesa come momento dello spirito.
Ma Marx, a differenza di Hegel, sostiene che nella produzione capitalistica l’oggettivazione avviene nella forma dell’alienazione (Entfremdung), in quanto in essa, anziché realizzarsi nel lavoro, l’uomo perde il proprio essere specifico (e cioè la sua naturale genericità, Gattungswesen), cadendo sotto il dominio del capitale che gli si contrappone come un mondo reificato (Verdinglichung). Marx mette in evidenza quattro aspetti principali di questo processo di alienazione, che il lettore potrà analizzare adeguatamente nella lettura diretta dei Manoscritti, e che si riconducono però tutti e quattro ad un solo fondamento unitario, il fatto che l’uomo, essere sociale per sua propria essenza, non può realmente “riconoscersi” nel rapporto sociale di capitale.
Sta qui il momento unitario fra Hegel e Marx. È vero infatti che i concetti di alienazione-estraneazione-oggettivazione-reificazione (ho qui volutamente riassunto la loro quadruplice natura) sono diversi in Rousseau, Hegel, Feuerbach e Marx, e questa diversità è stata messa correttamente in luce dai saggi storico-monografici dedicati al concetto di alienazione. Ma è ancora più vero che esiste un minimo denominatore filosofico robustamente comune a Hegel e Marx, il fatto cioè che l’umanità, pensata idealisticamente come un unico concetto trascendentale riflessivo che procede dialetticamente verso la propria autocoscienza razionale, deve infine riconoscersi in se stessa, e senza questo riconoscimento restano tutte le patologie della cosiddetta “coscienza infelice”. E mentre nel medioevo la coscienza infelice si manifestava nei conflitti fra Dio e Uomo, mondo divino e mondo terrestre, Gerusalemme e Babilonia, millennio e secolo, eccetera, nel mondo moderno la coscienza infelice sorge nella consapevolezza dell’impossibile universalizzazione dell’etica del mondo borghese. E questa coscienza infelice produce appunto il concetto di comunismo.
In un ottica filosofica hegeliana, il concetto (Begriff) non è in alcun modo un lockiano (e kantiano) contenuto della coscienza, ma è una realtà ancora potenziale che deve realizzarsi concretamente nel mondo reale (Wirklichkeit), per cui possiamo dire che nel giovane Marx il concetto di comunismo deriva direttamente dalla diagnosi precedente dell’alienazione del lavoro nel mondo borghese-capitalistico.
Marx è ovviamente ancora lontano dalla sua posteriore concretizzazione storico-economica del concetto di comunismo (esito della contraddizione fra lo sviluppo delle forze produttive sociali e la natura classista dei rapporti sociali di produzione, formazione di un lavoratore collettivo cooperativo associato alleato con il general intellect, cioè con le stesse potenze produttive sprigionate dalla produzione capitalistica, eccetera), ma da un punto di vista filosofico-concettuale egli vi era già pienamente arrivato a ventisei anni.
E veniamo ora alla sua giovanile critica radicale a Hegel. È chiaro che senza la presa d’atto di una radicale discontinuità con Hegel il materialismo storico marxiano non sarebbe mai potuto nascere, il che fa diventare questa rottura con Hegel inevitabile ed indispensabile, per un insieme di ragioni che qui compendierò in due soltanto. In primo luogo, la teoria della successione dei modi di produzione sociali non può certamente derivare dalla filosofia della storia di Hegel, ma implica una rottura specifica con essa, che Marx un po’ impropriamente definì con il termine di dualismo Struttura/Sovrastruttura con dominanza della struttura. In secondo luogo, la critica radicale all’alienazione del lavoro nel capitalismo riprendeva certamente il tema hegeliano della lotta per il riconoscimento fra Servo e Signore, ma era incompatibile con la sostanziale accettazione del mondo borghese compiuta da Hegel nella sua Filosofia del Diritto (Spirito Oggettivo, Famiglia, Società Civile, Stato, eccetera).
E tuttavia non bisogna prendere dogmaticamente per scontato tutto ciò che Marx afferma di Hegel come se Marx fosse una divinità che ha sempre ragione qualunque cosa dica (cfr. Roberto Fineschi, Marx e Hegel, Carocci, Roma 2006). La critica di Marx alla dialettica della coscienza di Hegel è indubitabile, e senza di essa sarebbe stato impossibile riportare alla lotta contro il lavoro concretamente alienato il tema della necessaria soggettività rivoluzionaria (consigli, classe, partito, eccetera), che ha poi nutrito per più di un secolo l’intera storia del marxismo. Un marxismo depurato dall’imbarazzante lotta di classe, e depurato dall’ancora più imbarazzante comunismo, è oggi propugnato da quello che resta del marxismo universitario, ma si tratta di una congiuntura storica segnata dalla recente restaurazione (cfr. Alain Badiou, Il Secolo, Feltrinelli, Milano 2006), che prima o poi inevitabilmente finirà. Resta il fatto che Marx pensa filosoficamente il comunismo in modo decisamente hegeliano, in quanto prodotto da una antitesi contraddittoria (forze produttive e rapporti di produzione, borghesia e proletariato, eccetera) e concepito come sintesi ideale ( nel linguaggio hegeliano ideale=reale) delle contraddizioni capitalistiche. Non a caso la stessa accusa di sostenere così la fine della storia è stata sollevata (con qualche ragione) sia verso Hegel che verso Marx, e più o meno con gli stessi termini e lo stesso apparato argomentativo.
Ho esposto sinteticamente alcune ragioni che portano a giudicare del tutto attuali (ed attuali perché sostanzialmente ancora irrisolti) i tre nuclei di problemi sollevati da Marx nei Manoscritti. La loro analisi richiederebbe centinaia di pagine analitiche, del tutto incompatibili con una breve introduzione al testo. Vale invece la pena di segnalare alcune cose a proposito della ricezione storica dei Manoscritti da parte della comunità dei pensatori marxisti novecenteschi. Secondo la corretta formulazione di Kant, la filosofia è un campo di battaglia (Kampfplatz), in cui ogni oggettivazione teorica coerente cerca la sovranità assoluta nel proprio regno “ideale”, ed in cui ci possono essere al massimo degli armistizi, ma non certo delle “paci perpetue”. Una guerra di questo tipo c’è per esempio fra il profilo filosofico kantiano ed il profilo filosofico hegeliano, perché non ci può essere pace possibile fra una concezione che pensa la soggettività umana con un’operazione di formalizzazione aprioristica di tipo gnoseologico–trascendentale (Kant) ed una concezione che la pensa al contrario come l’esito sempre provvisorio di un conflitto dialettico fra soggettività opposte (Hegel).
Non possiamo dunque stupirci che da quasi un secolo i Manoscritti siano diventati il pretesto filologico per lo scontro fra due partiti filosofici entrambi riferentesi a Marx, il partito filosofico filo-hegeliano ed il partito filosofico anti-hegeliano. Si tratta spesso di uno scontro di tipo teologico–ideologico, simile per molti aspetti allo scontro fra teologi platonici e teologi aristotelici nel medioevo cristiano e bizantino. In quanto scontro teologico, il pensiero di Marx viene ridotto a Scriptura sacra, ad Auctoritas suprema cui appellarsi per la risoluzione di ogni possibile controversia, e comincia allora lo scontro interminabile per trovare la citazione giusta, quasi sempre decontestualizzata, che dovrebbe risolvere una volta per sempre il contrasto, e non può ovviamente farlo mai, perché le citazioni staccate dal contesto espressivo sono sorde e mute. In quanto scontro ideologico, si può dire di esse ciò che argutamente Terry Eagleton ha scritto dell’ideologia, e cioè che “l’ideologia, come l’alitosi, è qualcosa che appartiene sempre agli altri” (cfr. T. Eagleton, Ideologia, Fazi, Roma 2007). I Manoscritti non potevano quindi sfuggire a questa sorte.
Chi scrive è un ammiratore esplicito dei Manoscritti, e li considera parte integrante del corpus marxiano. Ma è bene segnalare anche le posizioni contrarie del partito anti-hegeliano, che per comodità espositiva dividerò in due parti, e cioè gli anti-hegeliani che con la scusa di liberarsi di Hegel mirano in realtà (e quasi sempre lo dicono anche esplicitamente) a liberarsi anche di Marx, e gli anti-hegeliani che invece ritengono che per poter salvare il “vero” Marx, quello scientifico e non contaminato dall’idealismo, bisogna invece liberarsi di Hegel. Anche se gli argomenti dei due “partiti”sono spesso sorprendentemente simili, è bene ammettere che le loro intenzioni politiche restano opposte. Non potendo entrare nel merito di queste posizioni per ragioni di spazio, il lettore sappia che per quanto riguarda il primo partito anti-hegeliano ho soprattutto in mente Jürgen Habermas (cfr. Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Bari-Roma 1987), e per il secondo partito anti-hegeliano ho soprattutto in mente Louis Althusser (cfr. Leggere il Capitale, Mimesis, Milano 2006). In entrambi i casi, ovviamente, la valutazione filosofica dei Manoscritti resta il cuore teorico del contendere.
Il partito anti-hegeliano “borghese” riprende contro Hegel-Marx (visti come i due corni dello stesso partito filosofico tardoromantico e tardometafisico dell’alienazione) i vecchi argomenti della corrente neokantiana (Bernstein, Adler, eccetera) che “stroncano” le loro posizioni dialettiche con lo stesso apparato concettuale con cui a suo tempo Kant aveva “stroncato” le pretese conoscitive e normative della metafisica classica. È interessante che Habermas, che pure si definisce un moderno in lotta contro i cosiddetti “postmoderni” (Lyotard, eccetera), usi poi di fatto gli stessi argomenti “antimetafisici” contro Hegel e Marx impiegati dai postmoderni stessi (critica di Lyotard alle “grandi narrazioni”, in cui c’è ovviamente sia la grande narrazione hegeliana sia la grande narrazione marxiana).
Il concetto di alienazione dei Manoscritti è ovviamente nel mirino della critica razionalistico-neokantiana di Habermas, in quanto “indeterminato”, ed in quanto indeterminato non “operativo”. Habermas si rende perfettamente conto che un’accettazione filosofica del concetto marxiano di alienazione comporterebbe automaticamente una critica politica radicale al capitalismo, esattamente quella che non intende fare in alcun modo, soprattutto dopo la sua rottura con i maestri francofortesi Horkheimer e Adorno, di cui ha comunque prudentemente atteso la morte per evitare che potessero prendere decisamente le distanze dalla sua evoluzione (o per meglio dire, dalla sua penosa involuzione).
Nel contesto del nostro discorso introduttivo, apparirà chiaro che la presa di distanza da Marx (attuata dopo un tentativo di “ricostruzione del marxismo” di tipo neokantiano, il che equivale a ricostruire una cattedrale con cartone pressato) gira intorno (e non potrebbe essere diversamente) alla delegittimazione teorica del concetto filosofico di alienazione. In soldini, bisogna che il succo del discorso consista in ciò, che non è vero che il lavoro erogato in condizioni capitalistiche sia alienato, così come non è neppure vero che sia realmente sfruttato (e per negare lo sfruttamento viene ideologicamente mobilitata la famosa trasformazione dei valori in prezzi di produzione, le cui innegabili inesattezze vengono utilizzate in analogia con le inesattezze teoriche delle vecchie prove ontologiche e cosmologiche sull’esistenza di Dio). C’è chi pensa che Dio, da un lato, ed il Comunismo, dall’altro, possano essere fatti “sparire” attraverso un’abile sofistica di tipo gnoseologico, senza rimuovere le ragioni storiche e sociali che in qualche modo legittimano entrambi. Ma chi pensa questo deve essere lasciato stare nel suo delirio gnoseologico, senza dimenticare un cortese inchino di congedo.
Un discorso diverso deve essere fatto per il secondo partito, il partito anti-hegeliano “comunista”. Trascurando qui il partito anti-hegeliano italiano (sviluppatosi con Galvano Della Volpe e poi “suicidato” con un harakiri neokantiano e popperiano da Lucio Colletti), che non se la prese mai particolarmente con i Manoscritti e con il concetto di alienazione, salvo poi scoprire che si trattava di una tarda secolarizzazione hegelo–marxiana di un concetto neoplatonico (Bedeschi, Albanese, collettiani vari), il vero fuoco d’artiglieria contro i Manoscritti ed il concetto di alienazione fu aperto a metà degli anni sessanta dalla scuola francese di Louis Althusser. Vi sono certamente ragioni di tipo “congiunturale” che lo spiegano. Nel dodicennio 1956-1968 (in breve, dal XX congresso del PCUS con relativa destalinizzazione all’entrata a Praga delle truppe del Patto di Varsavia, due date indubbiamente periodizzanti nella storia del movimento comunista internazionale) il successo del concetto di alienazione (Adam Schaff, Roger Garaudy, eccetera), successo che si fondava con tutta evidenza su di un “rilancio” del giovane Marx e della lettura dei Manoscritti, copriva ideologicamente una critica di “destra” al movimento comunista dell’epoca, il quale metteva al primo posto il concetto di alienazione come generico disagio interclassista generalizzato e finiva con il subordinare il concetto di lotta di classe fra capitalisti e proletari. Il contemporaneo sviluppo dell’”eresia” cinese, della diffusione in Europa del pensiero di Mao Tse Tung e della formazione di gruppi politici filocinesi, denominatisi marxisti-leninisti, finì con il fare da amplificatore al pensiero di Althusser.
La critica althusseriana al marxismo filosofico, che si fondava indiscutibilmente sul concetto di alienazione, non deve certo essere buttata via come si butta via il bambino con l’acqua sporca, in quanto a fianco dell’(ingiustificata)eliminazione del concetto di alienazione e della collocazione dei Manoscritti fuori del corpus “scientifico” marxiano (operazione – lo ripeto solennemente – inaccettabile), vi erano anche elementi molto positivi, come l’enfatizzazione della centralità del concetto di modo di produzione, la critica allo storicismo ed all’economicismo, ed infine la critica alle metafisiche grandi-narrative dell’Origine e della Fine della storia.
Non è certo questa la sede per entrare nei dettagli di questa storia, anche perché la scuola althusseriana fra poco compirà cinquant’anni di vita. È invece utile concludere questa breve introduzione con qualche consiglio al giovane lettore dei Manoscritti, che almeno in una cosa è “postumo”, in quanto viene dopo le tempeste ideologiche che hanno investito i Manoscritti di Marx in quanto “incunabolo dell’alienazione”. È bene allora essere informati del dibattito teorico-ideologico dei due partiti filosofici filo-hegeliano ed anti-hegeliano, ma è anche bene accingersi a leggere i Manoscritti con occhi nuovi. In proposito, mi limiterò ad alcune osservazioni largamente problematiche e del tutto prive di “raccomandazioni imperative” (l’espressione fu usata da Althusser a proposito di come aiutare gli operai a leggere il Capitale di Marx senza farsi “scoraggiare” dal suo lessico hegeliano).
In primo luogo, bisogna dire che una lettura (o per i più anziani una rilettura) dei Manoscritti non può che riportarci all’attualità del concetto marxiano di alienazione. Al di là della “dotta archiviazione” di questo concetto presente nelle dossografie filosofiche, appare chiaro che invece Marx ha saputo trattarlo con grande maestria dialettica nei suoi vari aspetti, e per così dire nelle sue “interfacce”. L’alienazione è prima di tutto espropriazione del lavoro umano da parte dei capitalisti, che se ne appropriano, lo sfruttano e rovesciano la sua potenza sociale cristallizzata contro il produttore stesso. L’alienazione è poi distacco del singolo dalla comunità produttiva solidale di cui fa parte, frantumata e scomposta dalla organizzazione capitalistica del lavoro (che più tardi nel Capitolo VI inedito del Capitale Marx ridefinirà in termini di sottomissione reale del lavoro al capitale). L’alienazione è inoltre separazione traumatica dell’uomo dalla sua stessa essenza umana, che è generica per definizione (Gattungswesen), e non può tollerare a lungo senza una degradazione antropologica devastante un suo inserimento unidimensionale nella pura logica riproduttiva del capitale. L’alienazione è infine sfiguramento dello stesso lavoro umano (Arbeit) come forma e modello della prassi trasformativi del mondo operata dall’attività umana (Tätigkeit).
Ma al di là della ricca sfaccettatura del termine di alienazione resta – come ho già rilevato in precedenza – il carattere profondamente unitario, e cioè logico-antropologico, del concetto stesso. L’alienazione concerne l’insieme della produzione capitalistica, ed in questo senso ritengo abbia perfettamente ragione l’economista-filosofo italiano Claudio Napoleoni, morto nel 1988 ed oggi purtroppo quasi dimenticato, per il quale nel capitalismo solo alcuni sono sfruttati (nel senso che solo gli sfruttati all’interno del modo di produzione capitalistico sono oggetto di estorsione di plusvalore assoluto e relativo, estorsione che avviene nella forma feticizzata dell’apparente scambio di equivalenti), mentre tutti sono alienati, in quanto anche la classe dei capitalisti (meglio definibile come la classe funzionale dei funzionari attivi della riproduzione capitalistica) è pur sempre inserita in un meccanismo anonimo ed impersonale di cui non sono in alcun modo i “padroni”.
Questo concetto di “capitalismo assoluto”, di cui i capitalisti sono funzionari subalterni assai più che veri e propri dominatori-decisori, è molto vicino al concetto di Heidegger di Imposizione-Impianto Anonimo (Gestell), frutto della risoluzione storica della lunga vicenda della metafisica occidentale in tecnica planetaria. Al di là del fatto che il concetto heideggeriano di Gestell tecnico possa sovrapporsi ad un concetto di capitalismo in Marx cui viene sottratta la contraddizione (mentre non gli vengono sottratte l’astrazione e la stessa alienazione), non c’è dubbio che la nozione di alienazione resta insostituibile. Al tempo di Marx non esisteva ancora l’attuale lavoro flessibile e precario, la valorizzazione capitalistica non si era ancora estesa mediante la manipolazione pubblicitaria dell’intero “mondo della vita” (Husserl), la famiglia e la sessualità non erano ancora state “liberalizzate”, eccetera, ma ciononostante il raggio sociale del concetto di alienazione da lui disegnato nei Manoscritti resta sempre attuale. In secondo luogo, resta il fatto incontrovertibile che nei Manoscritti c’è la “prova provata” che il ventiseienne Marx si considerava e si “autocertificava” (mi si scusi per questo linguaggio burocratico) come “comunista”. Si tratta di un dato filologico incontestabile, su cui concordano tutte indistintamente le scuole “marxiste”.
Possiamo dichiararci “comunisti” anche noi, in questo inizio del ventunesimo secolo ed addirittura epocalmente del terzo millennio? Ognuno ovviamente risponderà come vuole, e ci metterà tutte le riserve linguistico-politiche che riterrà necessarie. Per quanto mi riguarda risponderò – ad un tempo con cautela e decisione – di sì, aggiungendo che soggettivamente sostengo un’interpretazione comunitaristico-democratica del comunismo unita ad una interpretazione idealistico-filosofica del marxismo.
Ma ciò che conta ovviamente non è ciò che pensa empiricamente la modesta figura dello scrivente. Ciò che conta è che il concetto di comunismo in Marx non venga fatto “implodere” nel giudizio storico che ognuno ha diritto legittimamente di dare sulle vicende e sugli esiti del comunismo storico novecentesco realmente esistito (1917–1991). Alla luce dello stesso pensiero di Marx (non però del Marx dei Manoscritti, ma del Marx posteriore teorico della dinamica dialettica dei modi di produzione sociali) se ne possono dare giudizi diversi, che vanno da un giustificazionismo integrale ad una condanna senza appello. E tuttavia il concetto marxiano di comunismo ha una dimensione ad un tempo storica e metastorica, in quanto interpella non solo la logica dinamico-evolutiva del capitalismo, ma anche il significato della storia universale.
A differenza di Hegel, che limitava la sua filosofia ai concetti storicamente determinati e determinabili nel presente, Marx ritiene di poter parlare di una futura “società comunista”, anche se chiarisce immediatamente di non “voler scrivere ricette per i ristoranti del futuro”, e di non voler lasciarsi andare a previsioni dettagliate come era stato il caso per i cosiddetti “falansteri” di Fourier. Egli ricava il comunismo concettualmente per “differenza specifica” con il capitalismo, e questo lo porta di fatto ad utilizzare una sorta di teologia negativa alla Dionigi l’Areopagita, o se si vuole di dialettica negativa all’Adorno. Certo, Marx non può non parlare di “comunismo”, e lo definisce sia dinamicamente (il comunismo è quel movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti) sia staticamente (il comunismo è quella società in cui ognuno darà secondo la sua capacità e riceverà secondo i suoi bisogni). Si tratta certamente di concetti non sufficientemente determinati, e sarebbe sciocco nasconderlo per ragioni di appartenenza ideologica o di carità di patria. E tuttavia, nonostante alcuni aspetti francamente utopistici (chi scrive – ad esempio – non crede alla teoria della cosiddetta “estinzione dello stato”), sappiamo dalla filologia marxiana che Marx aveva una concezione storica e non soltanto naturalistico–frugale del concetto di “bisogno”, e che intendeva il comunismo non certo come società autoritaria, organicistica e pacificata (da fine della storia, cioè), ma come un momento della progettualità umana sociale concreta (più tardi il vecchio Lukács parlò correttamente di agire “teleologico”, e non certo di esito necessitato di una dialettica della natura). In definitiva, il bilancio del comunismo storico novecentesco falsifica certo popperianamente un certo modo di costruire il socialismo, ma passa largamente a lato del concetto di comunismo che Marx per la prima volta cercò di concretizzare nei suoi Manoscritti giovanili.
In terzo luogo, per finire, i Manoscritti pongono inderogabilmente il problema del profilo filosofico originale di Marx. Qui il discorso si farebbe inevitabilmente lungo (problema della differenza fra la filosofia di Marx e la filosofia di Engels, problema dell’esistenza o meno di una “rottura epistemologica” fra il giovane Marx ed il Marx maturo, problema dell’uso ideologico di legittimazione partitico-statuale del pensiero di Marx, eccetera), ma non è ovviamente questa la sede per parlarne in modo adeguato. Al di là del modo consueto di parlarne (Hegel sì ed Hegel no, dialettica sì e dialettica no, eccetera) il punto cruciale sta in ciò, se il marxismo abbia realmente bisogno di una fondazione filosofica, e sia cioè una vera e propria scienza filosofica nel senso di Fichte e di Hegel oppure sia invece una scienza sociale predittiva in senso positivistico, che in quanto tale è valida anche e soprattutto in assenza di una fondazione filosofica, ritenuta superflua ed addirittura negativa e dannosa in quanto “metafisica”. Chi scrive queste note di introduzione ai Manoscritti è un evidente sostenitore della prima variante, e per di più in forma esplicitamente “estremistica”. Ma i Manoscritti possono e devono essere letti anche da chi non la pensa affatto in questo modo. Ogni generazione filosofica e politica ha diritto alla sua lettura, e che cosa ne possa venir fuori è scritto nello scrigno segreto del futuro.

Costanzo Preve

Questo scritto del filosofo Costanzo Prevecostituisce un’introduzione ai Manoscritti di Marx per una nuova edizione greca degli stessi. È stato pubblicato come Appendice nel libro di Eugenio Orso, Alienazioni e uomo precario, Petite Plaisance, 2011.

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