Plutarco (46/48 d.C. – 125/127 d.C.) – Quanti hanno assennatezza devono preoccuparsi di tutte quelle ragioni che recano conforto contro le sofferenze, prima che le sofferenze stesse si manifestino.

Plutarco 002
La serenità d'animo

La serenità d’animo

«Quanti hanno assennatezza devono preoccuparsi di tutte quelle ragioni che recano conforto contro le sofferenze, prima che le sofferenze stesse si manifestino, perché, preparati ormai da molto tempo, possano recare maggiore giovamento».

Plutarco, La serenità d’animo, 1, 465b.

 

Mentre

« […] non è facile attutire le passioni dell’anima, quando sono selvaggiamente scatenate, se non sono presenti ragionamenti familiari e abituali che riescano a dominarle quando sono in piena tempesta».

Plutarco, La serenità d’animo, 1, 465c.


Plutarco (45 d.C.-120 d.C.) – Lo sguardo ininterrotto sui soli nostri pensieri, specie se in preda all’ira, impedendoci di guadagnare una distanza prospettica, può nascondere alla vista errori e discordanze

Plutarco (46/48 d.C. – 125/127 d.C.) – Occorre un’educazione seria e un’istruzione corretta. La mente non ha bisogno, come un vaso, di essere riempita, ma di una scintilla, che la accenda, che vi infonda l’impulso alla ricerca e il desiderio della verità. Bisogna assegnare un ruolo preminente alla filosofia.


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Anna Beltrametti – Scritti per onorare la memoria di Diego Lanza e Mario Vegetti

Mario Vegetti e Diego Lanza 02

 

Anna Beltrametti

per onorare Lanza e Vegetti

insieme lanzavegetti

Diego Lanza (7-1-1937 / 7-3-2018) e Mario Vegetti (4-1-1937 / 11-3-2018)
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teatro-conflitto

Si formò a Pavia all’epoca
dell’analisi marxista del mondo antico.
Studiò Aristotele, il pensiero scientifico
e la drammaturgia greca
nei rapporti con la politica e la storia della mentalità

 

«C’era una volta […] il passato rivive nel presente perché chi lo narra gli dà la vivacità di una nuova esistenza, ne suggerisce, sia pur involontariamente, il significato per il presente».

2017 Tempo senza tempo

Così scrive Diego Lanza nella Premessa al suo ultimo bel libro, Tempo senza tempo. La riflessione sul mito dal Settecento a oggi, pubblicato da Carocci alla fine del 2017.

 

E così era Diego Lanza, un interprete acuto e profondamente colto che dava senso a quello che leggeva e che prediligeva i testi su cui si erano misurati i grandi nomi, e non solo di filologi, delle culture europee moderne. Un lavoro a doppio taglio era sempre stato il suo, nella scrittura e nella comunicazione orale: si accostava agli antichi attraversando le più resistenti letture dei moderni e mettendo alla prova i più forti paradigmi ermeneutici del Novecento. Leggeva i testi greci, con speciale propensione per la filosofia e la drammaturgia, tracciando al contempo la storia della cultura che li aveva posti e continuava a porli al centro o all’origine.

Diego Lanza, Accademico del Lincei e Professore Emerito di Letteratura greca all’Università di Pavia, nella stessa Università aveva studiato, alunno dello storico collegio Ghislieri, e nel 1959 si era laureato con Adelmo Barigazzi. Vi era tornato, dopo la specializzazione al Maximilianeum di Monaco di Baviera nel 1960, e vi aveva cominciato a insegnare, prima come assistente incaricato e poi come professore ordinario, ma mantenendo fino alla fine costanti e fecondi contatti internazionali.

L’edizione dell’Anassagora
Si era affermato con l’edizione critica dell’Anassagora [Anassagora, Testimonianze e Frammenti, La Nuova Italia, 1966], una prova di tecnica filologica, ma anche di quell’attenzione al configurarsi del pensiero filosofico che in seguito lo avrebbe condotto ad Aristotele: a tradurre e a commentare, nel 1971, le opere biologiche, e quindi a riflettere sistematicamente sui testi politici, Politica e Costituzione degli Ateniesi.

 

 

 

1977 L'ideologia della città1977 Aristotele e la crisi della politicaEra il tempo in cui Lanza, insieme con l’amico Mario Vegetti che a Pavia ricopriva la cattedra di Storia della Filosofia antica, aveva guidato i seminari che sarebbero approdati alla pubblicazione nel 1977 presso Liguori dei due piccoli volumi sull’Ideologia della città, ricerche in quegli anni innovative e fondative, che scoprivano potenzialità e limiti dell’analisi marxista sul mondo antico.

 

1987 Aristotele-Poetica-Rizzoli-Bur-1987

Lanza non aveva tuttavia mai abbandonato il teatro attico, tragico e comico e nel 1987, dunque nella piena maturità, aveva coniugato il filone filosofico e quello teatrale delle sue ricerche nell’edizione della Poetica di Aristotele, un testo che resta ancora un riferimento per gli studi sul teatro attico e che segna un punto di svolta importante nell’organizzazione accademica. In quell’ultimo scorcio degli anni ottanta, l’interesse per la drammaturgia che gli apparteneva fin dall’infanzia – Diego era figlio del critico e autore teatrale Giuseppe Lanza, che lo portava con sé agli spettacoli nelle nebbiose serate milanesi dell’immediato dopoguerra – lo aveva orientato negli studi, ma anche a istituire, precorrendo i tempi, il corso di Storia del Teatro e della Drammaturgia antica.
Lanza aveva così promosso l’analisi iuxta propria principia dei testi teatrali, uno dei campi più caratterizzati della letteratura greca antica, e successivamente, nel 2000, aveva sostenuto la fondazione del CRIMTA (Centro di Ricerca Interdipartimentale Multimediale sul Teatro Antico) presso l’allora Dipartimento di Scienze dell’Antichità.

1997 La Disciplina dell'emozione

Ad attestare l’impegno prevalente di questa stagione sono i saggi compresi in La disciplina dell’emozione del 1997, ma anche i magistrali contributi – da segnalare in particolare «La tragedia e il tragico», in Noi e i Greci, Einaudi, a cura di Salvatore Settis – pubblicati nelle grandi opere collettive che aveva condiretto o di cui era stato consulente: insieme con Giuseppe Cambiano e Luciano Canfora, Lanza era stato condirettore dell’opera collettiva Lo Spazio letterario della Grecia antica (Salerno editrice, 1991-1996) e aveva collaborato con Settis nell’ideazione e nella realizzazione di I Greci (Einaudi, 1996-2002).

Lo spazio letterario della Grecia antica

Laboratorio della memoria
Nel teatro, Lanza aveva riconosciuto il laboratorio più rivelatore della memoria e della mentalità greche, la ribalta di quelle figure antropologiche che i drammaturghi avevano ripreso dai miti e non avevano mai cessato di ripensare e di ricollocare al centro dei loro intrecci e dei conflitti politici cui alludevano. Il teatro e i dialoghi platonici sono i luoghi per eccellenza del tiranno, dunque del potere e delle sue degenerazioni, e dello stolto, come dire della verità d’oro occultata nella bruttezza e nella ingenuità apparente del Sileno-Socrate.

 

1977 Il tiranno e il suo pubblico1997, Lo stoltoEntrambi danno il titolo a due libri noti di Lanza, Il tiranno e il suo pubblico del 1977 e Lo stolto del 1997, e sono la cifra del magistero del Lanza professore e dell’uomo Diego Lanza. Un uomo dal temperamento non facile, sempre in tensione tra meravigliose aperture culturali e severi imperativi morali; attratto dall’eccentrico e fermo cultore delle regole; attento alle emozioni e ancora di più rivolto a controllarle nei comportamenti propri e degli allievi. Una personalità unica, nei suoi contrasti, di cui gli scritti rivelano molto, segnati come sono dalle sue impronte, riconoscibili come sulla tazza quelle del vasaio, per dirlo con Walter Benjamin a proposito del narrare di Nicolaj Leskov.

Articolo già pubblicato su Alias, il manifesto, 15-04-2018.

 


 

Anna Beltrametti

per onorare Lanza e Vegetti

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Tre incontri lungo un sentiero mai interrotto.

Diego Lanza

e il teatro (non solo) antico

 

«Una fredda serata di nebbia decembrina a Milano, piazza Missori anno 1948 […] nell’aula magna dell’allora Liceo Beccaria la rinata Università Popolare organizzava il corso “Il teatro nella storia” […] Quella sera si leggevano le Eumenidi. Fu la prima volta che, seduto su quei banchi affollati, vidi mio padre in abito scuro parlare in pubblico. Non ricordo nulla di quello che egli disse […] nella testa mi rimasero alcune parole che il Coro aveva più volte lamentosamente scandito: “Io dea di antica saggezza, dei giovani dèi odio e abominio” […]. Fu questo anche il mio primo incontro con i Greci».

«Una dozzina d’anni dopo partii per la Grecia, a Nauplion acciuffai l’ultimo autobus per Epidauro e riuscii a trovare un posto in cima alle gradinate stipate del teatro […]. Greci erano quasi tutti gli spettatori di quell’Elettra sofoclea. Il ricordo più vivo della serata è rimasto nella mia mente l’applauso esploso quando Oreste ed Elettra cadono l’uno nelle braccia dell’altra. La gente tutt’intorno a me non batteva le mani alla bravura degli attori, ma molto ingenuamente, ai personaggi e al loro poeta […]. Troppo ingenuamente eppure… […]. Ancora vent’anni e mi trovo a insegnare storia del teatro antico […]. La tragedia greca esercita il suo prepotente fascino […]. L’interesse è vivo, le domande molte […] a cui è possibile dare due tipi di risposte. O spiccare il volo slanciandosi nel metadiscorso della semiotica dello spettacolo, oppure, più cautamente, indagare sull’insieme di documenti e testimonianze che offrano la possibilità di delineare le regole del gioco cui i tragediografi attici dovettero conformarsi […] non curiosità antiquarie, ma norme espressive, convenzioni al pari di quelle che sorreggono un sistema linguistico, una langue».

«Wiesbaden, maggio 1983: a conclusione di una luminosa giornata sui rilievi del Taunus sulle tracce del limes romano in compagnia di giovani amici filologi italiani e tedeschi, l’Antigone al Kleines Haus. La versione era quella tradizionale di Hölderlin, la regia, espressionisticamente allusiva, di Carsten Bodinus […]. Il coro era affidato all’unica voce dolente di una donna provata, spaurita, infagottata in un brutto cappotto militare. A metà della tragedia, immediatamente prima dell’ingresso di Emone, Creonte le si accosta e brutalmente le tira giù cappotto e camicia, scoprendole le spalle […]. I giovani amici, già a disagio, rimangono disgustati dalla scena; l’immagine che avevano di Sofocle doveva essere assai meno inquietante, classicamente sublimata in figure ieratiche, se non addirittura filosofiche. Eppure quel gesto di grande sgradevolezza, che nulla poteva avere in comune con la messinscena antica, illuminava qualcosa di essenziale nella tragedia: chi era per i Greci un tiranno, se non uno stupratore, lo stupratore di un’intera città?»

 

Diego Lanza ha lasciato un’eredità difficile da ricordare e da descrivere in cui ambiti e interessi si incrociano lungo percorsi inconsueti, intrapresi di volta in volta per spinte intellettuali e personali che intersecavano e complicavano il mestiere del filologo sia per gli oggetti della ricerca sia per i metodi. In questa rete il filo teatrale si mantiene continuo, più o meno esplicito, quasi fosse il filo conduttore da cui ogni esplorazione di Lanza partiva e a cui sempre tornava.

1997 La Disciplina dell'emozioneHo voluto aprire questo ricordo con i tre incontri, tre tappe biografiche, che Lanza aveva raccontato introducendo La disciplina dell’emozione, il volume di riflessioni generali sulla tragedia attica e di saggi di interpretazione, pubblicato nel 1997, nella piena maturità, e dedicato a suo padre. L’interesse o, meglio, la passione per il teatro gli veniva da lontano, dall’infanzia, dalla famiglia, dal padre, Giuseppe Lanza, di cui aveva potuto osservare e ascoltare, ancora prima dell’adolescenza, il lavoro di drammaturgo e di critico. E rimase il tratto distintivo e costante della sua figura di intellettuale contemporaneo.

Lanza si era formato a Pavia, alla scuola di Adelmo Barigazzi, che era stato chiamato sulla cattedra pavese di Letteratura greca nel 1951 e l’aveva tenuta fino al 1968, quando il giovane allievo la ricoprì, prima da assistente incaricato e poi da ordinario.

Barigazzi aveva rappresentato una svolta importante negli studi pavesi di grecistica che all’inizio del secolo erano stati segnati dal magistero dei più polemici e agguerriti “antitedescanti” – Giuseppe Fraccaroli aveva tenuto la cattedra pavese di Letteratura greca dal 1915 al 1918 e dopo la sua morte, per continuità, era stato chiamato Ettore Romagnoli che la tenne dal 1918 al 1935 – e poi, durante la guerra e nell’immediato dopoguerra, affidati a professori incaricati di supplenze temporanee. Nei suoi corsi, Barigazzi aveva introdotto a Pavia la filologia di scuola fiorentina e aveva promosso l’interesse per i testi filosofici e retorici anche frammentari, orientando i primi studi di Lanza che infatti si affermò con l’edizione critica dell’Anassagora, nel 1966, per La Nuova Italia.

Ma non fu Anassagora l’autore d’esordio di Lanza. I primi articoli del giovane studioso, pubblicati agli inizi degli anni Sessanta, al ritorno da Monaco di Baviera, dove aveva conseguito la specializzazione al Maximilianeum, sono dedicati alle forme e ai contenuti del teatro euripideo, all’Oreste, al frammentario Alessandro, alle nozioni di nomos e ison.

insieme lanzavegettiE ancora negli anni Settanta, un decennio dominato dallo studio sistematico di Platone e Aristotele – del 1971 è la traduzione delle Opere biologiche di Aristotele in collaborazione con Mario Vegetti e, ancora in stretta collaborazione con Mario Vegetti, tra il 1972 e il 1977, si avviano i seminari di riflessione sul pensiero politico greco, sulla Politica e sulla Costituzione degli Ateniesi di Aristotele in rapporto alla Repubblica platonica, che approderanno alla pubblicazione presso Liguori dei due volumi, L’ideologia della città e Aristotele e la crisi della politica, innovativi per quegli anni e determinanti per il profilo della scuola pavese di Scienze dell’Antichità.1977 Aristotele e la crisi della politica

1977 L'ideologia della città

 

1976 BelfagorLanza non perde di vista il teatro: del 1976 è il saggio Alla ricerca del tragico, pubblicato in «Belfagor» e del 1977 il volume einaudiano Il tiranno e il suo pubblico, letto prevalentemente per il tema della tirannide, ma scritto dall’autore con attenzione allo spettacolo del tiranno nelle sue rappresentazioni tragiche.

 

1977 Il tiranno e il suo pubblicoNell’Anno Accademico 1983-1984, con l’istituzione del corso di Storia del teatro e della Drammaturgia antica, quasi una novità nell’Università italiana di quegli anni, soprattutto perché destinato anche agli studenti non classicisti, Lanza diede visibilità e peso istituzionale al filone di ricerca che aveva da sempre coltivato e alimentato anche con la costante frequentazione dei teatri e della drammaturgia moderna e contemporanea. Il corso conquistò immediatamente una partecipazione larga e interessata al di là di ogni previsione. E otteneva effetti rilevanti e sul piano teorico e su quello accademico: da una parte ritagliava un ambito fortemente caratterizzato nell’insieme eterogeneo dei testi che formano la cosiddetta letteratura greca e lo riconosceva come campo di indagine (quasi) autonoma; dall’altra e al contempo faceva emergere la specificità del teatro antico rispetto ad altre forme teatrali, geograficamente e storicamente determinate, sottraendo la drammaturgia antica alle discipline più generali.
Gli studi teatrali di Lanza divennero da questo momento anche più frequenti e focalizzati non solo sui testi, ma sulle tecniche dello spettacolo e sulla recitazione, sugli spazi scenici e sull’attore, sul sistema di mezzi e di linguaggi che insieme con la scrittura dei testi definivano la specificità della comunicazione teatrale greca e la sua particolare efficacia. Testimonianze e documenti antichi, pochi, sugli spettacoli incominciavano così a incrociarsi con le informazioni, più numerose sebbene non numerosissime, desumibili dai testi, le cosiddette didascalie interne più o meno trasparenti, e a illuminare alcuni aspetti performativi non meno significativi delle parole.
Su questa base, nella ferma convinzione che i testi drammaturgici debbano essere fruiti diversamente dalla letteratura, intesa stricto sensu come testi scritti per essere letti, nel 2000 Lanza approvò e favorì l’istituzione del CRIMTA (Centro di Ricerca Interdipartimentale Multimediale sul Teatro Antico) presso l’allora Dipartimento di Scienze dell’Antichità. Incominciò così a Pavia la raccolta, la classificazione e l’archiviazione di registrazioni audiovisive a documentazione delle recenti messe in scena del teatro antico e delle interpretazioni ad esse sottese.

1987 Aristotele-Poetica-Rizzoli-Bur-1987A segnare un importante punto d’arrivo di questa doppia e interattiva padronanza di Lanza del linguaggio filosofico e dei linguaggi teatrali è l’edizione della Poetica di Aristotele, del 1987. Il maggiore trattato antico sulla tragedia era riletto e interpretato con esiti nuovi, non più solo in chiave filosofica dall’interno di Aristotele, ma alla luce della drammaturgia attica conservata che, con i propri dati intrinseci opportunamente richiamati, rimetteva in gioco e in discussione l’analisi aristotelica. Che consentiva di cogliere le selezioni e le intenzioni di Aristotele, gli aspetti valorizzati e quelli sottaciuti nella sua in apparenza neutrale descrizione, quasi un’anatomia, della tragedia come forma e struttura. Della traduzione e del commento di Lanza si possono ancora discutere alcune scelte particolari, ma l’impianto complessivo resta, credo, una tappa saliente nella storia degli studi e si mantiene un riferimento obbligato per alcuni temi e alcune posizioni. Penso soprattutto al lucido ridimensionamento della catarsi, sopravvalutata dai commentatori e nella vulgata, e alla separazione del testo di Aristotele dalle resistenti sovraimpressioni degli aristotelici che ne hanno condizionato la lettura e la comprensione.

1997 La Disciplina dell'emozioneDieci anni dopo, nel 1997, con La disciplina dell’emozione da cui questo ricordo ha preso le mosse, Lanza sembra ripensare se stesso sul filo del teatro, la chiave forse della sua ricerca e anche un bandolo della sua vita. Offre una sintesi delle sue letture del teatro tragico a cui premette una mappa dei principi che hanno guidato le interpretazioni. Per leggere una drammaturgia tragica -scriveva e insegnava Lanza-è necessario fare i conti su più piani: con “le regole del gioco scenico” che prevedono il tempo marcato della festa a interrompere la vita quotidiana, lo spazio del teatro ben delimitato e quasi spazio franco all’interno della polis, una scrittura che non basta a se stessa e deve prevedere la recitazione; con la necessità di mettere in scena personaggi che non vengono dalla vita vissuta, ma dalla tradizione e dalla plastica materia narrabile che chiamiamo mito o miti, dunque con la necessità di “rappresentare dèi e rappresentare eroi” e di dislocare le tensioni contemporanee negli altrove del “tempo senza tempo”; [Tempo senza tempo. La riflessione sul mito dal Settecento a oggi è il titolo dell’ultimo libro di Lanza, pubblicato da Carocci nel 2017] con l’aspettativa da parte del pubblico di un messaggio o di una provocazione sui temi capitali del presente, i Greci e i barbari, la pace e la guerra, i rapporti di genere; con un “ritmo tragico” fondato principalmente sull’uso sapiente delle strutture drammatiche, della parola e della musica, e mirato alla capacità di emozionare e di pacificare gli spettatori. Un ritmo che sembra mutare radicalmente dalla tragedia greca a quella senecana, come emerge dall’ultimo percorso di lettura, Finis tragoediae.
Personalmente, più mi confronto con i pochi testi conservati della triade tragica eccellente, più resto convinta che, nella curva dell’emozione individuata e descritta da Lanza, la fase del turbamento prevalga oltre la fine dello spettacolo sui linguaggi della ricomposizione e che l’arte di contenere e di disciplinare l’emozione sia subordinata all’arte di sconvolgere il senso comune e di scatenare con l’emozione il pensiero. Ma non è questo dissenso che conta. A contare nella lezione di Lanza è l’aver individuato l’emozione come fattore primario della comunicazione teatrale antica e l’aver acutamente riconosciuto nella relazione emozionale, diversamente giocata di epoca in epoca tra attore e spettatore, l’essenza del teatro di tutti i tempi.

2001 Dimenticare i GreciE il tema dell’emozione è centrale nei saggi magistrali di Lanza La tragedia e il tragico (Noi e i Greci, 1996, pp. 469-505) e De l’émotion tragique aujourd’hui («Europe», Janvier-février 1999, pp. 70­81), il primo dedicato alla separazione del senso tragico dalla forma tragedia, a cominciare dall’estetica hegeliana per arrivare allo smarrimento dell’artista e dell’intellettuale del Novecento, il secondo alla relazione che si può tentare di immaginare tra l’orrore assoluto del genocidio nazista e la tragedia antica. Avrebbe potuto la tragedia antica nella sua forma codificata rappresentare lo sterminio collettivo?

1997, Lo stoltoNon c’è buon teatro che non emozioni, che non disturbi, che non morda le certezze del pubblico. Anche il teatro epico deve emozionare, le riflessioni che passano per il brivido sono meno effimere e si incidono nei corpi oltre che nella mente. E anche la risata dei comici deve emozionare, se ne può misurare l’efficacia sulla capacità degli attori, specialmente del primo attore su cui si regge la commedia antica, e dei Cori di trascinare il pubblico a ridere di ciò che teme, delle istituzioni e dei potenti ridotti, con le parole e con i gesti, al livello del basso materiale corporeo. Ai dispositivi dell’emozione comica, alla gestualità e al plurilinguismo, Lanza ha dedicato alcune sorprendenti pagine di Lo stolto (Einaudi 1997) e le riflessioni ultime sintetizzate nel saggio introduttivo e nelle note di commento alla sua traduzione degli Acarnesi (Carocci, Roma 2012), una lezione sul comico antico e non solo che va molto al di là di questa specifica commedia.

2012 Aristofane, Acarnesi

 

Questo saggio è già stato pubblicato su «Dionysus ex machina», IX (2018).


Anna Beltrametti

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Vite parallele di due uomini,

più complementari

di quanto non fossero simili tra loro,

che ancora giovani hanno insegnato ai più giovani

a confrontarsi, a dialogare,

a mettersi reciprocamente in discussione

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Il 7 marzo scorso Diego Lanza, Professore Emerito dell’Ateneo Pavese e Socio corrispondente dell’Accademia dei Lincei, si è spento nella sua Milano. A Milano Lanza era nato il 7 gennaio 1937 e lì aveva vissuto, dividendosi tra la città dell’origine e della famiglia e Pavia, città della sua Università, della sua formazione, da alunno del Collegio Ghislieri e scolaro di Adelmo Barigazzi, e del suo magistero lungo oltre quarant’anni. Non è facile scegliere che cosa ricordare di Lanza da parte mia che sono cresciuta nella sua scuola, apprezzandone fin dal primo momento gli stimoli e avvertendo, ora, con piena consapevolezza l’onore e il peso di insegnare da quella cattedra.

Non posso che incominciare ricordando, insieme con Diego Lanza, Mario Vegetti, l’altro nome di quella scuola pavese, l’altra anima di una stagione indimenticabile per chi l’ha vissuta, tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, e di una ricerca allora molto coraggiosa, innovativa e fondativa. Nato a Milano il 4 gennaio del 1937, pochi giorni prima di Diego Lanza, Mario Vegetti se ne è andato l’11 marzo del 2018, pochi giorni dopo l’amico e il collega che aveva salutato platonicamente – eu prattomen, Diego – sulle pagine del Corriere della Sera. Le vite parallele dei due uomini, più complementari di quanto fossero simili tra loro, che ancora giovani hanno insegnato ai più giovani a confrontarsi, a dialogare, a mettersi reciprocamente in discussione per arrivare a discutere i temi e i metodi della ricerca da una prospettiva più ampia e non sempre condivisa fin dal primo momento, sorprendono ancora di più se le ripensiamo ora, dopo la loro morte ravvicinata, nella mancanza che continua ad accomunarli e obbliga a parlare di entrambi.

1977 Aristotele e la crisi della politica

1977 L'ideologia della cittàIncomincio dunque ricordando un momento saliente e decisivo della collaborazione di Lanza e Vegetti, che ricopriva la cattedra di Storia della filosofia antica, e i seminari che approdarono alla pubblicazione della prima e più estesa versione dell’Ideologia della Città, in «Quaderni di Storia» 2 (1975) e successivamente, nel 1977, ai due piccoli volumi collettivi editi da Liguori, L’ideologia della città e Aristotele e la crisi della politica.

 

Quei contributi e il lavoro da cui erano scaturiti cambiarono il modo di guardare la polis e di leggere le fonti: la città greca passava da oggetto di ammirazione classicistica a oggetto storiografico, si imponeva come realtà inquieta e metamorfica; le fonti erano indagate come rappresentazioni più o meno tendenziose e talvolta concorrenti invece che come resoconti o descrizioni neutrali dei fatti e delle istituzioni. Anche i paradigmi interpretativi venivano posti in causa: in anni di marxismo ortodosso e meccanicamente, anche anacronisticamente, applicato alle testimonianze antiche, Lanza e Vegetti praticavano un marxismo critico e uno strutturalismo moderato, fortemente temperato dall’attenzione per la storia.
Così l’interesse e l’amicizia per i maggiori esponenti della scuola di Parigi – J.P. Vernant, P. Vidal-Naquet, M. Detienne, N. Loraux – che sulla scia di I. Meyerson avevano ricostruito le linee portanti della mentalità condivisa dei Greci antichi, erano stati il punto di partenza per discutere la nozione di mentalità attraverso quella più dinamica e conflittuale di ideologia.
Dopo la laurea con Adelmo Barigazzi nel 1959 e la specializzazione al Maximilianeum di Monaco di Baviera, Diego Lanza era tornato a Pavia da assistente e poi da assistente incaricato. Dal 1968, inseguito al trasferimento di Barigazzi a Firenze, Lanza aveva insegnato prima Letteratura greca, quindi, in seguito alla chiamata sulla cattedra pavese di Giovanni Tarditi, negli anni 1970-1974, Storia della lingua greca, e di nuovo Letteratura. Portava nella sua ricerca e nel suo insegnamento tracce chiare del maestro Barigazzi che nel 1951 aveva introdotto a Pavia la filologia di scuola fiorentina, praticandola e insegnandola per ben diciassette anni. Per comprendere la svolta segnata da Barigazzi, non si deve dimenticare che la cattedra di Letteratura greca di Pavia era stata per almeno un ventennio il più combattivo centro italiano degli “antitedescanti”, negli anni 1915-1918 del magistero di Giuseppe Fraccaroli e quindi negli anni 1918-1935 di Ettore Romagnoli, né che era stata poi, per circa un quindicennio, vacante, affidata per incarichi pro tempore e quindi coperta con la chiamata dell’insigne latinista, latinista non grecista, Enrica Malcovati. Sotto la guida di Barigazzi, Lanza aveva pubblicato i primi saggi sulla tragedia euripidea e si era affermato, con l’edizione critica dell’Anassagora, nel 1966.

insieme lanzavegettiUna prova, questa, di tecnica filologica e, al contempo, il segno di una profonda attenzione per il pensiero filosofico che in seguito lo avrebbe condotto, nel 1971, ad Aristotele, ai primi studi sulla Politica e sulla Costituzione degli Ateniesi, quindi alla traduzione e al commento delle Opere biologiche in collaborazione con Mario Vegetti.

Nei primi anni Ottanta, con l’istituzione del corso di Storia del teatro e della Drammaturgia antica destinato anche agli studenti non classicisti, Lanza tornò sistematicamente al teatro, tragico e comico, con la passione che gli veniva non solo dalla filologia, ma anche dalla famiglia: suo padre, Giuseppe Lanza, era stato drammaturgo e critico teatrale e nel primo dopoguerra aveva preso a portare con sé il figlio ancora bambino agli spettacoli e ai dibattiti milanesi.

1987 Aristotele-Poetica-Rizzoli-Bur-1987In seguito e in conseguenza di questa ripresa, nel 1987, dunque nella piena maturità, Lanza arrivò a far convergere gli interessi filosofici e quelli teatrali nell’edizione della Poetica di Aristotele, un testo di cui si possono discutere alcune scelte particolari, ma che nell’impianto complessivo segna la storia degli studi, con il ridimensionamento della catarsi e la separazione di Aristotele dall’aristotelismo, di maniera che ne è seguita un’edizione che resta un riferimento per gli studiosi.

 

1997 La Disciplina dell'emozioneDieci anni dopo, nel 1997, con la raccolta di saggi in La disciplina dell’emozione, Lanza manteneva viva l’attenzione per la drammaturgia e, nel 2000, sosteneva la fondazione del CRIMTA (Centro di Ricerca Interdipartimentale Multimediale sul Teatro Antico) presso l’allora Dipartimento di Scienze dell’Antichità. Nel teatro attico e nei dialoghi platonici, Lanza aveva riconosciuto i luoghi privilegiati del tiranno, dunque del potere e delle sue degenerazioni, e dello stolto, come dire della verità aurea occultata nella bruttezza e nella ingenuità apparente del Sileno-Socrate.

1997, Lo stolto1977 Il tiranno e il suo pubblicoLe due figure danno il titolo a due libri noti di Lanza, Il tiranno e il suo pubblico del 1977 e Lo stolto del 1997, e possono essere considerate chiavi di volta del suo lavoro sempre a doppio taglio, di studioso delle culture antiche, di quella greca in particolare, e degli interpreti più illustri di quelle culture, dunque di storia della filologia.

 

 

2001 Dimenticare i GreciLo spazio letterario della Grecia anticaE in qualità di filologo e di storico della filologia, Lanza condiresse o fu consulente delle maggiori opere collettive tra la fine del Novecento e l’inizio del nuovo secolo: insieme con Giuseppe Cambiano e Luciano Canfora, fu condirettore di Lo Spazio letterario della Grecia antica (Roma, Salerno Editore 1991-1996) e collaborò con Salvatore Settis nell’ideazione e nella realizzazione di I Greci (Torino, Einaudi 1996-2002).

 

 

2017 Tempo senza tempoUomo difficile, ma intellettuale appassionato, Lanza ha coltivato i temi in cui credeva fino alla fine. Lo testimoniano gli ultimi libri, La filologia dopo la guerra. Nuove prospettive, curato insieme con Gherardo Ugolini e pubblicato presso Carocci nel 2016 e Tempo senza tempo. La riflessione sul mito dal Settecento a oggi, ancora edito da Carocci alla fine del 2017, un testo molto personale, in cui si possono intraleggere i lasciti più significativi della sua scrittura e del suo insegnamento, la testimonianza di un mestiere che deve necessariamente avvalersi di tecniche filologiche precise, ma che deve altrettanto necessariamente motivarsi di curiosità filosofica e di impegno politico per restituire correttamente il pensiero degli antichi e rimetterlo, senza forzature né imposture, nel circolo vivo del pensiero contemporaneo.

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Intervento letto il 16 giugno 2018 all’Assemblea
della Consulta Universitaria del Greco


Massimo Stella – Scritti per onorare la memoria di Diego Lanza e Mario Vegetti



Alcuni libri

di

Diego Lanza

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1971-1996 Opere biologiche di Aristotele, Utet,1996

1971-1996 Opere biologiche di Aristotele, Utet. Con Mario Vegetti.

 

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1976 Belfagor

1976 Belfagor

Contiene il saggio: Alla ricerca del tragico.

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1977 Il tiranno e il suo pubblico

1977 Il tiranno e il suo pubblico.

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1977 Aristotele, La ricerca psicologica

1977 Aristotele, La ricerca psicologica

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1977 L'ideologia della città

1977 L’ideologia della città

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1977 Aristotele e la crisi della politica

1977 Aristotele e la crisi della politica.

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1979 Lingua e discorso nell'Atene delle Professioni

1979 Lingua e discorso nell’Atene delle professioni.

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1987 Aristotele-Poetica-Rizzoli-Bur-1987

1987 Aristotele, Poetica.

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1993 Aristotele, Poetica

1993 Aristotele, Poetica.

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1997 La Disciplina dell'emozione

1997 La disciplina dell’emozione.

Clitennestra si presenta al pubblico con la spada levata, ancora sporca del sangue di Agamennone; Edipo mostra agli spettatori le orbite vuote dopo essersi accecato; Agave agita trionfalmente la testa mozzata del figlio. Per tutta la durata del quinto secolo i tragediografi non risparmiarono al loro pubblico le emozioni più intense. Ma perché oggi, dopo 2500 anni, queste emozioni puntualmente si rinnovano, perché ne avvertiamo ancora la necessità? Che senso possono avere per noi quelle antiche storie di dèi ed eroi? Questo libro ricostruisce con vivacità le circostanze storiche e le regole istituzionali della tragedia greca, conducendoci a considerarne la funzione sociale e a penetrare nel suo ricco patrimonio simbolico. È uno strumento soprattutto per intendere la polifonia del dettato tragico, il susseguirsi dei diversi ritmi drammatici, l’uso degli attori e del coro, in una parola il complesso funzionamento della macchina teatrale di cui i tragici greci furono maestri a tutto il teatro europeo.

 

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1997, Lo stolto

1997, Lo stolto.

 

Lo stolto. Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune, Einaudi, 1997

Lanza sviluppa la sua ricerca delle diverse figurazioni della “stultitia” recuperandole in Aristofane e in Platone, in Andersen e Collodi, Cervantes e Woody Allen e sottolineando come sia lo stolto che la stoltezza non costituiscono né un elemento chiaramente definibile una volta per tutte, né una figura semplicemente ripetitiva. La “stultitia” è infatti un’incognita a cui di volta in volta viene attribuito ciò che disturba il senso comune, ciò che in quel momento è considerato ridicolo, ripugnante o riprovevole. Così la figura dello stolto è mutevole, essa cambia infatti con il trasformarsi dello stesso senso comune e della razionalità che la definiscono: Socrate, Pinocchio, Till Eulenspiegel, Calandrino, Zelig, sono esempi in questo senso.

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2001 Dimenticare i Greci

2001 Dimenticare i Greci.

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2007 Atene e l’Occidente. I grandi temi.

2007 Atene e l’Occidente. I grandi temi.

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2007 La Poetica e la sua storia

2007 La Poetica e la sua storia.

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2009 Aristotele, Poetica

2009 Aristotele, Poetica.

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2012 Aristofane, Acarnesi

2012 Aristofane, Acarnesi

 

Aristofane, Acarnesi, Introd. traduz. e commento di Diego Lanza, Carocci, Roma 2012.

Acarnesi, la prima commedia del giovane Aristofane giunta fino a noi, vede Atene impegnata nel quinto anno di guerra contro Sparta. Dal miraggio della pace, che appare ancora remota, muove la vicenda rappresentata: la tregua che il protagonista riesce a concludere privatamente con il nemico e i benefici che ne conseguono. La commedia mostra già tutta la maestria compositiva e linguistica del grande comico. La traduzione che accompagna il testo rispecchia efficacemente la vivacità della scrittura aristofanea, con il variare dei ritmi, i continui scarti stilistici, i giochi allusivi e manipolatori della lingua. L’introduzione e un agile commento accompagnano il lettore alla scoperta della complessa partitura drammaturgica che si rivela a un’attenta considerazione del testo.

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2013 Interrogare il passaro

2013 Interrogare il passato.

Interrogare il passato. Lo studio dell’antico tra Otto e Novecento, Carocci, 2013.

I maggiori studiosi del mondo classico degli ultimi due secoli hanno sempre avuto occhi e orecchi attenti al rapporto tra la loro disciplina e la società in cui vivevano. Il libro ripercorre le esperienze di alcuni grandi maestri dell’antichistica: Friedrich August Wolf tra Goethe e Schelling, Wilamowitz e Nietzsche di fronte all’affermarsi dell’impero prussiano, Werner Jaeger e Bruno Snell nell’Europa lacerata dall’avvento del nazismo, Jean-Pierre Vernant tra marxismo e strutturalismo, fino al filologo immaginato da Thomas Mann come suo alter ego nel Doctor Faustus, nella ricorrente memoria dell’intransigenza di Lutero e della compiacente tolleranza di Erasmo da Rotterdam. Il lettore è così condotto, fuori di ogni tecnicismo ma sempre nel merito della disciplina, fino al più recente classicismo invocato come fulcro di una pretesa identità occidentale.

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2016 Storia della filologia classica

2016 Storia della filologia classica.

Con G. Ugolini, Carocci, 2016.

Il volume traccia un profilo storico della filologia classica negli ultimi due secoli e mezzo, da quando cioè si è venuta definendo come disciplina autonoma, focalizzando l’attenzione sugli snodi teorici e metodologici attraverso cui si è sviluppata, sulle figure degli studiosi più significativi, sulle discussioni e le polemiche che ne hanno segnato il procedere, sui nessi con lo sfondo istituzionale e il contesto storico in cui ha operato. Il percorso diacronico è scandito in tre parti. Nella prima si parte dal modello della filologia anglosassone di Richard Bentley per arrivare all’istituzionalizzazione della disciplina nel mondo accademico tedesco (Heyne e soprattutto Wolf) e nella realtà scolastica (Wilhelm von Humboldt). Nella seconda si analizzano i contributi teorici e le principali dispute metodologiche che hanno avuto come protagonisti, tra gli altri, Lachmann, Hermann, Boeckh, Nietzsche e Wilamowitz. La terza e ultima parte è dedicata alla ridefinizione degli studi classici in Germania (Jaeger) e in Italia (Pasquali), all’apporto della papirologia, alle nuove immagini dell’antichità venute a delinearsi nelle opere di scrittori, narratori, registi e traduttori del nostro tempo, e infine ai personaggi più significativi degli ultimi decenni: Snell, Dodds, Vernant, Gentili, Loraux.

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2017 Tempo senza tempo

2017 Tempo senza tempo

Tempo senza tempo. La riflessione sul mito dal Settecento a oggi, Carocci, 2017.

Che cos’è un mito? La sua definizione dipende dal contenuto, dalla struttura narrativa o dalla funzione sociale che assolve? Con questo tema si sono confrontate eminenti figure di studiosi di diversa origine e differenti interessi: Heyne, Nietzsche, Propp, Mann, Lévi-Strauss, Pavese, solo per citarne alcuni. Le loro riflessioni hanno mostrato che i racconti che definiamo miti hanno costituito o continuano a costituire un’espressione particolarmente significativa dell’immaginario di una società, di cui compendiano fedi religiose, credenze comuni, paradigmi di comportamento. Rievocando i termini essenziali di questo bisecolare dibattito, l’autore ne evidenzia i rapporti con il più vasto processo di trasformazione intellettuale della società europea.

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2018 Aristotele, La vita

2018 Aristotele, La vita

Con Mario Vegetti.

 

Alcune sue teorie furono confutate solo nel Settecento, altre ancora dopo. La biologia di Aristotele (Stagira 383/4 a.C. – Calcide 322 a.C.) è studio scientifico di tutti i viventi, espressa attraverso trattati e trattatelli costituiti da appunti, dispense, opere interne alle aule del Liceo, non di prima mano del maestro. D’altra parte in tale veste ci sono giunte quasi tutte le opere aristoteliche, ben poco abbiamo di quelle rifinite, lineari, rivolte al pubblico esterno alla scuola. Dai trattati sui viventi dobbiamo aspettarci dunque un linguaggio a tratti aspro, ripetitivo, non sempre coerente, che molto fa rimpiangere l’assenza della voce di Aristotele che glossava, aggiungeva, spiegava. Siamo inoltre di fronte a due enormi novità: prima, non esisteva una scienza dei viventi, inoltre prima di Aristotele nessuna scienza era espressa in testi che non mescolassero diverse discipline, senza escludere la teologia e il sacro. Qui invece troviamo le “Ricerche sugli animali”, che descrivono quasi seicento specie diverse di animali direttamente osservati, classificati nelle “Parti degli animali” con la distinzione fondamentale tra ovipari e vivipari, nonché per esempio l’attribuzione di balene e delfini ai mammiferi, per il loro respirare tramite polmoni e non tramite branchie. La “Riproduzione degli animali” descrive la riproduzione sessuale, intesa come l’infusione attiva della forma da parte del maschio nella materialità della femmina. A brevi opere sulla percezione, la memoria, il sonno, i sogni, la lunghezza della vita e la respirazione segue il trattatello sul Moto degli animali, movimento che viene ricondotto alla forza di un assoluto primo immobile, necessario a ogni forma di mobilità.

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Alcune sue teorie furono confutate solo nel Settecento, altre ancora dopo. La biologia di Aristotele (Stagira 383/4 a.C. - Calcide 322 a.C.) è studio scientifico di tutti i viventi, espressa attraverso trattati e trattatelli costituiti da appunti, dispense, opere interne alle aule del Liceo, non di prima mano del maestro. D'altra parte in tale veste ci sono giunte quasi tutte le opere aristoteliche, ben poco abbiamo di quelle rifinite, lineari, rivolte al pubblico esterno alla scuola. Dai trattati sui viventi dobbiamo aspettarci dunque un linguaggio a tratti aspro, ripetitivo, non sempre coerente, che molto fa rimpiangere l'assenza della voce di Aristotele che glossava, aggiungeva, spiegava. Siamo inoltre di fronte a due enormi novità: prima, non esisteva una scienza dei viventi, inoltre prima di Aristotele nessuna scienza era espressa in testi che non mescolassero diverse discipline, senza escludere la teologia e il sacro. Qui invece troviamo le "Ricerche sugli animali", che descrivono quasi seicento specie diverse di animali direttamente osservati, classificati nelle "Parti degli animali" con la distinzione fondamentale tra ovipari e vivipari, nonché per esempio l'attribuzione di balene e delfini ai mammiferi, per il loro respirare tramite polmoni e non tramite branchie. La "Riproduzione degli animali" descrive la riproduzione sessuale, intesa come l'infusione attiva della forma da parte del maschio nella materialità della femmina. A brevi opere sulla percezione, la memoria, il sonno, i sogni, la lunghezza della vita e la respirazione segue il trattatello sul Moto degli animali, movimento che viene ricondotto alla forza di un assoluto primo immobile, necessario a ogni forma di mobilità.

«aut aut» n. 184. Nuove antichità (Vernant, Lanza, Sircana, Casagrande, Vecchio, Ferrari).

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Euripide, Le tragedie. A cura di A. Beltrametti e un saggio di D. Lanza

Euripide, Le tragedie. A cura di A. Beltrametti e un saggio di D. Lanza

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Lo spazio letterario della Grecia antica

Lo spazio letterario della Grecia antica

 

Lo spazio letterario della Grecia antica01

Lo spazio letterario della Grecia antica

 

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Senofonte, Economico

Senofonte, Economico.

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Storia del mondo antico

Storia del mondo antico.

 


Rossella Saetta Cottone, Philippe Rousseau, Diego Lanza, lecteur des œuvres de l'Antiquité

Rossella Saetta Cottone, Philippe Rousseau,
Diego Lanza, lecteur des œuvres de l’Antiquité, OpenEdition Books

Bibliographie de Diego Lanza

 


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Mario Vegetti:
un ricordo personale e filosofico

di Luca Grecchi


Mario-Vegetti

Mario Vegetti

Il mio rapporto con Mario Vegetti risale al 2004. Da studioso della filosofia antica mi sono infatti formato, come molti altri, sui suoi testi, che ho sempre apprezzato in maniera particolare (insieme a quelli di Enrico Berti). Decisi per questo, pur non avendolo mai incontrato di persona, di chiedergli una introduzione ad un libro che avevo appena concluso (Conoscenza della felicità). In maniera inattesa, anche in quanto Mario era ancora alle prese con l’insegnamento accademico, egli lesse velocemente il manoscritto di quel giovane sconosciuto che allora ero per lui, e ne realizzò una generosa introduzione, che iniziava con queste parole: «Luca Grecchi è un pensatore, a suo modo, classico…». Inutile dire la gioia che provai quando la ricevetti.
Nel tempo i nostri rapporti, soprattutto epistolari, sono continuati, ma si sono molto intensificati nell’ultimo anno, quando Mario mi rivelò di essere malato. Questi rapporti si sono intensificati soprattutto per motivi editoriali, che ora accennerò, ma il tema che li ha caratterizzati è sempre stato la costante ironia di Mario, la quale costituisce il tratto della sua personalità che rammento con maggiore affetto. Ricordo, a solo titolo di esempio, che quando all’inizio dello scorso anno gli telefonai per chiedergli alcuni consigli, in quanto ero stato incaricato di realizzare il volume Natura nella collana Questioni di filosofia antica per la casa editrice Unicopli (un lavoro assai impegnativo, richiedente una vasta trattazione di questo ambito – insieme filosofico, scientifico e letterario – su oltre dieci secoli), mi disse testualmente queste parole: «Tu sei l’unico matto che poteva accettare un lavoro del genere. Ma chi te lo fa fare?». L’ironia di Mario era meravigliosa, in quanto esprimeva sempre in forma iperbolica una idea che lui realmente sentiva, e che aveva il suo fondamento. Come quando, anni prima, invitato ad una conferenza con Giovanni Reale sul tema fede/ateismo, mi disse che gli era stato richiesto di “fare la parte del non credente„, anche se poi appunto affermava di credere pure lui ad alcune cose, e di non sapere bene a che cosa non credesse.
I ricordi sono molti, ma penso sia più utile qui soffermarmi sui lavori di questi ultimi tempi di Mario, cui egli teneva in maniera particolare. Gli ultimi mesi si sono infatti svolti a stretto contatto epistolare con me e la casa editrice Petite Plaisance di Pistoia (nella figura del carissimo amico Carmine Fiorillo), in quanto abbiamo insieme deciso di ripubblicare, nella collana filosofica da me diretta, alcuni testi di Mario oramai introvabili. In particolare, dopo avere ripubblicato qualche anno fa Cuore, sangue e cervello, che Mario scrisse negli anni Settanta con Paola Manuli, e soprattutto dopo avere edito Scritti con la mano sinistra (una raccolta di suoi scritti di carattere in senso ampio “politico„), sono appena stati ristampati, appunto da Petite Plaisance, altri due libri di Mario, Tra Edipo e Euclide ed Il coltello e lo stilo.
Con specifico riferimento a Scritti con la mano sinistra – un testo che mi permetto davvero di consigliare a chi non lo avesse ancora letto –, mi torna alla mente un altro piccolo aneddoto, che mi consente di svolgere qualche considerazione più filosofica sul suo lavoro. Mi disse infatti, quando gli feci la proposta di raccogliere i suoi testi più politici: “Vorrei sapere perché ci tieni così tanto che siano ripubblicati i miei articoli, che tranne l’Inter e il comunismo non la pensiamo mai allo stesso modo„. Condividevamo, in effetti, le stesse “fedi laiche„ calcistiche e politiche, sebbene di ambedue negli ultimi tempi, per motivi contingenti (noti agli appassionati), parlassimo poco. Mario tuttavia aveva ragione sul fatto che non sempre noi si concordasse. In effetti, negli anni, a più riprese gli feci presente che, a mio modestissimo avviso, erano un poco eccessive le sue considerazioni critiche sul carattere “agonale„ della civiltà omerica, sul carattere poco democratico dell’epoca classica, così come il suo insistere su alcuni aspetti a mio avviso minori del pensiero di Aristotele (le donne, gli schiavi, ecc.). Mi sembrava, insomma, che egli mettesse in evidenza gli aspetti più oscuri in quelle civiltà ed in quei pensieri, in questo modo riducendo la visibilità degli aspetti migliori. Ma, naturalmente, lui faceva bene a proseguire la sua strada, la quale ha in effetti consentito di problematizzare ed eliminare molti desueti luoghi comuni sulla cultura classica, oltre che di tracciare alcuni importanti sentieri scientifici prima di lui inesistenti.
Ci divideva anche un altro contenuto, come emerse in una conferenza che si tenne a Milano nel 2009 con me, lui, Carmelo Vigna ed Enrico Berti (che a dire il vero arrivò fino in stazione Centrale, si infortunò ad un piede scendendo dal treno, e tornò a Padova senza purtroppo poter partecipare). Mario non riteneva infatti che il pensiero antico potesse essere considerato un pensiero dotato di contenuti onto-assiologici veritativi, tali cioè da costituire stabili riferimenti di senso e di valore validi anche per il nostro tempo. Da antichista puro – per quanto aperto al pensiero filosofico moderno e contemporaneo –, egli sosteneva in effetti la necessità di collocare sempre gli antichi nel loro contesto, senza potere trarre da essi messaggi sovrastorici. Questa era la sua impostazione filosofica, che io scherzando gli dicevo essere quella del vecchio “storicismo marxista„; lui mi ripagava dicendo che io ero un “metafisico classico„, per il mio insistere sempre sulla verità e sul bene, e così eravamo pari. In ogni caso, come prova il suo ampio commento alla Repubblica di Platone edito da Bibliopolis, emergeva anche dalla sua opera, sebbene talvolta egli lo velasse, un afflato utopico-progettuale davvero importante, derivante proprio dal sostrato filosofico greco.
Per ritornare ai suoi testi, quelli che egli teneva maggiormente a ripubblicare erano le due raccolte, Scritti di medicina ippocratica (uscita purtroppo il giorno dopo la sua morte) e Scritti di medicina galenica (in uscita a breve), che compattano materiale di studio sulla medicina antica redatto da Mario in oltre cinquanta anni di lavoro. Sono davvero felice di avergli potuto fare questa proposta, manifestandogli al contempo la dovuta gratitudine per il grande valore della sua opera, esso sì realmente sovrastorico. L’ultimo plico che ha spedito, una settimana circa prima di morire, credo lo abbia mandato proprio a Petite Plaisance, con il suo generoso apprezzamento per la qualità editoriale dei volumi appena ristampati. Anche nella correzione degli impaginati non è peraltro mai mancata la sua ironia: “Mi stai facendo lavorare come un matto, sai che in questo periodo non sono in grado di effettuare grandi performance lavorative…„, mi scriveva in una sua email prenatalizia.
Eravamo rimasti in accordo che avrebbe partecipato con un saggio ad un volume collettaneo che sto curando, che si intitolerà Teoria e prassi in Aristotele, in uscita in autunno. Conoscevo che le sue condizioni di salute erano in peggioramento (per la presentazione dei volumi galenico ed ippocratico, in corso di organizzazione sia alla Casa della Cultura di Milano che in Università, sapeva che non avrebbe comunque potuto partecipare), ma non pensavo che ci avrebbe lasciati così in fretta. Ha fatto in tempo a sapere – è il contenuto dell’ultima sua email che ho ricevuto, dell‘8 marzo – della morte dell’amico e collega di una vita, Diego Lanza, avvenuta il 7 marzo.
Ho appreso della sua morte, come molti, lunedì 12 marzo sfogliando Il corriere della sera, che gli ha dedicato, come doveroso, una bella pagina. Perdiamo con lui, sicuramente, un pensatore originale ed un grande antichista, animato – come erano stati, prima di lui, Rodolfo Mondolfo ed il suo amico Gabriele Giannantoni – da una rigorosa passione politica, sempre attenta ai problemi di chi è più in difficoltà. Concludo ricordando che Mario, pur nella consueta riservatezza, era massimamente orgoglioso del suo ruolo di nonno, padre e marito: alla famiglia, pertanto, va il mio pensiero più caro, ben conoscendo il valore dell‘uomo che hanno avuto accanto.

Luca Grecchi


LOgo Società di psicanalisi

Il testo è già stato pubblicato anche sul sito della Società di Psicoanalisi Crritica (29-03-2018) con questa nota di accompagnamento: “Pubblichiamo di seguito un ricordo di Mario Vegetti, notissimo studioso e docente di Storia della Filosofia antica e intellettuale rigoroso, amico personale di alcuni di noi e della Società di Psicoanalisi Critica”.


logo casa della cultura

ADDIO A MARIO VEGETTI

Ricordano l’amico e il protagonista della Casa della Cultura: Ferruccio Capelli, Mauro Bonazzi, Fulvio Papi, Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri, Salvatore Veca


Ricordo di Mario Vegetti – Rai Filosofia

 Addio a Mario Vegetti, l’utopia di Platone e i suoi chiaroscuri – La Stampa

Mario Vegetti,  filosofo studioso di Platone – Corriere della Sera

289 ISBN

Mario Vegetti, Il coltello e lo stilo. Animali, schiavi, barbari e donne alle origini della razionalità scientifica.

ISBN 978-88-7588-228-0, 2018, pp. 192, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “Il giogo” [82]. In copertina: Affresco raffigurante gli Istrumenta sciptoria. In quarta: bassorilievo del tempio di Esculapio di Atene.

 indicepresentazioneautoresintesi

Premessa alla nuova edizione del 2018

Il coltello e lo stilo fu pubblicato nella primavera del 1979. Fin dalla sua comparsa, suscitò un vivace interesse, non solo, e non tanto, fra gli specialisti di antichistica, quanto presso un pubblico composito di lettori che frequentavano i territori che allora si chiamavano “cultura critica”: epistemologia, antropologia, psicoanalisi, ed eventualmente movimenti come quello femminista e animalista. Ne uscirono naturalmente diverse interpretazioni del senso e degli intenti del libro (dalla critica irrazionalistica ai fondamenti “violenti” della scienza, a una rivisitazione moderata di Foucault). Nell’introduzione all’edizione del 1996, riprodotta in questo volume, ho tentato di delineare le coordinate culturali entro le quali Il coltello e lo stilo era stato concepito, e di indicare un punto di vista d’autore sulla collocazione del libro. Ha fatto però bene l’editore a ristampare qui la prima edizione, quella del 1979. Da un lato, questo restituisce ai primi lettori la possibilità di un rinnovato incontro con il testo; dall’altro, e soprattutto, consente a nuovi lettori l’accesso alla forma originale del libro ormai da gran tempo esaurita. Non è immotivato pensare che questa ristampa possa apparire a qualcuno come una riscoperta, e ridestare almeno in parte l’interesse e la discussione così vivaci tanti anni or sono. Se così fosse, potremmo augurare “bentornato” al Coltello e lo stilo, e renderne il merito che gli spetta al generoso editore, Carmine Fiorillo di “Petite Plaisance”.

Mario Vegetti

Febbraio 2018


291 ISBN

Mario Vegetti, Tra Edipo e Euclide. Forme del sapere antico.

ISBN 978-88-7588-227-3, 2018, pp. 208, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “Il giogo” [84]. In copertina: Frammento di cratere a calice a figure rosse [scena dell’Edipo Re di Sofocle] (330-320 a.C.) e Papiro de Oxirrinco [frammento degli Elementi di Euclide].

 indicepresentazioneautoresintesi

Premessa alla nuova edizione del 2018

Edipo e Euclide rappresentano simbolicamente i due limiti estremi della razionalità greca. Il primo – nell’interpretazione che offre dell’Edipo re sofocleo il primo dei saggi qui raccolti – impersona una forma di razionalità indagatrice, che procede per indizi e per segni, e ha di mira la “scoperta”: una scoperta legata sempre alla circostanza particolare, al kairòs, all’individuo. Una razionalità, dunque, nella quale si riflettono l’indagine diagnostica e prognostica sia della medicina ippocratica sia della storiografia tucididea (che si presenta esplicitamente come una ricerca dia­gnostica sulla crisi di Atene).

All’estremo opposto si colloca la forma della razionalità che può andare sotto il nome di Euclide. La sua geometria costituiva già per gli antichi, e costituisce tuttora, un modello di pensiero astrattivo e dimostrativo, il luogo elettivo di un’idea forte della verità come acquisizione universalmente valida, incontrovertibile e immutabile. Come mostra l’ultimo dei saggi raccolti nel volume, la razionalità euclidea è l’asse teorico su cui si impernia gran parte della scienza ellenistica (sia pure con qualche eccezione).

Fu Galeno a tentare una sintesi di questi due stili di razionalità nel suo progetto di ricostruzione epistemologica della medicina, come indicano i due saggi che qui gli sono dedicati. Da un lato, egli continuava a ritenere che la medicina dovesse essere una techne di stile ippocratico, capace di diagnosticare e pronosticare le vicende individuali della malattia grazie a un’indagine semiologica di modello “edipico”. Dall’altro però era convinto che la medicina dovesse dotarsi di un robusto impianto teorico di tipo universalizzante e dimostrativo, alla maniera delle scienze forti di modello “euclideo”, sfidando le tensioni che questa doppia esigenza epistemologica veniva producendo nel suo pensiero.

Anche per il rigoroso razionalismo stoico conciliare la teoria di un’anima costituita dal solo logos con l’evidenza dell’insorgere nel soggetto umano di pulsioni irrazionali come le passioni costituiva un serio problema. Il capitolo IV del libro mostra come una delle spiegazioni stoiche abbia individuato nel condizionamento sociale ed educativo subito fin dalla primissima infanzia la matrice delle deviazioni passionali: la natura mette al mondo neonati buoni, ma i successivi processi di allevamento e di socializzazione lo predispongono a cedere all’irrazionalità delle passioni.

I saperi antichi vengono naturalmente forgiati da forme di razionalità intermedie od oblique rispetto agli estremi che ne abbiamo indicati. C’è il potente ricorso a modelli metaforici che rendono possibile e persuasivo il discorso scientifico intorno a fenomeni difficilmente accessibili o comprensibili. Così la metafora della politica agevola per i medici la comprensione dei processi somatici interni (cap. II), e quella derivata da un’esperienza tanto diffusa nella società romana come lo spettacolo circense orienta la costruzione del sapere di Plinio intorno al mondo animale (cap. V). La scimmia, infine, con il suo corpo troppo simile a quello umano, mette suo malgrado in contatto due mondi così lontani come quello leggero del gioco e dello spettacolo, da un lato, e dall’altro quello dell’anatomia e della vivisezione, con la sua razionalità scientifica “dura” (cap. III).

Nell’ambito dei miei studi, queste ricerche svolgono un ruolo di transizione. Da lato, continuano e sviluppano temi trattati ne Il coltello e lo stilo (1979), dall’altro anticipano quelli sull’etica antica e sulla medicina ellenistica e galenica, che avrebbero occupato i decenni successivi. Il comune orientamento metodologico di questo campo di studi è definito nel testo sulla Questione dei metodi, con il quale si apre il volume; i saggi raccolti possono venire letti come esempi e verifiche delle indicazioni che vi vengono discusse.

In questo doppio carattere, di lavori di ricerca e di esercizi di metodo, credo possa consistere il perdurante interesse dei saggi raccolti, e per questo mi è giunta benvenuta l’idea di riproporli al lettore per i tipi di Petite Plaisance.

Mario Vegetti

 Dicembre 2017


 

ISBN Ippocrate

Mario Vegetti, Scritti sulla medicina ippocratica.

ISBN 978-88-7588-225-9, 2018, pp. 416, formato 140×210 mm., Euro 30 – Collana “Il giogo” [86]. In copertina: Rilievo dal santuario di Anfiarao a Oropo, 400-350 a.C., Atene, Museo Archeologico Nazionale.

indicepresentazioneautoresintesi

 

Prefazione

Ho esitato ad accettare la proposta dell’editore Carmine Fiorillo e dell’amico collega Luca Grecchi di raccogliere in volume i miei scritti sulla medicina ippocratica. Per la gran parte, infatti, essi risalgono a quasi cinquant’anni or sono, ed era evidentemente fuori questione tentarne un aggiornamento, che avrebbe equivalso a riscrivere larga parte della ricerca ippocratica del Novecento: in effetti, questi scritti avevano un carattere pioneristico, e non solo in Italia. Erano allora rari gli studi d’insieme sulla medicina greca di epoca classica, le edizioni commentate di singoli testi ippocratici, e naturalmente non si parlava ancora di Colloqui ippocratici internazionali, la cui serie iniziò nel 1972 dando luogo ad incontri via via più affollati di studiosi e di specialisti. Ma è stata poi proprio la precocità di questa stagione di studi, nell’ambito della vicenda mia personale e in quello della ricerca ippocratica in Italia, a convincermi infine ad accettare la proposta.
Si respirava in quegli scritti un’aria di scoperta: l’emozione per l’incontro con un episodio fondativo alle origini della tradizione medica e del pensiero scientifico in Occidente, l’entusiasmo per l’esplorazione del più vasto continente di sapere scientifico che la cultura greca ci abbia lasciato prima di Aristotele e della geometria euclidea. Si trattava per giunta di una techne razionale – fra le prime a varcare la soglia della scrittura durante il V secolo a.C. – che offriva il modello di un sapere capace di coniugare conoscenza ed efficacia. Essa si collocava più sul versante semiotico, indivi­dualizzante della scienza che su quello dimostrativo-astrattivo, e costituiva quindi un suggestivo modello intellettuale per le scienze dell’uomo allora in corso di formazione, dalla storia alla politica, come mostrò precocemente Jaeger e come del resto aveva già intuito Platone.
Nei saggi qui raccolti venivano seguiti due approcci principali nell’accostarsi a questo ricco ambito del sapere antico, entrambi del resto consoni all’atmosfera intellettuale degli anni Sessanta del secolo scorso. Il primo, e di gran lunga prevalente, era l’interesse per il metodo, concepito come il terreno di incontro cognitivo fra ragione ed esperienza, configurate così come i due poli del processo della conoscenza. Si trattava di un approccio orientato da una epistemologia di ispirazione kantiana, com’è facile vedere, ma che risultava adatto a mettere in luce la nascente sensibilità metodologica in cui consisteva uno dei tratti di originalità teorica del pensiero medico nel V secolo. Esso sembrava infatti proporre, in forme più o meno esplicite, una funzione della ragione come strumento di comprensione e di organizzazione significativa del materiale di esperienza, e dell’esperienza stessa come territorio disponibile al controllo cognitivo e anche operativo della ragione, che da esso comunque non poteva prescindere.
Con questa idea di “metodo”, la medicina ippocratica sembrava trovare una sua via – la via propria di una techne – tra le due opposte “sostanzializzazioni”, della ragione e dell’esperienza. La prima veniva concepita dagli Eleati non in rapporto ma in opposi­zione all’esperienza, e costituiva dunque non solo uno strumento della verità, ma il suo unico contenuto. L’esperienza dei processi naturali veniva per contro concepita dagli Ionici come autoesplicativa, perché bastava la scelta di uno o più elementi della natura per spiegarne tutto il resto, senza l’impegno a costruire un discor­so capace di darsi regole e giustificazioni metodiche eterogenee rispetto al mondo naturale.
Il secondo approccio, più vicino questo a un’ispirazione marxista, comportava invece un’attenzione, allora non molto diffusa, all’ambiente sociale che aveva favorito lo sviluppo della medicina e del suo peculiare profilo intellettuale. Si trattava della polis democratica, teatro della crescita delle technai profane e secolarizzate, legate all’ambiente sociale dell’agorà, e della parallela crisi dei saperi tradizionali di matrice sacerdotale: il luogo culturale, dunque, dove il medico laico di affiliazione ippocratica poteva sfidare i sacerdoti guaritori dei templi di Apollo e di Asclepio, i purificatori, i maghi e gli indovini della tradizione. Sul piano filosofico, questo stesso ambiente della medicina era condiviso da un filosofo come Anassagora, il che contribuisce a spiegarne la particolare rilevanza per l’ippocratismo, come si insiste a più riprese nei lavori qui raccolti.
A tanta distanza di anni, e dopo così rilevanti sviluppi nella ricerca, i loro limiti emergono con chiarezza: in parte possono venir considerati inevitabili visto l’entusiasmo pioneristico che li animava, in parte possono esser fatti risalire alle concezioni diffuse nella cultura del tempo, oltre che a inclinazioni proprie dell’autore.
Quanto a queste ultime, credo si possa definire alquanto eccessiva l’enfasi posta sul rapporto, in positivo e in negativo, tra filosofia e medicina. È indubbio che le grandi correnti filosofiche abbiano influito, o tentato di influire, sulla formazione della concettualità medica: dopo tutto, è in Antica medicina che si trova la più antica citazione (polemica) di Empedocle e della sua “filosofia”; ed è altamente probabile che il nascente pensiero “ippocratico” possa aver rivolto la sua attenzione al magistero anassagoreo. D’altra parte, è ben nota la profonda impressione che la medicina destò in tutto l’arco del pensiero di Platone, sia nel suo versante metodico (come testimoniano il Fedro e il Carmide), sia nella sua esemplarità etico-politica, a più riprese sottolineata dal Gorgia alla Repubblica, dal Politico alle Leggi. Ma è prudente non immaginare un’intensa circolazione di libri e dottrine fra due aree così intellettualmente e anche professionalmente e socialmente lontane come la filosofia e la medicina delle origini, e fra ambiti geografici distanti come la Magna Grecia e la costa ionica dell’Asia minore. La stessa pur rilevante elaborazione metodologica prodotta dai medici del V secolo non avrà probabilmente avuto quella piena consapevolezza teorica e filosofica che tendevo ad attribuirle, quasi si trattasse non di Ippocrate ma – seicento anni più tardi – di Galeno.
Tipico del tempo in cui prese forma la mia ricerca è invece un certo eccessivo ottimismo nella possibilità di risolvere la “questione ippocratica”, identificando le opere autenticamente attribuibili alla figura storica di Ippocrate, e persino tentando di leggerne l’evoluzione interna. Ero allora convinto che il “vero” Ippocrate fosse riconoscibile nelle opere tradotte nelle prime due sezioni del mio Ippocrate del 1964, che Ludovico Geymonat volle accogliere nella sua storica collana di “Classici della scienza”: L’antica me­dicina, Le arie le acque i luoghi, Il prognostico, Il regime nelle malattie acute, Male sacro, Le epidemie (libri I e III), Le ferite nella testa, Fratture e articolazioni; e che, di conseguenza, queste opere contenessero una dottrina medica coerente e unitaria. Continuo a pensare che, se ha senso cercare un nucleo “ippocratico” del Corpus, esso andrà più o meno cercato nel perimetro indicato, e che sia tanto difficile escluderne Antica medicina quanto includervi Il regime, come molti studiosi hanno sostenuto. Ma già nell’Introduzione del 1973 alla seconda edizione dell’Ippocrate manifestavo una giusta cautela sulla possibilità di raggiungere conclusioni definitive in proposito, e anche un certo scetticismo sull’utilità della modalità filologico-attribuzionistica della ricerca ippocratica, che rischiava di mettere in secondo piano la cosa più importante, cioè la comprensione storico-critica di opere e gruppi di opere, quale che ne fosse la presunzione di “autenticità” ippocratica.
Più interessante mi sembra segnalare ora un abbaglio, o un equivoco, in cui incorrevano sia la mia ricerca sia gran parte della storiografia dell’epoca. Ne era motivo il pregiudizio classicistico, che assegnava un maggior valore culturale e sociale alle forme politiche e intellettuali appunto dell’età detta “classica” (V e IV secolo a.C.), e conseguentemente considerava epoche di decadenza quelle posteriori, a partire dall’ellenismo (un pregiudizio tenace che risaliva a Hegel ed è resistito fino a pochi decenni orsono). Aleggiava dunque la convinzione che la grande età della medicina greca fosse appunto quella ippocratica, e che la medicina posteriore, per quanto tecnicamente evoluta – dagli anatomisti alessandrini a Galeno – avesse perduto la carica innovativa e l’apertura intellettuale dei fondatori. Parallelo a quello epistemico, c’era il pregiudizio storico secondo il quale la grande età della storia greca era stata quella “periclea”, insomma l’età della polis matura, e che la successiva storia dei regni ellenistici fosse a sua volta una storia di decadenza politico-sociale.
Non c’è bisogno di dire che gli sviluppi della ricerca, e la critica del classicismo, hanno fatto giustizia di entrambi questi pregiudizi. La medicina ellenistica e imperiale è stata riconosciuta come uno straordinario edificio di sapere teorico e di competenza tecnica, dai vasti orizzonti intellettuali e dal forte prestigio sociale (nella mia storia personale, questa svolta ha avuto luogo nel 1978, con l’avvio degli studi su Galeno, anch’essi stimolati da Ludovico Geymonat). Quanto al mondo dei regni ellenistici, ne sono stati generalmente riconosciuti i meriti nella promozione della cultura letteraria e scientifica, i successi tecnologici ed economici, lo spirito di tolleranza nei riguardi delle religioni e delle culture che facevano parte dei loro domini. Veniva certo meno l’intensa partecipazione dei cittadini alla vita politica comune, che era stata propria della polis; ma veniva anche meno la chiusura etnica e sociale di questa comunità di “autoctoni” di fronte agli stranieri, cui essa non riconosceva alcun diritto. È almeno discutibile che le scienze e le tecniche abbiano trovato nella polis un ambiente più favorevole al loro sviluppo rispetto ai regni ellenistici: la fondazione del Museo e della Biblioteca di Alessandria, oltre che di simili istituzioni nelle altre capitali ellenistiche, sembra dare decisamente un’indicazione contraria, anche se certo in questi casi si tratta di mecenatismo regio e non di deliberazione democratica.
Una rilettura di questi testi, ricollocati così nelle coordinate culturali in cui videro la luce, ritengo possa mantenere un suo valore e una sua utilità per tutti i lettori interessati a comprendere lo sviluppo storico e le strutture intellettuali della medicina greca di epoca ippocratica – cioè dell’episodio fondativo dell’intera tradizione medica occidentale.
Gli scritti sono presentati in ordine cronologico, ad eccezione delle due introduzioni del 1964 e del 1973, che sono poste al termine del volume per il loro carattere di trattazione complessiva. Non sono stati inclusi in questa raccolta scritti già comparsi nei volumi La medicina in Platone, Il Cardo, Venezia 1995, e Tra Edipo e Euclide. Forme del sapere antico, Il Saggiatore, Milano 1983.
Non posso concludere questa premessa senza rivolgere il mio più caloroso ringraziamento all’editore Carmine Fiorillo, per lo straordinario impegno profuso nell’allestimento di questo volume.

Febbraio 2018

Mario Vegetti


Coperta 148

Paola Manuli – Mario Vegetti

Cuore, sangue e cervello

indicepresentazioneautoresintesi

Paola Manuli – Mario Vegetti, Cuore, sangue e cervello. Biologia e antropologia nel pensiero antico. In Appendice: Galeno e l’antropologia platonica.

ISBN 978-88-7588-028-6, 2009, pp. 288, formato 140×210 mm., Euro 25. Collana “Il giogo” [22]. In copertina: Asclepio cura un malato, rilievo in marmo, V secolo a.C.

 

Prefazione alla nuova edizione

Questo libro è esaurito da molti anni, e non è stato possibile ristamparlo perché la casa editrice Episteme, che l’aveva pubblicato nel 1977, ha nel frattempo cessato la sua attività. Mi è spesso accaduto di ascoltare il rammarico di studiosi che ne lamentavano l’irreperibilità, considerandolo ancora un utile strumento di lavoro.
Quando l’editore CARMINE FIORILLO mi ha espresso la sua generosa disponibilità ad una riedizione del volume, ho tuttavia provato qualche incertezza. Provvedere a un aggiornamento risultava impossibile per due ragioni. La prima era la dolorosa e prematura scomparsa di PAOLA MANULI, autrice della parte sostanziale del lavoro (a me era spettato soltanto, oltre al progetto complessivo, la stesura dell’introduzione). La seconda consisteva nell’immensa mole di lavori scientifici comparsi nei trent’anni intercorsi dalla pubblicazione del libro: per limitarmi a qualche esempio, ricorderò solo gli atti dei numerosi colloqui ippocratici e galenici, le opere collettive sulla biologia di ARISTOTELE edite da GOTTHELF, LENNOX, PELLEGRIN e KULLMANN, il libro della DUMINIL sul sangue e il cuore nel Corpus Hippocraticum (1983), il volume della ANRW su GALENO (II 37.2, 1994), gli studi di G.E.R. LLOYD; e citerò da ultimo tre recentissime e importanti ricerche in lingua italiana, quella di D. QUARANTOTTO sul finalismo nella scienza aristotelica (2005), quella di R. LO PRESTI sull’encefalocentrismo ippocratico (2008), e quella di T. MANZONI sul cervello in ARISTOTELE (2007).
Una rilettura del libro mi ha tuttavia convinto che nonostante tutto esso conservi ancora motivi di attualità tali da renderne opportuna e motivata una riedizione.
Vorrei indicarli schematicamente in quattro punti.

Asclepio cura, b e n

1. L’opera non si limita ad una ricostruzione degli atteggiamenti del pensiero scientifico antico in merito al problema di individuare la parte egemonica del complesso psico-somatico. C’è inoltre uno sforzo intelligente e sistematico di integrare questi atteggiamenti all’interno di una serie di veri e propri paradigmi epistemologici, che mette in chiaro come le opzioni intorno a questo problema si inseriscano in un quadro complesso di posizioni gnoseologiche e di scelte filosofiche, come risultino solidali rispetto a tutta una costellazione di conoscenze scientifiche, di pratiche tecniche e anche di pregiudizi ideologici, che in ultima istanza risultano riferibili a concezioni rivali circa il rapporto fra uomo e natura.
In questo senso, il libro presenta ancora a mio avviso un rilevante interesse di ordine metodico, come saggio di un’interpretazione della scienza antica che non si limita a un repertorio di “progressi” e di “errori”, ma si sforza di comprendere l’insieme delle ragioni che motivano (non certo meccanicamente) sviluppi, regressi, aporie, innovazioni e contraddizioni.

2. Il libro presenta inoltre una sostanziale novità storiografica, che non mi risulta sia stata superata dalla letteratura critica più recente, e di cui anzi forse non sono ancora state pienamente sviluppate tutte le potenzialità euristiche. Si tratta della distinzione (nel campo degli avversari dell’encefalocentrismo) fra un paradigma cardiocentrico, ben noto grazie ad ARISTOTELE, e un paradigma emocentrico, che spesso, ma erroneamente, viene identificato con il cardiocentrismo. PAOLA MANULI non solo ha identificato con chiarezza questo secondo paradigma, che risale a EMPEDOCLE, ma soprattutto ne ha seguito la persistenza, spesso meno evidente ma non per questo meno efficace, dal Timeo platonico allo stesso ARISTOTELE e persino in GALENO, dove residui emocentrici appaiono tanto insuperati quanto latori ci contraddizioni e difficoltà di ricomposizione sistematica. Si tratta a mio avviso di un contributo tuttora prezioso per una comprensione non frettolosa e schematica dell’intera storia del pensiero biologico antico.

3. Il commento al peri kardies, nonostante che le opinioni sulla cronologia tendano oggi ad una datazione più bassa, resta di grande utilità per precisione di analisi e ricchezza di informazioni critiche, che offrono un quadro problematico ancora indispensabile all’interpretazione di quest’opera per molti aspetti enigmatica.

4. L’appendice su GALENO, infine, costituisce un pionieristico repertorio critico dei problemi relativi all’anatomo-fisiologia, alla psicologia e all’antropologia galeniche – problemi che sono tuttora al centro delle ricerche in questo settore – nonché una indagine penetrante intorno alle strategie con le quali GALENO affronta la tradizione da cui dipende, operando a volte un sapiente montaggio delle sue actoritates (in primo luogo IPPOCRATE, PLATONE, ARISTOTELE), a volte invece contrapponendole per finalità polemiche (come ad esempio IPPOCRATE e PLATONE contro ARISTOTELE e gli stoici sul tema del cardiocentrismo).

Mi sono sembrate, queste ed altre, buone ragioni per accettare volentieri e con gratitudine la proposta dell’editore di ripubblicare Cuore sangue e cervello, che viene in questa nuova veste corredato da un indice delle opere e degli autori citati. Spero che l’opera risulti utile e ben accetta agli studiosi; per quanto mi riguarda, considero questa nuova edizione anche come una rinnovata testimonianza del ricordo di PAOLA MANULI, la cui persona e il cui lavoro sono tuttora ben presenti nella memoria della comunità scientifica.

MARIO VEGETTI


coperta 110

indicepresentazioneautoresintesi

 

Mario Vegetti, Scritti con la mano sinistra.

ISBN 88-7588-014-X, 2007, pp. 160, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [18]. In copertina: Kouros, IV secolo a. C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Prefazione

1. Non avrei mai pensato di raccogliere questi scritti, se non fosse stato per la cortese e generosa insistenza dell’amico Luca Grecchi e dell’editore Carmine Fiorillo. A loro va dunque, nel bene e nel male, la responsabilità dell’esistenza di questo piccolo volume. A me spetta tuttavia di giustificare – nei limiti del possibile – l’accoglimento della loro proposta.
Quello che mi ha colpito, nel rileggere questi testi dispersi in sedi molto diverse lungo l’arco di più di un quarto di secolo, è stata in primo luogo la loro coerenza. Devo dire subito che non ritengo che la coerenza sia necessariamente una virtù: essa può significare in effetti testardaggine cocciuta, miopia e sordità nei confronti di ciò che di nuovo accade nelle cose e nelle idee, insomma anelasticità intellettuale.
Ci può tuttavia essere qualcosa di virtuoso nella coerenza. Si tratta – per prelevare due parole dal lessico caro a Franco Fortini – dei suoi aspetti di insistenza e resistenza. Insistenza, nel senso non di ribadire tesi e dogmi, ma di continuare tenacemente a porre, e a pormi, problemi e domande, senza variare disinvoltamente il punto di vista da cui l’interrogazione viene posta, e accettando invece l’apertura e la variabilità della gamma delle risposte cercate. E anche nel senso di rifiutare la convinzione secondo la quale sconfitte storiche sono di per sé la prova di errori nella teoria: convincersi di “aver sbagliato” perché si è perduto rappresenta secondo me il residuo di una concezione teologica (il nemico è uno strumento divino per punirci delle nostre colpe). Qualche volta può essere così, ma più spesso l’avversario vince semplicemente perché è più forte sul terreno.
E resistenza: che significa accettare i mutamenti imposti dalla riflessione e dalle cose stesse su cui ci si interroga, ma invece rifiutare pentitismi compiacenti, cedimenti corrivi alle mode correnti o alle “luci della ribalta”; restare fedeli, insomma, a ciò che di noi hanno fatto la nostra storia intellettuale e morale, da un lato, la nostra collocazione in un mondo, dall’altro (insomma, in lettere minuscole, il nostro destino). Almeno in questo senso, la coerenza può forse risultare una virtù, e questa è stata la prima ragione che mi ha indotto ad accettare la proposta di raccogliere questi scritti, affidandoli volentieri a un piccolo ma coraggioso editore.
Scritti con la mano sinistra, appunto. Ovviamente nel doppio senso che si tratta, da un lato, di scritti marginali, parerga, rispetto al mio impegno professionale di studioso della filosofia antica; dall’altro, di scritti che rispecchiano più direttamente la mia collocazione politica, la mia presa di partito (questa espressione non ha naturalmente a che fare con appartenenze di “tessera”, ma con una decisione di fondo, la scelta “da che parte stare”). “A sinistra”, dunque. Una posizione alla quale mi consegnano la mia tradizione familiare, il mio percorso intellettuale e morale, la mia convinzione di un futuro possibile alternativo alla barbarie che attraversa il nostro tempo e ne minaccia l’orizzonte. Un futuro comunista, anche: con la necessaria precisazione che per “comunismo” non intendo un’identità ereditata e conclusa, in qualche misura “anagrafica” o certificata da un’iscrizione, ma appunto un orizzonte di ricerca e di azione, una prospettiva di liberazione e di giustizia, che si situa all’intersezione fra la parzialità della “presa di partito” e l’universalità che appartiene ai valori. Un’utopia, forse, della quale non nego l’ascendenza platonica oltre che giacobina e marxiana, che tuttavia, se vuole essere presa sul serio, deve poter individuare i suoi vettori storici di realizzabilità, le sue condizioni di possibilità, i livelli concreti di attuazione parziale e approssimata.
È appena il caso di aggiungere che in questi scritti non devono venire cercati né la chiave di lettura né il senso “segreto” dei miei lavori professionali di ricerca nel campo della storia della filosofia antica. Come ogni indagine disciplinare e a suo modo “scientifica”, essi contengono in se stessi, cioè nella relazione interpretativa che istituiscono con i testi e gli autori, e negli strumenti di metodo dichiaratamente messi in opera, le condizioni per la propria validità, e presentano il proprio specifico ambito di significazione. Stabilita questa necessaria clausola di salvaguardia, sarebbe tuttavia ingenuo, e anche a mio avviso metodicamente erroneo, assumere una perfetta “neutralità” dell’osservatore di fronte ai suoi oggetti di indagine, o una totale immunità di questa indagine dalla posizione extra-scientifica dello studioso. Ingenuo, erroneo e dal mio punto di vista anche inammissibile: credo infatti che la stessa tensione razionale, lo stesso sforzo di comprensione e argomentazione, ispirino e sorveglino (o almeno dovrebbero sorvegliare) sia il lavoro di ricerca sia la “presa di partito” che coinvolge l’uomo prima che il ricercatore.
Può darsi, dunque, che questi “scritti con la mano sinistra”, dichiarando esplicitamente la seconda senza riguardo per la finzione di “neutralità” del primo, contribuiscano a definire più chiaramente gli interessi intellettuali, i punti di vista da cui vengono formulate le domande di senso messe in questione nell’indagine storica. Anzi, l’esser consapevoli della propria parzialità può evitare di cadere in una tentazione, di commettere un errore storiografico in cui spesso si incorre, più o meno ingenuamente: quelli di “piantare le proprie bandierine” sul campo di indagine, cioè di riconoscere nel passato “precursori” delle idee in cui si crede (che siano il comunismo o il socialismo o il liberalismo o il cristianesimo: quanto spesso xe “Platone”Platone è stato arruolato sotto queste insegne?). Si tratta di un errore particolarmente funesto, perché lo studio del passato non serve allora a conoscere il passato stesso e per suo tramite a comprendere meglio noi stessi, bensì soltanto, narcisisticamente, a specchiarsi nel passato per riconoscervisi: il che non porta ad alcun incremento di comprensione né da una parte né dall’altra.

2. Questo libro è diviso in tre parti. La prima, Tra filosofia e politica, comprende scritti che discutono alcune problematiche filosofiche rilevanti dal punto di vista di interrogazioni che vengono, in senso lato, dalla politica. Che cosa significa la “crisi della ragione” e delle sue pretese universalistiche, tematizzata nel dibattito filosofico dell’ultimo scorcio del Novecento, dal punto di vista dei conflitti sociali e valoriali? Qual è il rilievo dell’esaurimento teorico della filosofia storicistico-dialettica dello “sviluppo”, e la sfida che esso propone a un pensiero non evoluzionistico della rivoluzione come progetto di emancipazione? Quale autonomia e quale ruolo restano all’intellettuale, e in particolare al filosofo, di fronte al dominio dei poteri sociali di conformazione della soggettività? Infine: c’è ancora uno spazio possibile per una prospettiva etica come orizzonte di senso della politica? Intorno a queste domande insistenti si articola la riflessione sviluppata – certo in modo solo incoativo – in questo primo gruppo di scritti.
La seconda sezione si intitola, per contro, Tra politica e filosofia. Qui l’oggetto di indagine sono le prospettive della politica considerate da un punto di vista filosofico. Un primo nodo problematico è costituito dalle condizioni di possibilità di una soggettività collettiva antagonista (il “partito dei comunisti”) nell’epoca del tardo-capitalismo in cui si è prodotto il progressivo logoramento delle grandi strutture di formazione di identità sociale (la fabbrica, il sindacato, l’esercito), in altre epoche capaci di esprimere una propria guida e rappresentanza politica. Emerge qui l’urgenza di pratiche collettive intese primariamente a “fare società”, cioè a creare legami sociali e progettualità collettive di cui la politica possa farsi interprete e strumento. E ancora una volta la questione dell’etica si profila come decisiva per costruire forme nuove di aggregazione sociale.
Un compito imprescindibile in questa prospettiva è quello di comprendere le ragioni della crisi dei modelli di stato e di società storicamente sperimentati dal movimento operaio e dai suoi partiti nel corso nel Novecento, e in primo luogo delle forme del cosiddetto “socialismo reale”. Ma altrettanto importante è riflettere – al di fuori delle semplificazioni propagandistiche e delle deformazioni ideologiche – sui temi della guerra e della “violenza”, tanto nelle loro dimensioni antropologiche quanto nelle implicazioni politiche che vi sono connesse.
Infine, e soprattutto, c’è l’esigenza imprescindibile di immaginare un futuro possibile, come orientamento della prassi quotidiana e anche come presupposto di un recupero valoriale della tradizione, ai fini della ricostruzione di una soggettività progettuale, di una nuova presa di coscienza della storicità capace di uscire dalle secche del “pensiero unico” e dalla minaccia della “fine della storia”. Al pari della società, la storicità non è un dato di fatto che si possa considerare acquisito, ma un obiettivo da costruire, un compito da perseguire, insomma una possibilità che non è garantita ma deve venir prodotta nell’azione collettiva di comprensione e di trasformazione.
La terza sezione, Fra gli antichi e noi, torna ad una riflessione sulla società e il pensiero dell’antichità dal punto di vista delle prospettive filosofico-politiche che si sono venute fin qui delineando. Da un lato si discutono le possibilità e i limiti di un’impiego delle categorie marxiane per l’interpretazione delle forme sociali e culturali del mondo antico: si tratta ancor oggi di uno strumento euristico indispensabile, anche per rettificare vedute dell’antico ingenue o ideologiche che ne oscurino il carattere profondamente conflittuale; uno strumento che va però maneggiato con cautela metodica e consapevolezza critica, vista la differenza che intercorre fra il sistema sociale del capitalismo moderno, in cui quelle categorie si sono formate, e la struttura delle “forme economiche pre-capitalistiche” su cui ci interroghiamo. Dall’altro lato sono in questione importanti episodi di reinterpretazione dell’antico da parte del pensiero contemporaneo, come le recenti indagini di M. Foucault sull’etica e l’antropologia antiche, e la vicenda novecentesca delle interpretazioni del pensiero politico di Platone, con i suoi abusi ideologici. Questo stesso pensiero viene infine indagato in due direzioni: l’utopia della comunità “giusta”, da un lato, e la critica – non disgiunta da un’inquietante attrazione – per una forma di potere politico assoluto ed efficace quale fu rappresentata nel IV secolo dalla tirannide: il circolo in questo modo si chiude, perché l’utopia della comunità giusta e la prospettiva del potere tirannico come strumento di trasformazione sociale ci riportano prepotentemente a questioni centrali della riflessione politica contemporanea.

3. Grandi interrogativi, dunque, per piccoli scritti. Che non aspirano davvero a fornire risposte, e neppure, in molti casi, a formulare le domande in modo filosoficamente adeguato. Ma che possono, forse, rivendicare a proprio merito lo sforzo di tenere aperto lo spazio dell’incertezza, di riproporre l’urgenza della riflessione, resistendo sia al cedimento di fronte all’omologazione del pensiero, sia alla rassegnazione di fronte all’estrema durezza dell’epoca. Non si tratta di un compito esclusivo del filosofo, e tanto meno dell’antichista, perché esso coinvolge la responsabilità morale e intellettuale di ognuno. Ma se sarà riuscito a riproporre, con la sua insistenza, un richiamo a questa responsabilità, a suscitare qualche consenso e naturalmente molti dissensi intorno al suo modo (certo controvertibile) di porre questioni e di condurre il ragionamento, questo piccolo libro non avrà del tutto deluso la fiducia di coloro cui si deve il progetto della sua realizzazione, e le speranze del suo autore.

Mario Vegetti


Tra i tanti altri lavori di Mario Vegetti

 

Marxismo e società antica, Feltrinelli, 1977

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Opere di Ippocrate, UTET

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Ippocrate, Antica Medicina, Rusconi, 1998

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Introduzione alle culture antiche. Vol 2. Il sapetre degli antichi, Bollati Boringhieri 1992

Introduzione alle culture antiche. Il sapetre degli antichi, Bollati Boringhieri

Introduzione alle culture antiche. Vol. 3. L'esperienza religiosa antica, Bollati Borinchieri 1992

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Le opere psicologiche di Galeno, Bibliopolis

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Platone, La Repubbluca, Bibliopolis

Platone, La Repubblica, Bibliopolis

La Rapubblica di Platone nella tradizione antica, Bibliopolis

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Galeno, Nuovi scritti autobiografici, Carocci

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Dialoghi con gli antichi, Academia

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Platone, La Repubblica (Libri V-VI-VIII), Radar, 1969

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Platone, La repubblica, Rizzoli

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Platone, Reoubblica, Libro 11, Lettera XIV. Socrate incontra Marx. Lo straniero di Treviri, Guida 2004

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Platone. Las Repubblica, Laterza 2007

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Tra Edipo e Euclide. Forme del sapere antico, Il Saggiatore

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Polis e economia nella Grecia antica, Zanichelli

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L'uomo e gli dei, Kindle Edition

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Guida alla lettura della Repubblica di Platone,Laterza, 2007

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Quindici lezioni su Platone, Einaudi 2003

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Libertà e democrazia. La lezione degli antichi e la sua attualità, Ed. Casa della Cultura

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Aristotele. Metafisica. Antologia, La Nuova Italia, 2001

Aristotele. Metafisica. Antologia, La Nuova Italia

Incontro con Aristotele. Quindici lezioni, Einaudi 2016

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L'etica degli antichi, Laterza, 2010

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«Un paradigma in cielo». Platone politico da Aristotele al Novecento, Carocci 2016

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Chi comanda nella città. I greci e il potere, Carocci 2017

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Diego Lanza (7-1-1937 / 7-3-2018) e Mario Vegetti (4-1-1937 / 11-3-2018)
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Opere biologiche di Aristotele, Utet,1996

Aristotele, Opere biologiche, Utet,1996

 

Aristotele, La vita

Aristotele, La vita

La riedizione, apparsa per Bompiani nel novembre scorso, delle Opere biologiche di Aristotele tradotte, commentate, introdotte da Diego Lanza e Mario Vegetti e pubblicate da UTET nel 1971 (2° ed. nel 1996), per la collana “I classici della scienza” allora diretta da Ludovico Geymonat, offre l’occasione di ricordare alla comunità dei lettori italiani (che già conoscono l’opera, che ancora non la conoscono, studiosi o cultori del mondo antico) l’importanza di questo imponente lavoro nel panorama bibliografico internazionale dell’antichistica e, più in generale, della storia del pensiero occidentale. Lavoro “imponente” si diceva, lavoro fondamentale nella storia degli studi filologici, epistemologici, filosofici, quanto di rottura: è lo snodo cruciale tra anni Sessanta e anni Settanta, e per un certo tipo di intellettuale marxista, autenticamente radicale e libertario, come lo furono convintamente durante tutta la loro attività Diego Lanza e Mario Vegetti, la tradizione umanistica, insieme al suo storicismo di matrice idealistica e al suo culto delle belles lettres rimodellato wilamowitzianamente da edificio scientifico dei realia, non poteva più convivere (per molti classicisti continuava e continua, invece, a farlo) con quella Kulturkritik che deriva la sua origine specifica dall’economia politica (prima ancora che dalla filosofia politica) di Marx.

 

Diego Lanza

Diego Lanza

Mario-Vegetti

Mario-Vegetti

Lanza e Vegetti non erano certo figure disponibili al compromesso tra conformismo accademico e esercizio del pensiero. Ora come allora, dunque, non si può capire assolutamente nulla della ricerca di Lanza e di Vegetti intorno alle opere biologiche di Aristotele se non si parte da tale premessa, soprattutto perché proprio essa è la ragione strutturale e immediata dell’innovatività scientifica unanimamente riconosciuta dagli aristotelisti all’opera dei due studiosi. Ed è un’innovatività ancora oggi fiammante giustamente per quella sua impostazione marxista, della quale vorrei ricordare qui di seguito i punti essenziali. Innanzitutto, Lanza e Vegetti guardano ad Aristotele (come sempre, in generale, guardavano all’Antico) a partire dalla Modernità: non si tratta di un posizionamento storico (o tantomeno attualizzante) bensì analitico, nel tentativo di tracciare i limiti linguistici e discorsivi (entrambi condividevano l’archeologia foucaultiana) dell’osservazione e della riflessione di Aristotele sull’animale, sul funzionamento delle sue parti e della sua struttura – fermo restando il fatto che, sia chiaro, l’unico tratto di discontinuità tra l’animale e l’uomo è la sophia.

uccello

Il costante riferimento alla biologia, alla fisiologia e alla zoologia moderne, tra Harvey e Linneo, tra Cuvier, Lamark e Darwin, è dunque essenziale ai due curatori per definire lo stile di razionalità (non dunque il “razionalismo”) aristotelico nelle sue caratteristiche intrinseche insieme al linguaggio che gli corrisponde. Ne risulta che la biologia di Aristotele è un sapere antropologico, calato nella memoria collettiva, e tuttavia dislocato dalla teoria e dal teorico sull’ulteriore livello dell’argomentazione. Ciò significa riconoscere alla biologia di Aristotele lo statuto di pensiero scientifico, nel quadro, però, di una prospettiva completamente differente da quella positivista ed evoluzionista, sostenuta, ad esempio, da Jaeger. Piuttosto e alternativamente, la biologia aristotelica, nella lettura di Lanza e di Vegetti, ci restituisce il lato fenomenologico della scienza, cioè il movimento teoretico-linguistico interno ad un sapere dell’esperienza che, tutt’al contrario e in modo decisamente retrogrado, l’umanesimo storicista considera risolto nella verifica. A questo proposito, Lanza e Vegetti sottolineano che la linea di demarcazione spesso tracciata tra scienza moderna e scienza artistotelica dagli odierni epistemologi sul filo della speculazione finalistica è una forzatura dovuta al peso della tradizione medievale, perché la dottrina biologica di Aristotele non si fonda tanto sulla causalità finale, quanto piuttosto sulle modalità causali.

Tavola tratta dal De Formato Foetu di Hieronymus Fabricius ab Aquapendente, 1604

Tavola tratta dal De Formato Foetu di Hieronymus Fabricius ab Aquapendente, 1604.

La vita stessa, secondo Aristotele, non è altro se non una particolare forma o struttura assunta dalla materia. E si tratta di un elemento particolarmente importante da sottolinare, in questa sede, soprattutto per spirito di servizio ai lettori, perché il titolo editoriale della riedizione Bompiani è: “Aristotele. La vita” (formula che scarta dal denotativo titolo UTET della 1° e della 2° edizione: “Opere biologiche”). Lanza e Vegetti sono molto chiari nel merito: la scienza biologica di Aristotele non si pone, infatti, il problema della “vita”, nell’accezione “vitalistica” del termine, l’anima stessa essendo semplicemente la struttura funzionale del corpo. E d’altra parte, per Lanza e per Vegetti, la conciliazione tra l’Aristotele biologo e l’Aristotele metafisico è un atto di pura falsificazione. Piuttosto, c’è uno psichismo tutto biofisiologico del corpo animale legato alle funzioni della percezione e della memoria: ed è Lanza in particolare a studiare da vicino, nelle sue note di commento e nelle introduzioni alle opere psicologiche, i processi di acquisizione conoscitiva (dall’esterno verso l’interno del corpo) e quelli che, invece, si originano in un impulso (dall’interno del corpo verso la realtà esterna), veri e propri dinamismi psicomotori in cui è possibile riconoscere un interessante anticipazione del concetto ben più recente di “stimolo nervoso”. C’è poi l’altra importante intuizione aristotelica intorno al legame tra l’attività psicomotoria e l’immaginazione: vista dalla parte della macchina corporea, l’immaginazione non è il gioco del “fantasticare”, bensì il prodotto dell’incontro e dell’intreccio tra esperienza somatica e rielaborazione emotiva di quella stessa esperienza. Ne è un chiaro esempio il funzionamento del ricordo, descritto da Aristotele nel De memoria come il vorticare di una forma in un fluido, posto che l’equilibrio dei fluidi (e soprattutto del sangue) è il perno della fisiologia aristotelica. Possiamo davvero dire, dunque, che, nell’intero panorama del mondo antico, è proprio Aristotele a scopire il corpo nella sua natura strutturalmente mista di biologico e di pulsionale, aprendo, di fatto, problemi che soltanto, per un verso, le ricerche di Piaget (la sua psicogenesi della conoscenza, i suoi studi sulla costruzione dell’intelligenza e sulla capacità mimetica umana), e, per l’altro, la psicoanalisi pre-freudiana e freudiana avrebbero esplorato fecondamente a cavallo tra XIX e XX secolo (sia detto incidentalmente: se l’attuale trend neuroscientifico degli studi letterari ritornasse all’Aristotele “psicologo” ci guadagnerebbe in apertura).

 

Aristotele, La vitaQuesta riedizione Bompiani (ARISTOTELE. LA VITA. Ricerche sugli animali, Le parti degli animali, La locomozione degli animali, La riproduzione degli animali, Parva naturalia, Il moto degli animali, con un aggiornamento bibliografico a cura di Giuseppe Girgenti e una bibliografia degli scritti di Diego Lanza e Mario Vegetti, pp. 2363, 60 euro), ha il merito di rendere nuovamente e materialmente disponibile in libreria per il grande pubblico le Opere biologiche apparse per UTET nel 1971, tenendo così viva la testimonianza di un lavoro che rappresenta, al di là del suo altissimo apporto specifico agli studi aristotelici, un esemplare saggio di metodologia marxista senza obbedienze diplomatiche o fideistiche a nessun accademismo culturale e politico.

 

Credo che oggi – in questi nostri tempi di “caduta delle ideologie” e, per fatale conseguenza, di studi “alla moda” i cui i risultati sono sempre più spesso oggettistica di mercato e poco più che rassegne bibliografiche aggiornate all’ultima segnalazione google – sia importante ribadirlo: un’opera scientifica che resti fondamentale e duratura non è mai costruita primariamente sull’informazione e sul rispecchiamento delle tendenze en vogue, e nemmeno sulla pur nobilissima erudizione, ma su esatte scelte di pensiero che posizionino lucidamente lo sguardo critico a distanza strategica dalla struttura dei fatti e dei fenomeni analizzati.

[Saggio già pubblicato su Alias, il manifesto, 3-2-2019, p. 7].



Massimo Stella

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Diego Lanza, 2007

 

 

2017 Tempo senza tempo

Tempo senza tempo: così si intitola il libro di Diego Lanza dedicato all’indagine teorica sul mito dal Settecento ad oggi (Carocci, settembre 2017). E’ un titolo che va in profondità: perché il “tempo senza tempo” è quello non di ciò che è accaduto, e nemmeno di ciò che immaginiamo, ma di ciò che abbiamo appreso.

Zakhòr, “Ricorda!”: ecco la dimensione del mito.

Questo libro, che in ordine di tempo è il suo ultimo, dice molto del modo di studiare di Diego Lanza e del suo modo di comunicare con il lettore o, per chi ricorda le sue lezioni e le sue conferenze, con l’ascoltatore: chi lo apre vi ritroverà il mestiere di filologo classico vissuto in senso convintamente antistoricistico e in opposizione all’umanesimo letterario e letterato, proprio perché svolto, quel mestiere, come esercizio di coscienza e di critica storico-materiali; vi ritroverà l’attenzione parallela per il mondo moderno e per il mondo antico, per la poesia e la scrittura dell’uno e dell’altro, come per le credenze e le pratiche religiose degli Antichi, depositate nell’epica, nel teatro, nelle opere dei filosofi e degli storici, e per l’esegesi vetero e neotestamentaria, vista dalla parte del Cristianesimo riformato, con spirito strutturalmente antidottrinario; ritroverà la conoscenza e l’interesse per le letterature e la filosofia europee, e l’interesse peculiare per quelle tedesca e francese, non solo e non tanto per professione intellettuale, ma per fiducia in quell’Internazionalismo politico e culturale che ha costruito l’identità dell’Intellettuale comunista nella nostra Europa, dal Manifesto del Quarantotto al Dopoguerra; e infine l’uso di uno stile e di una prosa sorvegliati, misurati, costituzionalmente antiretorici, che incidono con la precisione concettuale, mai con l’erudizione accademica, emozionando con gli strumenti, e l’intrinseca ironia, del pensatore, mai con l’effetto di parola: gli stimoli d’inquietudine che dalla scrittura delle sue opere provengono sino a noi, risalgono sempre dal sottofondo e dalla consistenza dei problemi affrontati.

1997 La Disciplina dell'emozione

Libri di problemi, appunto, sono quelli di Lanza, per lettori che vogliono incontrare domande decisive sul mondo antico nei suoi rapporti e legami con la Modernità. La disciplina dell’emozione (il Saggiatore, 1997) [una nuova edizione è in corso di stampa presso Petite Plaisance, Pistoia] ci mette di fronte a un interrogativo fondamentale: che posizione prendere, come spettatori, di fronte a una tragedia? e dunque: qual è il gioco cui una drammaturgia tragica espone il suo pubblico?

 

«La paziente ricostruzione delle condizioni operative ed espressive del teatro di venticinque secoli fa non vuol dunque assolutamente rivendicare uno sterile diritto dei filologi sulla tragedia greca, di fronte al necessario, fecondo riappropriamento della gente di teatro. […]Penso che proprio tentare di indicare i tratti espressivi e simbolici operanti sul pubblico di allora può permettere di interrogarsi più chiaramente su quali siano oggi le forme di espressione e di simbolicità più idonee a ricreare l’antica emozione, a interrogare il testo come uomini d’oggi (p.11)».

Il teatro tragico degli antichi acquista senso per Lanza quando lo si consideri nella sua specifica natura di oggetto drammaturgico, cioè, in altre parole, come dato d’esperienza: ma, allora, in che modo recuperare quell’esperienza? in che modo riattivarla (soprattutto se si tratta di venticinque secoli fa)? e come e quanto importa questo lungo lasso di tempo?

La filologia e l’antropologia sono senza dubbio uno strumento irrinunciabile a tal fine, ma non bastano: è fondamentale conoscere anche il mestiere del teatro (oltre che la sua storia) fino ad oggi… Ecco in che senso la filologia e l’antropologia di Lanza sono una filologia e un’antropologia di problemi. Stesso approccio strutturale alla commedia, di Aristofane, innanzitutto. Ma con un’apertura ulteriore, nel caso della commedia aristofanea: la questione, cioè, della critica intellettuale alla Ragione, dove, per “Ragione” non si intende solo la Raison, ma le molte e frastagliate forme della ragione discorsiva, filosofica, storico-politica, economica, da Aristotele al razionalismo classico francese (fino almeno) a Kant.

1997, Lo stolto

Quando, infatti, decide di scrivere un libro sul comico antico, Lanza non pubblica un’opera su Aristofane e sulla commedia greca, ma Lo stolto. Si Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune (Einaudi, 1997), un lavoro complesso, di prospettive culturali e storiche assai vaste, densamente intessuto di citazioni testuali e altrettanto annotato, soprattutto insolito – “trasgressivo”, appunto, come già annuncia la parola “trasgressori” del sottotitolo. E la trasgressione fondamentale che si compie in questo libro è la transizione dalla lingua dello stolto (il buffone) protagonista della scena aristofanea, e dai suoi mondi paradossali, assurdi, stralunati, al Socrate di Platone, proprio quel Socrate comunemente considerato “padre della filosofia” o più sottilmente, ma altrettanto generalmente, preso come maschera del filosofo platonico (se non di Platone stesso).

Ciò che interessa, invece, a Lanza è, nel segno dello Stolto e di Socrate, il legame tra il riso e il pensiero, nel momento in cui il pensiero si trova nudo di fronte al ridicolo, al lazzo, all’assurdo, all’insensato, al pazzesco, e allora si scopre che quella stoltezza pensa Noi, in modo imprevedibilmente diverso da come noi penseremmo, secondo ragione, noi stessi. C’è qui una sovversione senza compromessi, perché capace di intaccare i dispositivi immunitari del sapere e dei saperi, del potere e dei poteri, sovversione messa a fuoco per illuminare una trasformazione che riguarda da vicino la nostra società postdemocratica e postmoderna: una società di sudditi dominati e omologati dal dispositivo retorico della flessibilità e del pluralismo, «segnata dall’irrevocabile scomparsa di ogni efficace stultitia (p. 244)» e condannata a un’idiozia comune (la cosiddetta “fine delle ideologie”).

Aristotele, La vita

Opere biologiche di Aristotele, Utet,1996E non è certo una posa, questa, di Lanza: viene, e non contraddittoriamente, ma conseguentemente, da uno dei maggiori esperti e studiosi, nazionali e internazionali, della razionalità aristotelica, per un verso, e della razionalità politica classica, per l’altro: viene da un editore della Poetica (Rizzoli, 1987) e delle Opere biologiche (con Mario Vegetti, Utet, 1971), da un profondo conoscitore di quei libri che oggi impropriamente continuamo a chiamare Retorica, Fisica, Metafisica; e viene, poi, dall’autore dell’Ideologia della città (1975, con Mario Vegetti).

1987 Aristotele-Poetica-Rizzoli-Bur-1987

1993 Aristotele, Poetica

1977 L'ideologia della città

2001 Dimenticare i Greci

2013 Interrogare il passaro

Non è una posa, ma una posizione politica nei confronti della conoscenza organizzata (di cui Aristotele fu il primo esponente), e anche, sullo sfondo, dell’Università autoriferita: nulla di più lontano da Lanza dei modelli di Erasmo e di Wilamowitz. Lanza è un critico e un intellettuale radicale, non un collaborante mediatore, soprattutto nei confronti della sua stessa disciplina, della quale, già dai primissimi anni Settanta, e poi per tutta la sua attività di studioso, ha sistematicamente indagato i presupposti metodologici e scientifici, ognora svelandone le fragilità teoriche legate alle implicite politiche della cattedra, gli effetti falsificanti e ideologici sugli oggetti della ricerca, le ascendenze risalenti al pensiero filosofico e al contesto storico-culturale (Interrogare il passato. Lo studio dell’antico tra Otto e Novecento, Carocci, 2013, dove sono raccolti studi pubblicati in un arco di quarant’anni). E ancora da storico della filologia classica, Lanza, con la pointe di sempre, ci dice che è meglio non averli mai conosciuti, i Greci, oppure «dimenticarli al più presto» (Dimenticare i Greci: così il titolo d’un saggio del 2001), se per Greci si intendono quei Greci «ricostruiti a misura di scrupoloso grecista», quei Greci a noi «familiari» e «contemporanei» perché pensano come noi moderni, e soprattutto come noi postmoderni: «quale tempo, d’altronde più propizio di questo, nel quale si è solennemente aperta la grande gara tra tutti camerieri che spiano dal buco della serratura per riscrivere le vere storie dei loro padroni, quale tempo più propizio al dilagare di quella “insolente familiarità” che già Nietzsche aveva avuto modo di rimproverare ai grecisti del suo tempo? (p. 236)».

Per chi sa che proprio la memoria è uno degli oggetti teorici più interrogati da Lanza, queste parole non si ispirano a un gusto voltairiano del paradosso: l’ingiunzione di dimenticare un gigantesco errore di ragionamento, di metodo e di valutazione serve a ricordarci che cosa questo errore non ha mai conosciuto oppure ha tradito: la struttura materiale della storia, la profondità antropologica delle comunità.

Diego Lanza

 

Il testo è già sto pubblicato sull’ultimo numero della rivista semestrale «L’Immagine Riflessa. Testi, società, culture».

 

Antefissa a testa di Sileno da Gela, 470-460 a.C. ca., Gela, Museo archeologico Regionale

Antefissa a testa di Sileno da Gela, 470-460 a.C. ca., Gela, Museo archeologico Regionale


Anna Beltrametti – Scritti per onorare la memoria di Diego Lanza e Mario Vegetti

Alcuni libri
di
Diego Lanza
1971-1996 Opere biologiche di Aristotele, Utet,1996

1971-1996 Opere biologiche di Aristotele, Utet. Con Mario Vegetti.

 

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1976 Belfagor

1976 Belfagor

Contiene il saggio: Alla ricerca del tragico.

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1977 Il tiranno e il suo pubblico

1977 Il tiranno e il suo pubblico.

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1977 Aristotele, La ricerca psicologica

1977 Aristotele, La ricerca psicologica

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1977 L'ideologia della città

1977 L’ideologia della città

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1977 Aristotele e la crisi della politica

1977 Aristotele e la crisi della politica.

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1979 Lingua e discorso nell'Atene delle Professioni

1979 Lingua e discorso nell’Atene delle professioni.

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1987 Aristotele-Poetica-Rizzoli-Bur-1987

1987 Aristotele, Poetica.

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1993 Aristotele, Poetica

1993 Aristotele, Poetica.

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1997 La Disciplina dell'emozione

1997 La disciplina dell’emozione.

Clitennestra si presenta al pubblico con la spada levata, ancora sporca del sangue di Agamennone; Edipo mostra agli spettatori le orbite vuote dopo essersi accecato; Agave agita trionfalmente la testa mozzata del figlio. Per tutta la durata del quinto secolo i tragediografi non risparmiarono al loro pubblico le emozioni più intense. Ma perché oggi, dopo 2500 anni, queste emozioni puntualmente si rinnovano, perché ne avvertiamo ancora la necessità? Che senso possono avere per noi quelle antiche storie di dèi ed eroi? Questo libro ricostruisce con vivacità le circostanze storiche e le regole istituzionali della tragedia greca, conducendoci a considerarne la funzione sociale e a penetrare nel suo ricco patrimonio simbolico. È uno strumento soprattutto per intendere la polifonia del dettato tragico, il susseguirsi dei diversi ritmi drammatici, l’uso degli attori e del coro, in una parola il complesso funzionamento della macchina teatrale di cui i tragici greci furono maestri a tutto il teatro europeo.

 

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1997, Lo stolto

1997, Lo stolto.

 

Lo stolto. Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune, Einaudi, 1997

Lanza sviluppa la sua ricerca delle diverse figurazioni della “stultitia” recuperandole in Aristofane e in Platone, in Andersen e Collodi, Cervantes e Woody Allen e sottolineando come sia lo stolto che la stoltezza non costituiscono né un elemento chiaramente definibile una volta per tutte, né una figura semplicemente ripetitiva. La “stultitia” è infatti un’incognita a cui di volta in volta viene attribuito ciò che disturba il senso comune, ciò che in quel momento è considerato ridicolo, ripugnante o riprovevole. Così la figura dello stolto è mutevole, essa cambia infatti con il trasformarsi dello stesso senso comune e della razionalità che la definiscono: Socrate, Pinocchio, Till Eulenspiegel, Calandrino, Zelig, sono esempi in questo senso.

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2001 Dimenticare i Greci

2001 Dimenticare i Greci.

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2007 Atene e l’Occidente. I grandi temi.

2007 Atene e l’Occidente. I grandi temi.

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2007 La Poetica e la sua storia

2007 La Poetica e la sua storia.

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2009 Aristotele, Poetica

2009 Aristotele, Poetica.

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2012 Aristofane, Acarnesi

2012 Aristofane, Acarnesi

 

Aristofane, Acarnesi, Introd. traduz. e commento di Diego Lanza, Carocci, Roma 2012.

Acarnesi, la prima commedia del giovane Aristofane giunta fino a noi, vede Atene impegnata nel quinto anno di guerra contro Sparta. Dal miraggio della pace, che appare ancora remota, muove la vicenda rappresentata: la tregua che il protagonista riesce a concludere privatamente con il nemico e i benefici che ne conseguono. La commedia mostra già tutta la maestria compositiva e linguistica del grande comico. La traduzione che accompagna il testo rispecchia efficacemente la vivacità della scrittura aristofanea, con il variare dei ritmi, i continui scarti stilistici, i giochi allusivi e manipolatori della lingua. L’introduzione e un agile commento accompagnano il lettore alla scoperta della complessa partitura drammaturgica che si rivela a un’attenta considerazione del testo.

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2013 Interrogare il passaro

2013 Interrogare il passato.

Interrogare il passato. Lo studio dell’antico tra Otto e Novecento, Carocci, 2013.

I maggiori studiosi del mondo classico degli ultimi due secoli hanno sempre avuto occhi e orecchi attenti al rapporto tra la loro disciplina e la società in cui vivevano. Il libro ripercorre le esperienze di alcuni grandi maestri dell’antichistica: Friedrich August Wolf tra Goethe e Schelling, Wilamowitz e Nietzsche di fronte all’affermarsi dell’impero prussiano, Werner Jaeger e Bruno Snell nell’Europa lacerata dall’avvento del nazismo, Jean-Pierre Vernant tra marxismo e strutturalismo, fino al filologo immaginato da Thomas Mann come suo alter ego nel Doctor Faustus, nella ricorrente memoria dell’intransigenza di Lutero e della compiacente tolleranza di Erasmo da Rotterdam. Il lettore è così condotto, fuori di ogni tecnicismo ma sempre nel merito della disciplina, fino al più recente classicismo invocato come fulcro di una pretesa identità occidentale.

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2016 Storia della filologia classica

2016 Storia della filologia classica.

Con G. Ugolini, Carocci, 2016.

Il volume traccia un profilo storico della filologia classica negli ultimi due secoli e mezzo, da quando cioè si è venuta definendo come disciplina autonoma, focalizzando l’attenzione sugli snodi teorici e metodologici attraverso cui si è sviluppata, sulle figure degli studiosi più significativi, sulle discussioni e le polemiche che ne hanno segnato il procedere, sui nessi con lo sfondo istituzionale e il contesto storico in cui ha operato. Il percorso diacronico è scandito in tre parti. Nella prima si parte dal modello della filologia anglosassone di Richard Bentley per arrivare all’istituzionalizzazione della disciplina nel mondo accademico tedesco (Heyne e soprattutto Wolf) e nella realtà scolastica (Wilhelm von Humboldt). Nella seconda si analizzano i contributi teorici e le principali dispute metodologiche che hanno avuto come protagonisti, tra gli altri, Lachmann, Hermann, Boeckh, Nietzsche e Wilamowitz. La terza e ultima parte è dedicata alla ridefinizione degli studi classici in Germania (Jaeger) e in Italia (Pasquali), all’apporto della papirologia, alle nuove immagini dell’antichità venute a delinearsi nelle opere di scrittori, narratori, registi e traduttori del nostro tempo, e infine ai personaggi più significativi degli ultimi decenni: Snell, Dodds, Vernant, Gentili, Loraux.

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2017 Tempo senza tempo

2017 Tempo senza tempo

Tempo senza tempo. La riflessione sul mito dal Settecento a oggi, Carocci, 2017.

Che cos’è un mito? La sua definizione dipende dal contenuto, dalla struttura narrativa o dalla funzione sociale che assolve? Con questo tema si sono confrontate eminenti figure di studiosi di diversa origine e differenti interessi: Heyne, Nietzsche, Propp, Mann, Lévi-Strauss, Pavese, solo per citarne alcuni. Le loro riflessioni hanno mostrato che i racconti che definiamo miti hanno costituito o continuano a costituire un’espressione particolarmente significativa dell’immaginario di una società, di cui compendiano fedi religiose, credenze comuni, paradigmi di comportamento. Rievocando i termini essenziali di questo bisecolare dibattito, l’autore ne evidenzia i rapporti con il più vasto processo di trasformazione intellettuale della società europea.

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2018 Aristotele, La vita

2018 Aristotele, La vita

Con Mario Vegetti.

 

Alcune sue teorie furono confutate solo nel Settecento, altre ancora dopo. La biologia di Aristotele (Stagira 383/4 a.C. – Calcide 322 a.C.) è studio scientifico di tutti i viventi, espressa attraverso trattati e trattatelli costituiti da appunti, dispense, opere interne alle aule del Liceo, non di prima mano del maestro. D’altra parte in tale veste ci sono giunte quasi tutte le opere aristoteliche, ben poco abbiamo di quelle rifinite, lineari, rivolte al pubblico esterno alla scuola. Dai trattati sui viventi dobbiamo aspettarci dunque un linguaggio a tratti aspro, ripetitivo, non sempre coerente, che molto fa rimpiangere l’assenza della voce di Aristotele che glossava, aggiungeva, spiegava. Siamo inoltre di fronte a due enormi novità: prima, non esisteva una scienza dei viventi, inoltre prima di Aristotele nessuna scienza era espressa in testi che non mescolassero diverse discipline, senza escludere la teologia e il sacro. Qui invece troviamo le “Ricerche sugli animali”, che descrivono quasi seicento specie diverse di animali direttamente osservati, classificati nelle “Parti degli animali” con la distinzione fondamentale tra ovipari e vivipari, nonché per esempio l’attribuzione di balene e delfini ai mammiferi, per il loro respirare tramite polmoni e non tramite branchie. La “Riproduzione degli animali” descrive la riproduzione sessuale, intesa come l’infusione attiva della forma da parte del maschio nella materialità della femmina. A brevi opere sulla percezione, la memoria, il sonno, i sogni, la lunghezza della vita e la respirazione segue il trattatello sul Moto degli animali, movimento che viene ricondotto alla forza di un assoluto primo immobile, necessario a ogni forma di mobilità.

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Alcune sue teorie furono confutate solo nel Settecento, altre ancora dopo. La biologia di Aristotele (Stagira 383/4 a.C. - Calcide 322 a.C.) è studio scientifico di tutti i viventi, espressa attraverso trattati e trattatelli costituiti da appunti, dispense, opere interne alle aule del Liceo, non di prima mano del maestro. D'altra parte in tale veste ci sono giunte quasi tutte le opere aristoteliche, ben poco abbiamo di quelle rifinite, lineari, rivolte al pubblico esterno alla scuola. Dai trattati sui viventi dobbiamo aspettarci dunque un linguaggio a tratti aspro, ripetitivo, non sempre coerente, che molto fa rimpiangere l'assenza della voce di Aristotele che glossava, aggiungeva, spiegava. Siamo inoltre di fronte a due enormi novità: prima, non esisteva una scienza dei viventi, inoltre prima di Aristotele nessuna scienza era espressa in testi che non mescolassero diverse discipline, senza escludere la teologia e il sacro. Qui invece troviamo le "Ricerche sugli animali", che descrivono quasi seicento specie diverse di animali direttamente osservati, classificati nelle "Parti degli animali" con la distinzione fondamentale tra ovipari e vivipari, nonché per esempio l'attribuzione di balene e delfini ai mammiferi, per il loro respirare tramite polmoni e non tramite branchie. La "Riproduzione degli animali" descrive la riproduzione sessuale, intesa come l'infusione attiva della forma da parte del maschio nella materialità della femmina. A brevi opere sulla percezione, la memoria, il sonno, i sogni, la lunghezza della vita e la respirazione segue il trattatello sul Moto degli animali, movimento che viene ricondotto alla forza di un assoluto primo immobile, necessario a ogni forma di mobilità.

«aut aut» n. 184. Nuove antichità (Vernant, Lanza, Sircana, Casagrande, Vecchio, Ferrari).

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Euripide, Le tragedie. A cura di A. Beltrametti e un saggio di D. Lanza

Euripide, Le tragedie. A cura di A. Beltrametti e un saggio di D. Lanza

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Lo spazio letterario della Grecia antica

Lo spazio letterario della Grecia antica

 

Lo spazio letterario della Grecia antica01

Lo spazio letterario della Grecia antica

 

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Senofonte, Economico

Senofonte, Economico.

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Storia del mondo antico

Storia del mondo antico.

 


Rossella Saetta Cottone, Philippe Rousseau, Diego Lanza, lecteur des œuvres de l'Antiquité

Rossella Saetta Cottone, Philippe Rousseau,
Diego Lanza, lecteur des œuvres de l’Antiquité, OpenEdition Books

Bibliographie de Diego Lanza

 

 


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Mario Vegetti:
un ricordo personale e filosofico

di Luca Grecchi


Mario-Vegetti

Mario Vegetti

Il mio rapporto con Mario Vegetti risale al 2004. Da studioso della filosofia antica mi sono infatti formato, come molti altri, sui suoi testi, che ho sempre apprezzato in maniera particolare (insieme a quelli di Enrico Berti). Decisi per questo, pur non avendolo mai incontrato di persona, di chiedergli una introduzione ad un libro che avevo appena concluso (Conoscenza della felicità). In maniera inattesa, anche in quanto Mario era ancora alle prese con l’insegnamento accademico, egli lesse velocemente il manoscritto di quel giovane sconosciuto che allora ero per lui, e ne realizzò una generosa introduzione, che iniziava con queste parole: «Luca Grecchi è un pensatore, a suo modo, classico…». Inutile dire la gioia che provai quando la ricevetti.
Nel tempo i nostri rapporti, soprattutto epistolari, sono continuati, ma si sono molto intensificati nell’ultimo anno, quando Mario mi rivelò di essere malato. Questi rapporti si sono intensificati soprattutto per motivi editoriali, che ora accennerò, ma il tema che li ha caratterizzati è sempre stato la costante ironia di Mario, la quale costituisce il tratto della sua personalità che rammento con maggiore affetto. Ricordo, a solo titolo di esempio, che quando all’inizio dello scorso anno gli telefonai per chiedergli alcuni consigli, in quanto ero stato incaricato di realizzare il volume Natura nella collana Questioni di filosofia antica per la casa editrice Unicopli (un lavoro assai impegnativo, richiedente una vasta trattazione di questo ambito – insieme filosofico, scientifico e letterario – su oltre dieci secoli), mi disse testualmente queste parole: «Tu sei l’unico matto che poteva accettare un lavoro del genere. Ma chi te lo fa fare?». L’ironia di Mario era meravigliosa, in quanto esprimeva sempre in forma iperbolica una idea che lui realmente sentiva, e che aveva il suo fondamento. Come quando, anni prima, invitato ad una conferenza con Giovanni Reale sul tema fede/ateismo, mi disse che gli era stato richiesto di “fare la parte del non credente„, anche se poi appunto affermava di credere pure lui ad alcune cose, e di non sapere bene a che cosa non credesse.
I ricordi sono molti, ma penso sia più utile qui soffermarmi sui lavori di questi ultimi tempi di Mario, cui egli teneva in maniera particolare. Gli ultimi mesi si sono infatti svolti a stretto contatto epistolare con me e la casa editrice Petite Plaisance di Pistoia (nella figura del carissimo amico Carmine Fiorillo), in quanto abbiamo insieme deciso di ripubblicare, nella collana filosofica da me diretta, alcuni testi di Mario oramai introvabili. In particolare, dopo avere ripubblicato qualche anno fa Cuore, sangue e cervello, che Mario scrisse negli anni Settanta con Paola Manuli, e soprattutto dopo avere edito Scritti con la mano sinistra (una raccolta di suoi scritti di carattere in senso ampio “politico„), sono appena stati ristampati, appunto da Petite Plaisance, altri due libri di Mario, Tra Edipo e Euclide ed Il coltello e lo stilo.
Con specifico riferimento a Scritti con la mano sinistra – un testo che mi permetto davvero di consigliare a chi non lo avesse ancora letto –, mi torna alla mente un altro piccolo aneddoto, che mi consente di svolgere qualche considerazione più filosofica sul suo lavoro. Mi disse infatti, quando gli feci la proposta di raccogliere i suoi testi più politici: “Vorrei sapere perché ci tieni così tanto che siano ripubblicati i miei articoli, che tranne l’Inter e il comunismo non la pensiamo mai allo stesso modo„. Condividevamo, in effetti, le stesse “fedi laiche„ calcistiche e politiche, sebbene di ambedue negli ultimi tempi, per motivi contingenti (noti agli appassionati), parlassimo poco. Mario tuttavia aveva ragione sul fatto che non sempre noi si concordasse. In effetti, negli anni, a più riprese gli feci presente che, a mio modestissimo avviso, erano un poco eccessive le sue considerazioni critiche sul carattere “agonale„ della civiltà omerica, sul carattere poco democratico dell’epoca classica, così come il suo insistere su alcuni aspetti a mio avviso minori del pensiero di Aristotele (le donne, gli schiavi, ecc.). Mi sembrava, insomma, che egli mettesse in evidenza gli aspetti più oscuri in quelle civiltà ed in quei pensieri, in questo modo riducendo la visibilità degli aspetti migliori. Ma, naturalmente, lui faceva bene a proseguire la sua strada, la quale ha in effetti consentito di problematizzare ed eliminare molti desueti luoghi comuni sulla cultura classica, oltre che di tracciare alcuni importanti sentieri scientifici prima di lui inesistenti.
Ci divideva anche un altro contenuto, come emerse in una conferenza che si tenne a Milano nel 2009 con me, lui, Carmelo Vigna ed Enrico Berti (che a dire il vero arrivò fino in stazione Centrale, si infortunò ad un piede scendendo dal treno, e tornò a Padova senza purtroppo poter partecipare). Mario non riteneva infatti che il pensiero antico potesse essere considerato un pensiero dotato di contenuti onto-assiologici veritativi, tali cioè da costituire stabili riferimenti di senso e di valore validi anche per il nostro tempo. Da antichista puro – per quanto aperto al pensiero filosofico moderno e contemporaneo –, egli sosteneva in effetti la necessità di collocare sempre gli antichi nel loro contesto, senza potere trarre da essi messaggi sovrastorici. Questa era la sua impostazione filosofica, che io scherzando gli dicevo essere quella del vecchio “storicismo marxista„; lui mi ripagava dicendo che io ero un “metafisico classico„, per il mio insistere sempre sulla verità e sul bene, e così eravamo pari. In ogni caso, come prova il suo ampio commento alla Repubblica di Platone edito da Bibliopolis, emergeva anche dalla sua opera, sebbene talvolta egli lo velasse, un afflato utopico-progettuale davvero importante, derivante proprio dal sostrato filosofico greco.
Per ritornare ai suoi testi, quelli che egli teneva maggiormente a ripubblicare erano le due raccolte, Scritti di medicina ippocratica (uscita purtroppo il giorno dopo la sua morte) e Scritti di medicina galenica (in uscita a breve), che compattano materiale di studio sulla medicina antica redatto da Mario in oltre cinquanta anni di lavoro. Sono davvero felice di avergli potuto fare questa proposta, manifestandogli al contempo la dovuta gratitudine per il grande valore della sua opera, esso sì realmente sovrastorico. L’ultimo plico che ha spedito, una settimana circa prima di morire, credo lo abbia mandato proprio a Petite Plaisance, con il suo generoso apprezzamento per la qualità editoriale dei volumi appena ristampati. Anche nella correzione degli impaginati non è peraltro mai mancata la sua ironia: “Mi stai facendo lavorare come un matto, sai che in questo periodo non sono in grado di effettuare grandi performance lavorative…„, mi scriveva in una sua email prenatalizia.
Eravamo rimasti in accordo che avrebbe partecipato con un saggio ad un volume collettaneo che sto curando, che si intitolerà Teoria e prassi in Aristotele, in uscita in autunno. Conoscevo che le sue condizioni di salute erano in peggioramento (per la presentazione dei volumi galenico ed ippocratico, in corso di organizzazione sia alla Casa della Cultura di Milano che in Università, sapeva che non avrebbe comunque potuto partecipare), ma non pensavo che ci avrebbe lasciati così in fretta. Ha fatto in tempo a sapere – è il contenuto dell’ultima sua email che ho ricevuto, dell‘8 marzo – della morte dell’amico e collega di una vita, Diego Lanza, avvenuta il 7 marzo.
Ho appreso della sua morte, come molti, lunedì 12 marzo sfogliando Il corriere della sera, che gli ha dedicato, come doveroso, una bella pagina. Perdiamo con lui, sicuramente, un pensatore originale ed un grande antichista, animato – come erano stati, prima di lui, Rodolfo Mondolfo ed il suo amico Gabriele Giannantoni – da una rigorosa passione politica, sempre attenta ai problemi di chi è più in difficoltà. Concludo ricordando che Mario, pur nella consueta riservatezza, era massimamente orgoglioso del suo ruolo di nonno, padre e marito: alla famiglia, pertanto, va il mio pensiero più caro, ben conoscendo il valore dell‘uomo che hanno avuto accanto.

Luca Grecchi


LOgo Società di psicanalisi

Il testo è già stato pubblicato anche sul sito della Società di Psicoanalisi Crritica (29-03-2018) con questa nota di accompagnamento: “Pubblichiamo di seguito un ricordo di Mario Vegetti, notissimo studioso e docente di Storia della Filosofia antica e intellettuale rigoroso, amico personale di alcuni di noi e della Società di Psicoanalisi Critica”.


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ADDIO A MARIO VEGETTI

Ricordano l’amico e il protagonista della Casa della Cultura: Ferruccio Capelli, Mauro Bonazzi, Fulvio Papi, Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri, Salvatore Veca


Ricordo di Mario Vegetti – Rai Filosofia

 Addio a Mario Vegetti, l’utopia di Platone e i suoi chiaroscuri – La Stampa

Mario Vegetti,  filosofo studioso di Platone – Corriere della Sera

289 ISBN

Mario Vegetti, Il coltello e lo stilo. Animali, schiavi, barbari e donne alle origini della razionalità scientifica.

ISBN 978-88-7588-228-0, 2018, pp. 192, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “Il giogo” [82]. In copertina: Affresco raffigurante gli Istrumenta sciptoria. In quarta: bassorilievo del tempio di Esculapio di Atene.

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Premessa alla nuova edizione del 2018

Il coltello e lo stilo fu pubblicato nella primavera del 1979. Fin dalla sua comparsa, suscitò un vivace interesse, non solo, e non tanto, fra gli specialisti di antichistica, quanto presso un pubblico composito di lettori che frequentavano i territori che allora si chiamavano “cultura critica”: epistemologia, antropologia, psicoanalisi, ed eventualmente movimenti come quello femminista e animalista. Ne uscirono naturalmente diverse interpretazioni del senso e degli intenti del libro (dalla critica irrazionalistica ai fondamenti “violenti” della scienza, a una rivisitazione moderata di Foucault). Nell’introduzione all’edizione del 1996, riprodotta in questo volume, ho tentato di delineare le coordinate culturali entro le quali Il coltello e lo stilo era stato concepito, e di indicare un punto di vista d’autore sulla collocazione del libro. Ha fatto però bene l’editore a ristampare qui la prima edizione, quella del 1979. Da un lato, questo restituisce ai primi lettori la possibilità di un rinnovato incontro con il testo; dall’altro, e soprattutto, consente a nuovi lettori l’accesso alla forma originale del libro ormai da gran tempo esaurita. Non è immotivato pensare che questa ristampa possa apparire a qualcuno come una riscoperta, e ridestare almeno in parte l’interesse e la discussione così vivaci tanti anni or sono. Se così fosse, potremmo augurare “bentornato” al Coltello e lo stilo, e renderne il merito che gli spetta al generoso editore, Carmine Fiorillo di “Petite Plaisance”.

Mario Vegetti

Febbraio 2018


291 ISBN

Mario Vegetti, Tra Edipo e Euclide. Forme del sapere antico.

ISBN 978-88-7588-227-3, 2018, pp. 208, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “Il giogo” [84]. In copertina: Frammento di cratere a calice a figure rosse [scena dell’Edipo Re di Sofocle] (330-320 a.C.) e Papiro de Oxirrinco [frammento degli Elementi di Euclide].

 indicepresentazioneautoresintesi

Premessa alla nuova edizione del 2018

Edipo e Euclide rappresentano simbolicamente i due limiti estremi della razionalità greca. Il primo – nell’interpretazione che offre dell’Edipo re sofocleo il primo dei saggi qui raccolti – impersona una forma di razionalità indagatrice, che procede per indizi e per segni, e ha di mira la “scoperta”: una scoperta legata sempre alla circostanza particolare, al kairòs, all’individuo. Una razionalità, dunque, nella quale si riflettono l’indagine diagnostica e prognostica sia della medicina ippocratica sia della storiografia tucididea (che si presenta esplicitamente come una ricerca dia­gnostica sulla crisi di Atene).

All’estremo opposto si colloca la forma della razionalità che può andare sotto il nome di Euclide. La sua geometria costituiva già per gli antichi, e costituisce tuttora, un modello di pensiero astrattivo e dimostrativo, il luogo elettivo di un’idea forte della verità come acquisizione universalmente valida, incontrovertibile e immutabile. Come mostra l’ultimo dei saggi raccolti nel volume, la razionalità euclidea è l’asse teorico su cui si impernia gran parte della scienza ellenistica (sia pure con qualche eccezione).

Fu Galeno a tentare una sintesi di questi due stili di razionalità nel suo progetto di ricostruzione epistemologica della medicina, come indicano i due saggi che qui gli sono dedicati. Da un lato, egli continuava a ritenere che la medicina dovesse essere una techne di stile ippocratico, capace di diagnosticare e pronosticare le vicende individuali della malattia grazie a un’indagine semiologica di modello “edipico”. Dall’altro però era convinto che la medicina dovesse dotarsi di un robusto impianto teorico di tipo universalizzante e dimostrativo, alla maniera delle scienze forti di modello “euclideo”, sfidando le tensioni che questa doppia esigenza epistemologica veniva producendo nel suo pensiero.

Anche per il rigoroso razionalismo stoico conciliare la teoria di un’anima costituita dal solo logos con l’evidenza dell’insorgere nel soggetto umano di pulsioni irrazionali come le passioni costituiva un serio problema. Il capitolo IV del libro mostra come una delle spiegazioni stoiche abbia individuato nel condizionamento sociale ed educativo subito fin dalla primissima infanzia la matrice delle deviazioni passionali: la natura mette al mondo neonati buoni, ma i successivi processi di allevamento e di socializzazione lo predispongono a cedere all’irrazionalità delle passioni.

I saperi antichi vengono naturalmente forgiati da forme di razionalità intermedie od oblique rispetto agli estremi che ne abbiamo indicati. C’è il potente ricorso a modelli metaforici che rendono possibile e persuasivo il discorso scientifico intorno a fenomeni difficilmente accessibili o comprensibili. Così la metafora della politica agevola per i medici la comprensione dei processi somatici interni (cap. II), e quella derivata da un’esperienza tanto diffusa nella società romana come lo spettacolo circense orienta la costruzione del sapere di Plinio intorno al mondo animale (cap. V). La scimmia, infine, con il suo corpo troppo simile a quello umano, mette suo malgrado in contatto due mondi così lontani come quello leggero del gioco e dello spettacolo, da un lato, e dall’altro quello dell’anatomia e della vivisezione, con la sua razionalità scientifica “dura” (cap. III).

Nell’ambito dei miei studi, queste ricerche svolgono un ruolo di transizione. Da lato, continuano e sviluppano temi trattati ne Il coltello e lo stilo (1979), dall’altro anticipano quelli sull’etica antica e sulla medicina ellenistica e galenica, che avrebbero occupato i decenni successivi. Il comune orientamento metodologico di questo campo di studi è definito nel testo sulla Questione dei metodi, con il quale si apre il volume; i saggi raccolti possono venire letti come esempi e verifiche delle indicazioni che vi vengono discusse.

In questo doppio carattere, di lavori di ricerca e di esercizi di metodo, credo possa consistere il perdurante interesse dei saggi raccolti, e per questo mi è giunta benvenuta l’idea di riproporli al lettore per i tipi di Petite Plaisance.

Mario Vegetti

 Dicembre 2017


 

ISBN Ippocrate

Mario Vegetti, Scritti sulla medicina ippocratica.

ISBN 978-88-7588-225-9, 2018, pp. 416, formato 140×210 mm., Euro 30 – Collana “Il giogo” [86]. In copertina: Rilievo dal santuario di Anfiarao a Oropo, 400-350 a.C., Atene, Museo Archeologico Nazionale.

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Prefazione

Ho esitato ad accettare la proposta dell’editore Carmine Fiorillo e dell’amico collega Luca Grecchi di raccogliere in volume i miei scritti sulla medicina ippocratica. Per la gran parte, infatti, essi risalgono a quasi cinquant’anni or sono, ed era evidentemente fuori questione tentarne un aggiornamento, che avrebbe equivalso a riscrivere larga parte della ricerca ippocratica del Novecento: in effetti, questi scritti avevano un carattere pioneristico, e non solo in Italia. Erano allora rari gli studi d’insieme sulla medicina greca di epoca classica, le edizioni commentate di singoli testi ippocratici, e naturalmente non si parlava ancora di Colloqui ippocratici internazionali, la cui serie iniziò nel 1972 dando luogo ad incontri via via più affollati di studiosi e di specialisti. Ma è stata poi proprio la precocità di questa stagione di studi, nell’ambito della vicenda mia personale e in quello della ricerca ippocratica in Italia, a convincermi infine ad accettare la proposta.
Si respirava in quegli scritti un’aria di scoperta: l’emozione per l’incontro con un episodio fondativo alle origini della tradizione medica e del pensiero scientifico in Occidente, l’entusiasmo per l’esplorazione del più vasto continente di sapere scientifico che la cultura greca ci abbia lasciato prima di Aristotele e della geometria euclidea. Si trattava per giunta di una techne razionale – fra le prime a varcare la soglia della scrittura durante il V secolo a.C. – che offriva il modello di un sapere capace di coniugare conoscenza ed efficacia. Essa si collocava più sul versante semiotico, indivi­dualizzante della scienza che su quello dimostrativo-astrattivo, e costituiva quindi un suggestivo modello intellettuale per le scienze dell’uomo allora in corso di formazione, dalla storia alla politica, come mostrò precocemente Jaeger e come del resto aveva già intuito Platone.
Nei saggi qui raccolti venivano seguiti due approcci principali nell’accostarsi a questo ricco ambito del sapere antico, entrambi del resto consoni all’atmosfera intellettuale degli anni Sessanta del secolo scorso. Il primo, e di gran lunga prevalente, era l’interesse per il metodo, concepito come il terreno di incontro cognitivo fra ragione ed esperienza, configurate così come i due poli del processo della conoscenza. Si trattava di un approccio orientato da una epistemologia di ispirazione kantiana, com’è facile vedere, ma che risultava adatto a mettere in luce la nascente sensibilità metodologica in cui consisteva uno dei tratti di originalità teorica del pensiero medico nel V secolo. Esso sembrava infatti proporre, in forme più o meno esplicite, una funzione della ragione come strumento di comprensione e di organizzazione significativa del materiale di esperienza, e dell’esperienza stessa come territorio disponibile al controllo cognitivo e anche operativo della ragione, che da esso comunque non poteva prescindere.
Con questa idea di “metodo”, la medicina ippocratica sembrava trovare una sua via – la via propria di una techne – tra le due opposte “sostanzializzazioni”, della ragione e dell’esperienza. La prima veniva concepita dagli Eleati non in rapporto ma in opposi­zione all’esperienza, e costituiva dunque non solo uno strumento della verità, ma il suo unico contenuto. L’esperienza dei processi naturali veniva per contro concepita dagli Ionici come autoesplicativa, perché bastava la scelta di uno o più elementi della natura per spiegarne tutto il resto, senza l’impegno a costruire un discor­so capace di darsi regole e giustificazioni metodiche eterogenee rispetto al mondo naturale.
Il secondo approccio, più vicino questo a un’ispirazione marxista, comportava invece un’attenzione, allora non molto diffusa, all’ambiente sociale che aveva favorito lo sviluppo della medicina e del suo peculiare profilo intellettuale. Si trattava della polis democratica, teatro della crescita delle technai profane e secolarizzate, legate all’ambiente sociale dell’agorà, e della parallela crisi dei saperi tradizionali di matrice sacerdotale: il luogo culturale, dunque, dove il medico laico di affiliazione ippocratica poteva sfidare i sacerdoti guaritori dei templi di Apollo e di Asclepio, i purificatori, i maghi e gli indovini della tradizione. Sul piano filosofico, questo stesso ambiente della medicina era condiviso da un filosofo come Anassagora, il che contribuisce a spiegarne la particolare rilevanza per l’ippocratismo, come si insiste a più riprese nei lavori qui raccolti.
A tanta distanza di anni, e dopo così rilevanti sviluppi nella ricerca, i loro limiti emergono con chiarezza: in parte possono venir considerati inevitabili visto l’entusiasmo pioneristico che li animava, in parte possono esser fatti risalire alle concezioni diffuse nella cultura del tempo, oltre che a inclinazioni proprie dell’autore.
Quanto a queste ultime, credo si possa definire alquanto eccessiva l’enfasi posta sul rapporto, in positivo e in negativo, tra filosofia e medicina. È indubbio che le grandi correnti filosofiche abbiano influito, o tentato di influire, sulla formazione della concettualità medica: dopo tutto, è in Antica medicina che si trova la più antica citazione (polemica) di Empedocle e della sua “filosofia”; ed è altamente probabile che il nascente pensiero “ippocratico” possa aver rivolto la sua attenzione al magistero anassagoreo. D’altra parte, è ben nota la profonda impressione che la medicina destò in tutto l’arco del pensiero di Platone, sia nel suo versante metodico (come testimoniano il Fedro e il Carmide), sia nella sua esemplarità etico-politica, a più riprese sottolineata dal Gorgia alla Repubblica, dal Politico alle Leggi. Ma è prudente non immaginare un’intensa circolazione di libri e dottrine fra due aree così intellettualmente e anche professionalmente e socialmente lontane come la filosofia e la medicina delle origini, e fra ambiti geografici distanti come la Magna Grecia e la costa ionica dell’Asia minore. La stessa pur rilevante elaborazione metodologica prodotta dai medici del V secolo non avrà probabilmente avuto quella piena consapevolezza teorica e filosofica che tendevo ad attribuirle, quasi si trattasse non di Ippocrate ma – seicento anni più tardi – di Galeno.
Tipico del tempo in cui prese forma la mia ricerca è invece un certo eccessivo ottimismo nella possibilità di risolvere la “questione ippocratica”, identificando le opere autenticamente attribuibili alla figura storica di Ippocrate, e persino tentando di leggerne l’evoluzione interna. Ero allora convinto che il “vero” Ippocrate fosse riconoscibile nelle opere tradotte nelle prime due sezioni del mio Ippocrate del 1964, che Ludovico Geymonat volle accogliere nella sua storica collana di “Classici della scienza”: L’antica me­dicina, Le arie le acque i luoghi, Il prognostico, Il regime nelle malattie acute, Male sacro, Le epidemie (libri I e III), Le ferite nella testa, Fratture e articolazioni; e che, di conseguenza, queste opere contenessero una dottrina medica coerente e unitaria. Continuo a pensare che, se ha senso cercare un nucleo “ippocratico” del Corpus, esso andrà più o meno cercato nel perimetro indicato, e che sia tanto difficile escluderne Antica medicina quanto includervi Il regime, come molti studiosi hanno sostenuto. Ma già nell’Introduzione del 1973 alla seconda edizione dell’Ippocrate manifestavo una giusta cautela sulla possibilità di raggiungere conclusioni definitive in proposito, e anche un certo scetticismo sull’utilità della modalità filologico-attribuzionistica della ricerca ippocratica, che rischiava di mettere in secondo piano la cosa più importante, cioè la comprensione storico-critica di opere e gruppi di opere, quale che ne fosse la presunzione di “autenticità” ippocratica.
Più interessante mi sembra segnalare ora un abbaglio, o un equivoco, in cui incorrevano sia la mia ricerca sia gran parte della storiografia dell’epoca. Ne era motivo il pregiudizio classicistico, che assegnava un maggior valore culturale e sociale alle forme politiche e intellettuali appunto dell’età detta “classica” (V e IV secolo a.C.), e conseguentemente considerava epoche di decadenza quelle posteriori, a partire dall’ellenismo (un pregiudizio tenace che risaliva a Hegel ed è resistito fino a pochi decenni orsono). Aleggiava dunque la convinzione che la grande età della medicina greca fosse appunto quella ippocratica, e che la medicina posteriore, per quanto tecnicamente evoluta – dagli anatomisti alessandrini a Galeno – avesse perduto la carica innovativa e l’apertura intellettuale dei fondatori. Parallelo a quello epistemico, c’era il pregiudizio storico secondo il quale la grande età della storia greca era stata quella “periclea”, insomma l’età della polis matura, e che la successiva storia dei regni ellenistici fosse a sua volta una storia di decadenza politico-sociale.
Non c’è bisogno di dire che gli sviluppi della ricerca, e la critica del classicismo, hanno fatto giustizia di entrambi questi pregiudizi. La medicina ellenistica e imperiale è stata riconosciuta come uno straordinario edificio di sapere teorico e di competenza tecnica, dai vasti orizzonti intellettuali e dal forte prestigio sociale (nella mia storia personale, questa svolta ha avuto luogo nel 1978, con l’avvio degli studi su Galeno, anch’essi stimolati da Ludovico Geymonat). Quanto al mondo dei regni ellenistici, ne sono stati generalmente riconosciuti i meriti nella promozione della cultura letteraria e scientifica, i successi tecnologici ed economici, lo spirito di tolleranza nei riguardi delle religioni e delle culture che facevano parte dei loro domini. Veniva certo meno l’intensa partecipazione dei cittadini alla vita politica comune, che era stata propria della polis; ma veniva anche meno la chiusura etnica e sociale di questa comunità di “autoctoni” di fronte agli stranieri, cui essa non riconosceva alcun diritto. È almeno discutibile che le scienze e le tecniche abbiano trovato nella polis un ambiente più favorevole al loro sviluppo rispetto ai regni ellenistici: la fondazione del Museo e della Biblioteca di Alessandria, oltre che di simili istituzioni nelle altre capitali ellenistiche, sembra dare decisamente un’indicazione contraria, anche se certo in questi casi si tratta di mecenatismo regio e non di deliberazione democratica.
Una rilettura di questi testi, ricollocati così nelle coordinate culturali in cui videro la luce, ritengo possa mantenere un suo valore e una sua utilità per tutti i lettori interessati a comprendere lo sviluppo storico e le strutture intellettuali della medicina greca di epoca ippocratica – cioè dell’episodio fondativo dell’intera tradizione medica occidentale.
Gli scritti sono presentati in ordine cronologico, ad eccezione delle due introduzioni del 1964 e del 1973, che sono poste al termine del volume per il loro carattere di trattazione complessiva. Non sono stati inclusi in questa raccolta scritti già comparsi nei volumi La medicina in Platone, Il Cardo, Venezia 1995, e Tra Edipo e Euclide. Forme del sapere antico, Il Saggiatore, Milano 1983.
Non posso concludere questa premessa senza rivolgere il mio più caloroso ringraziamento all’editore Carmine Fiorillo, per lo straordinario impegno profuso nell’allestimento di questo volume.

Febbraio 2018

Mario Vegetti


Coperta 148

Paola Manuli – Mario Vegetti

Cuore, sangue e cervello

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Paola Manuli – Mario Vegetti, Cuore, sangue e cervello. Biologia e antropologia nel pensiero antico. In Appendice: Galeno e l’antropologia platonica.

ISBN 978-88-7588-028-6, 2009, pp. 288, formato 140×210 mm., Euro 25. Collana “Il giogo” [22]. In copertina: Asclepio cura un malato, rilievo in marmo, V secolo a.C.

 

Prefazione alla nuova edizione

Questo libro è esaurito da molti anni, e non è stato possibile ristamparlo perché la casa editrice Episteme, che l’aveva pubblicato nel 1977, ha nel frattempo cessato la sua attività. Mi è spesso accaduto di ascoltare il rammarico di studiosi che ne lamentavano l’irreperibilità, considerandolo ancora un utile strumento di lavoro.
Quando l’editore CARMINE FIORILLO mi ha espresso la sua generosa disponibilità ad una riedizione del volume, ho tuttavia provato qualche incertezza. Provvedere a un aggiornamento risultava impossibile per due ragioni. La prima era la dolorosa e prematura scomparsa di PAOLA MANULI, autrice della parte sostanziale del lavoro (a me era spettato soltanto, oltre al progetto complessivo, la stesura dell’introduzione). La seconda consisteva nell’immensa mole di lavori scientifici comparsi nei trent’anni intercorsi dalla pubblicazione del libro: per limitarmi a qualche esempio, ricorderò solo gli atti dei numerosi colloqui ippocratici e galenici, le opere collettive sulla biologia di ARISTOTELE edite da GOTTHELF, LENNOX, PELLEGRIN e KULLMANN, il libro della DUMINIL sul sangue e il cuore nel Corpus Hippocraticum (1983), il volume della ANRW su GALENO (II 37.2, 1994), gli studi di G.E.R. LLOYD; e citerò da ultimo tre recentissime e importanti ricerche in lingua italiana, quella di D. QUARANTOTTO sul finalismo nella scienza aristotelica (2005), quella di R. LO PRESTI sull’encefalocentrismo ippocratico (2008), e quella di T. MANZONI sul cervello in ARISTOTELE (2007).
Una rilettura del libro mi ha tuttavia convinto che nonostante tutto esso conservi ancora motivi di attualità tali da renderne opportuna e motivata una riedizione.
Vorrei indicarli schematicamente in quattro punti.

Asclepio cura, b e n

1. L’opera non si limita ad una ricostruzione degli atteggiamenti del pensiero scientifico antico in merito al problema di individuare la parte egemonica del complesso psico-somatico. C’è inoltre uno sforzo intelligente e sistematico di integrare questi atteggiamenti all’interno di una serie di veri e propri paradigmi epistemologici, che mette in chiaro come le opzioni intorno a questo problema si inseriscano in un quadro complesso di posizioni gnoseologiche e di scelte filosofiche, come risultino solidali rispetto a tutta una costellazione di conoscenze scientifiche, di pratiche tecniche e anche di pregiudizi ideologici, che in ultima istanza risultano riferibili a concezioni rivali circa il rapporto fra uomo e natura.
In questo senso, il libro presenta ancora a mio avviso un rilevante interesse di ordine metodico, come saggio di un’interpretazione della scienza antica che non si limita a un repertorio di “progressi” e di “errori”, ma si sforza di comprendere l’insieme delle ragioni che motivano (non certo meccanicamente) sviluppi, regressi, aporie, innovazioni e contraddizioni.

2. Il libro presenta inoltre una sostanziale novità storiografica, che non mi risulta sia stata superata dalla letteratura critica più recente, e di cui anzi forse non sono ancora state pienamente sviluppate tutte le potenzialità euristiche. Si tratta della distinzione (nel campo degli avversari dell’encefalocentrismo) fra un paradigma cardiocentrico, ben noto grazie ad ARISTOTELE, e un paradigma emocentrico, che spesso, ma erroneamente, viene identificato con il cardiocentrismo. PAOLA MANULI non solo ha identificato con chiarezza questo secondo paradigma, che risale a EMPEDOCLE, ma soprattutto ne ha seguito la persistenza, spesso meno evidente ma non per questo meno efficace, dal Timeo platonico allo stesso ARISTOTELE e persino in GALENO, dove residui emocentrici appaiono tanto insuperati quanto latori ci contraddizioni e difficoltà di ricomposizione sistematica. Si tratta a mio avviso di un contributo tuttora prezioso per una comprensione non frettolosa e schematica dell’intera storia del pensiero biologico antico.

3. Il commento al peri kardies, nonostante che le opinioni sulla cronologia tendano oggi ad una datazione più bassa, resta di grande utilità per precisione di analisi e ricchezza di informazioni critiche, che offrono un quadro problematico ancora indispensabile all’interpretazione di quest’opera per molti aspetti enigmatica.

4. L’appendice su GALENO, infine, costituisce un pionieristico repertorio critico dei problemi relativi all’anatomo-fisiologia, alla psicologia e all’antropologia galeniche – problemi che sono tuttora al centro delle ricerche in questo settore – nonché una indagine penetrante intorno alle strategie con le quali GALENO affronta la tradizione da cui dipende, operando a volte un sapiente montaggio delle sue actoritates (in primo luogo IPPOCRATE, PLATONE, ARISTOTELE), a volte invece contrapponendole per finalità polemiche (come ad esempio IPPOCRATE e PLATONE contro ARISTOTELE e gli stoici sul tema del cardiocentrismo).

Mi sono sembrate, queste ed altre, buone ragioni per accettare volentieri e con gratitudine la proposta dell’editore di ripubblicare Cuore sangue e cervello, che viene in questa nuova veste corredato da un indice delle opere e degli autori citati. Spero che l’opera risulti utile e ben accetta agli studiosi; per quanto mi riguarda, considero questa nuova edizione anche come una rinnovata testimonianza del ricordo di PAOLA MANULI, la cui persona e il cui lavoro sono tuttora ben presenti nella memoria della comunità scientifica.

MARIO VEGETTI


coperta 110

indicepresentazioneautoresintesi

 

Mario Vegetti, Scritti con la mano sinistra.

ISBN 88-7588-014-X, 2007, pp. 160, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [18]. In copertina: Kouros, IV secolo a. C. Atene, Museo Archeologico Nazionale.

Prefazione

1. Non avrei mai pensato di raccogliere questi scritti, se non fosse stato per la cortese e generosa insistenza dell’amico Luca Grecchi e dell’editore Carmine Fiorillo. A loro va dunque, nel bene e nel male, la responsabilità dell’esistenza di questo piccolo volume. A me spetta tuttavia di giustificare – nei limiti del possibile – l’accoglimento della loro proposta.
Quello che mi ha colpito, nel rileggere questi testi dispersi in sedi molto diverse lungo l’arco di più di un quarto di secolo, è stata in primo luogo la loro coerenza. Devo dire subito che non ritengo che la coerenza sia necessariamente una virtù: essa può significare in effetti testardaggine cocciuta, miopia e sordità nei confronti di ciò che di nuovo accade nelle cose e nelle idee, insomma anelasticità intellettuale.
Ci può tuttavia essere qualcosa di virtuoso nella coerenza. Si tratta – per prelevare due parole dal lessico caro a Franco Fortini – dei suoi aspetti di insistenza e resistenza. Insistenza, nel senso non di ribadire tesi e dogmi, ma di continuare tenacemente a porre, e a pormi, problemi e domande, senza variare disinvoltamente il punto di vista da cui l’interrogazione viene posta, e accettando invece l’apertura e la variabilità della gamma delle risposte cercate. E anche nel senso di rifiutare la convinzione secondo la quale sconfitte storiche sono di per sé la prova di errori nella teoria: convincersi di “aver sbagliato” perché si è perduto rappresenta secondo me il residuo di una concezione teologica (il nemico è uno strumento divino per punirci delle nostre colpe). Qualche volta può essere così, ma più spesso l’avversario vince semplicemente perché è più forte sul terreno.
E resistenza: che significa accettare i mutamenti imposti dalla riflessione e dalle cose stesse su cui ci si interroga, ma invece rifiutare pentitismi compiacenti, cedimenti corrivi alle mode correnti o alle “luci della ribalta”; restare fedeli, insomma, a ciò che di noi hanno fatto la nostra storia intellettuale e morale, da un lato, la nostra collocazione in un mondo, dall’altro (insomma, in lettere minuscole, il nostro destino). Almeno in questo senso, la coerenza può forse risultare una virtù, e questa è stata la prima ragione che mi ha indotto ad accettare la proposta di raccogliere questi scritti, affidandoli volentieri a un piccolo ma coraggioso editore.
Scritti con la mano sinistra, appunto. Ovviamente nel doppio senso che si tratta, da un lato, di scritti marginali, parerga, rispetto al mio impegno professionale di studioso della filosofia antica; dall’altro, di scritti che rispecchiano più direttamente la mia collocazione politica, la mia presa di partito (questa espressione non ha naturalmente a che fare con appartenenze di “tessera”, ma con una decisione di fondo, la scelta “da che parte stare”). “A sinistra”, dunque. Una posizione alla quale mi consegnano la mia tradizione familiare, il mio percorso intellettuale e morale, la mia convinzione di un futuro possibile alternativo alla barbarie che attraversa il nostro tempo e ne minaccia l’orizzonte. Un futuro comunista, anche: con la necessaria precisazione che per “comunismo” non intendo un’identità ereditata e conclusa, in qualche misura “anagrafica” o certificata da un’iscrizione, ma appunto un orizzonte di ricerca e di azione, una prospettiva di liberazione e di giustizia, che si situa all’intersezione fra la parzialità della “presa di partito” e l’universalità che appartiene ai valori. Un’utopia, forse, della quale non nego l’ascendenza platonica oltre che giacobina e marxiana, che tuttavia, se vuole essere presa sul serio, deve poter individuare i suoi vettori storici di realizzabilità, le sue condizioni di possibilità, i livelli concreti di attuazione parziale e approssimata.
È appena il caso di aggiungere che in questi scritti non devono venire cercati né la chiave di lettura né il senso “segreto” dei miei lavori professionali di ricerca nel campo della storia della filosofia antica. Come ogni indagine disciplinare e a suo modo “scientifica”, essi contengono in se stessi, cioè nella relazione interpretativa che istituiscono con i testi e gli autori, e negli strumenti di metodo dichiaratamente messi in opera, le condizioni per la propria validità, e presentano il proprio specifico ambito di significazione. Stabilita questa necessaria clausola di salvaguardia, sarebbe tuttavia ingenuo, e anche a mio avviso metodicamente erroneo, assumere una perfetta “neutralità” dell’osservatore di fronte ai suoi oggetti di indagine, o una totale immunità di questa indagine dalla posizione extra-scientifica dello studioso. Ingenuo, erroneo e dal mio punto di vista anche inammissibile: credo infatti che la stessa tensione razionale, lo stesso sforzo di comprensione e argomentazione, ispirino e sorveglino (o almeno dovrebbero sorvegliare) sia il lavoro di ricerca sia la “presa di partito” che coinvolge l’uomo prima che il ricercatore.
Può darsi, dunque, che questi “scritti con la mano sinistra”, dichiarando esplicitamente la seconda senza riguardo per la finzione di “neutralità” del primo, contribuiscano a definire più chiaramente gli interessi intellettuali, i punti di vista da cui vengono formulate le domande di senso messe in questione nell’indagine storica. Anzi, l’esser consapevoli della propria parzialità può evitare di cadere in una tentazione, di commettere un errore storiografico in cui spesso si incorre, più o meno ingenuamente: quelli di “piantare le proprie bandierine” sul campo di indagine, cioè di riconoscere nel passato “precursori” delle idee in cui si crede (che siano il comunismo o il socialismo o il liberalismo o il cristianesimo: quanto spesso xe “Platone”Platone è stato arruolato sotto queste insegne?). Si tratta di un errore particolarmente funesto, perché lo studio del passato non serve allora a conoscere il passato stesso e per suo tramite a comprendere meglio noi stessi, bensì soltanto, narcisisticamente, a specchiarsi nel passato per riconoscervisi: il che non porta ad alcun incremento di comprensione né da una parte né dall’altra.

2. Questo libro è diviso in tre parti. La prima, Tra filosofia e politica, comprende scritti che discutono alcune problematiche filosofiche rilevanti dal punto di vista di interrogazioni che vengono, in senso lato, dalla politica. Che cosa significa la “crisi della ragione” e delle sue pretese universalistiche, tematizzata nel dibattito filosofico dell’ultimo scorcio del Novecento, dal punto di vista dei conflitti sociali e valoriali? Qual è il rilievo dell’esaurimento teorico della filosofia storicistico-dialettica dello “sviluppo”, e la sfida che esso propone a un pensiero non evoluzionistico della rivoluzione come progetto di emancipazione? Quale autonomia e quale ruolo restano all’intellettuale, e in particolare al filosofo, di fronte al dominio dei poteri sociali di conformazione della soggettività? Infine: c’è ancora uno spazio possibile per una prospettiva etica come orizzonte di senso della politica? Intorno a queste domande insistenti si articola la riflessione sviluppata – certo in modo solo incoativo – in questo primo gruppo di scritti.
La seconda sezione si intitola, per contro, Tra politica e filosofia. Qui l’oggetto di indagine sono le prospettive della politica considerate da un punto di vista filosofico. Un primo nodo problematico è costituito dalle condizioni di possibilità di una soggettività collettiva antagonista (il “partito dei comunisti”) nell’epoca del tardo-capitalismo in cui si è prodotto il progressivo logoramento delle grandi strutture di formazione di identità sociale (la fabbrica, il sindacato, l’esercito), in altre epoche capaci di esprimere una propria guida e rappresentanza politica. Emerge qui l’urgenza di pratiche collettive intese primariamente a “fare società”, cioè a creare legami sociali e progettualità collettive di cui la politica possa farsi interprete e strumento. E ancora una volta la questione dell’etica si profila come decisiva per costruire forme nuove di aggregazione sociale.
Un compito imprescindibile in questa prospettiva è quello di comprendere le ragioni della crisi dei modelli di stato e di società storicamente sperimentati dal movimento operaio e dai suoi partiti nel corso nel Novecento, e in primo luogo delle forme del cosiddetto “socialismo reale”. Ma altrettanto importante è riflettere – al di fuori delle semplificazioni propagandistiche e delle deformazioni ideologiche – sui temi della guerra e della “violenza”, tanto nelle loro dimensioni antropologiche quanto nelle implicazioni politiche che vi sono connesse.
Infine, e soprattutto, c’è l’esigenza imprescindibile di immaginare un futuro possibile, come orientamento della prassi quotidiana e anche come presupposto di un recupero valoriale della tradizione, ai fini della ricostruzione di una soggettività progettuale, di una nuova presa di coscienza della storicità capace di uscire dalle secche del “pensiero unico” e dalla minaccia della “fine della storia”. Al pari della società, la storicità non è un dato di fatto che si possa considerare acquisito, ma un obiettivo da costruire, un compito da perseguire, insomma una possibilità che non è garantita ma deve venir prodotta nell’azione collettiva di comprensione e di trasformazione.
La terza sezione, Fra gli antichi e noi, torna ad una riflessione sulla società e il pensiero dell’antichità dal punto di vista delle prospettive filosofico-politiche che si sono venute fin qui delineando. Da un lato si discutono le possibilità e i limiti di un’impiego delle categorie marxiane per l’interpretazione delle forme sociali e culturali del mondo antico: si tratta ancor oggi di uno strumento euristico indispensabile, anche per rettificare vedute dell’antico ingenue o ideologiche che ne oscurino il carattere profondamente conflittuale; uno strumento che va però maneggiato con cautela metodica e consapevolezza critica, vista la differenza che intercorre fra il sistema sociale del capitalismo moderno, in cui quelle categorie si sono formate, e la struttura delle “forme economiche pre-capitalistiche” su cui ci interroghiamo. Dall’altro lato sono in questione importanti episodi di reinterpretazione dell’antico da parte del pensiero contemporaneo, come le recenti indagini di M. Foucault sull’etica e l’antropologia antiche, e la vicenda novecentesca delle interpretazioni del pensiero politico di Platone, con i suoi abusi ideologici. Questo stesso pensiero viene infine indagato in due direzioni: l’utopia della comunità “giusta”, da un lato, e la critica – non disgiunta da un’inquietante attrazione – per una forma di potere politico assoluto ed efficace quale fu rappresentata nel IV secolo dalla tirannide: il circolo in questo modo si chiude, perché l’utopia della comunità giusta e la prospettiva del potere tirannico come strumento di trasformazione sociale ci riportano prepotentemente a questioni centrali della riflessione politica contemporanea.

3. Grandi interrogativi, dunque, per piccoli scritti. Che non aspirano davvero a fornire risposte, e neppure, in molti casi, a formulare le domande in modo filosoficamente adeguato. Ma che possono, forse, rivendicare a proprio merito lo sforzo di tenere aperto lo spazio dell’incertezza, di riproporre l’urgenza della riflessione, resistendo sia al cedimento di fronte all’omologazione del pensiero, sia alla rassegnazione di fronte all’estrema durezza dell’epoca. Non si tratta di un compito esclusivo del filosofo, e tanto meno dell’antichista, perché esso coinvolge la responsabilità morale e intellettuale di ognuno. Ma se sarà riuscito a riproporre, con la sua insistenza, un richiamo a questa responsabilità, a suscitare qualche consenso e naturalmente molti dissensi intorno al suo modo (certo controvertibile) di porre questioni e di condurre il ragionamento, questo piccolo libro non avrà del tutto deluso la fiducia di coloro cui si deve il progetto della sua realizzazione, e le speranze del suo autore.

Mario Vegetti


Tra i tanti altri lavori di Mario Vegetti

 

Marxismo e società antica, Feltrinelli, 1977

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Opere di Ippocrate, UTET

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Ippocrate, Antica Medicina, Rusconi, 1998

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Introduzione alle culture antiche. Vol 2. Il sapetre degli antichi, Bollati Boringhieri 1992

Introduzione alle culture antiche. Il sapetre degli antichi, Bollati Boringhieri

Introduzione alle culture antiche. Vol. 3. L'esperienza religiosa antica, Bollati Borinchieri 1992

Introduzione alle culture antiche. L’esperienza religiosa antica, Bollati Boringhieri

Le opere psicologiche di Galeno, Bibliopolis

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Platone, La Repubbluca, Bibliopolis

Platone, La Repubblica, Bibliopolis

La Rapubblica di Platone nella tradizione antica, Bibliopolis

La Rapubblica di Platone nella tradizione antica, Bibliopolis

Galeno, Nuovi scritti autobiografici, Carocci

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Dialoghi con gli antichi, Academia

Dialoghi con gli antichi, Academia

Platone, La Repubblica (Libri V-VI-VIII), Radar, 1969

Platone, La Repubblica (Libri V-VI-VIII), Radar

Platone, La repubblica, Rizzoli

Platone, La Repubblica, Rizzoli

Platone, Reoubblica, Libro 11, Lettera XIV. Socrate incontra Marx. Lo straniero di Treviri, Guida 2004

Platone, Reoubblica, Libro 11, Lettera XIV. Socrate incontra Marx. Lo straniero di Treviri, Guida

Platone. Las Repubblica, Laterza 2007

Platone. La Repubblica, Laterza

Tra Edipo e Euclide. Forme del sapere antico, Il Saggiatore

Tra Edipo e Euclide. Forme del sapere antico, Il Saggiatore

Polis e economia nella Grecia antica, Zanichelli

Polis e economia nella Grecia antica, Zanichelli

L'uomo e gli dei, Kindle Edition

L’uomo e gli dei, Kindle Edition

Guida alla lettura della Repubblica di Platone,Laterza, 2007

Guida alla lettura della Repubblica di Platone, Laterza

Quindici lezioni su Platone, Einaudi 2003

Quindici lezioni su Platone, Einaudi

Libertà e democrazia. La lezione degli antichi e la sua attualità, Ed. Casa della Cultura

Libertà e democrazia. La lezione degli antichi e la sua attualità, Ed. Casa della Cultura

Aristotele. Metafisica. Antologia, La Nuova Italia, 2001

Aristotele. Metafisica. Antologia, La Nuova Italia

Incontro con Aristotele. Quindici lezioni, Einaudi 2016

Incontro con Aristotele. Quindici lezioni, Einaudi

L'etica degli antichi, Laterza, 2010

L’etica degli antichi, Laterza

«Un paradigma in cielo». Platone politico da Aristotele al Novecento, Carocci 2016

«Un paradigma in cielo». Platone politico da Aristotele al Novecento, Carocci

Chi comanda nella città. I greci e il potere, Carocci 2017

Chi comanda nella città. I greci e il potere, Carocci

 


MARIO VEGETTI filosofi al potere – YouTube
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Platone & Aristotele – Il principio della filosofia non è altro che esser pieni di meraviglia, perché si comincia a filosofare a causa della meraviglia.

Platone & Aristotele, meraviglia

Platone e Aristotele,

«È tipico del filosofo quello che tu provi,

essere pieno di meraviglia;

il principio della filosofia non è altro che questo».

Platone, Teeteto, 155 D, ed. it. a cura di Claudio Mazzarelli , in Tutti gli scritti, a cura di Giovanni Reale, Rusconi, Milano 1994, p. 206.

***
*
***

«Gli uomini hanno cominciato a filosofare,

ora come in origine,

a causa della meraviglia».

Aristotele, Metafisica, I, 2, 982 B, ed. il. a cura di Giovanni Reale, Rusconi, Milano 1984, p. 77.

 

 

Immagine in evidenza:

Platone e Aristotele che discutono di filosofia

(Campanile del Duomo di Firenze, formella di Luca della Robbia).


 

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All’amico Giancarlo Paciello un affettuoso augurio per il suo compleanno. Sono con lui in amicizia da 45 anni.

Giancarlo Paciello–Geneatliaco
Picasso, Amicizia, 1908

Picasso, Amicizia, 1908

Auguri Giancarlo per il tuo compleanno!
Siamo in amicizia da 45 anni.

Carmine

 

«Quando si è amici non v’è bisogno per nulla di giustizia, mentre, anche essendo giusti, si ha bisogno dell’amicizia».

Aristotele, Etica Nicomachea, VIII, 1155a.


José Saramago (1922-2010) – Quanti anni ho, io? Ho l’età in cui le cose si osservano con più calma, ma con l’intento di continuare a crescere. Ho gli anni che servono per a√bbandonare la paura e fare ciò che voglio e sento. Per continuare senza timore il mio cammino, perché porto con me l’esperienza acquisita e la forza dei miei sogni.

 

Saramago J

 

Ho l’età in cui le cose si osservano con più calma, ma con l’intento di continuare a crescere. Ho gli anni in cui si cominciano ad accarezzare i sogni con le dita e le illusioni diventano speranza. Ho gli anni in cui l’amore, a volte, è una folle vampata, ansiosa di consumarsi nel fuoco di una passione attesa. E altre volte, è un angolo di pace, come un tramonto sulla spiaggia.

Quanti anni ho, io? Non ho bisogno di segnarli con un numero, perché i miei desideri avverati, le lacrime versate lungo il cammino al vedere le mie illusioni infrante valgono molto più di questo. Che importa se compio venti, quaranta o sessant’anni! Quel che importa è l’età che sento. Ho gli anni che mi servono per vivere libero e senza paure.

Per continuare senza timore il mio cammino, perché porto con me l’esperienza acquisita e la forza dei miei sogni.

Quanti anni ho, io? A chi importa! Ho gli anni che servono per abbandonare la paura e fare ciò che voglio e sento.

José Saramago, Le poesie.


 

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Byung-Chul Han – La levigatezza è il segno distintivo del nostro tempo. Non è necessaria alcuna riflessione o pensiero. Essa resta coscientemente infantile, banale, svuotata di qualsiasi profondità. Nessuna interiorità si nasconde dietro la sua superficie levigata. Giova dismettere vesti levigate accogliendo l’invito di Rilke: «Tu devi cambiare la tua vita».

Byung-Chul Han 03

 

Torso arcaico di Apollo

Non conoscemmo il suo capo inaudito,
e le iridi che vi maturavano. Ma il torso
tuttavia arde come un candelabro
dove il suo sguardo, solo indietro volto,

resta e splende. Altrimenti non potrebbe abbagliarti
la curva del suo petto e lungo il volgere
lieve dei lombi scorrere un sorriso
fino a quel centro dove l’uomo genera.

E questa pietra sfigurata e tozza
vedresti sotto il diafano architrave delle spalle,
e non scintillerebbe come pelle di belva,

e non eromperebbe da ogni orlo come un astro:
perché là non c’è punto che non veda
te, la tua vita. Tu devi mutarla.

Rainer Maria Rilke

 

 

La salvezza del bello

La salvezza del bello

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«La levigatezza è il segno distintivo del nostro tempo. È ciò che accomuna le sculture di Jeff Koons, l’iPhone e la depilazione brasiliana. Perché oggi troviamo bello ciò che è levigato? Al di là dell’effetto estetico, esso rispecchia un generale imperativo sociale, incarna cioè l’attuale società della positività. La levigatezza non ferisce, e neppure offre alcuna resistenza. Chiede solo un like. L’oggetto (Gegenstand) levigato elimina la propria oppositività (Gegenf). Rimuove così ogni negatività.

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Anche lo Smartphone segue l’estetica della levigatezza. Lo Smartphone LG G Plex è addirittura ricoperto da una pellicola autorigenerante che fa scomparire molto velocemente ogni graffiatura, dunque ogni traccia di lesione, rendendolo per così dire invulnerabile. La sua pelle sintetica lo mantiene sempre levigato.

 

LG G Flex 003, il primo smartphon curvo

LG G Flex 003, il primo smartphon curvo

Inoltre è flessibile e pieghevole, essendo leggermente curvato verso l’interno. In tal modo si adatta perfettamente al volto e alla postura. Questa adattabilità e questa assenza di resistenza sono tratti costitutivi dell’estetica della levigatezza.
La levigatezza non si limita all’aspetto esteriore dell’apparato digitale. Anche la comunicazione che avviene attraverso l’apparato digitale risulta levigata, infatti vengono scambiati soprattutto messaggi compiacenti, positivi. Sharing e like rappresentano un mezzo comunicativo levigato. Le negatività sono eliminate poiché rappresentano un ostacolo alla velocità di comunicazione.

Jeff Koons’, ‘Ballerina’

Jeff Koons’, ‘Ballerina’.

[…] Tutto fluisce in transizioni morbide e levigate; tutto risulta arrotondato, liscio, levigato. L’arte di Jeff Koons riguarda superfici levigate e l’immediata impressione che esse provocano. Non c’è nulla di quanto offre che vada interpretato, decifrato o pensato: è un’arte del like.
Jeff Koons dice che l’osservatore delle sue opere dovrebbe soltanto esclamare un semplice “wow”. È chiaro che al cospetto della sua arte non è necessario alcun giudizio, né interpretazione o ermeneutica, riflessione o pensiero. Essa resta coscientemente infantile, banale, impassibilmente rilassata, disarmante e alleggerente, poiché è svuotata di qualsiasi profondità, di qualsiasi abissalità e malinconia […].
Alla sua arte manca la negatività che imporrebbe una distanza. Solo la positività del levigato suscita l’impulso aptico, invita l’osservatore all’assenza di distanza, al touch. Un giudizio estetico presuppone invece una distanza contemplativa. L’arte della levigatezza la abolisce.
[…] La levigatezza procura soltanto una sensazione piacevole non collegata ad alcun senso, ad alcuna profondità, e si esaurisce nel “wow”.
[…] anche il levigato touch screen è un luogo […] di consumo totale, e porta alla luce solo ciò che piace.
Le sculture di Jeff Koons sono per così dire levigatezze specchianti, di modo che l’osservatore vi si possa rispecchiare. […] Nessuna interiorità si nasconderebbe dietro la sua superficie levigata. Come per lo Smartphone, di fronte alla lucentezza delle sculture levigate non s’incontra l’altro ma solo se stessi».

Byung-Chul Han, La salvezza del bello, nottetempo, 2018, pp. 8-11.

 

Descrizione
Dostoevskij aveva detto che solo la bellezza ci salverà. Ma oggi è il bello stesso a dover essere messo in salvo, recuperando l’integralità della sua esperienza che l’epoca digitale fa svanire di giorno in giorno. Questo è l’intento del saggio di Byung-Chul Han, che ripercorre momenti essenziali del pensiero europeo sul bello, da Platone a Nietzsche e Adorno, per mostrare con vigorosa persuasività la deriva estrema della nostra esperienza estetica. L’estetizzazione diffusa, la veloce proliferazione di immagini levigate e consegnate al consumo, dove conta solo il mero presente della piú piatta percezione, conducono a una fondamentale anestetizzazione. Nulla piú accade e ci riguarda nel profondo, e cosí l’arte diventa, come già aveva avvertito Nietzsche, solo occasione di una momentanea eccitazione. Ma l’originaria esperienza del bello è invece una scossa estatica che ci trasforma e si prolunga anche nella vita etica e politica. La bellezza non rimanda al sentimento di piacere, ma a un’esperienza di verità. “Tu devi cambiare la tua vita”: il monito che promana dal Torso arcaico di Apollo nell’omonima poesia di Rilke è la parola che il bello ci rivolge attraverso questo libro.

 

 

Byung-Chul Han, nato a Seul, è considerato uno dei piú interessanti filosofi contemporanei. Docente di Filosofia e Studi Culturali alla Universität der Künste di Berlino, ha pubblicato con nottetempo La società della stanchezza (2012), Eros in agonia (2013), La società della trasparenza (2014), Nello sciame (2015), Psicopolitica (2016), L’espulsione dell’Altro (2017) e Filosofia del buddhismo zen (2018).

 

libri 1

libri2


 

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Massimo Stella – «Madreparola. Risorgenze della Musa tra modernismo europeo e antichità classica». Il dono materno della parola e della voce poetiche è l’onda di una lunga memoria che, dall’Antico al primo Novecento europeo, continua a spirare.

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Madreparola

Madreparola

 

 

Descrizione
Il dono materno della parola e della voce poetiche è l’onda di una lunga memoria che, dall’Antico al primo Novecento europeo, continua a spirare. La verga esiodea della poesia – il meraviglioso ramo d’alloro fiorito, quel simbolo vegetale di fecondità e iniziazione – sta sotto l’insegna della Madre (Mnemosyne), che parla, si muove e incontra il mondo attraverso l’anodos e l’epifania delle sue Figlie (le Muse). Nel futuro-passato della tradizione, saranno, quelle Figlie, le jeunes filles en fleurs della Recherche proustiana, e ancora parleranno al giovane poeta – quasi si rinnovasse in lui la figura millenaria del kouros-cantore – nell’universo creativo della figurazione rilkiana. Il canto delle donne al poeta (così Rilke intitolava uno dei suoi Neue Gedichte), da Fattrici a Fattore, è Terribile: esso rievoca e ridice, per chi “fa” con le sole parole, la gestazione della vita, quella creazione del vivente che, nella lingua dell’uomo, prenderà il nome di “anima”. Il “canto delle donne” e il movimento del loro pensiero sono the Voice of Language, il flusso sonoro del mondo che Joyce, memore quant’altri mai dell’oralità omerica e dell’epos, catturerà, di nuovo (come fosse un’ultima volta?), nel suo libro-poema, restituendoci, in Molly-Penelope, il ritmo immemoriale e incessante della mente creativa.

Dante Gabriel Rossetti - La Donna della finestra

Dante Gabriel Rossetti – La Donna della finestra

Massimo Stella è ricercatore in Critica letteraria e Letterature comparate alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Classicista di formazione, ha studiato nelle Università di Pavia e di Padova. Lavora attualmente sulla ricezione dell’Antico (tra teatro e filosofia) nelle letterature e nel pensiero moderni e contemporanei.
Ha pubblicato, oltre a numerosi saggi in riviste scientifiche internazionali e capitoli di libro (in italiano, francese, inglese, portoghese), le seguenti monografie: Madreparola. Risorgenze della Musa tra modernismo europeo e antichità classica, Mimesis edizioni, 2018; Il romanzo della Regina. Shakespeare e la scrittura della sovranità, Roma, Bulzoni, 2014; Sofocle. Edipo re. Traduzione, Introduzione e Commento a cura di Massimo Stella, Roma, Carocci, 2010; Luciano di Samosata. Vite dei filosofi all’asta. La morte di Peregrino, traduzione, introduzione e commento a cura di Massimo Stella, Roma, Carocci, 2007; L’illusion philosophique. La mort de Socrate sur la scène des Dialogues platoniciens, Grenoble, Editions Jerôme Millon, 2006; e ha curato il volume collettivo sulle sopravvivenze del mito di Edipo nella memoria letteraria europea ed extraeuropea: Edipo. Margini Confini Periferie, Pisa, ETS, 2013 (in collaborazione con Patrizia Pinotti). Ha partecipato e partecipa a gruppi di ricerca nazionali e internazionali – tra i quali, ultimamente, il progetto Cofecub 2015 (collaborazione Parigi CNRS/ENS-Rio UFRJ) sulla tradizione delle poetiche antiche.
È membro di comitato scientifico di riviste internazionali (L’immagine riflessa), membro di comitato editoriale (Collana Testo a fronte – Aracne Editore), svolge attività di referee per Storia delle Donne. Collabora con il manifesto (Alias).

Dante Gabriel Rossetti. Mnemosyne

Dante Gabriel Rossetti. Mnemosyne


Altri libri di Masimo Stella

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2006 L'illusion philosophique. La mort de Socrate sur la scène des Dialogues platoniciens

L’illusion philosophique. La mort de Socrate sur la scène des Dialogues platoniciens, Grenoble, Editions Jerôme Millon, 2006.

 

Qu’en est-il de l’écriture de Platon hors des sentiers battus de la critique moderne, au-delà des notions traditionnelles de “dialogue” et de “philosophie”? Ce livre prend en considération les dialogues platoniciens comme un unique macro-texte narratif et s’efforce d’y tracer un parcours original au moyen de la mimesis : l’auteur joue avec l’écriture platonicienne et s’y construit un récit ou, plus exactement, la trame d’un récit possible qui devient, au fil des pages, celle de la mort de Socrate. Ce jeu des textes nous présente alors Platon non plus comme un philosophe, un maître ou un théoricien de la politique mais comme le conteur, le narrateur d’une expérience intellectuelle et idéale en lien direct avec la vie de sa cité, à travers l’éros, la mort et le pouvoir.

 

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2007 Luciano di Samosata. Vite dei filosofi all’asta. La morte di Peregrino

Luciano di Samostata, Vite dei filosofi all’asta. La morte di Peregrino.

Traduzione, introduzione e commento a cura di Massimo Stella, Roma, Carocci, 2007.

 

Tra le “Vite dei filosofi all’asta” e “La morte di Peregrino” si apre una medesima scena e si svolge, al contempo, una medesima vicenda del pensiero: è un teatro e una storia della mimesi, con la giostra – un po’ folle e bislacca – delle copie, delle imitazioni, dei simulacri che danzano ormai liberi e festeggianti sulla morte, inequivocabilmente definitiva, della verità. Il grande cadavere è quello della filosofia platonica e di tutte le filosofie che, sulle orme di Platone, hanno voluto porsi sul piedistallo della virtù e della conoscenza vera. Così Luciano, il grande scrittore di Samosata (II secolo d.C.), mette in vendita, anzi in svendita, tutte le filosofie possibili sulla piazza del mercato ed erige un grande rogo su cui, simbolicamente, con l’impostura di Peregrino, sale anche tutta quella vanagloria filosofica che ha spirato con potenti soffi di alterigia per secoli e secoli. Da queste ceneri possono così rinascere la scrittura e il racconto, liberati dai sequestri e dalle ipoteche della verità e della virtù, del bene e della politica. Ha l’aria della vendetta, tutto ciò, e lo è certamente. Ma è anche qualcosa in più. Questa scena, allestita da Luciano tra le “Vite” e il “Peregrino”, è una delle riflessioni più profondamente filosofiche che sia dato di leggere sul “ragno implicito” di ogni filosofia: l’ipocrita recita dell’esemplarità. Se poi questa recita ha già trovato dei pericolosi eredi, come i cristiani…

 

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2010 Sofoche, Edipo re

Sofocle, Edipo re

Traduzione, Introduzione e Commento a cura di Massimo Stella, Roma, Carocci, 2010.

Tragedia del potere, perché cronaca della destituzione d’un capo, tragedia della politica, perché analisi del conflitto tra poteri, l’Edipo re è un’opera teatrale che recide definitivamente i suoi legami con tutte le illusioni della tradizione (il mito, il rito) per farsi “opera di denuncia”: sono i sussurri e le grida di una comunità che divora sé stessa, sotto un cielo senza dèi, su una terra maledetta.

 

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2013 Edipo. Margini e confini

Edipo. Margini Confini Periferie, ETS, Pisa, 2013
(in collaborazione con Patrizia Pinotti).

 

Margini, confini, periferie dell’edipo: territori estremi, liminali e decentrati del mito di Edipo (riformulato da Sofocle) e del suo complesso (secondo Freud) nella geografia politica e culturale dell’Europa Occidentale tra Otto e Novecento, nonché dei suoi domini ed ex-domini coloniali. Questo il nodo problematico e lo snodo temporale intorno ai quali il volume è fondamentalmente costruito.
Su suolo europeo, tra Inghilterra (Dickens, Eliot), Francia (Hugo, Gide, Cocteau), Russia e Austria felix (Dostoevskij Freud) – nell’arco temporale che si estende dall’epopea capitalistico-borghese di seconda metà dell’Ottocento fino alle due guerre – vengono analizzate e studiate le forme latenti e dislocate della configurazione edipica, integrando nel percorso alcuni esemplari rovesciamenti e scardinamenti prodotti, durante gli Anni Settanta, dalla cultura della Contestazione (Morante, Testori, Deleuze e Guattari).
Per altro verso, dall’altra parte dell’Oceano e del Mediterraneo, ritornano, dall’America e dall’Africa (tra Faulkner e Rotimi), vere e proprie figurazioni speculari e distorte della stessa vicenda, storie familiari disfunzionali e post-edipiche, come a rammentare quali violente e regressive conseguenze abbia avuto sulle periferie e sui confini del mondo la vocazione civilizzatrice della civiltà borghese alle prese con i propri disagi.
Non manca l’attenzione per il destino dei personaggi non centrali e/o marginalizzati della storia di Edipo: Giocasta, innanzitutto, e i figli-fratelli dell’incesto, recuperati dal grande alveo della tradizione drammaturgica romana e da Seneca in particolare, per proseguire, con significativi affondi in Shakespeare (la Cordelia/Antigone di Re Lear), attraverso sentieri poco noti del teatro tardorinascimentale e secentesco (Manfredi, Pallavicino), fino al postmoderno (Molinaro). Chiude il volume la traduzione di The Gods Are Not To Blame di Ola Rotimi ad opera di Francesca Lamioni.

 

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2014 Il romanzo della regina

Il romanzo della Regina. Shakespeare e la scrittura della sovranità, Roma, Bulzoni, 2014.


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Salvatore A. Bravo – Massimo Bontempelli interprete di Karl Marx. Marx era prima di tutto un rivoluzionario: questa era la sua reale vocazione. La lotta era il suo elemento. Ed ha combattuto con una passione, con una tenacia e con un successo come pochi hanno combattuto.

Karl Marx di Bontempelli

Bontempelli, Marx

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Perché Marx era prima di tutto un rivoluzionario.
Contribuire in un modo o nell’altro all’abbattimento della società capitalistica e delle istituzioni statali che essa ha creato, contribuire all’emancipazione del proletariato moderno al quale Egli, per primo, aveva dato la coscienza delle condizioni della propria situazione e dei propri bisogni, la coscienza delle condizioni della propria liberazione: questa era la sua reale vocazione.
La lotta era il suo elemento.
Ed ha combattuto con una passione, con una tenacia e con un successo
come pochi
hanno combattuto.

F. Engels

 

 

Salvatore A. Bravo

Il Marx di Bontempelli

Massimo Bontempelli (Pisa, 26 gennaio 1946 – Pisa, 31 luglio 2011) interprete di Marx.

A Marx ci si approssima, affermava Costanzo Preve, per cui ogni illusione di rispecchiamento perfetto non è che l’esemplificazione di un autore. Massimo Bontempelli si accosta a Marx non solo con rigore metodologico, ma, anche in ragione della sua formazione hegeliana, con metodo olistico. Attraverso la lettura dei testi ne coglie il fondamento, evidenzia l’umanesimo marxiano ed il problema della reificazione, e dimostra soprattutto che non vi può essere nulla di più ingenuo che porre in antitesi Marx ed Hegel. Anzi, Bontempelli argomenta come Marx sviluppi e porti a compimento intuizioni, concetti e metodi presenti nel pensiero hegeliano. L’attività filosofica è ri-pensare, per ri-creare – in nuovi orditi teoretici – concetti già dati. Il breve saggio di Bontempelli si conclude con l’orazione funebre di Engels all’amico. Non è un caso che Bontempelli abbia voluto così chiudere l’introduzione a Marx. Engels omaggia l’amico che ha smesso di pensare. Ovvero, per Marx vivere è pensare: non è concepibile lotta senza prassi che si coniughi con la teoria. Il pensare marxiano è polisemico, speculare alla creatività stilistica del suo filosofare. Pensare per Marx non è il freddo calcolare logico, ma è il pensare partecipante, è attività, prassi, trasformazione dei comportamenti sociali, poiché ogni soggetto umano è comunitario per sua essenza. Il pensiero è sempre intenzionalità attraverso la quale sono messi in atto i processi di riconoscimento, autoriconoscimento e critica sociale. Così Engels nella sua orazione funebre (1883):

«Il 14 marzo, alle due e quarantacinque pomeridiane, ha cessato di pensare la più grande mente dell’epoca nostra. L’avevamo lasciato solo da appena due minuti, e al nostro ritorno l’abbiamo trovato tranquillamente addormentato nella sua poltrona, ma addormentato per sempre».[1]

 

L’economia politica

L’economia politica marxiana nella sua impostazione è hegeliana. Vi sono due metodi di indagine. Uno parte dal dato concreto ed astrae dalle strutture: gli economisti inglesi iniziano la loro indagine dalla proprietà avulsa dai processi storici, per cui la proprietà e le differenze sociali sono rese ipostasi, dogmi indiscutibili: si costruisce in tal modo l’ideologia economica che rispecchia la condizione storica eternizzandola. Il secondo metodo di indagine è di matrice hegeliana. Si segue un processo che ricostruisce il dato, in modo processuale e storico, partendo dal dato generico per ricostruirlo nelle sue relazioni effettive e concrete. Nella logica hegeliana il concetto di essere generalissimo si determina nelle relazioni. Nella stessa maniera Marx analizza nell’economia politica: i concetti sono problematizzati e ricostruiti nella loro genealogia, trascendendo la pura empiria per dare spazio ai soggetti che li pongono ed alle loro relazioni. In questa maniera la genealogia scardina dogmi, pregiudizi culturali ed ideologici:

«Una volta compresa la Logica di Hegel, Marx riformula in senso dialettico la sua concezione dell’economia: da questa riformulazione nasce di getto nel 1857 Per la critica dell’economia politica (pubblicata poi nel ‘59) che è il preludio al Capitale cioè alla vera e propria scienza economica marxista. L’opera contiene una Introduzione e una Prefazione: la prima è del ‘57, la seconda del ‘59. A noi interessa l’Introduzione perché è qui che Marx illustra la metodologia con cui studia l’economia politica. Dice Marx che due sono i metodi che si possono seguire nel formulare la scienza economica: 1) quello di muovere dall’elemento concreto e reale e da qui costruire una serie di astrazioni ricavate dal concreto; 2) quello di muovere da categorie astratte, comprendere la loro connessione, e, attraverso questa comprensione, interpretare la realtà concreta. Marx respinge il primo metodo e accetta il secondo: pretendere, infatti, di partire da un dato concreto (poniamo la “popolazione”) è mera illusione, perché in ogni caso si parte sempre da un’astrazione (come appunto è il concetto di “popolazione”), e per di più da un’astrazione che proprio perché ha la pretesa di riflettere immediatamente l’empiria si rivela la più povera perché non è mediata dal pensiero (qui, Marx, riprende integralmente la critica hegeliana della certezza sensibile). Allora il metodo scientifico corretto è quello di partire da concetti già astratti e mediati dal pensiero che non pretendono di riflettere in quanta tali l’empiria cogliere le loro connessioni logiche e, alla luce di queste, illuminare la realtà concreta».[2]

Coscienza e linguaggio

Marx, mediante il metodo hegeliano, ricostruisce i processi di formazione di ipostasi che, in assenza di metodi interpretativi adeguati, sono negati e favoriscono – fino ad affermarla – la scissione che legittima le ipostasi contrapposte, perché prevale l’empirico e dunque l’astratto, mentre la processualità storica dimostra che ciò che appare astratto ed irrigidito è l’effetto di una visione astorica. La coscienza, evidenzia Marx, è il risultato del soggetto che modifica la natura per soddisfare i suoi bisogni economici. La trasformazione della natura modifica il soggetto. In tale relazione si sviluppa la coscienza e con essa il linguaggio, che è lo strumento per comunicare nel gruppo. Marx non indaga la coscienza come avulsa dalla storia, ma applica il metodo della logica hegeliana, ne palesa la storicità e dunque la soggettività che pone l’oggettività in una relazione di biunivoca trasformazione:

«La prima condizione della dimensione storica sta dunque non nella semplice esistenza fisica, ma nell’attività per mantenerla, perché l’esistenza fisica non si mantiene che attraverso un’attività trasformativa, quindi una storia. La produzione umana di beni economici e necessaria perché l’uomo non trova già dati i beni necessari alla sua sopravvivenza fisica, bensì deve procurarseli modificando la realtà esteriore. Ma producendo i beni che gli sono necessari per mantenere la sua esistenza fisica, l’uomo muta non solo la realtà esteriore sulla quale agisce con il lavoro, ma muta anche se stesso. Il lavoro, infatti, trasforma il modo di essere di chi lo esplica, e determina, data la sua natura intrinsecamente cooperativa, i rapporti tra gli uomini. Nasce cosi il modo di produzione, cioè il modo con cui gruppi sociali si sono organizzati in funzione della produzione economica per garantire la riproduzione biologica del gruppo stesso. Essendo per sua natura sociale, il lavoro implica la comunicazione tra gli uomini, quindi il linguaggio, e perciò la coscienza: “il linguaggio, come la coscienza, sorge soltanto dal bisogno, dalla necessità di rapporti con gli altri uomini”. La coscienza, però, perviene a uno sviluppo e a un perfezionamento ulteriore in virtù dell’accresciuta produttività, dell’aumento dei bisogni e dell’aumento della popolazione».[3]

 

Essere/Merce

Il fondamento della logica hegeliana è l’essere, mentre il fondamento del capitalismo è la merce. Marx sostituisce l’essere hegeliano con la merce, ma similmente ne spiega la genesi attraverso il definirsi mediato da relazioni storico-sociali sempre più complesse. Le relazioni sono di ordine sistemico-olistico, per cui variando, si trasforma il sistema, poiché le parti si riposizionano secondo nuove figure:

«[…] in tutta la sua evidenza: nel testo hegeliano si parte dall’Essere – forma immediata e semplice se ne sviluppano dialetticamente tutte le determinazioni in un lungo cammino, e poi si ritorna all’Essere nella cui trasparenza si scorge l’Idea. Nel testo di Marx, si parte dalla merce – forma immediata e semplice -, se ne sviluppano dialetticamente le determinazioni e ad essa merce, nella cui trasparenza si scorge ora il capitale, infine si torna. Seguendo l’analisi dialettica condotta da Marx nel corso del Capitale, abbiamo modo di vedere come tutta una serie di aspetti della società (che è poi la società in cui viviamo) si presentino complicati l’uno con l’altro in modo tale che nessuno di essi può venire modificato senza la modificazione di tutti gli altri».[4]

“La verità è tutto” ha insegnato Hegel. Anche nel caso di Marx la concretezza è visuale relazionale e storica che riesce a strappare i soggetti dal torpore del dogmatismo. Il metodo hegeliano-marxiano è dunque antideologico e come tale potenzia il soggetto, lo strappa dalla passività dell’ignoranza. Il soggetto acquisisce “spinozianamente” potenza e ciò muta la qualità della sua vita e delle sue relazioni.

L’alienazione

L’alienazione è il fondamento del pensiero marxiano. L’opera di Marx non è che lotta alle forme di alienazione che rendono l’essere umano oggetto della storia, estraneo a se stesso ed alla comunità. Marx, sin dalle opere giovanili, descrive i limiti di coloro che ritengono che l’alienazione possa essere trascesa solo mediante cambiamenti politici. I diritti politici, senza il superamento delle differenze materiali e sociali, non possono che confermare l’alienazione e la divisione della comunità in classi, scissa tra dominati e dominatori, poiché il diverso peso economico dei soggetti cannibalizza i diritti politici che sono così solo il paravento ideologico dietro il quale la violenza è legittimata dalle leggi e si disorienta i subalterni con la chimera dell’uguaglianza politica:

«Marx interviene sull’argomento discutendo non tanto la questione della minorità politica degli Ebrei, quanto, piuttosto, ciò che è sottinteso in tutto il discorso di Bauer, e cioè l’identità tra emancipazione politica ed emancipazione umana. Stando a Bauer, infatti, (e anche al Marx democratico di qualche mese prima) attraverso la democrazia politica l’uomo diventerebbe padrone del proprio destino, emancipandosi da ogni alienazione. Ebbene, Marx ora precisa che emancipazione politica ed emancipazione umana sono due realtà distinte: ed è proprio da questa distinzione tra le due forme di emancipazione che nasce la sua idea comunista secondo cui la vera emancipazione umana può scaturire soltanto dall’abolizione delle diseguaglianze sociali. Marx comincia con il ricordare che in un paese modello di democrazia politica come gli Stati Uniti d’America, non solo non c’è stato superamento dell’alienazione religiosa – come avrebbe dovuto accadere se fosse vera l’identità posta da Bauer tra democrazia politica ed emancipazione umana –, ma al contrario, c’è tutto un fiorire di sette religiose più o meno intolleranti. Prendendo poi in esame i testi costituzionali elaborati dalla rivoluzione francese, ovvero i documenti che hanno stabilito i “sacri principi” della democrazia politica, Marx fa vedere come essi abbiano costituito una sfera quella dello Stato distinta da quella immediatamente sociale, postulando che nell’ambito di tale sfera gli uomini possono ritrovare la loro uguaglianza naturale pur permanendo le loro diseguaglianze sociali».[5]

L’alienazione, la sofferenza umana non necessaria possono essere risolte sono con il comunismo, poiché solo con la realizzazione della natura umana, con un’organizzazione umana finalizzata a sviluppare i singoli individui in relazione libera tra di loro, terminerà la storia come lotta tra dominanti e dominanti scissione prima da cui conseguono divisioni alienanti che negano l’umanità nella sua pienezza:

 «La fondamentale differenza è sintetizzata da Marx in una sua celebre frase in cui afferma che nel socialismo deve venire data a ciascuno secondo il suo lavoro nel senso spiegato prima – che la retribuzione deve essere proporzionale al lavoro svolto e che lo Stato deve obbligare gli individui a lavorare. Nella società comunista, invece, secondo Marx, di questa non ci sarà bisogno perché durante il socialismo gli individui avranno potuto plasmare il loro essere non sulla base di un’educazione individualistica così che principio regolatore della società comunista sarà non più a ciascuno secondo il suo lavoro, ma a ciascuno secondo le sue capacità e a ciascuno secondo i suoi bisogni. In quest’ultimo approdo è condensato il sogno di Marx di una completa liberazione dell’uomo».[6]

 

La prassi contro l’alienazione

La prassi è la condizione, affinché il soggetto posa risolvere l’alienazione. Hegel e l’idealismo hanno fatto della prassi la libertà e la dignità dell’essere umano. Marx riporta la prassi al centro della storia dell’umanità: la libertà non cade dal cielo stellato, ma è nella prassi. O meglio: lottare, capire, smascherare l’ideologia che anestetizza la ragione è già prassi-libertà. La realizzazione della libertà è anch’essa un lungo iter che vive e si ridefinisce e ricategorizza con l’umanità che progetta nel presente il suo futuro, modificando le condizioni storiche, ponendo in atto ciò che è potenzialmente presente. La filosofia dev’essere filosofia della prassi, ma essa è concretizzabile solo se la riflessione teoretica vive la relazione circolare tra teoria e prassi: tale osmosi è già disalienante. Il materialismo storico è speculare alla prassi, anzi ne è l’espressione più completa, il materialismo è metafora della prassi:

«”I filosofi hanno finora variamente interpretato il mondo; si tratta ora di mutarlo”. Quindi mentre la “materialità” nella concezione borghese è intesa come Natura, ora, nella nuova accezione di Marx, la materialità è la società economica dell’uomo, per cui affermare la priorità della materialità sulla coscienza significa affermare la priorità sulla coscienza non di un qualcosa di esterno all’uomo (la Natura), ma della sua propria dimensione sociale. Si tratta di un mutamento cruciale di prospettiva: la priorità della Natura rispetto all’uomo, dice Marx, è un fatto filogenetico, legato all’antropogenesi, all’origine della storia, e dunque tale da non autorizzare a considerare la Natura la base materiale della coscienza nella storia. Scriverà infatti nell’Ideologia tedesca: “È vero che la priorità della Natura eterna rimane ferma… D’altronde questa Natura che prende la storia umana non è la Natura nella quale vive Feuerbach, non la Natura che oggi non esiste più da nessuna parte, salvo forse in qualche isola corallina australiana di nuova formazione […]. Accade così allora che per esempio Feuerbach vede soltanto fabbriche e macchine a Manchester, dove un secolo fa erano solo filatoi e telai a mano e scopre soltanto pascoli e paludi nella campagna di Roma, dove al tempo di Augusto non avrebbe trovato altro che vigneti”. Questa posizione di Marx che mette in prima piano il valore trasformativo dell’attività umana rispetto alla Natura, aiuta ad interpretare la prima delle Tesi su Feuerbach, dove (recuperando la critica hegeliana alla certezza sensibile) c’è un esplicito riconoscimento della superiorità dell’idealismo sul materialismo tradizionale: “Il difetto principale di ogni materialismo fino ad oggi, compreso quello di Feuerbach, è che l’oggetto è concepito solo sotto forma di oggetto di intuizione sensibile, ma non come attività umana pratica, non soggettivamente. È accaduto quindi che il lato attivo della realtà è stato sviluppato dall’idealismo in contrasto con il materialismo, ma solo in modo astratto, poiché naturalmente l’idealismo ignora l’attività reale”. Quindi Marx, come gli idealisti, concepisce la realtà sensibile quale prodotto dell’attività umana (“soggettivamente”), senonché, diversamente dagli idealisti, a fondamento di quella attività, dunque dell’uomo che crea il proprio essere, dunque della storia, pone i1 lavoro, la prassi sociale umana e non il pensiero. Inoltre: fino all’anno prima Marx ha creduto, seguendo Feuerbach, in un’essenza naturale dell’uomo sempre uguale a se stessa; ora, invece, l’essere dell’uomo è considerato un prodotto del modo di produzione che egli eredita, per cui in ogni epoca storica l’essere dell’uomo sarà diverso, proprio perché ogni epoca storica ha una sua propria determinata morfologia che la distingue dalle altre».

 

 

La dittatura del proletariato

La dittatura del proletariato ha contribuito ad alimentare pregiudizi ed esemplificazioni contro Marx. Bontempelli smaschera l’uso ideologico in chiave antimarxiana della dittatura del proletariato. In primis, se la dittatura del proletariato fosse un sistema autoritario effettivo, non si comprenderebbe il passaggio al comunismo, il quale è preparato dalla fase socialista, durante la quale l’umanità reimpara il senso della comunità, e si disintossica dalle tossine del capitalismo acquisitivo. La dittatura del proletariato è il governo della maggioranza che impara la partecipazione politica e la prassi come modello quotidiano di vita. Il percorso che conduce al comunismo ed alla disalienazione, non può essere improvviso, ma deve essere mediato dalla dittatura del proletariato, il processo è hegeliano, perché non vi è l’immediatezza, il passaggio improvviso da uno stadio di sviluppo ad un altro. Ma la mediazione garantisce il radicamento strutturale del processo, la prassi delle coscienze, la consapevolezza collettiva:

«La cosiddetta dittatura del proletariato è dunque elemento caratterizzante di un regime socialista secondo Marx, ma intesa come dittatura esercitata non da una minoranza bensì dalle classi lavoratrici, vale a dire dalla stragrande maggioranza della popolazione, esclusivamente sui gruppi borghesi espropriati dalla rivoluzione proletaria, ed esclusivamente al fine di indirizzare tale rivoluzione ad un esito comunista (la dizione precisa usata da Marx nella Critica del programma di Gotha è infatti dittatura rivoluzionaria del proletariato), e con un risvolto, quindi, di massima estensione della democrazia. II principio di una dittatura che sia anche massima espressione di democrazia quale è posto da Marx nel suo concetto di dittatura del proletariato, non è ovviamente comprensibile al di fuori della concezione marxiana dello Stato come espressione politica di un dominio di classe. Ogni Stato, infatti, realizza un potere tanto dittatoriale quanto democratico, con aspetti dittatoriali e aspetti democratici variamente proporzionati a seconda del tipo di Stato e variamente distribuiti sulle varie classi della popolazione. Da questo punto di vista una dittatura socialista del proletariato sulla borghesia contiene necessariamente, secondo Marx, più democrazia di quella contenuta dal più democratico Stato capitalistico che sia concepibile».[7]

L’attualità è dominata dalla categoria della quantità, per cui studiosi del calibro qualitativo di Massimo Bontempelli non hanno il riconoscimento che spetta loro. Ma il tempo è galantuomo: filtra e seleziona l’autentico dall’inautentico. Pertanto Bontempelli rimarrà quale testimonianza di un intellettuale che ha fatto dell’impegno silenzioso il senso della sua vita e del suo pensare, nel tempo dell’«utile», in cui il regno animale dello Spirito sembra non avere limiti e prospettive.

 Salvatore A. Bravo

 

[1] Massimo Bontempelli, introduzione a Marx (ed Engels), in Associazione Culturale Punto rosso, Libera università popolare p. 40.

[2] Ibidem, p. 29.

[3] Ibidem, p. 32.

[4] Ibidem, p. 36.

[5] Ibidem, pp. 16 17.

[6] Ibidem, p. 39.

[7] Ibidem, p. 38.


Massimo Bontempelli, Filosofia e Realtà. Saggio sul concetto di realtà in Hegel e sul nichilismo contemporaneo.

ISBN 88-87296-71-5, 2000, pp. 288, f Euro 15

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Massimo Bontempelli – Costanzo Preve, Nichilismo Verità Storia. Un manifesto filosofico della fine del XX secolo.

ISBN 88-87296-00-6, 1997, pp. 192,  Euro 15 – Collana “La Crisalide”. I

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Massimo Bontempelli, L’agonia della scuola italiana.

ISBN 88-87296-79-0, 2000, pp. 144, formato 140×210 mm., Euro 10.

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Massimo Bontempelli, Tempo e Memoria. La filosofia del tempo tra memoria del passato, identità del presente e progetto del futuro.

ISBN 88-87296-69-3, 1999, pp. 112, Euro 10.

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Massimo Bontempelli Carmine Fiorillo, Il sintomo e la malattia. Una riflessione sull’ambiente di Bin Laden e su quello di Bush.

ISBN 88-87296-50-2, 2001, pp. 128, Euro 10.

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Massimo Bontempelli, La conoscenza del bene e del male.

ISBN 88-87296-10-3, 1997, pp. 160,Euro 15.

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Massimo Bontempelli, Il respiro del Novecento. Percorso di storia del XX secolo (1914-1945).

ISBN 88-88172-10-6, 2002, pp. 672, Euro 35.

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Massimo Bontempelli, La disgregazione futura del capitalismo mondializzato.

ISBN 88-87296-30-8, 1998, pp32, f Euro 5

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Massimo Bontempelli, Gesù di Nazareth. Uomo nella storia. Dio nel pensiero. Prefazione di Marco Vannini. Postfazione di Giancarlo Paciello.

ISBN 978-88-7588-188-7, 2017, pp. 160, formato 140×210 mm., Euro 15

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Massimo Bontempelli – IL PREGIUDIZIO ANTIMETAFISICO DELLA SCIENZA CONTEMPORANEA

Massimo Bontempelli (1946-2011) – Quale asse culturale per il sistema della scuola italiana?

Massimo Bontempelli – La convergenza del centrosinistra e del centrodestra nella distruzione della scuola italiana.

Massimo Bontempelli – In cammino verso la realtà. La realtà non è la semplice esistenza, ma è l’esistenza che si inscrive nelle condizioni dell’azione reciproca tra gli esseri umani, diventando così sostanza possibile del loro mutuo riconoscimento.

Massimo Bontempelli – Il pensiero nichilista contemporaneo. Lettura critica del libro di Umberto Galimberti « Psiche e tecne».

Massimo Bontempelli (1946-2011) – L’EPILOGO DELLA RAZIONALIZZAZIONE IRRAZIONALE: demente rinuncia alla razionalità degli orizzonti di senso, e perdita della conoscenza del bene e del male. L’universalizzazione delle relazioni tecniche ha plasmato la razionalizzazione irrazionale, razionalità che non ha scopi, che è cioè irrazionale.

 


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Il futuro dell’antico. Filosofia antica e mondo contemporaneo (Milano 27-28 marzo 2019). Due giornate di studio volte a esplorare, nel passato, potenzialità e insegnamenti ancora da pensare, dunque contemporanei. Relatori: Daniele Guastini, Angelo Tonelli, Alberto Jori, Arianna Fermani, Maurizio Migliori, Giulio Lucchetta. Discussants: Giulia Angelini, Selene I. S. Brumana, Federica Piangerelli, Elena Bartolini, Alessandra Indelicato, Andrea I. Daddi. Moderatori: Claudia Baracchi e Luca Grecchi.

Il fututo dell'antico 001

Logo Bicocca

Università degli studi di Milano Bicocca

Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione

Riccardo Massa

 

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Il futuro, blu

Filosofia antica e mondo contemporaneo

27-28 marzo 2019

occhi 01

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Il futuro dell’antico:
due giornate di studio volte a esplorare,
nel passato,
potenzialità e insegnamenti ancora da pensare,
dunque contemporanei.

Studiosi di fama internazionale si incontreranno
per offrire agli studenti e alla cittadinanza
un contatto con il pensiero antico,
mettendone in luce vitalità e suggestioni di notevole conseguenza
su un piano formativo, etico, politico.

occhi insieme

Mercoledì 27 marzo
I sessione – Aula U7/18 – Via Bicocca degli Arcimboldi 8, 20126 Milano MI

ore 10:30 apertura dei lavori – Modera Claudia Baracchi

ore 10:30 – Prof. Daniele Guastini, La Sapienza, Roma- Poesia greca:
La paideia poetica: inattualità e attualità di una pratica

ore 11:30 – Prof. Angelo Tonelli, Grecista e scrittore– Presocratici:
Sciamanesimo, Misteri e Sapienza greca

ore 12:30 – pausa pranzo

occhi insieme

II sessione – Aula U16/7 – Via Thomas Mann 8, 20162 Milano MI
Modera Luca Grecchi

ore 14:30 – Prof. Alberto Jori, Università degli Studi di Ferrara, Universität Tübingen– Ippocrate:
Ippocrate “filosofo”. Dal sapere ontologico alla scienza funzionale

ore 15:30 – Prof. Arianna Fermani, Università di Macerata– Aristotele:
In ogni caso si deve filosofare

occhi insieme

Giovedì 28 marzo

III sessione – Aula U7/18 – Via Bicocca degli Arcimboldi 8, 20126 Milano MI
Modera Luca Grecchi

ore 10,30 – Prof. Maurizio Migliori, Università di Macerata– Platone:
Platone. Amico di Socrate, l’uomo più giusto del suo tempo

ore 11,30 – Prof. Giulio Lucchetta, Università degli Studi “G. d’Annunzio” Chieti-Pescara– Ellenismo:
Dione di Prusa. Un esempio di intelligente sintesi ellenistica

ore 12, 30 – dibattito finale e chiusura dei lavori

 

occhi insieme

Discussants:

Giulia Angelini
Università degli Studi di Padova

Selene I. S. Brumana
Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano
Università degli Studi di Padova

Federica Piangerelli
Università di Macerata

Elena Bartolini
Università degli studi di Milano Bicocca

Alessandra Indelicato
Università degli studi di Milano Bicocca

Andrea I. Daddi
Università degli studi di Milano Bicocca

 

occhi 02


 

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Paul Tillich (1886-1965) – Il confine è il luogo migliore per acquisire conoscenza. Un atto morale non è un atto di obbedienza ad una legge esterna.

Paul Tillich 001

Sulla linea di confine

«Il confine è il luogo migliore per acquisire conoscenza».

 

Paul Tillich, Sulla linea di confine. Schizzo autobiografico [1962], tr. di Enzo Gatti, Queriniana, Brescia 19792, p. 29.

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«Un atto morale non è un atto di obbedienza ad una legge esterna, umana o divina, [invece è] l’innata legge del nostro vero essere e della nostra natura essenziale e creata, che ci chiede di realizzare ciò che proviene da essa».

Da Morality and Beyond; citato in Andrew Linzey, Teologia animale, traduzione di Alessandro Arrigoni, Cosmopolis, Torino, 1998, p. 6.

Paul Tillich

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