Friedrich Heinrich Jacobi (1743-1819) – La «lettera a Johann G. Fichte». La filosofia è l’aureola dell’umano, è un viaggio intorno all’essere umano. Non può strapparmi questo cuore dal petto per mettere al suo posto il puro istinto della semplice egoità. Non permetto che mi si liberi dalla dipendenza dell’amore per conoscere la beatitudine solo con l’orgoglio.

Jacobi Friedrich Heinrich 01 Fichte

Salvatore Bravo

La lettera di Friedrich Heinrich Jacobi a Johann Gottlieb Fichte

 

Rileggere la Lettera di Friedrich Heinrich Jacobi (Düsseldorf, 25 gennaio1743 – Monaco di Baviera, 10 marzo 1819) a Fichte è un’importante esperienza filosofica per comprendere talune criticità dell’Idealismo. L’Idealismo identifica l’essere col pensiero; l’essere è posto dal pensiero (Gegenstand) per cui, la realtà storica, i significati, la qualità del vivere trova nel soggetto la sua verità. Fichte definiva l’Io come assoluto, libero. Si può ipotizzare che esso sia la metafora dell’umanità in cammino nella storia. L’Io assoluto è la verità della storia, la pone e la può trasformare (prassi), ma l’Io può anche abdicare alla sua funzione germinatrice di storia, per fatalizzare il presente, può deresponsabilizzarsi e ipostatizzare la storia. La fatalizzazione della storia non accade semplicemente, ma è l’Io responsabile del suo ritrarsi dalla storia. Fichte, dunque, coglie la verità della storia, la riporta alla responsabilità umana. L’oggettività, la realtà esistente a prescindere dal soggetto è solo dogmatismo funzionale a caratteri e gruppi sociali ed alle loro posture ideologiche. L’obiectum[1] è una necessità dei caratteri dogmatici che devono porre l’ipostasi per deresponsabilizzarsi, e scelgono volontariamente la reclusione nella caverna. Con una bella metafora Fichte paragona costoro ad un pezzo di lava sulla luna, la loro coscienza vive come congelata: ha smesso di confrontarsi con il non io, con la storia, con la prassi, per cui si sono allontanati dalla storia e dall’umano. Sono sideralmente lontani.

La bella immagine ci parla dell’attualità, del mondo digitale, in cui tutto è movimento, ma senza prassi, vige la perenne riproduzione del sistema. I meriti di Fichte sono indubitabili, eppure Jacobi coglie un rischio, un grande pericolo insito nell’Io creatore e dissolutore di mondi, ovvero ne teme il titanismo meccanico con il quale l’Io si afferma per nullificare e nullificarsi senza limiti:

«Ma lo spirito può essere creatore di se stesso esclusivamente alle condizioni generali indicate, deve annientarsi nell’essere per rinascere e possedersi solo nel concetto: nel concetto di un’origine e una fine pure, assolute, originariamente da nulla, verso nulla, per nulla, nel nulla, o nel concetto di un moto pendolare che, in quanto moto pendolare, si pone necessariamente dei limiti in generale. Tuttavia ha limiti definiti solo in quanto moto particolare, prodotto da un’inspiegabile limitazione, secondo l’analogia della forza centrifuga e centripeta della materia».[2]

 

La maglia di Jacobi
La metafora della maglia utilizzata da Jacobi è utile per esplicitare il pericolo da lui scorto. L’Io sovrano della prassi è come il ferro da uncinetto: crea la maglia, le dona i colori, le immagini, in un movimento ritmico incessante. L’incessante attività creatrice e disgregatrice prende il sopravvento, fino a diventare attività meccanica che col suo andirivieni acquisisce il senso della propria onnipotenza, diventa Dio in Terra, il padrone della storia. Il pericolo descritto da Jacobi è reale, e può concretizzarsi e degenerare nell’individualismo narcisistico di cui siamo testimoni nel tempo del capitalismo assoluto. Prevale il movimento sul fine, sulla teleologia. In questo modo l’attività trascende il fine per naufragare in un attivismo senza prassi, in un illimitato agire senza scopo:

«Per farsi un’immagine diversa da quella empirica abituale del generarsi e prodursi di una maglia fatta a mano, basta sciogliere il capo della maglia e lascia lo scorrere sul filo dell’identità di questo soggetto-oggetto. Allora si vede chiaramente come questo individuo giunga a realizzarsi per il semplice movimento di andata e ritorno del filo, ossia per l’incessante limitazione del suo movimento e l’impedimento a proseguirlo all’infinito, senza che nulla d’empirico intervenga nella trama o si mescoli e s’aggiunge qualcos’altro. In questa mia maglia faccio raggi, fiori, sole, luna e stelle, tutte le figure possibili, e riconosco che il tutto non è altro che il prodotto dell’immaginazione produttiva delle dita, oscillante tra l’Io del filo e il non-Io del ferro. Considerate dal punto di vista della verità, tutte queste figure insieme alla maglia sono soltanto semplici fili nudi».[3]

 

Nichilismo
Jacobi utilizza il termine nichilismo per denotare l’Idealismo di Fichte. Poiché l’Io diviene attività senza fondamento, manca lo scopo, è preso dalla produzione di mondi, è reso passivo, poiché l’iperattività gli impedisce di porre un limite a se stesso, di definire delle geometrie di senso. Prevale il nulla, ogni senso etico e storico collassa nell’ipertrofia dell’Io che si espande fino a perdersi. Jacobi utilizza la parola “nichilismo” per descrivere il disperdersi dell’Io nella sua espansione spaziale:

«Sinceramente caro Fichte non mi turberei se Lei o chiunque altro volesse chiamare chimerismo ciò che oppongo all’idealismo, che io accuso di nichilismo. In tutti i miei scritti ho manifestato il mio non-sapere, mi sono così vantato di essere scientemente tanto ignorante, perfettamente e minuziosamente in così alto grado, da poter disprezzare il comune scetticismo». [4]

 

L’Io lasciato a se stesso si consuma nella vacuità dell’autocontemplazione, non vede altro che se stesso, rapporta tutto a se stesso, si caratterizza per la sua voracità produttiva. Jacobi allarga lo strale non sono a Fichte, ma anche a Kant, in quanto la filosofia trascendentale di Kant è la premessa dell’Idealismo. Fichte ne completa il percorso. Il pericolo del nichilismo era già in embrione in Kant ed è esplicitato da Fichte:

«La filosofia trascendentale non può strapparmi questo cuore dal petto per mettere al suo posto il puro istinto della semplice egoità; non permetto che mi si liberi dalla dipendenza dell’amore per conoscere la beatitudine solo con l’orgoglio. Se la cosa suprema su cui riflettere e che posso contemplare è il mio vuoto, puro, nudo e semplice Io, con la suo autonomia e libertà, allora l’autocontemplazione riflessa, la razionalità, sono per me una maledizione e io maledico la mia esistenza».[5]

 

La risposta di Fichte al nichilismo
Jacobi è valutato un autore secondario nella storia della filosofia, eppure ha posto un problema “drammaticamente vero”, che ha attraversato la filosofia ed ha trovato risposta nel comunitarismo. L’Io assoluto rischia di ribaltare la prassi in attivismo, di perdersi in una dimensione priva del limite e, quindi, di etica. L’ultimo Fichte, con la teoria giovannea e la missione del dotto, già accoglie i dubbi di Jacobi, poiché l’Io del dotto trova il suo senso e il suo limite etico nella libertà interpretata come servizio alla comunità, in cui si è radicati ed all’umanità: il dotto insegna ad essere liberi. Il comunitarismo riesce a rispondere a Jacobi palesando la necessità della prassi nella comunità, ovvero l’Io esplica la propria libertà non in astratto, ma nella famiglia, nei corpi medi della democrazia, nel lavoro e nello Stato. La prassi dell’Io è un percorso, in cui si ritrova il fine, che strappa dalle spire del nichilismo, poiché la libertà non è una forma di solipsismo creatore, ma incontro, relazione nella quale non solo ci si autodefinisce, ma specialmente si scopre che si è parte vivente di una comunità, per cui il fine dell’agire umano è la libertà non competitiva, ma comunitaria.
Senza l’altro non vi è auto-riconoscimento di sé e dell’altro. Pertanto il fine della libertà è conoscere se stessi attraverso l’altro. Ogni libertà solipsistica che prolifera nell’indifferenza verso l’altro è solo negazione di sé, dell’altro e della libertà. Essa non è negazione della propria identità culturale e linguistica e dell’altrui, ma libertà di riconoscersi nell’incontro tra identità diverse.
Un concetto tanto alto ed etico della libertà necessita dell’adeguata struttura economica. Non a caso Fichte comprende che l’economico sta per prevalere sul politico, e si profila il regno dell’assoluta peccaminosità.
Jacobi e Fichte si ritrovano, alla fine. Entrambi temono il profilarsi dell’ipertrofia dell’Io, della patologia dell’Io che conosce solo i propri desideri nell’ignoranza dell’alterità.
Fichte accoglie la critica di Jacobi, e la trasforma in una possibilità di crescita critica della sua teoretica.

 

Filosofia e “critica dialogante”
La filosofia è attività corale. Il dubbio, la critica possono anche essere profonde, ma se sono svolte con l’intento di allargare l’orizzonte di comprensione divengono materiale per nuovi salti quantici creativi. La filosofia è l’aureola dell’umano, è un viaggio intorno all’essere umano. Pertanto i filosofi ci insegnano l’ascolto dei problemi teoretici ed i problemi relativi, e dunque le critiche non sono che mezzi per umanizzarsi nell’incontro con i propri limiti umani e concettuali e ritrovarsi: la filosofia conosce i concetti (Begriff) e non la chiacchiera (Gerede):

«La filosofia non è una materia di insegnamento, non è un campo del sapere che si trovi da qualche parte fuori dell’essere umano essenziale. La filosofia è intorno all’uomo giorno e notte, così come lo sono il cielo e la terra, anzi ancor più vicini di questi, allo stesso modo del chiarore che sta tra cielo e terra, ma che l’uomo quasi sempre trascura di vedere perché ha a che fare solo con ciò che gli appare nel chiarore. Talvolta, quando fa buio, l’uomo fa esplicitamente attenzione al chiarore intorno a lui. Ma proprio allora non se ne cura più, perché sa che il chiarore ritornerà». [6]

 

La filosofia è Streben (Sforzo), è tendere faticosamente al concetto, ma per condividerlo e ritrovarsi più autentici e veri.

 

Salvatore Bravo

 

 ***

 

[1] Obiectum, objicere, composto dalla preposizione ob-, davanti, e dal verbo jacere, gettare, e in particolare al suo participio perfetto objectum, da cui deriva anche oggetto.
[2] Friedrich Heinrich Jacobi, Fede e nichilismo. Lettera a Fichte, Morcelliana, Brescia 2001, pp. 41-42.
[3] Ibidem, pp. 45-46.
[4] Ibidem, pp. 59-60.
[5] Ibidem, pag. 57.
[6] Martin Heidegger, Introduzione alla filosofia. Pensare e poetare, Bompiani, Milano 2018, p. 45.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Petite Plaisance – Non delineando l’alternativa possibile al modo di produzione capitalistico, la si nega di fatto come alternativa possibile. Esattamente con il proprio “non pensarla”, o negando valore alla modellizzazione teorica della sua possibile realtà, proprio per questo non la si rende alternativa desiderabile e praticabile.

delineare

Se datiamo l’inizio consapevole del movimento comunista al 1848, ovvero al famoso Manifesto di Marx ed Engels (ma tale inizio potrebbe essere anche di molto retrodatato), è possibile verificare che in oltre 150 anni tale movimento non si è ancora messo d’accordo non solo sulle modalità sociali con cui dovrà strutturarsi il modo di produzione comunista, ma addirittura sul contenuto della stessa idea di “comunismo”.
È stata anche sostenuta,  erroneamente, la tesi che, essendo il comunismo il «movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti», non è corretto «scrivere ricette per le trattorie dell’avvenire».
Definire invece l’idea di “comunismo” è importante in quanto senza delinearla almeno nei suoi tratti generali, non si può nemmeno delineare il “modo di produzione comunista”, e senza delineare questa alternativa possibile al modo di produzione capitalistico non la si rende nemmeno una alternativa, ossia non la si rende nemmeno, con il proprio non pensarla, una alternativa praticabile e desiderabile. Infatti  non si può realizzare nella pratica ciò che non sta in piedi almeno nella teoria. In caso contrario, esso non sarà nulla, perché lo «stato di cose presenti» (capitalistico) è oggi molto più forte del «movimento reale» (comunista) che dovrebbe abolirle.
Per questo pensiamo che il comunismo debba innanzitutto essere una proposta filosofica umanistica, e dunque universalistica.
Solo partendo dall’Uomo per come è nella sua essenza, è possibile delineare il modo di produzione per come deve essere, ovvero il contesto ideale più in grado di realizzare la natura razionale e morale dell’uomo. L’Uomo infatti, inteso in senso trascendentale, è sempre il soggetto implicito di quel processo universale che è la storia. Tale storia, quando cerca di realizzare il fine della buona comunità sociale, si volge nella direzione del pieno umanesimo. Date le molte soglie che il modo di produzione capitalistico ha oltrepassato, occorre in maniera oramai urgente un processo educativo generale incentrato sulla necessaria cura dell’uomo e sul doveroso rispetto della natura.
Solo con una educazione umanistica l’uomo potrà realizzare la propria specifica “umanità”, e liberarsi da quella generica “animalità” che da secoli lo vincola ad una conflittuale sussistenza sociale.
A partire dalla Ideologia tedesca del 1845 compaiono sia il concetto generale di «modo di produzione sociale», sia il concetto di «comunismo», che Marx ed Engels in quella sede intesero, come il «movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti»; con Fulvio Papi, si può affermare che con l’Ideologia tedesca «il tema del comunismo subisce un radicale spostamento di asse teorico. Esso non viene più pensato come realizzazione della essenza dell’uomo nella sua forma sociale, ma viene considerato come un movimento oggettivo che deriva dai rapporti sociali che si sono instaurati con la diffusione del modo di produzione tipico del capitalismo». Nel Manifesto del partito comunista del 1848, il comunismo è definito come una società di uomini liberi, in cui la libertà di ognuno è la fonte della libertà di tutti. Nel Capitale (1867), che viene subito dopo i Grundrisse (in cui «il comunismo è sempre definito come un problema di liberazione dell’uomo), il comunismo viene più chiaramente pensato in opposizione contrastiva col capitalismo, ma viene sempre delineato come un modo di produzione comunitario caratterizzato dalla pianificazione e dalla trasparenza dei rapporti sociali, in opposizione alla privatezza capitalistica ed alla opacità mercificatrice che domina il modo di produzione capitalistico. Nella Critica al programma di Gotha (1875), in cui vi è l’ultimo esplicito riferimento al comunismo effettuato da Marx, egli ne descrive la fase più compiuta come quella che dovrà generalizzare la regola da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni.
Questo, in estrema sintesi, lo sviluppo concettuale del termine «comunismo» in Marx. Il tema della «pianificazione comunitaria», è ben presente nel Manifesto, nei Grundrisse, nel Capitale e nella Critica del programma di Gotha. Si tratta di un tema, non a caso, unito a doppio filo col tema dell’umanesimo marxiano, anch’esso ricorrente, in maniera più o meno esplicita, in tutte le principali opere di Marx.
L’umanesimo marxiano infatti  è un umanesimo radicale, volto cioè a realizzare i bisogni più essenziali dell’uomo, ovvero quelli connessi alla sua esistenza libera e comunitaria. Come Marx stesso scrisse in Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, infatti, la realizzazione dei bisogni più importanti dell’uomo è ciò che soltanto può far realizzare una «rivoluzione radicale» che possa attuare il «completo recupero dell’uomo».
Tutto questo implica una gerarchia di bisogni più o meno “naturali” da soddisfare; una gerarchia che, per essere realizzata in modo armonico, necessita di una pianificazione, in cui tutta l’attività produttiva e distributiva sia finalizzata principalmente alla realizzazione della buona vita comunitaria. Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 Marx argomentò infatti che il primo bisogno realmente necessario dell’uomo è il recupero della propria essenza; questa tesi fu peraltro successivamente ripresa nei Grundrisse in cui, accanto ad una descrizione dei bisogni artificiali prodotti dalla società, Marx ribadì la priorità dei bisogni naturali, ossia di quei bisogni che l’uomo deve necessariamente soddisfare per realizzare la propria natura (tali bisogni non sono affatto unicamente quelli “materiali”, come tuttora ritiene certo marxismo, bensì soprattutto quelli spirituali, poiché l’uomo è «tanto più ricco di bisogni quanto più è ricco di qualità e relazioni»). I bisogni naturali  sono dunque non un “dato biologico”, ma un “contenuto culturale”; quando Marx, nel Capitale, fa più volte riferimento ai «bisogni sociali», egli in sostanza fa sempre riferimento ai «bisogni naturali».
All’attuale modo di produzione gli uomini, da alcuni secoli, hanno consegnato la propria dignità, la propria sussistenza, e più in generale la propria vita.
Il marxismo prevalente non concorda con la centralità dell’umanesimo e della pianificazione comunitaria come contenuti costitutivi del “comunismo marxiano”, e del comunismo in generale. Riteniamo erronea l’affermazione di Engels, condivisa anche da Marx, presente in un articolo pubblicato sulla Deutsche Brusseler Zeitung del 7/10/1847: «Il comunismo non è una dottrina, ma un movimento; non muove da princípi, ma da fatti. I comunisti non hanno come presupposto questa o quella filosofia, ma tutta la storia».
Se ben si riflette, anche un «movimento» non può essere tale se non è chiara la sua «dottrina», che sola permette di identificarlo unitariamente come «movimento». La “storia”, senza la “filosofia”, si riduce ad una mera serie di eventi; tuttavia la cosa più importante, in questi eventi, è proprio ricercarne il senso complessivo, ossia effettuarne una valutazione onto-assiologica. Il modo migliore per effettuare tale valutazione è sviluppare una filosofia che ponga, nel modo più esplicito possibile, come principio primo l’Uomo e la necessità della sua realizzazione comunitaria nelle modalità sociali.
Si tratta di una definizione sostanzialmente conforme a quella proposta da Marx, in quanto, come egli scrisse anche nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 (e tale posizione non fu mai completamente abbandonata), l’umanesimo è l’essenza del comunismo.
Riteniamo che una simile idea generale di «comunismo» possa essere accettata da molti, salvo appunto dai negatori della esistenza della natura umana (ad esempio alcuni “marxisti”), oppure dai sostenitori della tesi di una natura umana non razionale e non morale (ad esempio alcuni liberali). Poiché però la natura umana esiste ed è razionale e morale, allora deve esistere (ed è responsabilità di ciascuno di noi ricercarne la possibilità di inverarsi, acquisendo verità e concretezza) un modo di produzione ideale in cui essa possa realizzarsi, che deve essere armonico e comunitario, ossia non privatistico e non mercificato. L’unico modo di produzione funzionale che possieda queste caratteristiche deve necessariamente strutturarsi sulla base della proprietà comune dei mezzi della produzione sociale, e della pianificazione comunitaria della economia, poiché altrimenti conflitti ed antagonismi continuamente insorgenti non riuscirebbero mai a trovare soluzione condivisa.
Questo in sintesi il contenuto concreto dell’idea di «comunismo» che proponiamo, ben diverso da quello che è stato il “comunismo sovietico” e dei suoi “paesi satelliti” e di un certo “euro-comunismo” europeo nel Novecento (e agli antipodi dell’attuale mistificante falso “comunismo cinese” nella sua ideologia impregnata di totipotenza tecnologica) per la semplice considerazione che il fine del modello ideale cui aspiriamo è l’Uomo e la  pienezza della sua umanità, e non la massimizzazione della potenza del capitalismo tecnicizzato.


Carmine Fiorillo e Luca Grecchi,
Il necessario fondamento umanistico del “comunismo”
[indicepresentazioneautoresintesi]


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Davide Susanetti – La relazione con l’antico è e deve essere, ogni volta, l’accadere di un “dislocamento”, l’occasione per interrompere quel flusso che ci stordisce senza che nemmeno più se ne abbia consapevolezza. È e deve essere vera esperienza che nutre la vita, offrendole possibilità “nuove” proprio perché, paradossalmente, “antiche”.

Davide Susanetti 01

Ogni giorno siamo immersi in un flusso di parole. Le nostre e le altrui in uno scambio continuo. Ce ne serviamo spesso distrattamente o in modo frettoloso. Dobbiamo dire qualcosa o ottenere una risposta. E non ci soffermiamo troppo a riflettere sul suono che esse hanno, sulla materia di cui si sostanziano, sulla storia cui sono connesse o sui valori più riposti cui le loro radici possono rinviare. Talora, non indugiamo troppo nemmeno sulla scelta, limitandoci a un vocabolario ristretto e ai giri di frase più correnti: parliamo come fanno tutti senza alcuno scarto rispetto a ciò che siamo soliti ascoltare dagli altri e ripetere a nostra volta. In altre occasioni, all’opposto, diveniamo più astuti e accorti. Abituati a decenni di civiltà mediatica e di pubblicità, sappiamo fin troppo bene che un messaggio ben costruito può essere un mezzo per convincere e orientare, per indurre comportamenti, consensi o acquisti in un mondo costruito per consumatori di ogni specie. Tanto in un caso quanto nell’altro – nella banalità della routine o nelle strategie sofisticate della comunicazione – la parola è qualcosa che “si usa” per soddisfare bisogni o finalità pratiche: un mero e meccanico strumento, nel perimetro, sempre più angusto, di un’esistenza uni dimensionale e stereotipata. Persino quando le parole paiono veicolare un’emozione soggettiva, si tratta, frequentemente, di semplici dinamiche reattive che fanno eco, in modo pressoché irriflesso e superficiale, a una contingenza o a uno stato.

Vi sono, però, nella vita, anche istanti di grazia: momenti – casuali o ricercati deliberatamente – nei quali questo modo di vivere il linguaggio e, insieme a esso, il mondo che ci circonda, si interrompe. Momenti di un silenzio assoluto – dentro e fuori di noi – in cui qualcosa d’altro e di inaspettato affiora nella trama della cosiddetta realtà oggettiva. Si rimane spiazzati, storditi e pieni di meraviglia dinanzi a quell’inaspettato, a quel mai visto o mai percepito che ci viene incontro, svelando il volto celato dell’essere.

Abitudini percettive, schemi mentali, grumi emotivi, cristallizzazioni del linguaggio creano una cortina spessa, una barriera che impedisce di vedere e di sentire. Basta, tuttavia, sospendere lo “sguardo semplificatore dell’abitudine” – come racconta Lord Chandos nella celebre Lettera di Hofmannsthal – ed ecco che tutto può mutare, schiudendo, all’improvviso, un orizzonte di “pienezza”, di “smisurata partecipazione” e di “infinita rispondenza” con tutto ciò che esiste. Si è come rapiti in un “vortice”, presi dal “fiotto straripante di una vita più alta”, affatto diversa dall’ottundimento del quotidiano: ogni cosa dell’universo diviene “vibrazione” di energia che risuona e s’intreccia nella “grande unità” del tutto. […]

Lord Chandos compone la propria lettera per confessare quest’impossibilità a dire, rinunciando per sempre a scrivere. Ma il carattere estremo di tale decisione non fa che indicare la radicalità di un’istanza che eccede il caso specifico. È proprio dal sentire acutamente l’impotenza del proprio linguaggio – dall’insoddisfazione e dal limite di un’espressione vuota e inane – che scaturisce, ogni volta, la ricerca inesausta di una parola “altra”, di una maniera differente di abitare il linguaggio e il mistero della realtà. La poesia, il mito e il simbolo non sono null’altro che questo: tentativi di accedere e insieme di manifestare la rete delle forze invisibili che tramano l’intera realtà: “realizzazioni” di quell’intelligenza del “cuore” che non è affatto sentimentalità o emozione – come spesso purtroppo s’intende –, bensì intuizione viva e sovrarazionale dell’ anima pulsante del mondo. […]

La parola poetica è chiave di un rinnovato rapporto con l’uno e il tutto, di uno sguardo rigenerato che diviene forma superiore di coscienza. È espressione di quel vincolo che stringe fra loro le cose, legame che supera e bandisce ogni separatezza ed estraneità. Ma, proprio per questo, parole e miti non solo iscrivono gli umani nell’orizzonte dell’universo, ma provvedono anche ad avvincerli gli uni agli altri in una dimensione di comunità e di reciproca relazione. La poesia è luogo dell’essere così come è il disegno di una possibile casa comune.

Di tutto ciò offrono testimonianza le tradizioni antiche che hanno pronunciato, per la prima volta, l’origine e il fondamento della parola, dando luogo a una catena che, in modo ora più evidente ora più carsico, non si è mai, di fatto, interrotta. Per questo occorre, ancora e sempre, sprofondare il nostro sguardo nel pozzo del passato e udirne le voci. Per rigenerare il nostro stesso linguaggio e la nostra consapevolezza.

La relazione con l’antico è e deve essere, ogni volta, l’accadere di un “dislocamento”, l’occasione per interrompere quel flusso che ci stordisce senza che nemmeno più se ne abbia consapevolezza. È e deve essere vera esperienza che nutre la vita, offrendole possibilità “nuove” proprio perché, paradossalmente, “antiche”.

Per l’Europa e l’Occidente – per la natura e l’identità di chi a essi appartiene nonostante la globalizzazione postmoderna – la sapienza greca resta l’imprescindibile scaturigine di tale esperienza. Da qui il percorso che ci attende, a cominciare dalle pendici di quel monte ove le Muse hanno iniziato a far udire le loro voci, per poi proseguire in un periplo attraverso le forme, i poteri e le occasioni della poesia. […] Nella turbolenza contraddittoria del postmoderno che ci irretisce, nella pressione di istanze economiche che ci alienano, non sono le esplosioni verbali della rabbia e del disagio – ancorché umanamente comprensibili – a poter produrre cambiamento. Non sono le dinamiche sempre più violente del discorso pubblico né le contrapposizioni faziose di una politica grottesca a veicolare speranze di rigenerazione. Nulla, d’altro canto, è più menzognero e fuorviante di quelle espressioni e di quei linguaggi che sembrano far appello a evidenze condivisibili, quando, al contrario, non fanno che alimentare la consistenza disperante degli equivoci. Quei modi della parola – che ogni media ingigantisce nell’orrore di un’eco perpetua – non affrancano i soggetti, ma li fanno sempre più prigionieri di un antro buio. Occorre che si produca un radicale salto di coscienza che, come un benefico contagio, si estenda dai singoli soggetti ai piccoli gruppi per formare un’onda sempre più ampia. Ma, per far questo, bisogna liberare un’energia che solo la consapevolezza vissuta e interiorizzata della tradizione può fornire, che solo un rapporto vitale con una diversa parola può far scaturire. Ed è lì. che le Muse iniziano a far udire il loro canto, a dispensare il loro miele, ronzando come api dell’invisibile.

 

Davide Susanetti, Luce delle Muse. La sapienza greca e la magia della parola, Giunti-Bompiani, Firenze-Milano 2019, pp. 7-12.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Giovanni Reale (1931-2014) – Alcuni pensieri dei Presocratici si impongono come eterne verità. Fare filosofia nel senso più forte significa cercare ciò che sta oltre il fenomeno per spiegare i fenomeni stessi, e questo vale per ogni filosofare, alle origini così come ora, e così varrà anche per tutti i tempi.

Giovanni Reale 004

Alcuni pensieri dei Presocratici che si impongono come eterne verità

I pensieri dei Presocratici che mi hanno sempre colpito, e in particolare nella preparazione di questa edizione, dopo oltre mezzo secolo di studi, sono numerosi; ma mi vorrei soffermare solo su pochissimi, che sono fra più forti.

In primo luogo, faccio richiamo allo straordinario poema di Parmenide, che dal punto di vista teoretico costituisce un vero vertice. Platone (e non pochi con lui) considerava Parmenide il maggiore dei Presocratici. Gli dedicò il dialogo omonimo, e nel Teeteto lo presenta così: «Parmenide mi sembra che sia, per dirla con Omero, «venerando e insieme terribile» (28 A 5).

Le mie preferenze, tuttavia, sono piuttosto per Eraclito. Del resto, anche grandi pensatori moderni hanno espresso una notevole ammirazione per Eraclito. Hegel, per esempio, sosteneva di aver utilizzato nella sua Logica quasi tutti i frammenti eraclitei.

Nietzsche, poi, nel suo scritto Sul pathos della verità (che fa parte delle Cinque prefazioni per cinque libri non scritti) dice che i frammenti di Eraclito, scritti con lo stile dei discorsi profetici della Sibilla, profetessa del dio Apollo, contengono verità eterne, e scrive (facendo riferimento a 22 B 92): «Sebbene il dio fornisca i suoi responsi “senza sorrisi, senza ornamenti, né profumi di unguenti”, ma piuttosto “con la schiuma alla bocca”, tutto ciò dovrà penetrare nei millenni dell’avvenire. In effetti il mondo ha eternamente bisogno della verità e quindi eternamente bisogno di Eraclito, sebbene Eraclito non abbia bisogno del mondo».

Ricordo soprattutto il grande frammento 45, che ho scelto addirittura come motto epigrafico (e del quale ho già parlato sopra al § 4), in cui l’uomo riconosce per la prima volta l’infinita profondità della propria anima e della propria ragione (del proprio logos).

Non meno forte è il frammento 85: «Difficile è la lotta contro il desiderio, perché ciò che esso vuole lo compera a prezzo dell’anima», nel quale Eraclito per certi aspetti anticipa addirittura la tesi di fondo che Goethe svilupperà nel suo Faust, e che ha moltissimo da dire anche e soprattutto all’uomo di oggi.

E ai giovani di oggi, molti dei quali sono piuttosto scettici e privi di speranze, ancora Eraclito manda un messaggio straordinario: «Se uno non spera, non potrà mai trovare l’insperabile, perché esso è difficile da trovare e impervio» (B 18). Il che significa che proprio sperando – e solo sperando – si trova l’insperabile.

E per concludere faccio richiamo a un pensiero di Anassagora (B 21a), che il grande Democrito faceva suo e lodava (A 111): «Le cose che si vedono sono l’aspetto visibile di quelle che non si vedono».

I fenomeni non si risolvono in ciò che immediatamente vediamo, ma rimandano tutti a qualcosa di ulteriore che non si vede, ma dal quale derivano e del quale provano l’esistenza.

E questo esprime molto bene ciò che significa fare filosofia nel senso più forte, ossia cercare appunto ciò che sta oltre il fenomeno per spiegare i fenomeni stessi, e questo vale per ogni filosofare, alle origini così come ora, e così varrà anche per tutti i tempi.

 

Giovanni Reale, Saggio introduttivo. Il pensiero dei Presocratici alle radici del pensiero europeo, in: I Presocratici. Prima traduzione integrale e con testi originali a fronte delle testimonioanze e dei frammenti nella raccolta di Hermaann Diels e Walther Kranz, a cura di Giovanni Reale, Bompiani, Milano 2006, pp. LVII-LVIII.


Giovanni Reale (1931-2014) – Si è filosofi solo se e finché si è totalmente liberi, ossia solo se e finché si cerca il vero come tale. Conoscendo in modo disinteressato, l’uomo si accosta alla verità e in questa maniera realizza la sua natura razionale al più alto grado.
Giovanni Reale (1931-2014) – Il vero “vincere”, per Socrate consisteva nel “convincere”. Il nichilismo compiuto “insegna il piacere della distruzione”. La malvagità corre molto più veloce della morte.
Giovanni Reale (1931-2014) – «Eudaimonia». La felicità dipende da te, non dalle cose. Sei tu che scegli il tuo «daimon» e la virtù non ha padroni. Ma oggi la filosofia si sta distruggendo con una formula di autofagia.

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Pavel A. Florenskij (1882-1937) – La parola è un condensatore della volontà, un condensatore dell’attenzione, un condensatore dell’intera vita dell’anima.

Pavel Aleksandrovič Florenskij 04
«La parola è un condensatore della volontà,
un condensatore dell’attenzione,
un condensatore dell’intera vita dell’anima».

 

Pavel A. Florenskij, Il valore magico della parola, a cura di Graziano Lingua, Medusa, Milano 2001.


Pavel Florenskij (1882-1937) – «La prospettiva rovesciata». Ci sono solo due tipi di rapporto con la vita: quello interiore e quello esteriore, come ci sono due tipi di cultura: contemplativo-creativa e rapace-meccanica.
Pavel Aleksandrovič Florenskij (1882-1937) – Verità, bene e bellezza: questa triade metafisica è un unico principio. Nella vita ci sono molte cose mostruose, malvage, tristi e sporche. Tuttavia, rendendosi conto di tutto questo, bisogna avere dinanzi allo sguardo interiore l’armonia e cercare di realizzarla.
Pavel A. Florenskij (1882-1937) – Cultura è lotta consapevole contro l’appiattimento generale, è resistenza al processo di livellamento dell’universo, è l’accrescersi della diversità di potenziale in ogni campo che assurge a condizione di vita, è contrapposizione all’omologazione, sinonimo di morte. Dove regna l’intercosalità non vi è cultura, ma solo svalorizzazione dell’essere umano.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Massimo Bontempelli (1946-2011) – C’è un filo teoretico nichilistico che unisce Heidegger, Galimberti e Severino: l’oscuramento del capitalismo nello scenario della tecnica. Per Galimberti non c’è varco pensabile nell’orizzonte dell’epoca presente ed offre solo una filosofia dell’impotenza e dell’adattamento.

Umberto Galimberti - Massimo Bontempelli

Massimo Bontempelli
Un esempio di pensiero nichilista contemporaneo. Lettura critica del libro di Umberto Galimberti «Psiche e techne»

In Appendice: In cammino verso la realtà.

ISBN 978-88-7588-261-7, 2020, pp. 112, 130×200 mm., Euro 12 – Collana “Il giogo” [123]

indicepresentazioneautoresintesi

La realtà non è la semplice esistenza, ma è l’esistenza che si inscrive nelle condizioni dell’azione reciproca tra gli esseri umani, diventando così sostanza possibile del loro mutuo riconoscimento.

Quando l’epoca in cui si vive non lascia esprimere la realtà a ben definiti percorsi storico-sociali, l’imperativo, per conservare dignità umana e non lasciarsi invecchiare dalla morte, è quello di costruire esperienze di riconoscimento e di manifestazione della realtà.

Il nichilismo di cui è impregnato l’orizzonte storico nel quale siamo immersi viene qui criticato al suo alto livello di espressione, quello tematizzato dal dispositivo teorico di U. Galimberti. C’è un nichilistico filo teoretico che unisce M. Heidegger, U. Galimberti ed E. Severino: l’oscuramento del capitalismo nello scenario della tecnica. Come Heidegger, Galimberti presenta uno sviluppo della tecnica planetaria mosso esclusivamente da una sua intrinseca spinta all’autopotenziamento ininterrotto. Come Severino, egli si raffigura un capitalismo che, avendo nella tecnica la condizione indispensabile per raggiungere il proprio fine, tende a subordinarlo al potenziamento della tecnica, e tende quindi a perdere, con esso, la propria specifica natura. Severino, infatti, parla dell’attuale sistema mondiale come di un modo di produzione scientifico-tecnologico, più che capitalistico. Per Galimberti non c’è dunque varco pensabile nell’orizzonte dell’epoca presente, ed offre solo una filosofia (teoreticamente povera) dell’impotenza che adatta il pensiero al tempo storico (ecco il suo nichilismo). Il sistema capitalistico tecnicizzato non è la fine della storia. Il compito più degno della filosofia oggi è quello di tematizzare le forme ontologiche oscurate dall’orizzonte della tecnica, e mettersi in cammino verso la realtà nel criticare il nichilismo, al duplice scopo di suscitare la consapevolezza della sua valenza distruttiva delle basi stesse della convivenza umana, e di illuminare la possibilità di percorsi di vita sottratti al suo peso disumanizzante. Un compito che ha perciò risvolti e riferimenti sociologici ed esistenziali, economici e psicologici, ma la sua prospettiva è di natura teoretica. Si tratta appunto, infatti, di un discorso filosofico, e la cui base sta nel presupposto che non si possa capire il nichilismo se non sul piano trascendentale, e quindi filosofico. Ciò in quanto il nichilismo è individuabile come tale soltanto come negazione della realtà umana dell’uomo, e dunque occorre, per individuarlo, un concetto filosofico di realtà. La realtà non è la semplice esistenza, ma è l’esistenza che si inscrive nelle condizioni dell’azione reciproca tra gli esseri umani, diventando così sostanza possibile del loro mutuo riconoscimento. Quando l’epoca in cui si vive non lascia esprimere la realtà a ben definiti percorsi storico-sociali, l’imperativo, per conservare dignità umana e non lasciarsi invecchiare dalla morte, è quello di costruire esperienze di riconoscimento e di manifestazione della realtà.


Massimo Bontempelli (1946-2011), si è occupato prevalentemente di storia antica e di dialettica platonica e neoplatonica. Ha pubblicato, tra gli altri: Il senso dell’essere nelle culture occidentali (con F. Bentivoglio), 3 voll., 1992; Storia e coscienza storica, 3 voll., 1993; Antiche strutture sociali mediterranee, 2 voll., 1994; Percorsi di verità della dialettica antica (con F. Bentivoglio), 1996; Nichilismo, Verità, Storia. Un manifesto filosofico della fine del XX secolo (con C. Preve),1997; Gesù di Nazareth. Uomo nella storia. Dio nel pensiero, 1997-2017; La conoscenza del bene e del male, 1998; La disgregazione futura del capitalismo mondializzato, 1998; Tempo e memoria. La filosofia del tempo tra memoria del passato, identità del presente e progetto del futuro, 1999; L’agonia della scuola italiana; Il respiro del Novecento. Percorso di storia del XX secolo (1914-1945), Filosofia e realtà. Saggio sul concetto di realtà in Hegel e sul nichilismo contemporaneo.


Sommario

Il nichilismo contemporaneo va criticato nel suo più alto livello di espressione

Il discorso filosofico di Galimberti è prigioniero del suo presente storico avendolo pensato come assoluto

Il dispositivo teorico di Galimberti è derivato dalla filosofia heideggeriana

Nel dispositivo teorico heideggeriano non c’è varco pensabile nell’orizzonte dell’epoca presente

L’heideggerismo è una filosofia dell’impotenza che adatta il pensiero al tempo storico

Per Galimberti la tecnica è l’essenza dell’uomo

L’angustia teorica dell’impostazione filosofica heideggeriana

Il dispositivo teorico hedeggeriano è devastante delle poche risorse culturali non ancora avvelenate dal nichilismo

L’errore capitale di Hedigger appare come verità alle intelligenze di oggi

Il filo teoretico che unisce Heidegger, Galimberti e Severino

La tecnica non è il fondamento dell’attuale orizzonte storico

Il sistema capitalistico tecnicizzato  non è la fine della storia

Non è vero che non si dia essenza dell’uomo al di là del condizionamento tecnico

Il compito più degno della filosofia oggi è quello di tematizzare
le forme ontologiche oscurate dall’orizzonte della tecnica

Il principio hegeliano secondo il quale il reale è razionale rappresenta una posizione culturale
niente affatto prefigurante la razionalità tecnica, ma una posizione del tutto alternativa

La povertà filosofica di Umberto Galimberti in ordine a: conoscenza, verità, anima, cultura e valori spirituali

***

Appendice

 

In cammino verso la realtà

 

La realtà non è la semplice esistenza, ma è l’esistenza che si inscrive nelle condizioni dell’azione reciproca tra gli esseri umani, diventando così sostanza possibile del loro mutuo riconoscimento.

Quando l’epoca in cui si vive non lascia esprimere la realtà a ben definiti percorsi storico-sociali, l’imperativo, per conservare dignità umana e non lasciarsi invecchiare dalla morte, è quello di costruire esperienze di riconoscimento e di manifestazione della realtà.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Petite Plaisance – Una nuova progettualità comunitaria può essere costruita solo sulla base dell’umanesimo filosofico, mettendo in opera prove di concreta e buona utopia

Progettualità comunitaria
«Chi vuol fare una ricerca conveniente sulla Costituzione migliore,
deve precisare dapprima quale è il modo di vita più desiderabile.
Se questo rimane sconosciuto,
di necessità rimane sconosciuta anche la Costituzione migliore».
Aristotele, Politica, VII, 1,1323 a, 1-4.






«[...] quello che fin dall’inizio distingue
il peggiore architetto dalla migliore delle api,
è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa
prima di averla costruita nella cera [...].
Egli non opera soltanto un mutamento di forma dell’elemento naturale;
egli contemporaneamente realizza in questo il proprio fine, di cui ha coscienza».
K. Marx, Il Capitale

 

***

Finché vivremo in un mondo caratterizzato dalle gravi sofferenze evitabili di centinaia di milioni di persone, sofferenze dovute principalmente alla struttura privatistica e mercificata dell’attuale modo di produzione sociale, sarà una necessità pensare ad un modo di produzione sociale ideale (costruendo la “celletta” nella nostra testa – come dice Marx) conforme alla natura umana che, richiamando una nobile ed antica tradizione, riteniamo ancora appropriato definire “comunista”.
Senza una buona proposta teorica, non può esistere alcuna buona attività pratica. E le proposte teoriche attualmente in campo definite “comuniste” non sono affatto buone (il plurale è d’obbligo, dato il permanere di vari “marxismi” pietrificati, cui vengono tuttora ancorati programmi politici privi di fondamento filosofico).
In un’epoca in cui il modo di produzione capitalistico sta dando prova della sua pervasiva distruttività sociale e naturale, teorizzare la necessità di un modo di produzione alternativo in grado di strutturare rapporti armonici fra gli uomini e con la natura, forse può destare interesse e vicinanza. Ma un vero comunismo può essere costruito solo sull’umanesimo filosofico. Delineare il “fondamento umanistico” del progetto teorico del comunismo (ossia di un modo di produzione sociale complessivo idealmente conformato, per struttura e finalità, sulle principali esigenze della natura umana), è una “necessità”.
Un progetto politico che abbia come finalità la realizzazione delle più naturali modalità sociali, necessita di un fondamento filosofico, e questo fondamento non può che essere costituito dall’Uomo. L’Uomo (scritto con la maiuscola per indicare, con questo termine, ciò che vi è di universale nel genere umano, ossia l’umanità trascendentalmente intesa) è in effetti il riferimento costitutivo della totalità sociale, ed è anche il solo ente in grado di pensare l’intero, di darvi un senso e di averne cura.
L’Uomo è il fondamento della verità dell’essere, ossia di tutto ciò che è, e  questa posizione filosofica costituisce la base della progettualità politica. Dato che l’essere assume la propria compiuta verità quando consente all’Uomo una vita vera, ossia conforme alla sua natura razionale e morale, l’Uomo si pone come fondamento della verità dell’essere quando ne pensa in questo modo il senso ed il valore (fermi restando il rispetto e la cura che si devono al cosmo naturale). Il progetto comunitario cui si fa riferimento non consiste infatti in altro se non in un modo di produzione ideale conforme alla natura umana, in grado cioè di realizzare quella armonica convivenza comunitaria di cui gli uomini, per natura, hanno bisogno appunto per la loro stessa realizzazione.
Conoscendo  le tendenze filosofiche contemporanee, questa prospettiva rischierà, in alcuni epigoni di Nietzsche e Heidegger, di essere interpretata come troppo “antropocentrica”, ossia troppo incentrata sull’uomo come “dominatore” della natura. Ma tale interpretazione è da un lato errata – in quanto l’umanesimo è cosa ben diversa dall’antropocentrismo –, e dall’altro lato pretestuosa – in quanto, in un sistema in cui tutto è strumentalizzato al profitto, chi considera “l’uomo” come dominatore cerca davvero, consapevolmente o meno, solo un pretesto per non criticare il sistema capitalistico stesso.
La cultura dell’umanesimo progettuale non è affatto un pericolo per la natura. Tale pericolo è invece costituito da tutti quei modi di produzione, quale principalmente è quello capitalistico, che si pongono come fine la massimizzazione della ricchezza e della potenza degli agenti economico-sociali più forti, anziché la buona vita comunitaria degli uomini tutti.
La cultura umanistica è progettuale in quanto invita ad una possibile pedagogia narrativa, che favorisca la paziente ricostruzione dei processi storici delle soggettività e la reale comunicazione di esperienze significative. Invita altresì alla ricerca continua di nuovi orizzonti oltre la “gabbia d’acciaio” capitalistica, alla promozione di valori quali, per esempio, la partecipazione reale dei cittadini, la solidarietà per una nuova cittadinanza, in una comunità che voglia e sappia davvero educacare se stessa superando l’alienazione desertificante cui costringe il mondo delle merci, una cultura “ubiquitaria” nell’humus di questa cittadinanza attiva, senza deleghe: una “comunità educante”. Una cultura capace di rafforzare nei giovani la memoria storica come principale risorsa per la costruzione della propria identità, facendo proprio il pensiero genealogico,  per educare ed educarsi all’ascolto delle “altre memorie”, per sperimentare la produzione di materiali narrativi “altri”,  sia in forma individuale, sia in forma collettiva, con gesti, comportamenti, azioni simboliche, esercizi di cittadinanza attiva, mettendo in opera prove di concreta e buona utopia sul palcoscenico di una quotidianità condivisa.

Petite Plaisance


 

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Arianna Fermani – «Il concetto di limite nella filosofia antica». L’uomo non è dio, ma la sua vita può essere divina. Divina è ogni vita buona, ogni vita che sia stata ben condotta. Ogni vita umana si costruisce entro lo scenario del quotidiano, è fatta delle piccole cose di ogni giorno e di questa quotidianità si nutre.

Arianna Fermani, il concetto di limite
«La società degli individui». Quadrimestrale di Filosofia e teoria sociale. Fascicolo 23, 2005, Franco Angeli.

«Non si deve, in quanto esseri umani, limitarsi a pensare cose umane né, essendo mortali, limitarsi a pensare cose mortali, come si consiglia ma, per quanto è possibile, immortalarsi e fare di tutto per vivere secondo la parte migliore che è in noi».

Aristotele, Etica Nicomachea X, 7, 1177 b 31-34.


Arianna Fermani

Il concetto di limite nella filosofia antica

  1. Il ‘limite’ in ambito gnoseologico

  2. II. Il ‘limite’ in ambito etico

  3. III. Il ‘limite’ in ambito politico

  1. Concludendo


La filosofia nasce contrassegnata del limite. […] Il riconoscimento del ‘limite’ in ambito gnoseologico, che costituisce lo sfondo di tutto il pensiero filosofico antico, si snoda lungo un percorso di cui, in questa sede, è possibile individuare solo alcune delle tappe principali. […] L’estremizzazione che la nozione di limite riceve nell’elaborazione sofistica, e l’esito relativistico a cui tale elaborazione conduce, viene poderosamente arginata da Socrate e dal suo solido ancoraggio della verità all’anima, cioè all’essenza dell’uomo. […]

lI non-sapere socratico, dal canto suo, si configura doppiamente contrassegnato dalla negazione e dal distanziamento: dalla (vana) sapienza umana, da un lato, e dalla (autentica) sapienza divina, dall’altro. E se, nel primo caso, l’affermazione socratica assume una funzione ironica, nell’intento di smascherare le false credenze e la presunzione di sapere proprie degli uomini, nel secondo caso la reale assunzione delle limitazioni antropologiche rispetto all’onniscienza di Dio conduce all’individuazione di un ‘sapere minore’, ovvero di un sapere umano consapevolmente calibrato proprio sul senso del limite. Per queste ragioni Socrate, che riconosce che solo Dio è sapiente e che la sua sapienza, rispetto a quella divina, «ha poco o alcun valore», può essere indicato dall’oracolo di Delfi come «il più sapiente» degli uomini.

Su questa medesima linea si collocherà Platone […]. All’impossibilità di attingere pienamente l’oggetto del conoscere corrisponde l’indicazione platonica della costitutiva infinità del processo epistemologico descritto nelle pagine del Fedone e svolto all’interno del Parmenide. […] Sull’individuazione di questo duplice livello di indagine, in sé e per noi, che costituisce uno degli snodi fondamentali anche della ripresa della nozione di ‘limite’ a livello etico, come si cercherà di tratteggiare se pur a grandi linee, si innesta il costante riconoscimento aristotelico dei limiti conoscitivi propri dell’essere umano. […]

Quanto alla ricaduta della nozione di limite sul piano etico, essa costituisce innanzi tutto l’impalcatura di una lettura ‘polivoca’ dell’essere umano e di una simmetrica sfaccettatura dell’ orizzonte della prassi. Fondamentale risulta in questo senso la distinzione, insieme platonica e aristotelica, tra l’ ‘essere umano’ e la propria ‘anima’: da un lato c’è l’uomo, inteso come sinolo, come insieme di anima e di corpo, dall’altro c’è l’uomo inteso come anima o, più precisamente, come intelletto (nous). […] L’uomo non è dio […] ma la sua vita può essere divina […]. Divina è ogni vita buona […], ogni vita che sia stata ben condotta. Ogni vita umana, infatti, […] si costruisce entro lo scenario del quotidiano, è fatta delle piccole cose di ogni giorno e di questa quotidianità si nutre. La vita è questa e «le piccole cose quotidiane… non sono il contrassegno di un’esistenza minore ma diventano, al contrario, il banco di prova di un filosofare con sane radici nella vita».1

[…] Il riattraversamento della questione del ‘limite’ nella riflessione politica greca implica, innanzi tutto, un’indagine sulla valenza utopica dello stato ideale delineato da Platone. […] Non bisogna cercare solo la costituzione migliore in assoluto, ma anche quella ‘possibile’ e quella che risulta realisticamente attuabile, cioè quella «migliore entro certe condizioni date». […]

Arianna Fermani, Il concetto di limite nella filosofia antica, in «La società degli individui», Quadrimestrale di Filosofia e teoria sociale, Fascicolo 23, 2005, Franco Angeli, pp. 5-17. Per leggere l’articolo integralmente portarsi sul sito della Franco Angeli, cliccando qui.

1 F. Totaro, Misura, potenza, vita in Nietzsche, in AA.VV. Nietzsche tra eccesso e misura. La volontà di potenza a confronto, F. Totaro, a cura di, Carocci, Roma 2002, p. 59.

Arianna Fermani insegna Storia della Filosofia Antica all’Università di Macerata. Tra le sue pubblicazioni: Vita felice umana: in dialogo con Platone e Aristotele (2006); L’etica di Aristotele, il mondo della vita umana (2012); By the Sophists to Aristotle through Plato. The necessity and utility of a Multifocal Approach (2016). Ha tradotto, per Bompiani: Aristotele, Le tre Etiche (2008), Topici e Confutazioni Sofistiche (in Aristotele, Organon, 2016).

Ecco, cliccando qui, l’elenco delle sue pubblicazioni.

Arianna Fermani
«Senza la speranza è impossibile trovare l’insperato»

La speranza “antica”, tra páthos e areté

ISBN 978-88-7588-258-7, 2020

indicepresentazioneautoresintesi


Questo contributo intende riflettere sulla – antica e, insieme, attualissima – nozione di speranza a partire da una breve indagine etimologico-semantica (a cui si torna, chiudendo il cerchio, al termine del saggio), nella convinzione che la riflessione sulle parole e sulle loro origini possa donare alcune feconde piste al pensiero.

Il breve saggio si snoda lungo due linee direttrici fondamentali: la speranza come páthos, ovvero come passione, sentimento o desiderio, e la speranza come areté, ovvero come “virtù”, nozione che, nel senso greco e, più nello specifico, aristotelico del termine, implica la capacità di amministrare correttamente la passione. In questo secondo caso, inoltre, si assiste alla messa in campo di un “versante attivo della speranza”, che chiama in causa il soggetto agente e volente, che ha il compito di dare forma al suo desiderio. Qui il “sogno ad occhi aperti” diventa prassi, si fa progetto.

L’itinerario si interseca in molti modi ad altre fondamentali nozioni, tra cui, solo per indicarne alcune, quella di paura (che si configura come una passione che dirige il soggetto nella direzione opposta rispetto alla speranza), quella di rischio (a cui la originaria vocazione all’“apertura” prodotta dalla speranza è intimamente connesso e che richiede, a sua volta, un’opera di “saggia amministrazione”) e quella di fiducia (a cui la speranza è costitutivamente intrecciata e che chiama in causa un altro profilo della riflessione, affrontato al termine del saggio, quale quello educativo).


Arianna Fermani – L’educazione come cura e come piena fioritura dell’essere umano. Riflessioni sulla Paideia in Aristotele
Arianna Fermani – La nostra vita prende forma mediante il processo educativo, con una paideia profondamente attenta alla formazione armonica dell’intera personalità umana per renderla libera e felice.
Arianna Fermani – L’armonia è il punto in cui si incontra e si realizza la meraviglia. Da sempre armonia e bellezza vanno insieme.
Arianna Fermani – VITA FELICE UMANA. In dialogo con Platone e Aristotele. il confronto con le riflessioni etiche di Platone e Aristotele permette di dipanare i numerosi fili che costituiscono la trama di ogni esistenza umana
Arianna Fermani – Divorati dal pentimento. Sguardi sulla nozione di metameleia in Aristotele
Arianna Fermani – Mino Ianne, Quando il vino e l’olio erano doni degli dèi. La filosofia della natura nel mondo antico
Arianna Fermani – Nel coraggio, nella capacità di vincere o di contenere il proprio dolore, l’uomo riacquisisce tutta la propria potenza, la propria forza, la propria dignità di uomo. Senza coraggio l’uomo non può salvarsi, non può garantirsi un’autentica salus.
Arianna Fermani – Fare di se stessi la propria opera significa realizzarsi, dar forma a ciò che si è solo in potenza. attraverso l’energeia, e nell’energeia, l’essere umano si realizza come ergon, si fa opera. Chi ama, nutrendosi di quell’energeia incessante che è l’amore, scrive la sua storia d’amore, realizza il suo ergon, la sua opera. È solo amando che un amore può essere realizzato, esattamente come è solo vivendo bene che la vita buona prende forma
Arianna Fermani – Recensione al volume di Enrico Berti, «Nuovi studi aristotelici. III – Filosofia pratica».
Arianna Fermani – «Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele». Si è felici perché la vita ha acquisito un orientamento, si è affrancata dalla sua nudità, dalla sua esposizione alla morte, dalla semplice sussistenza. Una vita dotata di senso. Felicità come pienezza, come attingimento pieno del ‘telos’ lungo tutto il tragitto della vita.

«La felicità è la vita stessa quando viene vissuta al meglio: si è felici perché si vive bene, perché la vita ha acquisito un peso, una direzione, un orientamento, perché la vita si è affrancata dalla sua nudità, dalla sua esposizione alla morte, dalla semplice e anonima sussistenza, trasformandosi in una vita dotata di senso, in una individuale e particolarissima consistenza. […] felicità intesa come pienezza, come attingimento pieno del telos. Se il telos è interno all’energeia che lo produce, se il fine è contenuto nell’azione ed è indistinguibile da essa, allora è impossibile pensare ad una felicità che risieda escludivamente nel bersagio e non anche lungo i passi che conducono al suo raggiungimento […] lungo tutto il tragitto della vita».
                                                         Arianna Fermani, Vita felice umana, 2006.

«[…] il problema della vita nel suo complesso a qualcuno di noi può sembrare meno impellente di quanto non sembrasse a Socrate. Epure la sua domanda ci incalza ancora oggi e reclama l’impegno a riflettere sulla nostra vita nel suo complesso, e cioè nella totalità dei suoi aspetti e in tutta la sua profondità».
                                                                                                    Bernard Williams, L’etica e i limiti della filosofia, 1985.

Nel concetto della filosofia come domanda totale, problematicità pura, e perciò metafisica, risiede la classicità del pensiero antico. […] Se la filosofia rinuncia al suo carattere di domanda totale rinuncia al […] senso antico della filosofia, intesa come acquisizione perenne dello spirito, come vero κτῆμα εἰς ε [possesso pe sempre]».
                                                          Enrico Berti, Quale senso ha oggi studiare la filosofia antica, 1965.

 

«ὡς ἡδὺ καὶ μακάριον τὸ κτῆμα» [quanto soave e felice è il possesso della filosofia].
                                                                                                    Platone, Repubblica, 496 c.

«[…] il movimento nel quale è contenuto anche il fine è anche azione. […] Uno che vive bene, ad esempio, ad un tempo ha anche ben vissuto, ed uno che è felice, ad un tempo è stato anche felice».
                                                         Aristotele, Metafisica, IX, 6, 1048 b.

«κτῆμά τε ἐς αἰεὶ μᾶλλον ἢ ἀγώνισμα ἐς τὸ παραχρῆμα ἀκούειν ξύγκειται».
Tucidide, Storie, I, 22.

Note sul testo
Il saggio si propone di riflettere sul modello classico del bios teleios, cioè della felicità della vita nella sua totalità, cercando di mostrare come il dialogo con gli antichi fornisca ancora “utili” schemi concettuali. Più in particolare si cerca di mostrare come il confronto con le riflessioni etiche di Platone e Aristotele permetta di dipanare i numerosi fili che costituiscono la trama di ogni esistenza umana (come i dolori, i piaceri, l’ampia gamma di beni e di risorse che la costituiscono), e di individuare alcuni rilevanti nodi concettuali (tra cui, ad esempio, quello di “misura”) che costituiscono la semantica della nozione di eudaimonia. Il modello antico di eudaimonia come eu prattein, inoltre, cioè come capacità strategica di “giocar bene”, sembra risultare particolarmente fecondo, invitando ad interrogarsi sulle modalità di attuazione della vita felice e sulla gestione di tutto ciò che ad ogni esistenza si offre per una “prassi di felicità”.

Note sull’autore
Arianna Fermani insegna Storia della Filosofia Antica all’Università di Macerata. Tra le sue pubblicazioni: L’etica di Aristotele. Il mondo della vita umana, Brescia, Morcelliana, 2012; By the Sophists to Aristotle through Plato. The necessity and utility of a Multifocal Approach, a cura di E. Cattanei, A. Fermani, M. Migliori, Sankt Augustin, Academia Verlag, 2016; Aristotele e l’infinità del male. Patimenti, vizi e debolezze degli esseri umani, Brescia, Morcelliana, 2019. Ha tradotto integralmente le Etiche di Aristotele (Aristotele, Le tre Etiche, Milano, Bompiani, 2008; Giunti, 2018) e ha collaborato all’edizione dell’Organon (a cura di M. Migliori, Milano, Bompiani, 2016).
 
Indice
Prefazione di Salvatore Natoli
 
Introduzione
 
Parte prima. Semantica della felicità
 
Capitolo primo. La felicità come domanda originaria
1.1. Domanda “di” felicità
1.2. Domande “sulla” felicità
1.2.1. Felicità: una questione terminologica
1.2.2. Felicità e forme di vita
 
Capitolo secondo. Felicità e dolore
2.1. L’esperienza del dolore
2.1.1. Il dolore come accadimento
2.1.2. Le forme del dolore
2.2. Cicatrizzazione del dolore e cura di sé
2.2.1. Approcci al dolore
2.2.2. Cura del dolore e cura di sé
2.2.3. L’assunzione del dolore
2.3. Concludendo
 
Capitolo terzo. Felicità e piacere
3.1. L’esperienza del piacere
3.2. Fenomenologia del piacere
3.2.1. Il piacere nell’orizzonte della corporeità
3.2.2. Dinamiche piacevoli e dolorose
3.2.3. Il corpo e i desideri: la veemenza di un fiume in piena
3.2.4. Anima e corpo di fronte al piacere
3.2.5. Piaceri e criteri di scelta
3.3. Il ruolo del piacere nella vita felice
 
Capitolo quarto. Felicità e realizzazione di sé
4.1. Profili della virtù: tentativi di un recupero
4.1.1. Virtù come eccellenza
4.1.2. Virtù come forza
4.1.3. Virtù come disposizione
4.1.4. Virtù come giusto mezzo
4.2. La virtù come architettonica della felicità
4.2.1. Vita felice e accordata: la virtù come musica
4.2.2. Vita felice e ordinata: la virtù come misura
4.2.3. La virtù come arte del vivere bene
 
Capitolo quinto. Felicità e beni esteriori
5.1. Primi approcci al problema
5.2. Felicità e fortuna
5.2.1. Lampi di felicità, colpi di fortuna
5.2.2. Fortuna e virtù
5.2.3. Felicità e fortuna: osservazioni conclusive
5.3. Felicità e amministrazione dei beni
5.3.1. Il possesso e l’utilizzo di due beni supremi: la sophia e la phronesis
 
Parte seconda. Prassi di felicità
 
Capitolo primo. Felicità e valorizzazione delle proprie risorse
1.1. Vita felice e buon utilizzo dei propri talenti
1.1.1. Per una eudaimonia nell’orizzonte della physis
1.1.2. Felicità al singolare, felicità al plurale
1.2. Eudaimonia come ritrovamento e buona allocazione del proprio daimon
1.2.1. Felicità come consapevolezza
1.2.2. Percorsi esistenziali e traiettorie di felicità
1.3. Saggezza e sapienza di fronte alla felicità
 
Capitolo secondo. Felicità come conquista di pienezza
2.1. Felicità tra esperienze di pienezza e pienezza di vita
2.1.1. Tentativi di articolazione della nozione di pienezza
2.2. Per una pienezza nell’orizzonte dell’energeia
2.3. La difficoltà di far spuntare le ali: la felicità come conquista
2.3.1. Felicità pienamente consapevole e pienamente umana
2.4. Riflessioni conclusive
 
Conclusioni
1. Per concludere
2. Vita felice umana: appunti di viaggio
 
Bibliografia
1. Dizionari e lessici
2. Testi antichi
3. Testi moderni e contemporanei
4. Letteratura critica e studi generali
 
Indice degli autori antichi e moderni
 
Note
In copertina: immagine di Alessandra Mallamo ©2019
Eudaimonia

«Le ferite non scompaiono mai del tutto, soprattutto se profonde […] tuttavia, anche se non scompaiono, possono cicatrizzare. In questa cicatrice, che è, contemporaneamente, segno del patimento e sintomo di guarigione, si gioca la possibilità, per l’uomo che ha incontrato la morte e il dolore e che di fronte ad essi ha sofferto, di “ricominciare” a vivere», A. Fermani, Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele.

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Tra le molte pubblicazioni di Arianna Fermani


Arianna Fermani

L’educazione come cura e come piena fioritura dell’essere umano. Riflessioni sulla Paideia in Aristote

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 «Non è una differenza da poco il fatto che subito fin dalla nascita veniamo abituati in un modo piuttosto che in un altro ma, al contrario, è importantissimo o, meglio, è tutto» (Etica Nicomachea, II, 1, 1103 b 23-25).

Questo contributo mira a mettere a fuoco il tema dell’educazione di Aristotele, mostrando come tale riflessione risulti essere originale ed attuale. L’indagine prende avvio dall’esame delle occorrenze di alcuni lemmi all’interno del corpus del filosofo particolarmente significativi rispetto al tema della educazione, come ad esempio

paideia

Si intende mostrare come la riflessione aristotelica sulla paideia, oltre ad un utilizzare una specifica metodologia di indagine, si muova all’interno di due fondamentali scenari educativi: nel primo (che a sua volta si articola in una serie di sotto-questioni, come ad esempio il tema dell’insegnabilità della virtù o quello dell’emotional training e dell’educazione delle passioni) l’educazione precede l’etica, mentre nel secondo l’educazione consiste nell’etica, secondo il fondamentale modello teorico dell’energeia.


Arianna Fermani è Professoressa Associata in Storia della Filosofia Antica all’Università di Macerata. Le sue ricerche vertono principalmente sull’etica antica e, più in particolare, aristotelica, e su alcuni snodi del pensiero politico e antropologico di Platone e di Aristotele. È Membro dell’Associazione Internazionale “Collegium Politicum” e dell’ “International Plato Society”. È membro del Consiglio Direttivo Nazionale della SISFA (Società Italiana di Storia della Filosofia Antica), e Direttrice della Scuola Invernale di Filosofia Roccella Scholé: Scuola di Alta Formazione in Filosofia “Mario Alcaro”. È Presidente della Sezione di Macerata della Società Filosofica Italiana. Ecco, cliccando qui, l’elenco delle sue pubblicazioni.


Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele

Arianna Fermani, Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele, Editore: eum, 2006 [prima edizione]

Il saggio si propone di riflettere sul modello classico del bios teleios, cioè della felicità della vita nella sua totalità, cercando di mostrare come il dialogo con gli antichi fornisca ancora “utili” schemi concettuali. Più in particolare si cerca di mostrare come il confronto con le riflessioni etiche di Platone e Aristotele permetta di dipanare i numerosi fili che costituiscono la trama di ogni esistenza umana (come i dolori, i piaceri, l’ampia gamma di beni e di risorse che la costituiscono), e di individuare alcuni rilevanti nodi concettuali (tra cui, ad esempio, quello di “misura”) che costituiscono la semantica della nozione di eudaimonia. Il modello antico di eudaimonia come eu prattein, inoltre, cioè come capacità strategica di “giocar bene”, sembra risultare particolarmente fecondo, invitando ad interrogarsi sulle modalità di attuazione della vita felice e sulla gestione di tutto ciò che ad ogni esistenza si offre per una “prassi di felicità”.

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L'etica di Aristotele
 

Arianna Fermani, L’etica di Aristotele: il mondo della vita umana, Editore: Morcelliana, 2012

Utilizzando tutte e tre le Etiche aristoteliche, Arianna Fermani, con questo volume, offre un’ulteriore prova dell’attualità e utilità dell’etica dello Stagirita e di un pensiero che, esplicitamente e costitutivamente, mostra che ogni realtà “si dice in molti modi”. Gli schemi che l’intelligenza umana elabora devono essere molteplici e vanno tenuti, per quanto possibile, “aperti”. Questo determina la presenza di “figure” concettuali estremamente mobili e intrinsecamente polimorfe, figure che il Filosofo attraversa lasciando che i loro profili, pur nella loro diversità e, talvolta, persino nella loro incompatibilità, convivano.
La verifica di questa metodologia passa attraverso l’approfondimento di alcune nozioni-chiave, dando vita ad un percorso che, con proposte innovative e valorizzazioni di elementi finora sottovalutati dagli studiosi, si snoda lungo tre linee direttrici fondamentali: quelle di vizio e virtù, quella di passione e, infine, quella di vita buona.

Sommario

Ringraziamenti
Premessa
I “Pensiero occidentale” vs “pensiero orientale”: alcune precisazioni
II “Essere” e “dirsi in molti modi”
Introduzione
I. Per un “approccio unitario” ad Aristotele
II. Autenticità delle tre Etiche
III. Obiettivi e struttura del lavoro

PRIMA PARTE Percorsi di attraversamento delle figure di vizio e virtù
Capitolo primo: Giustizia e giustizie
Capitolo secondo: La fierezza
Capitolo terzo: Sui molti modi di dire “amicizia
Capitolo quarto: Lungo i sentieri della continenza e dell’incontinenza
Capitolo quinto: La philautia: tra “egoismo” e “amor proprio”
Capitolo sesto: Modulazioni della nozione di vizio

SECONDA PARTE: Percorsi di attraversamento della nozione di passione
Capitolo primo: La passione come nozione “in molti modi polivoca”
Capitolo secondo: Le metamorfosi del piacere
Capitolo terzo: Articolazioni della nozione di pudore

TERZA PARTE: Percorsi di attraversamento della nozione di vita buona
Capitolo primo: Dio, il divino e l’essere umano: sui molti modi di essere virtuosi e felici
Capitolo secondo: La questione dell’autosufficienza
Capitolo terzo: Natura/nature, virtù, felicità
Capitolo quarto: Verso la felicitàlungo le molteplici rotte della phronesis
Capitolo quinto: La felicità si dice in molti modi
Conclusioni
Bibliografia
Indice dei nomi

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Le tre etiche

Aristotele, Le tre etiche. Testo greco a fronte, Editore: Bompiani, 2008.

In un unico volume e con testo greco a fronte le tre grandi opere morali di Aristotele: l’”Etica niconomachea”, l”Etica eudemia” e la “Grande etica”. Questi tre scritti rappresentano tutta la riflessione etica dell’Occidente, e il punto di partenza di ogni discorso filosofico sul fine della vita umana e sui mezzi per raggiungerlo, sul bene e sul male, sulla libertà e sulla scelta morale, sul significato di virtù e di vizio. La raccolta costituisce un unicum, poichè contiene la prima traduzione in italiano moderno del trattato “Sulle virtù e sui vizi”. Un ampio indice ragionato dei concetti permette di individuare le articolazioni fondamentali delle nozioni e degli snodi più significativi della riflessione etica artistotelica. Tramite la presentazione, contenuta nel seggio introduttivo, dei principali problemi storico-ermeneutici legati alla composizione e alla trasmissione delle quattro opere, e di un quadro sinottico dei contenuti delle opere stesse, è possibile visualizzare la struttura complessiva degli scritti e le loro reciproche connessioni.

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Platone e Aristotele

Platone e Aristotele. Dialettica e logica

Curatori: M. Migliori, A. Fermani

Editore:Morcelliana, 2008

Il confronto tra Platone ed Aristotele è stato interpretato, per lo più, come una opposizione tra modelli conoscitivi: da un lato la dialettica, intesa come il culmine del sapere, dall’altro la logica, intesa come l’insieme delle tecniche per ben argomentare, al di là delle pretese platoniche di una supremazia della dialettica. Ma ha ancora un fondamento filologico e storico questa contrapposizione? Un interrogativo che – nei saggi qui raccolti di alcuni dei più autorevoli interpreti del pensiero antico – mette capo a una pluralità di scavi, storiografici e teoretici. Scavi che invitano a una lettura dei testi platonici ed aristotelici nella loro complessità: emergono inaspettati intrecci e molteplici significati dei termini stessi di dialettica e logica in entrambi i pensatori. Non solo la dialettica platonica ha un suo rigore, ma la stessa logica aristotelica ha affinità, pur nelle differenze, con le procedure argomentative della dialettica. Una prospettiva ermeneutica che interessa non solo lo storico della filosofia antica, ma chiunque abbia a cuore le radici greche delle nostra immagine di ragione.

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Interiorità e animae
 

Maurizio Migliori, Linda M. Napolitano Valditara, Arianna Fermani, Interiorità e anima: la psychè in Platone

Vita e Pensiero, 2007

Il concetto di anima, una delle più grandi “invenzioni” del mondo greco, figura teorica che ha attraversato e segnato la storia dell’intero Occidente, trova in Platone il primo fondamentale inquadramento filosofico. Non si tratta solo di una tematica dal significato metafisico e religioso: nell’approfondire i molteplici temi che questo concetto attiva emergono naturalmente, già nel filosofo ateniese, tutte le questioni connesse alla spiritualità e allo psichismo umano, con le loro conseguenze etiche. In questo senso l’”anima” apre la strada a un infinito processo di approfondimento e di scoperta dell’interiorità del soggetto. Non a caso questo tema compare in molti testi platonici, in particolare nei dialoghi. Da questa prima elaborazione scaturirono luci e ombre, soluzioni di antichi problemi e nuove domande, di non meno difficile soluzione, anzi tanto complesse da essere ancora oggi messe a tema. Sui molteplici aspetti di queste tematiche filosofiche alcuni tra i maggiori studiosi di Platone si confrontano nel presente volume, avanzando proposte spesso assolutamente innovative, anche per quanto riguarda l’utilizzo di testi sottovalutati, o addirittura quasi ignorati dagli studi precedenti, con una dialettica che dà modo al lettore sia di verificare la capacità ermeneutica delle diverse impostazioni, sia di riscoprire la ricchezza del contributo platonico rispetto a problemi con cui lo stesso pensiero contemporaneo torna positivamente a misurarsi.

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Humanitas

Humanitas (2016). Vol. 1: L’inquietante verità nel pensiero antico.

Curatore: A. Fermani, M. Migliori

Editore: Morcelliana, 2016

Editoriale: I. BertolettI, “Humanitas” 1946-2016. Identità e trasformazioni di un’idea l’inquietante verità. La riflessione anticaa cura di Arianna Fermani e Maurizio Migliori M. Migliori, Presentazione F. Eustacchi, Vero-falso in Protagora e Gorgia. Una posizione aporetica ma non relativista M. Migliori, Platone e la dimensione umana del verol. Palpacelli, Vero e falso si apprendono insieme. Il vero e il falso filosofo nell’Eutidemo di Platonea. Fermani, Aristotele e le verità dell’etica G.A. Lucchetta, Dire il falso per conoscere il vero. Aristotele, Fisica ii 1, 193a7) F. Mié, Truth, Facts, and Demonstration in Aristotle. Revisiting Dialectical Art and Methoda. longo, I paradossi nell’Ippia minore di Platone. La critica di Aristotele, Alessandro di Afrodisia e Asclepioe. Spinelli, Sesto Empirico contro alcuni strumenti dogmatici del vero. Note e rassegne F. De Giorgi, Il dialogo nel pontificato di Paolo VI G. Cittadini, Filippo Neri. Una spiritualità per il nostro tempo.

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Il Simposio di Platone

J. Rowe, Arianna Fermani, Il ‘simposio’ di Platon

Academia Verlag, 1998

Cinque lezioni sul dialogo con un ulteriore contributo sul ‘Fedone’ e una breve discussione con Maurizio Migliori e Arianna Fermani; 27-29 marzo 1996, Università di Macerata, Dipartimento di filosofia e scienze umane, in collaborazione con l’Istituto Italiano per gli studi filosofici.

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Arianna Fermani, “Brividi di bellezza” e desiderio di verità

Arianna Fermani, “Brividi di bellezza” e desiderio di verità

“Brividi di bellezza” e desiderio di verità in Bellezza e Verità;
Brescia, Morcelliana, 2017; pp. 195 – 203

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rivista di

ARISTOTELE E I PROFILI DEL PUDORE

Arianna Fermani

Vita e Pensiero, Rivista di Filosofia Neo-Scolastica

Rivista di Filosofia Neo-Scolastica

Vol. 100, No. 2/3 (Aprile-Settembre 2008), pp. 183-202

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Studi su ellenismo e filosofia romana

Studi su ellenismo e filosofia romana

Curatori: F. Alesse, A. Fermani, S. Maso

Editore: Storia e Letteratura, 2017

In questo volume vengono raccolti cinque saggi sul pensiero filosofico greco nell’età romana. Le linee di ricerca qui proposte toccano nello specifico questioni attinenti alla filosofia stoica, a quella epicurea, a quella cinico-sofistica e all’aristotelismo di epoca imperiale.

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Thaumazein cop

Arianna Fermani,
Essere “divorati dal pentimento”.
Sguardi sulla nozione di metameleia in Aristotele

in THAUMÀZEIN; n. 2 (2014); Verona, pp. 225-246


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Pavel A. Florenskij (1882-1937) – Cultura è lotta consapevole contro l’appiattimento generale, è resistenza al processo di livellamento dell’universo, è l’accrescersi della diversità di potenziale in ogni campo che assurge a condizione di vita, è contrapposizione all’omologazione, sinonimo di morte. Dove regna l’intercosalità non vi è cultura, ma solo svalorizzazione dell’essere umano.

Pavel Aleksandrovič Florenskij 03

Salvatore Bravo

Dove regna l’intercosalità non vi è cultura, ma solo svalorizzazione dell’essere umano


Il titanismo dei nostri giorni non è che una forma di riduzionismo.
Alla verità, ed alla sua multifocalità, si è sostituita la derealizzazione dell'essere umano.
Si irride alla filosofia teoretica, perché pone quesiti non risolvibili con algoritmi, e perché pone in discussione i postulati dello specialismo.
La filosofia ricerca la totalità e insegna a vivere la totalità.
Lo specialismo necrotizza ogni risvolto etico dell’agire per rafforzare la sola logica del risultato e dell’efficienza.
Il potere non tollera la verità.
Lo sguardo narcisista vorrebbe dominare il reale con la tecnica.
Dove regna l’intercosalità non vi è cultura, ma solo valorizzazione della merce e svalorizzazione dell’essere umano.
La verità esige il coraggio di “ritornare alle cose stesse”.
Vi è cultura dove l’essere umano è il centro ed il fine della ricerca, dove la chiarezza ontologica si coniuga con la prassi assiologica.
Cultura è  lotta consapevole contro l’appiattimento generale, è resistenza al processo di livellamento dell’universo, è l’accrescersi della diversità di potenziale in ogni campo che assurge a condizione di vita, è contrapposizione all’omologazione, sinonimo di morte.


Totalità titanismo e totalitarismo
Il titanismo dei nostri giorni non è che una forma di riduzionismo. Mediante la matematica e l’applicazione di calcoli matematici e algoritmici ci si difende dalla realtà, per dominarla attraverso previsioni e ricostruzioni astratte. Alla verità, ed alla sua multifocalità, si è sostituito l’astratto e la derealizzazione. Il titanismo è l’effetto della rinuncia alla ricerca della verità: lo scambio dell’astratto con il concreto produce “mostri”. La pratica del titanismo è quotidiana, il suo epifenomeno è plurale, si materializza col narcisismo atomistico ed il saccheggio perenne delle risorse naturali ed umane. La rinuncia alla verità è il fondamento del titanismo globale. Dalla verità ci si difende con il rifugiarsi nel delirio collettivo di grandezza. Il linguaggio è pervasivamente infettato da tale atteggiamento, dalla pubblicità al linguaggio ordinario e culturale. Ovunque, si insinuano parole come: “alla grande”, “successo”, “godimento senza fine”. Più l’io diventa minimo tanto più il titanismo occupa i sogni distopici dell’ultimo uomo, secondo la definizione di Nietzsche nella Gaia scienza (aforisma 125).

“Il cretinismo della specializzazione” fa in modo che nelle accademie si rinunci alla verità. Si irride alla filosofia teoretica, perché pone quesiti non risolvibili con algoritmi, e specialmente pone in discussione i postulati dello specialismo.

La verità è un iter conoscitivo: orienta i nostri comportamenti senza esaurirne la sua profondità.
La verità è il fondamento che conserva le brecce per il suo autoripensamento.
Lo specialismo coglie frammenti di verità, ma senza la sua integrazione nella complessità esso non è che una forma aggressiva di totalitarismo che vorrebbe imporre una visuale unica, un’unica prospettiva respingendo la categoria della totalità per affermare il totalitarismo del pensiero unidirezionale.
Il totalitarismo è agorofobico, vuole solo spazi chiusi, senza tempo.
La totalità è la verità con i suoi piani sincretici che necessitano – per il suo disvelamento – di una pluralità di metodi e di modalità conoscitive. La Filosofia è la disciplina che non solo integra i piani, ma ricerca la totalità, essa insegna a vivere la totalità. Lo sguardo filosofico intenziona le parti integrandole, trascendendo la notte degli specialismi per coglierne la sostanza che vivifica la totalità e le dà organicità e senso.
Il totalitarismo, invece, è il riduzionismo per eccellenza, poiché una sola prospettiva diventa l’elemento preponderante che annichilisce la complessità. Lo specialismo si irrigidisce in sistema conchiuso in se stesso. Non vi sono aperture verso altri percorsi, ma solo la gravità unidirezionale che neutralizza il concetto per normalizzare il silenzio dove regnava il logos nella sua pluralità dialogante. Si ha l’adiaforizzazione, ovvero si necrotizza ogni risvolto etico dell’agire per rafforzare la sola logica del risultato e dell’efficienza.

 

La Verità in Pavel Florenskij
Pavel Florenskij ha indagato «il mondo come un intero»: questa, e solo questa,  «è stata la sua colpa». [1] Il potere non tollera la verità. Per eternizzarsi forma i sudditi allo specialismo con il quale ogni orizzonte veritativo è cancellato dalla finalità formativa e di ricerca.
I piani di verità si integrano verso la trascendenza, la quale non ha confini definitivi, ma le è consustanziale il movimento dialettico. Ogni sistema totalitario non ammette che l’imperio di un solo volto del reale, che in tal modo diviene irrazionale, incomprensibile. L’ambizione di ogni totalitarismo è l’ipostatizzazione del presente. Si ha, di conseguenza, il caos della derealizzazione, la scollatura tra il reale ed il concetto. Ciò non può che comportare la solitudine e la violenza:

 «”Che cosa ho fatto per tutta la mia vita?”, si chiese. Ho indagato il mondo come un intero, come un singolo quadro e una singola realtà. Ma feci questa indagine in ogni dato momento, o più precisamente in ogni periodo della mia vita, da un particolare angolo o prospettiva. Indagavo le relazioni del mondo sezionandolo in una direzione particolare, su di un piano particolare, e mi sforzavo di comprendere la realtà del mondo da questo piano che mi interessava. I piani erano differenti, ma uno non negava l’altro, bensì lo arricchiva. Ciò produceva una perpetua dialettica di pensiero, “lo scambio dei piani di osservazione”, mentre allo stesso tempo vedevo il mondo come un tutto unico».[2]

 

Totalitarismo esiziale
Il totalitarismo nega la ricerca della verità per omologare i popoli in masse, in plebi che devono obbedire restando inchiodati nella caverna, con lo sguardo ed il corpo vissuto teso verso gli imperativi di regime. Il totalitarismo trasforma un aspetto del reale in feticcio da adorare, in liturgia prosaica ripetitiva e priva di ogni fine ontologico: è il ritrovarsi in un guscio vuoto che incapsula e necrotizza la creatività di ciascuna persona. La cultura e la creatività non sono espressioni immediate, semplici automatismi, ma esigono impegno, disciplina, capacità di donarsi. L’inganno del totalitarismo – nella forma del capitalismo assoluto – è rappresentare la cultura e la creatività in modo gaudente e caotico. In tal modo neutralizza la temuta (per il capitalismo) pericolosità del pensiero critico, declassando la creatività a prodotto di facile produzione e consumo. La contemporaneità, malgrado le grandi conquiste tecnologiche, è nel segno della negazione della cultura:

«La cultura è la lotta consapevole contro l’appiattimento generale; la cultura consiste nel distacco, quale resistenza al processo di livellamento dell’universo, è l’accrescersi della diversità di potenziale in ogni campo che assurge a condizione di vita, è la contrapposizione all’omologazione, sinonimo di morte».[3]

 

L’ipertrofia della soggettività
La prospettiva rinascimentale nella ricostruzione genetica di Pavel Florenskij è il trionfo della soggettività e del relativismo, essa prepara la matematizzazione del reale. Se la soggettività resta avviluppata su se stessa, se riduce il reale a semplice costruzione euclidea, si ritira dal reale per vivere l’esperienza dell’astratto, al punto che la soggettività non vive il reale in cui è immersa, ma mediante calcoli matematici produce rappresentazioni senza la necessità di ascoltare la vita. Si tratta di un’immensa rete geometrica e matematica che ingabbia il reale, lo tumula sotto il peso dei calcoli, scambiando la rappresentazione matematico-geometrica per realtà. È un processo di allontanamento dalla vita che implica il disancorarsi dalla verità per trasformare l’io calcolante in una divinità che tutto deve sussumere a se stessa. La prospettiva nell’arte, quindi, con il suo tecnicismo, prepara la rivoluzione copernicana e lo scientismo totalitario:

«In secondo luogo: a dispetto della logica e di Euclide, ma ormai nello spirito della concezione del mondo kantiana, con il suo soggetto trascendentale che regna sul mondo illusorio della soggettività (e, ciò che è peggio, lo fa in maniera coercitiva), il nostro artista, fra tutti i punti dello spazio infinito (che in Euclide sono rigorosamente uguali), ne sceglie uno solo, esclusivo, unico, che si distingue da tutti gli altri per il suo valore, un punto monarchico, se così si può dire, ma la cui unica prerogativa è di essere il luogo in cui si trova l’artista stesso o, per essere più esatti, in cui si trova il suo occhio destro, il centro ottico del suo occhio destro. Tutti i luoghi dello spazio, alla luce di un simile modo di pensare, sono luoghi privi di qualità e ugualmente incolori, eccezion fatta per quest’unico luogo che domina su tutti gli altri, in quanto ha ricevuto il privilegio di essere sede del centro ottico dell’occhio destro dell’artista. Questo luogo viene proclamato centro del mondo e pretende di proiettare spazialmente il carattere gnoseologico, assoluto, kantiano dell’artista. In verità egli guarda la vita “da un punto di vista”, ma senza alcuna precisazione ulteriore, perché questo punto, innalzato a vero e proprio assoluto, non si distingue in nulla da tutti gli altri punti dello spazio, e la proclamazione della sua superiorità rispetto agli altri non solo non è motivata ma, se si considera la sostanza dell’intera concezione del mondo qui esposta, è anche immotivabile».[4]

 Lo sguardo narcisista vorrebbe dominare il reale con la tecnica, estromettere la coscienza dalla relazione con il mondo e viceversa. Il risultato è solo impoverimento dell’esperienza. La verità esige il coraggio di “ritornare alle cose stesse”, e di problematizzare, in primis, la soggettività ed il suo ruolo nell’occultare la verità.

 

Paura del reale e della verità
Nella pratica dell’esemplificazione totalitaria si cela il bisogno di difendersi dalla verità, la quale sgretola le false certezze in cui ci si rifugia. La realtà è come una linea retta, secondo il filosofo e mistico russo. Si può decidere di osservare un punto della retta, o di capire che la retta è fatta di punti indissociabili. Cultura è sguardo che non arretra innanzi all’insieme ed alle sue connessioni. Rappresentarsi un mondo storico e naturale incapsulato in sistemi e formule favorisce il sogno d’onnipotenza che sempre è riposto tra le pieghe della conoscenza che abiura la filosofia teoretica. I regimi totalitari – riconosciuti o meno in quanto tali – fanno “buon uso” delle paure ataviche degli esseri umani, come del delirio d’onnipotenza. La cultura è lotta, in quanto è confronto con tali paure e delirii. Essa permette di attraversare i deserti interiori e collettivi per tracciare nuovi inizi senza rimozioni e nostalgie. Se non ci si confronta con tali dinamiche non vi è cultura, ma solo pratica per imbalsamare il reale:

«In quinto luogo: tutto il mondo viene pensato come completamente immobile e assolutamente immutabile. In un mondo soggetto a rappresentazione prospettica non può e non deve esserci spazio né per la storia, né per la crescita, né per i cambiamenti, né per i movimenti, né per la biografia, né per lo sviluppo di un’azione drammatica, né per il gioco delle emozioni. In caso contrario, ancora una volta l’unità prospettica del quadro si sfalderebbe. È un mondo morto o avvinto in un sonno eterno: è sempre, immutabilmente, lo stesso identico quadro, pietrificato nella sua gelida immobilità».[5]

La cultura è a un bivio. Pavel Florenskij nel gulag ha vissuto la violenza del riduzionismo prospettico. Sta a noi cogliere “la verità della sua testimonianza”, dinanzi all’avanzare di un mondo unidirezionale, incapace di guardare gli effetti e la violenza dell’economicismo che – con il saccheggio delle risorse – sta inchiodando l’umanità ed il pianeta nell’immobilità della coazione a ripetere. Vi è cultura dove l’essere umano “abbandona il proprio trono” per avventurarsi nella dialettica, per instaurare l’intersoggettività che lo accompagna verso la verità. Perché ciò avvenga bisogna congedarsi dai miti e disporsi nella concretezza dell’ascolto e della parola:

«In quarto luogo: il suddetto legislatore viene concepito come incatenato per sempre e indissolubilmente al proprio trono: se lascia questo luogo assolutizzato o se vi fa anche soltanto il più piccolo movimento, immediatamente tutta l’unità delle costruzioni realizzate seguendo le leggi della prospettiva viene meno, e tutta la prospettiva che le regge crolla. In altre parole, in una simile concezione, l’occhio che guarda non è l’organo di un essere vivente che vive nel mondo e vi lavora, ma la lente di vetro di una camera oscura».[6]

 

Dove regna l’intercosalità (Massimo Bontempelli), non vi è cultura, ma solo valorizzazione della merce e svalorizzazione dell’essere umano. L’intercosalità sostituisce il logos, l’agire politico con lo scambio di merci, di informazioni e di seduzioni. Il fine dell’intercosalità è la morte dell’essere umano. Il bivio di fronte a cui si trova la cultura è la scelta tra l’umano ed il dis-umano. Tutti noi siamo implicati in tale scelta. Publio Terenzio Afro ci aiuta a definire ciò che è, per l’uomo, vera cultura:

«Homo sum, humani nihil a me alienum puto».[7]

Vi è cultura dove l’essere umano è il centro ed il fine della ricerca, dove la chiarezza ontologica si coniuga con la prassi assiologica. La cultura è libertà dell’agire e dell’incontro per elevarsi nell’universale concreto nel quale si coniugano metafisica ed assiologia.

Salvatore Bravo

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[1] Pavel Florenskij condannato nel 1933 a dieci anni di servitù in un campo di concentramento; fu inviato in seguito nell’isola di Solovki; morì il 15 Dicembre nel 1943.
[2] Pavel Florenskij, Lettera dal campo di concentramento di Solovki, 21 Febbraio 1937; in Un filosofo nel gulag. Arte e letteratura in Pavel A. Florenskij, dall’Accademia teologica di Mosca ai campi di concentramento sovietici, Jouvence, Milano 2020.
[3] Tratto dal libro di Pavel Florenskij, Bellezza e liturgia. Scritti su cristianesimo e cultura, SE, Milano 2020.
[4] Pavel Florenskij, La prospettiva rovesciata, a cura di Adriano Dell’Asta, Adelphi, Milano 2020, pag. 74.
[5] Ibidem, pag. 75.
[6] Ibidem.
[7] «Sono un essere umano, niente di ciò che è umano mi è estraneo», in Publio Terenzio Afro, Heautontimorùmenos, Atto I.


Pavel Florenskij (1882-1937) – «La prospettiva rovesciata». Ci sono solo due tipi di rapporto con la vita: quello interiore e quello esteriore, come ci sono due tipi di cultura: contemplativo-creativa e rapace-meccanica.
Pavel Aleksandrovič Florenskij (1882-1937) – Verità, bene e bellezza: questa triade metafisica è un unico principio. Nella vita ci sono molte cose mostruose, malvage, tristi e sporche. Tuttavia, rendendosi conto di tutto questo, bisogna avere dinanzi allo sguardo interiore l’armonia e cercare di realizzarla.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Franco Fortini (1917-1994) – Chi si richiama al comunismo dovrà evitare di credere che l’uomo possa uscire dai propri limiti biologici e temporali. Un errore presente anche in Marx e in Lenin, e che oggi trionfa nella maschera tecnocratica del capitale. Comunismo è anche rifiutare ogni sorta di mutanti per preservare la capacità di riconoscersi nei passati e nei venturi.

Franco Fortini 03

«Chi si richiama al comunismo dovrà evitare l’errore di credere in un perfezionamento illimitato; ossia che l’uomo possa uscire dai propri limiti biologici e temporali. Questo errore, con le più varie manipolazioni, ha già prodotto, e può produrre, dei sottouomini o dei sovrauomini, egualmente negatori degli uomini in cui ci riconosciamo. Ereditato dall’illuminismo e dallo scientismo, depositato dalla cultura faustiana della borghesia vittoriosa dell’Ottocento, quell’errore ottimistico fu presente anche in Marx e in Lenin, ed oggi trionfa nella maschera tecnocratica del capitale. Quando si parla di un al di là dell’uomo, è dunque necessario intendere un al di là dell’uomo presente, non un al di là della specie. Comunismo è anche rifiutare ogni sorta di mutanti per preservare la capacità di riconoscersi nei passati e nei venturi».

Fraco Fortini, Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine, Garzanti, Milano, 1990, p. 101.

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Il testo di Franco Fortini, Extrema ratio, Garzanti, Milano 1990, pp. 99-101, è stato pubblicato per la prima volta nell’inserto settimanale satirico “Cuore” del quotidiano L’Unità del 16 gennaio 1989. Dopo la pubblicazione in Extrema ratio, questo testo è stato ristampato anche in: Una voce: comunismo, Edizioni del Centro di ricerca per la pace, Viterbo 1990;  in Non solo oggi, Editori Riuniti, Roma 1991; in Saggi ed epigrammi, Mondadori, Milano 2003; in “Contropiano”, Giornale comunista online, 2 maggio 2011.


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“Comunismo: termine con cui si designano dottrine che propugnano e descrivono una società basata su forme comunitarie di produzione ovvero di produzione e consumo, in alternativa a società basate su forme di proprietà privata ovvero di distribuzione e di consumo diseguali. Possesso comune della terra e dei mezzi di produzione, lavoro per tutti, regolazione pianificatrice dei bisogni e delle funzioni [...] parte integrante di tali dottrine è l’educazione comune, pubblica, di tutti gli individui” (Enciclopedia Garzanti).

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Il combattimento per il comunismo è già il comunismo. È la possibilità (quindi scelta e rischio, in nome di valori non dimostrabili) che il maggior numero di esseri umani – e, in prospettiva, la loro totalità – pervenga a vivere in una contraddizione diversa da quella oggi dominante. Unico progresso, ma reale, è e sarà il raggiungimento di un luogo più alto, visibile e veggente, dove sia possibile promuovere i poteri e la qualità di ogni singola esistenza. Riconoscere e promuovere la lotta delle classi è condizione perché ogni singola vittoria tenda ad estinguere la forma presente di quello scontro e apra altro fronte, di altra lotta, rifiutando ogni favola di progresso lineare e senza conflitti.

Meno consapevole di sé quanto più lacerante e reale, il conflitto è fra classi di individui dotati di diseguali gradi e facoltà di gestione della propria vita. Oppressori e sfruttatori (in Occidente, quasi tutti; differenziati solo dal grado di potere che ne deriviamo) con la non-libertà di altri uomini si pagano l’illusione di poter scegliere e regolare la propria individuale esistenza. Quel che sta oltre la frontiera di tale loro “libertà” non lo vivono essi come positivo confine della condizione umana, come limite da riconoscere e usare, ma come un nero Nulla divoratore. Per dimenticarlo o per rimuoverlo gli sacrificano quote sempre maggiori di libertà, cioè di vita, altrui; e, indirettamente, di quella propria. Oppressi e sfruttati (e tutti, in qualche misura, lo siamo; differenziati solo dal grado di impotenza che ne deriviamo) vivono inguaribilità e miseria di una vita incontrollabile, dissolta ora nella precarietà e nella paura della morte ora nella insensatezza e non-libertà della produzione e dei consumi. Né gli oppressi e sfruttati sono migliori, fintanto che ingannano se stessi con la speranza di trasformarsi, a loro volta, in oppressori e sfruttatori di altri uomini. Migliori cominciano ad esserlo invece da quando assumono la via della lotta per il comunismo; che comporta durezza e odio per tutto quel che, dentro e fuori degli individui, si oppone alla gestione sovraindividuale delle esistenze; ma anche flessibilità e amore per tutto quel che la promuove e la fa fiorire.

Il comunismo in cammino (un altro non esiste) è dunque un percorso che passa anche attraverso errori e violenze, tanto più avvertiti come intollerabili quanto più chiara si faccia la consapevolezza di che cosa gli altri siano, di che cosa noi si sia e di quanta parte di noi costituisca anche gli altri; e viceversa. Il comunismo in cammino comporta che uomini siano usati come mezzi per un fine che nulla garantisce invece che, come oggi avviene, per un fine che non è mai la loro vita. Usati, ma sempre meno, come mezzi per un fine, un fine che sempre più dovrà coincidere con loro stessi. Ma chi dalla lotta sia costretto ad usare altri uomini come mezzi (e anche chi accetti volontariamente di venir usato così) mai potrà concedersi buona coscienza o scarico di responsabilità sulle spalle della necessità o della storia.

Chi quella lotta accetta si fa dunque, e nel medesimo tempo, amico e nemico degli uomini. Non solo amico di quelli in cui si riconosce e ai quali, come a se stesso, indirizza la propria azione; e non solo nemico di quanti riconosce, di quel fine, nemici. Ma anche nemico, sebbene in altro modo e misura, anche dei propri fratelli e compagni e di se stesso; perché non darà requie né a sé medesimo né a loro, per strappare essi e se stesso agli inganni della dimenticanza, delle apparenze e del sempreuguale.

Dovrà evitare l’errore di credere in un perfezionamento illimitato; ossia che l’uomo possa uscire dai propri limiti biologici e temporali. Questo errore, con le più varie manipolazioni, ha già prodotto, e può produrre, dei sottouomini o dei sovrauomini; egualmente negatori degli uomini in cui ci riconosciamo. Ereditato dall’Illuminismo e dallo scientismo, depositato dalla cultura faustiana della borghesia vittoriosa dell’Ottocento, quell’errore ottimistico fu presente anche in Marx e in Lenin e oggi trionfa nella maschera tecnocratica del capitale. Quando si parla di un al di là dell’uomo, è dunque necessario intendere un al di là dell’uomo presente, non un al di là della specie. Comunismo è rifiutare anche ogni sorta di mutanti per preservare la capacità di riconoscersi nei passati e nei venturi.

Il comunismo in cammino adempie l’unità tendenziale tanto di eguaglianza, fraternità e condivisione quanto quella di sapere scientifico e di sapienza etico-religiosa. La gestione individuale, di gruppo e internazionale, dell’esistenza (con i suoi insuperabili nessi di libertà e necessità, di certezza e rischio) implica la conoscenza delle frontiere della specie umana e quindi della sua infermità radicale (anche nel senso leopardiano). Quella umana è una specie che si definisce dalla capacità (o dalla speranza) di conoscere e dirigere se stessa e di avere pietà di sé In essa, identificarsi con le miriadi scomparse e con quelle non ancora nate è un atto di rivolgimento amoroso verso i vicini e i prossimi; ed è allegoria e figura di coloro che saranno.

Il comunismo è il processo materiale che vuol rendere sensibile e intellettuale la materialità delle cose dette spirituali. Fino al punto di sapere leggere nel libro del nostro medesimo corpo tutto quel che gli uomini fecero e furono sotto la sovranità del tempo; e interpretarvi le tracce del passaggio della specie umana sopra una terra che non lascerà traccia.


Franco Fortini (1917-1994) – «I confini della poesia», Castelvecchi, 2015: «Misura, ossia senso del limite opportuno ma anche dell’illimitato che sta al di là»
Franco Fortini (1917-1994) – «Reversibilità». Anassagora giunse ad Atene che aveva da poco passato i trent’anni. Era amico d’Euripide e Pericle. Parlava di meteore e arcobaleni. Ne resta memoria nei libri. uomini che furono e che in noi sono fin d’ora?

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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