Francesco Petrarca (1304-1374) – Frugati dentro severamente. Anche il conoscere molte cose, che mai rileva se siete ignoti a voi stessi?

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Secretum, Copertina di un'edizione del 1470

Secretum, Copertina di un’edizione del 1470.
Prima edizione originale tra il 1347 e il 1353.

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«Frugati dentro severamente [Excute pectus tuum acriterJ, e troverai che tutto ciò che sai, se lo paragoni a quanto ignori, pareggia la proporzione di un ruscello destinato a seccarsi per gli ardori estivi, confrontato con l’Oceano. Benché, anche il conoscere molte cose, che mai rileva se, quando bene abbiate apprese le dimensioni del cielo e della terra, l’estensione del mare e le orbite degli astri, le virtù delle erbe e delle pietre e gli arcani della natura, siete ignoti a voi stessi?».

Francesco Petrarca, Secretum o De secreto conflictu curarum mearum (“Riguardo al segreto conflitto delle mie angosce”).

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Francesco Petrarca (1304-1374) – Gloria effimera è cercar fama solo nel barbaglio delle parole: il mio lettore, almeno finché legge, voglio che sia con me. Non voglio che apprenda senza fatica ciò che senza fatica non ho scritto.

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Marsilio Ficino (1433-1499) – Il lume dello spirito più copiosamente risplende per gli occhi: perché gli occhi sono sopra gli altri membri trasparenti e nitidi.

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Sopra lo amore

«E come il sole che è cuore del mondo, per il suo corso spande il lume, e per il lume le sue virtù diffonde in terra: cos1 il cuore del corpo nostro per un suo perpetuo movimento, agitando il sangue a sé propinquo, da quello spande gli spiriti in tutto il corpo: e per quelli diffonde le scintille de’ raggi in tutti i membri, massime per gli occhi: perché lo spirito essendo levissimo facilmente saglie a le parti del corpo altissime. E il lume dello spirito più copiosamente risplende per gli occhi: perché gli occhi sono sopra gli altri membri trasparenti e nitidi».

Marsilio Ficino, Sopra lo amore ovvero Convito di Platone [1544], trad. di Neri Dortellata, a cura di Giuseppe Rensi, Carabba, Lanciano 1914


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Lev Nikolàevič Tolstòj (1828 – 1910) – «Se lascio la vita con la coscienza d’aver sciupato tutto quanto mi fu dato e che ormai non c’è più nulla da fare, allora che sarà?». Ivan Il’ič è il personaggio dell’esteriorità. La sua è un’interiorità priva di ricerca, priva di interrogazione.

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Che cosa accade quando in una vita priva di risonanza interiore,

priva di raccoglimento

– di abitudine al raccoglimento presso di sé –

e dunque tutta consegnata all’esteriorità,

irrompe l’inatteso, l’altro come inatteso?

 

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La morte di Ivan Il’ič

«Gli era venuto in capo che quanto gli era fin qui sembrato assolutamente inammissibile, di aver cioè vissuto non come si doveva, potesse invece essere la verità. Gli era venuto in capo che i suoi timidissimi tentativi di ribellione a ciò che la gente altolocata stimava il bene, tentativi che subito aveva soffocato in sé – che essi soli potessero essere gusti, e tutto il resto essere sbagliato. Il suo ufficio, il suo modo di vivere, e la famiglia, e gli interessi mondani e professionali, – tutto poteva essere sbagliato. S’era provato a difendere davanti a se stesso quelle cose. E a un tratto sentiva tutta l’inconsistenza di ciò che difendeva. Non c’era niente da difendere.
“E se così è, – s’era detto – e se lascio la vita colla coscienza d’aver sciupato tutto quanto mi fu dato e che ormai non c’è più nulla da fare, allora che sarà?”. S’era così disteso supino e aveva ricominciato a considerare tutta le sua vita sotto un nuovo aspetto. E quando al mattino venne il domestico, e poi la moglie, e poi la figlia, e poi il dottore, – ogni loro gesto, ogni loro parola gli avevano confermato l’orribile verità che gli si era aperta la notte. In loro vedeva se stesso, le cose di cui aveva vissuto; e chiaramente intendeva che tutto ciò non era quello che avrebbe dovuto essere, ma solo un enorme, uno spaventoso inganno che nascondeva la vita e la morte».

 Lev Nikolàevič Tolstòj, La morte di Ivan Il’ič, trad, di Tommaso Landolfi, Rizzoli, 1989, pp. 85-86.

 

Ivan Il’ič è il personaggio dell’esteriorità,

totalmente assorbito in essa.

Ma poiché il personaggio non ha mai, fino a quel momento,

alimentato in sé un dialogo con se stesso,

ecco che l’interiorità che si vorrebbe edificare

è un’interiorità priva di ricerca, priva di interrogazione.

 

«Che cosa accade quando in una vita priva di risonanza interiore, priva di raccoglimento – di abitudine al raccoglimento presso di sé – e dunque tutta consegnata all’esteriorità, irrompe l’inatteso, l’altro come inatteso? Un racconto di Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič, mette in scena questo incontro dell’uomo esteriore con la figura estrema che nega ogni mondanità, ogni sociale convenzione, cioè la morte. Il giudice Ivan Il’ič: ha costruito le sue giornate, e il suo pubblico apparire, la sua sociale identità comme il faut, cioè così come occorre essere, come davvero ci si attende che uno sia, quando la vita è pensata come adeguazione piena ai costumi, alle convenzioni sul piano pubblico e alle convenienze sul piano privato. In tribunale, nei salotti, in famiglia Ivan Il’ič: è sempre all’altezza della situazione. Il suo stesso matrimonio è stato piegato alle convenienze, ma per essere all’altezza non è stato separato da quel tanto di amore che è pur necessario secondo le convenzioni sociali. Ivan Il’ič è il personaggio dell’esteriorità, totalmente assorbito in essa. Nessun turbamento, nessuna esitazione, nessuna debolezza in questa identità riuscita e sicura. Ma a un certo punto l’irruzione della malattia, e con essa, il rivelarsi della morte, del suo profilo, della sua attesa, comincia a sgretolare i contorni dell’esteriorità. Rivela, di colpo, l’inautentico di un’esistenza, la quale ha cancellato, o almeno rimosso, il rapporto con la morte, l’essere per la morte. Si mostra, per la prima volta, il disegno di un’interiorità come possibile spazio di un dialogo con l’altro, con la sua misteriosa presenza. Ma poiché il personaggio non ha mai, fino a quel momento, alimentato in sé un dialogo con se stesso, ecco che l’interiorità che si vorrebbe edificare è un’interiorità priva di ricerca, priva di interrogazione. Il racconto di Tolstoj si può leggere come una sorta di drammaturgia della coscienza: lo spazio della coscienza, riempito dai richiami delle sociali abitudini, si ritrova vuoto quando la malattia impone una nuova estrema relazione, quella con la morte. Il personaggio, nella sopravvenuta solitudine, percepisce che tutto continua al di fuori di lui, senza di lui, la moglie e la figlia continuano a uscire, a incontrare un mondo, forse quello che era il suo mondo, mentre lui è prigioniero di un nuovo ospite che implacabilmente, giorno dopo giorno, lo spoglia di ogni legame con gli altri, e persino con se stesso. Ivan Il’ič cade nel gelo di un’attesa che non può né riconoscersi come attesa né stemperarsi in un dialogo, un’attesa priva di pensieri. Estraneo all’esteriorità di un tempo, estraneo all’interiorità che il nuovo tempo esige».

Antonio Prete, Il cielo nascosto. Grammatica dell’interiorità, Bollati Boringhieri, 2016, pp. 50-52.


Lev Nikolàevič Tolstòj (1828-1910) – Tutti i grandi cambiamenti cominciano e si compiono nel pensiero
Lev Tolstoj (1828-1910) – L’elevazione del lavoro a virtù è altrettanto assurda come l’innalzamento del nutrirsi dell’uomo a dignità e a virtù. nella nostra società falsamente ordinata, esso è per lo più un mezzo che uccide la sensibilità morale …
Lev Tolstoj – Che cos’è l’arte: L’arte incomincia là, dove incomincia l’appena appena
Lev Nikolàevič Tolstòj (1828-1910) – In una società dove esiste, sotto qualunque forma, lo sfruttamento o la violenza, il denaro non può assolutamente rappresentare il lavoro. La semplicità è la principale condizione della bellezza morale.
Lev Nikolàevič Tolstòj (1828-1910) – Ogni uomo reca in sé, in germe, tutte le qualità umane, e talvolta ne manifesta alcune, talvolta altre, e spesso non è affatto simile a sé, pur restando sempre unico e sempre se stesso.
Lev Nicolaevič Tolstoj (1828-1910) – Non appena ho compreso l’essenza della ricchezza e del denaro, mi si è chiarito quanto in realtà sapevo già da molto.

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Jesús Marchamalo – Toccare i libri. Una passeggiata romantica e sensuale tra le pagine in tempi come i nostri di vertigine digitale.

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Toccare i libri

Toccare i libri

 

«In tempi come i nostri di vertigine digitale, in cui la tecnologia mette a repentaglio il futuro del libro quale noi lo conosciamo, Toccare i libri propone una difesa appassionata, complice e ironica, a volte umoristica, del libro e della lettura: parla del suono della carta, delle orecchie sugli angoli, degli appunti sui margini, delle dediche… Una rivendicazione con un pizzico di nostalgia anticipata – e ci auguriamo gratuita – di quello che significa vivere con i libri: gli scaffali strapieni, le pile negli angoli, i libri prestati, il disordine funesto, incorreggibile».

Jesús Marchamalo, Toccare i libri. Una passeggiata romantica e sensuale tra le pagine, Ponte alle Grazie, 2011.

 

 

Quarta di copertina

 Se vi piace toccare i libri, e lo state facendo anche ora, sapete di cosa parliamo. Libri. Da leggere, da sfogliare, da desiderare e da possedere, da perdere, prestare e regalare. Libri da contare, da sistemare, da classificare. Amici per una vita o incontri di un solo giorno, ricordati per sempre o subito dimenticati; libri illeggibili, letti e riletti... Nella passeggiata lungo queste pagine incontriamo tanti lettori illustri, curiosiamo nelle loro biblioteche e veniamo a sapere delle loro buone e cattive abitudini di lettura, talvolta così simili alle nostre. Quanti libri è possibile leggere in una vita? In che modo disporli? Come fare quando sono troppi? Ci piacciono di più tenuti come nuovi o un po’ maltrattati? Bisogna davvero leggerli tutti, o certi sono fatti apposta per non esserlo? Jesús Marchamalo racconta gli intrecci e i personaggi della grande storia d’amore fra libri e lettori con la divertita partecipazione di un innamorato che la sa lunga, e argutamente ci ricorda che come tutte le passioni, anche questa dev’essere assaporata con un po’ di sana ironia.

 


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David Herbert Lawrence (1885-1930) – Tutta la loro vita si basa sul denaro che spendono. Se si potesse soltanto dir loro che vivere e spendere non sono la stessa cosa. Il denaro avvelena quelli che ne hanno e affama quelli che ne sono privi.

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«Parlano molto di nazionalizzazione: dei profitti, nazionalizzazione di tutta l’industria. Ma non si può nazionalizzare e lasciare le altre industrie come sono. […] Gli operai sono molto
apatici. Sentono che tutta la maledetta baracca è destinata alla rovina, e credo che abbiano ragione. E anch’ essi sono rovinati nello stesso tempo. Alcuni, fra i giovani, strepitano per costituire un ‘Soviet’ ma senza molta convinzione. Non sono veramente convinti di niente, senonché tutto è confusione e imbroglio. […] Gli uomini sono muti e sentono una condanna fatale e vanno in giro come se non ci fosse nulla da fare.
In ogni modo, nessuno sa che cosa si dovrebbe fare, nonostante tutte le chiacchiere, i giovani sono furiosi perché non hanno denaro da spendere, tutta la loro vita si basa sul denaro che spendono, e ora il denaro è finito.
[…] Se si potesse soltanto dir loro che vivere e spendere non sono la stessa cosa! Ma non serve a nulla. […] Dovrebbero imparare ad essere nudi e belli, a cantare in massa, a ballare le antiche danze in gruppo, a intagliare gli sgabelli su cui seggono e a ricamare i propri simboli. Allora non avrebbero pili bisogno di denaro. Questo è il solo mezzo per risolvere il problema industriale: insegnare al popolo a vivere e vÌvere in bellezza, senza bisogno di spendere. […]
Il denaro avvelena quelli che ne hanno e affama quelli che ne sono privi.
[…]  Sento il diavolo nell’ aria, e cercherà di afferrarci. O , forse, non il diavolo ma Mammona, il quale non è altra cosa, credo, se non la volontà collettiva degli uomini che vogliono il denaro e odiano la vita.
Comunque sento nell’aria grandi mani bianche avide che tentano di prendere per la gola e di far schizzar fuori la vita a chiunque cerca di vivere, vivere di là del denaro. I brutti
tempi si avvicinano. Si avvicinano i brutti tempi, ragazzi, si avvicinano: se le cose rimangono come sono, l’avvenire non offre che morte e distruzione alle masse industriali. […] Tutte le sciagure che sono accadute non sono state in grado di far appassire i fiori, e neppure l’amore delle donne. Perciò non potranno spegnere il mio desiderio di te né la piccola luce fra te e me. L’anno venturo saremo insieme. E sebbene abbia paura, credo nella nostra unione. L’uomo deve difendersi e fare del suo meglio, e poi avere fiducia in qualche cosa che lo superi. La sola precauzione che si può prendere contro il futuro è quella di credere in quanto si ha di meglio in se stessi e credere nella potenza che ci supera. Perciò credo nella piccola fiamma che arde fra noi».

 

David Herbert Lawrence, L’amante di Lady Chatterley [1928], Mondadori, 1947, pp. 371-372.

 

 


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Daniele Orlandi – Quell’amore di Dino Buzzati

Dino Buzzati - Un amore

 

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Daniele Orlandi, Quell’amore di Dino Buzzati

 

Daniele Orlandi

Quell’amore di Dino Buzzati

 

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Taïde è, la puttana che rispuose
 al drudo suo quando disse “Ho io grazie
 grandi appo te?”: “Anzi maravigliose!” 

Dante, Inferno, XVIII, 133-135

 

Ci si può innamorare di una prostituta? Ragionavamo durante un corso illuminato del sempre caro professor Carmine Chiodo. Aula calda di corpi stipati e oltre i vetri la brina sui campi di mattine irreversibilmente perdute.
In termini di letteratura, ci dicevano – da Lesbia a Teodora[1], da Dulcinea del Toboso a Bocca di Rosa –, la risposta è affermativa. È possibile, anzi probabile, perdere la testa per una donna che, palesemente o sotto copertura, svolga la Professione. Oppure, e forse ancor di più, di una donna che non svolgendola ma guardandoci negli occhi, senza infingimenti alcuni dichiari: ebbene sì, in pensieri, parole, opere e omissioni io sono una puttana.

Un amore 02

Un amore 08

Un amore 07 A Love Affair

 

A questa antica domanda cercava di rispondere, con uno scavo interiore per l’epoca inaudito, anche Un amore. Libro coraggiosamente uscito nel 1963, anno straordinario in cui nelle patrie lettere venivano pubblicati romanzi epocali: da La cognizione del dolore di Gadda a La tregua di Primo Levi, da Lessico famigliare di Natalia Ginzburg a Una questione privata di Beppe Fenoglio. E ci fermiamo, altrimenti dovremmo aggiungere Fratelli d’Italia di Arbasino, Teorema di Pasolini o La giornata di uno scrutatore di Italo Calvino. Dovremmo disquisire sull’iconoclastia avanguardista del Gruppo ’63 e insomma, di questo ultimo anno del supposto boom economico di certo non verremmo più a capo.
Dicevamo: amare una donna imprendibile come la Fortezza Bastiani nel noto deserto di affettività. Una donna di facili costumi. Nell’Italia del Musichiere e delle prime lavatrici ma ancora nel paese della “Buon costume”. È fin troppo banale, per noi sopravvissuti al Novecento, costatare come il problema non stia nell’antinferno della promiscuità e della condivisione di lei con altri innumerevoli individui, quanto (nel caso non infrequente che la donna in questione del meretricio abbia sinanco la smaniosa indole) nella malebolgia della paura, nel panico di perderla, nell’insostenibile angoscia che da un momento all’altro possa dileguarsi, rendersi introvabile. Poiché qualcuno, prima o poi, le offrirà di più. Affitterà quella compagnia di carne e sangue a un prezzo maggiore (non migliore) lasciandoci tra le mani un amore di terra e pioggia.
Se poi, i due provenissero da incomunicabili umanità, voglio dire se lui fosse, mettiamo il caso un operaio o, peggio ancora, un intellettuale e lei una di quelle persone per cui una Mercedes SLK, una borsetta di Louis Vuitton e un ristorante blasonato contano incommensurabilmente di più di un romanzo, che so io, di Dino Buzzati, be’, in tal caso per lo sventurato amante l’approdo della sua ingestibile passione non potrebbe essere che la rinuncia o la rovina:

Intanto egli si sente precipitare sempre più giù, gli viene in mente il professore Unrath dell’Angelo azzurro. Oh come era vera quella storia […] Uno stimato professore di ginnasio degradarsi a quel punto. Oggi capisce. L’amore? È una maledizione che piomba addosso e resistere è impossibile[2].

Insomma, non serve che lei sia bella come Marlene Dietrich: un conto è saperla spregiudicata, altra storia è vederla puttana, essere osservatori partecipanti della sua inclinazione. C’è da impazzire. Perché lei, nel frattempo, è diventata simbolo vivo, quasi diremmo “logos incarnato” di un universo a te misterioso, fatto di cose che non sai, di locali proibiti, pubblicamente disprezzati ma oscuramente desiderati; ma, soprattutto, a te interdetto. Una vita che, pur a volerlo, non sapresti vivere. «Credete a chi n’ha fatto esperimento», direbbe l’Ariosto alle prese con la pazzia di Orlando, «che questo è ‘l duol che tutti gli altri passa» (dal Furioso, XXIII, 114-115).
A siffatto tormento si può forse contraporre soltanto l’analgesico di una pregressa esperienza. Ma, per sua triste fortuna, il protagonista del libro a cui si invita, l’architetto cinquantenne Antonio Dorigo, entrava in questo amore con commovente inconsapevolezza. E fu

come se quella ragazza fosse diversa dalle solite. Come se fra loro due dovessero succedere molte altre cose […] Come se ci fosse stata una predestinazione. Come quando uno, senza alcun particolare sintomo, ha la sensazione di stare per ammalarsi, ma non sa di che cosa né il motivo[3].

La squisita esattezza di queste righe. Una predestinazione, scrive l’autore e il personaggio inizia a crederci. Un po’ come la storia di quei due che «da sempre si cercavano nell’infinito dei mondi» e «all’ultimo s’erano una buona volta incontrati»[4], come racconterà, tre anni dopo, Giuseppe Berto, in un altro grande e dimenticato romanzo.
Se è così che ci s’innamora di una donna, sarà anche così che ci s’innamorerà di una prostituta.

***

Per noi bambini negli indomiti anni Ottanta, Dino Buzzati Traverso (Belluno, 1906 – Milano, 1972) era una firma in calce a qualche novella natalizia nel sussidiario di scuola elementare[5]. Con l’adolescenza venne anche il tempo di saperlo uno scrittore a tutti gli effetti e sarebbe con ogni probabilità finita lì se qualcuno tra noi non avesse commesso il fatale giovanile errore di intraprendere l’università e scoprire che razza di narratore fosse.
Uomo di molti mestieri. Giornalista di punta, grande elzevirista, del «Corriere della sera» (I misteri d’Italia, 1978), drammaturgo (Un caso clinico, 1953; Drammatica fine di un noto musicista, 1955), fumettista (Poema a fumetti, 1969; I miracoli di Val Morel, 1971), poeta (Tre colpi alla porta, 1965), critico d’arte e pittore egli stesso.

Bàrnabo delle montagne

Bàrnabo delle montagne

Attività ancelle di quella che lo ha reso celebre sia come romanziere (aveva, per dire, esordito con Bàrnabo delle montagne, 1933, seguito dalla mirabile storia del “Vento Matteo” in Il segreto del Bosco Vecchio, del 1935) sia come autore di short stories. Nel 1958, i Sessanta racconti, antologia che comprende fulminanti pezzi di bravura sull’indecifrabilità del reale come Qualcosa era successo, I sette messaggeri, Paura alla Scala, Sette piani, Il crollo della Balinverna, Il mantello, per citare soltanto i nostri prediletti, vincono il Premio Strega, distanziando di diciassette punti nientemeno che Carlo Cassola.
È qui, forse, che il cronista letterato – o letterato proprio perché cronista, con una lunga gavetta alla “nera” – dà il meglio di sé e grazie alle sue atmosfere fantastiche, a tratti oniriche ma soprattutto asfittiche e inquietanti, come di un’entità impalpabile che t’insegue o attende dietro l’angolo, va meritandosi l’appellativo di Kafka italiano che il Nostro ha tuttavia sempre fermamente rifiutato[6].
Eppure non ci piacciono le sinossi da libro di testo, i profili biografici da quarta di copertina. Un autore va letto nella sua interezza e a citarne due titoli a caso non si capisce nulla. Dunque è per necessità di sintesi se diciamo che per noi Dino Buzzati era sostanzialmente il suo capolavoro, ineliminabile riferimento e termine di paragone irrinunciabile in ogni discorso su di lui: Il deserto dei Tartari, cronaca di una guerra imminente nell’Italia in guerra per davvero, che Rizzoli pubblicava per i suoi tipi, nel funesto giugno 1940. Esattamente nel mese delle “decisioni irrevocabili” annunciate urbi et orbi da un balcone di Piazza Venezia.

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Il deserto dei Tartari

Era l’epopea dell’antiepos e della solitudine, enorme metafora della vita come attesa da riempire di un nulla che si ripete di continuo. Il deserto dei Tartari, certo. La storia senza tempo del sottotenente Giovanni Drogo, aspettando un nemico che non arriva, un messaggio che non giungerà. Mai. Era il 1976 quando Giancarlo Giannini prestava la sua voce a Jacques Perrin nel film di Valerio Zurlini, in cui entrava anche un sex symbol dell’epoca come Giuliano Gemma.
Tuttavia, ci sta a cuore una considerazione. Dino Buzzati, non v’è dubbio, è stato uno scrittore famoso e premiato. Basti dire che Albert Camus, il più giovane Nobel della storia, curò l’adattamento francese di Un caso clinico (Un cas intéressant, 1955), pièce teatrale tratta dal racconto Sette piani. Ciononostante, non sapremmo stabilire se questa notorietà sia stata presto dimenticata o sproporzionata alla caratura artistica dell’uomo. Pare, in sostanza, che non sia stata goduta fino in fondo, data quasi per scontata, poco scoperta. Negli inserti culturali dei quotidiani sembra che nessuno ne parli più.
Ci domandiamo chi in una breve lista di grandi autori italiani del XX secolo metterebbe senza esitare Dino Buzzati. Noi sì, ma la critica? Quella di ieri, sicuramente no. Quella di oggi, lentamente, pare stia lavorando per colmare questa lacuna. C’è ancora molto da fare, comunque, se ancora lo ricordiamo essenzialmente per Il deserto dei Tartari. «Sono tanti», è stato scritto a ragione, «gli scrittori-cronisti-pubblicisti-redattori-inviati che faticano ad avere un peso culturale duraturo, apparendo talora “satelliti” nel nostro canone letterario»[7].
Sono temi che lasciamo volentieri agli accademici e ai buzzatiani. Qui, ci limitiamo soltanto a sottolineare come il giovane soldato in camicia nera avesse fatto i conti col Ventennio in modo del tutto privato, senza giungere alla celebrità per la via mestra del neorealismo e senza divenire “organico” alla congerie culturale dei vincitori. Questo conservatorismo all’antica gli aveva inimicato i letterati marxisti, che nel secondo dopoguerra stavano a rappresentare quasi l’intera classe degli intellettuali italiani. Fino all’accusa di reazionarismo, ovviamente[8]. Buzzati continuava, nonostante questo, a rifiutare tanto la religione dell’impegno quanto le etichette (del fantastico o del realismo magico, del surrealismo) che la critica gli affibbiava nei tentativi di catalogare la sua sfuggente poetica.

***

Ma, chiediamo ostinati: avete mai provato a mettere da parte tutto quello che sapete di Dino Buzzati, tutte le nebulose, i sentito dire e ogni reminiscenza scolastica e leggere Un amore? L’esperienza è forte, drammaticamente gradevole. Senz’altro coinvolgente. Il libro non risente dei suoi cinquantanni. Non teme le mode del presente che ragionano su “anatomie” di sentimenti e passioni. Buzzati, questo sentimento – questo ronzio continuo e inaffidabile che dice “Senti? Mento!”, lo ha dissezionato come su un tavolo autoptico, contemporaneo prima dei contemporanei.
Per incontrare di nuovo certe atmosfere bisognerà attendere il secco Una spina nel cuore di Piero Chiara (1979), l’inevitabile Eutanasia di un amore di Giorgio Saviane (1976) o sbarcare sui lidi del postumo incompiuto, ossessivo L’odore del sangue, di Goffredo Parise (1997). Stupefacente come questi titoli, ma non solo, siano debitori all’introspezione di Un amore.
In poco più di duecentocinquanta pagine, Buzzati abbraccia tutti i generi senza farsene inglobare. È un romanzo rosa senza sentimentalismi, è uno psychological novel senza lettino, è un giallo senza colpevoli, un noir senza omicidio (certe ambientazioni urbane dei primi anni Sessanta ricordano la Milano scura e alevarica di Giorgio Scerbanenco) e certamente sì, è un romanzo erotico ma senza concessioni alla pornografia.
L’opera imporrebbe almeno due passaggi. Il primo, di occhi. Il secondo – dopo aver conosciuto la nostra personalissima Laide e, come Antonio, essere strati trascinati nel gorgo di un amore torbido e fraudolento -, di stomaco. Ma, direbbe Leopardi, “del cuore in nessun modo”. Perché non c’è cuore in questa malanovella, solo sabbie mobili che tirano giù senza soccorso. La condizione di Antonio, compiaciuto del suo dolore, nuovo heautontimorumenos, è stata descritta magistralmente da Eugenio Montale:

Il tema del libro è ancora la morte, non la morte fisica bensì la morte morale, la depravazione. L’abisso chiede, reclama, un abisso sempre peggiore e non c’è alcun possibile giudice che possa decretare una sentenza […] Anche una sola lacrima di pietà avrebbe reso indecente un libro che è soltanto vero, terribilmente vero [9].

Ideato e scritto a partire dal 1959, i biografi hanno visto in S. C., donna in quel periodo frequentata da Buzzati, l’ispiratrice e la protagonista di Un amore. Del resto, scriveva l’autore nei suoi diari: «L’unica per salvarmi è scrivere. Raccontare tutto, far capire il sogno ultimo dell’uomo alla porta della vecchiaia»[10]. Chiunuque abbia avuto una minima esperienza di scrittura sa quanto ciò sia l’operazione più difficile: far capire. Scrivere di una sofferenza, da dentro la sofferenza. Quando il dolore soffoca la prospettiva, la chirurgica precisione necessaria alla narrazione. Inutile dire che Dino Buzzati ce l’ha fatta. È il momento più eccentrico, in cui la biografia dell’autore coincide meglio con l’opera, non troveremo più in tutta la sua produzione un travaso simile a Un amore.
I luoghi di tolleranza erano stati aboliti cinque anni prima da un provvedimento noto come Legge Merlin. In Italia il paravento del decoro trovava realizzazione nell’ipocrisia. Le finestre cieche delle “case chiuse” affacciavano ora in appartamenti dal cuore sotterraneo, invisibile. È subito polemica, scandalo, il “caso Buzzati”. Il biasimo della più bieca, bigotta, ma trasversale ai ceti, sessuofobia cattocomunista.
In questa Milano color antracite, città parallela di clienti e “passioni recidive”, in questi palazzoni dove ogni portineria è un casellario politico, si svolge la storia di Antonio Dorigo e della ventenne Adelaide Anfossi, detta Laide (nomen omen). L’assonanza con Taide, mitologica sgualdrina, è fin troppo evidente. Non tanto la Taide dell’Eunuco terenziano né la ruffiana dantesca quanto piuttosto la Taïs di Anatole France, che danna le virtù del monaco Pafnuzio, lo stesso che l’ha fortemente voluta santa. Ma non scomodiamo il decadentismo: Laide non diverrà mai pia, nemmeno nell’ora della maternità che giunge, forse per entrambi, come una speranza fuori tempo massimo.
Antonio incontra Laide, consuma e se ne va. Come ha fatto molte altre volte, protetto dalla discrezione della signora Ermelina e dalla tariffa che garantisce e svincola dalle emozioni. Perché Antonio non concepisce, fino ad un momento prima di vedere Laide, altro amore che quello tra madre e figlio. Ma poi ci pensa su, vuole rivederla. La rivede, infatti, e qualcosa dell’oscuro fascino di lei lo attira e respinge, finché la prima ha il soppravento sulla seconda. Antonio si lascia girare dal mulinello improvviso che la giovinetta, con maestria e scolpita indifferenza, gli ha soffiato sulla superficie piatta e organizzata della sua vita.
Si è innamorato. Di una sconosciuta totale, tranne il corpo a ventimila lire l’ora. Ed eccolo discendere i ciglioni degli inferi tra mancanza, sospetto, gelosia attiva e retroattiva e un’inutilità diffusa si spalma sopra ogni cosa a cui mette mano nella vita, se lei non c’è. Perché ormai Antonio respira solo quando la vede o sa che tra poco la rivedrà. Le sue giornate si trasformano in una pausa tra un appuntamento e l’altro. Ma sa anche che Laide non è sua né di altri; come nel capolavoro pirandelliano, la giovane escort è uno, nessuno, centomila. Sicchè la commedia delle parti si muta in una tragedia shakespeariana. Misura per misura. Fino ad offrire a Laide una sorta di stipendio mensile per non vederla scomparire, per garantirsi la sua presenza. E la donna accetta.

Ascoltiamolo, in una delle pagine più derisorie e belle della letteratura italiana:

Eppure per lui è forse l’ora decisiva della vita, ed è un inferno. Se fosse malato, se gli capitasse una digrazia, se venisse messo in carcere, parenti e amici gli porterebbero l’aiuto. In questo caso no. È proibito. Anche se è terribilmente peggio. Gettato a terra, caplestato, devastato di dentro e di fuori, abbandonato nel fango, espulso a calci dalla sala. Ciononostante non c’è pietà disponibile per lui […] Ti sei creduto di poter tornare bambino? Ci voleva altra faccia che la tua. La partita è chiusa, il conto torna. Le porte si chiudono, la solitudine, il vuoto, il deserto, i muti singhiozzi che non udrà nessuno. Eccoti in porto, stupido uomo, che ti credevi chissà cosa[11].

Antonio ha inseguito una felicità inacciuffabile perché correva sulle gambe di gazzella un’altra persona. È dannato perché, come Ulisse, ha voluto provare il folle volo, andare oltre i limiti imposti dal tempo e dalla sua natura ma soprattutto dalla sua cultura: una cultura che sta storicamente perdendo.
No, pensa Antonio, in un passo struggente del libro, «l’amore non è bastato»[12].
Infine, sarà Laide a ribellarsi alla sua stessa necessità, gridando in faccia all’uomo tu mi hai sempre trattato come una puttana. Siamo al paradosso o lei in qualche modo – il suo modo, sciatto e indolente – lo ha amato? Ecco come Un amore metteva in scena il dramma del maschio italico davanti alla libertà, sia pure grossolana e arrogante, della donna; davanti alla sua consapevolezza, alla sua autodeterminazione. Un amore, ultimo romanzo italiano prima del femminismo (e prima dei Beatles), in questo senso chiudeva davvero un’epoca.
Sappiamo che l’autore confidava a un amico l’intenzione di un finale positivo[13]. Le ultime pagine restano ambigue. Ma noi ci auguriamo di no, che lei non lo abbia mai amato perché se così non fosse vorrebbe dire che davvero ogni cosa è perduta. La tragedia, non compiendosi, si ripeterebbe per sempre.

****

Se non è in grado di replicare negli occhi il film della storia e della vita, la letteratura non serve a un bel niente. Sono passati tanti anni da quella prima lettura. Il tempo ha più volte asciugato la brina di quelle fiabesche mattine universitarie. E tanti altri ne sono passati dalla seconda, quando il sole aveva ormai bruciato ogni filo d’erba di Tor Vergata e anche noi avevamo riletto Un amore dopo aver conosciuto una Laide, specifica e qualunque. Cosa resta, alfine, per noi che lo abbiamo seguito con accorata compassione, ai limiti del cordoglio? A noi che lo abbiamo sfogliato come un album di fotografie e circostanze così dolorosamente familiari?

Nulla. Se non, forse, una spietata confessione: Antonio Dorigo, c’est moi.

DANIELE ORLANDI

 

buzzati-5

 

[1] Teodora (Costantinopoli497548) è stata un’imperatrice bizantina, moglie di Giustiniano I. La sua vita dissoluta è raccontata da Procopio di Cesarea nel libello diffamatorio Anecdota (Storia segreta).

[2] D. Buzzati, Un amore, (1963), Milano, Mondadori, 200638, p. 144.

[3] Ivi, p. 37.

[4] G. Berto, La cosa buffa, Milano, Rizzoli, 1966, p. 19.

[5] D. Buzzati, Il panettone non bastò. Scritti, racconti e fiabe natalizie, a cura di L. Viganò, Milano, Mondadori, 2004.

[6] Cfr. l’elzeviro di D. Buzzati, Le case di Kafka, in «Il corriere della sera», 31 marzo 1965, scritto direttamente a Praga, dove l’autore era stato inviato dal giornale.

[7] A. R. Daniele, Satelliti del canone letterario: la “quaestio Buzzati” e la letteratura giornalistica, in I cantieri dell’italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI secolo. Atti del XVII congresso dell’ADI – Associazione degli Italianisti (Roma Sapienza, 18-21 settembre 2013), a cura di B. Alfonzetti, G. Baldassarri e F. Tomasi, Roma, Adi editore, 2014, pp. 1-13.

[8] Celebre resta l’articolo di Giorgio Bocca, I rischi e i timori di un reazionario, in «Il Giorno», 21 ottobre 1971.

[9] E. Montale, «Un amore», in «Corriere della sera», 18 aprile 1963.

[10] Citato in D. Buzzati, Un amore, cit., p. XXVII.

[11] D. Buzzati, Un amore, cit., p. 240.

[12] Ivi, p. 221.

[13] Cfr., N. Giannetto, «Sono arrivato all’ultimo capitolo…»: una preziosa lettera di Dino Buzzati a Franco Mandelli a proposito di «Un amore», in «Studi buzzantiani», VI (2001).

Buzzati alpinista

Buzzati alpinista

 


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Fernando Eros Caro – In un Paese che fu creato sterminando la popolazione che già vi risiedeva, come si fa a credere che una giuria sia infallibile? Non smettete mai di sognare.

Fernando Eros Caro01
Prigionieri dell'uomo bianco

Prigionieri dell’uomo bianco

«Il termine giusto per definire il modo in cui le scelte delle masse vengono fatte oscillare da una parte piuttosto che da un’altra è “manipolazione”. […] Dopo tutto le masse sono ingenue e credono a ciò che viene detto loro. Le loro priorità nella vita non sono fare le indagini approfondite e confrontare le cose vere. Preferiscono adagiarsi sulle argomentazioni dello stato, che dice che la legge è legge […] Poi c’è anche la tattica del “e se …”. E se la pena di morte fosse abolita, cosa accadrebbe dopo? Il sospetto nasce semplicemente dalla ignoranza delle persone! Quindi la manipolazione si limiterà a far credere falsamente che questi uomini un giorno verranno liberati. Fino a quando verrà utilizzata la tattica di istillare la paura nelle masse, si otterranno le risposte volute. […] Si può vivere, si può morire, ma nessuno dovrebbe vivere aspettando di morire».
Fernando Eros Caro

 

Non smettete mai di sognare

Non smettete mai di sognare

 

 

«La mentalità dei giurati americani sarà sempre un’incognita in un Paese che permette l’incremento dei senzatetto, l’abbandono nelle strade dei malati di mente, che sottrae il denaro all’educazione scolastica per investirlo nel prolungamento delle guerre. In un Paese che fu creato sterminando la popolazione che già vi risiedeva, come si fa a credere che una giuria sia infallibile?».

Fernando Eros Caro

 

 

 

Fernando Eros Caro

Fernando Eros Caro

FERNANDO EROS CARO CI HA LASCIATO*

Il mio fratello adottivo yaqui, Fernando Eros Caro, prigioniero da 35 anni nel braccio della morte di San Quentin, ci ha lasciato. Aveva 77 anni. Lo hanno trovato senza vita nella sua cella, il 28 gennaio. Non si sa come sia morto, al telefono il medico diceva che le sue condizioni di salute erano buone. La stranezza è che nel giro di pochi giorni è deceduto anche un altro detenuto a San Quentin. L’unica consolazione per Fernando è che adesso non dovrà più subire il degradante protocollo delle sentenze capitali. Qui una poesia che scrissi per lui nel 2007, il giorno successivo al nostro primo incontro in carcere…

***

FRATELLO NEL BRACCIO
(a mio fratello Fernando Eros Caro)

Sguardi ingabbiati
in tuguri vuoti di speranza
tombe di carne ancora sorridono
nella vergogna smarrita dell’umanità
fioriscono volti d’innocenza incompiuta.

Mi sento colpevole mille volte
per quanto non lo sia
per quanto non condivida
per quanto mi opponga in ogni modo
che ogni modo non è mai abbastanza.

Straniero in questo campo di morte
l’orizzonte chiuso di vite a perdere
gente! qui nessuno uccide o viene ucciso
soltanto burocrazia da smaltire
nell’immarcescibile banalità dell’orrore.

Ho stretto le tue mani dopo
un gelido click di manette
ci narriamo l’infinito dagli occhi
viaggiando in ogni possibile dove
passi invisibili oltre, oltre
oltre cancelli & secondini.

Un uomo a due gabbie da noi
barcolla come un grido spezzato
col suo dolore implorante dentro
gli occhiali più grandi del viso
prego lacrime nelle sue ferite.

Una bambina piange suo padre
forse per l’ultima volta
fuori di qui, al di là di questi muri
la libertà tace come un privilegio incompreso
ciascuno torna alla sua
quotidiana prigione.

ma tu, Yoeme, persona antica
tu, Saai Maso, popolo del cervo
fratello mio
tu, storia vivente
resistere da più di 500 anni
tu, davanti a me, come un’alba
non ti piegherai, non ti piegheranno
il tuo dono è il mio sogno

un saluto Yaqui da lasciare al vento
nello spirito che evade all’incubo
sul nostro abbraccio che non finisce
che non finisce
mai!

––––– Marco Cinque –––––––

(*) postato su Facebook e poi segnalato in rete.
Nella foto qui sotto Marco e Fernando insieme.

***

 

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Marco Cinque, Cha Cha (sorella di Fernando) e Farnando
nella cella delle visite del braccio della morte di San Quentin.

Saai Maso. Fratello Cervo

Saai Maso. Fratello Cervo




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Marco Cinque – FERNANDO EROS CARO CI HA LASCIATO. «Il tuo dono è il mio sogno / un saluto Yaqui da lasciare al vento».

Marco Cinque 01

«Il termine giusto per definire il modo in cui le scelte delle masse vengono fatte oscillare da una parte piuttosto che da un’altra è “manipolazione”. […] Dopo tutto le masse sono ingenue e credono a ciò che viene detto loro. Le loro priorità nella vita non sono fare le indagini approfondite e confrontare le cose vere. Preferiscono adagiarsi sulle argomentazioni dello stato, che dice che la legge è legge […] Poi c’è anche la tattica del “e se …”. E se la pena di morte fosse abolita, cosa accadrebbe dopo? Il sospetto nasce semplicemente dalla ignoranza delle persone! Quindi la manipolazione si limiterà a far credere falsamente che questi uomini un giorno verranno liberati. Fino a quando verrà utilizzata la tattica di istillare la paura nelle masse, si otterranno le risposte volute. […] Si può vivere, si può morire, ma nessuno dovrebbe vivere aspettando di morire».
Fernando Eros Caro

 

Fernando Eros Caro

Fernando Eros Caro

FERNANDO EROS CARO CI HA LASCIATO*

Il mio fratello adottivo yaqui, Fernando Eros Caro, prigioniero da 35 anni nel braccio della morte di San Quentin, ci ha lasciato. Aveva 77 anni. Lo hanno trovato senza vita nella sua cella, il 28 gennaio. Non si sa come sia morto, al telefono il medico diceva che le sue condizioni di salute erano buone. La stranezza è che nel giro di pochi giorni è deceduto anche un altro detenuto a San Quentin. L’unica consolazione per Fernando è che adesso non dovrà più subire il degradante protocollo delle sentenze capitali. Qui una poesia che scrissi per lui nel 2007, il giorno successivo al nostro primo incontro in carcere…

***

FRATELLO NEL BRACCIO
(a mio fratello Fernando Eros Caro)

Sguardi ingabbiati
in tuguri vuoti di speranza
tombe di carne ancora sorridono
nella vergogna smarrita dell’umanità
fioriscono volti d’innocenza incompiuta.

Mi sento colpevole mille volte
per quanto non lo sia
per quanto non condivida
per quanto mi opponga in ogni modo
che ogni modo non è mai abbastanza.

Straniero in questo campo di morte
l’orizzonte chiuso di vite a perdere
gente! qui nessuno uccide o viene ucciso
soltanto burocrazia da smaltire
nell’immarcescibile banalità dell’orrore.

Ho stretto le tue mani dopo
un gelido click di manette
ci narriamo l’infinito dagli occhi
viaggiando in ogni possibile dove
passi invisibili oltre, oltre
oltre cancelli & secondini.

Un uomo a due gabbie da noi
barcolla come un grido spezzato
col suo dolore implorante dentro
gli occhiali più grandi del viso
prego lacrime nelle sue ferite.

Una bambina piange suo padre
forse per l’ultima volta
fuori di qui, al di là di questi muri
la libertà tace come un privilegio incompreso
ciascuno torna alla sua
quotidiana prigione.

ma tu, Yoeme, persona antica
tu, Saai Maso, popolo del cervo
fratello mio
tu, storia vivente
resistere da più di 500 anni
tu, davanti a me, come un’alba
non ti piegherai, non ti piegheranno
il tuo dono è il mio sogno

un saluto Yaqui da lasciare al vento
nello spirito che evade all’incubo
sul nostro abbraccio che non finisce
che non finisce
mai!

––––– Marco Cinque –––––––

(*) postato su Facebook e poi segnalato in rete.
Nella foto qui sotto Marco e Fernando insieme.

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Marco Cinque, Cha Cha (sorella di Fernando) e Farnando
nella cella delle visite del braccio della morte di San Quentin.


 

 

 

 

Civiltà Cannibali

Civiltà Cannibali

 

Marco Cinque, Civiltà cannibali, Edizioni Montedit, 2004.
Questo libro di Marco Cinque arriva in un momento particolare. Particolare ma preannunciato. Siamo in guerra, una guerra totale, assurda, sudicia. Ci siamo dentro tutti, armati e disarmati. Correi della catastrofe, dello sprofondamento della civiltà. E che cosa può fare un libro di poesia? I poeti possiedono le parole, ma le parole sono nude, usurate, svilite. Tuttavia, sono le parole le loro armi. Parole come pietre, come sassi, come gridi di ribellione e di speranza. Irriducibili.
La poesia non salva il mondo. Non scongiura la follia. Non ferma le guerre, gli eccidi, le mostruosità. Ma senza la poesia la tragica stupidità del mondo vincerebbe. E dunque, c’è bisogno di poesia. E c’è bisogno di poesia come questa. Le strade della poesia sono tante e tortuose e tutte hanno licenza di percorrimento. Sfuggendo alle definizioni, la poesia ci induce a prendere scorciatoie per semplificare: lirica, epica, civile (come se potesse esistere una poesia incivile). La poesia è sempre civile, intendendo per “civile” il grado di coinvolgimento, l’impegno, il mettersi in gioco, mente e cuore.
È il caso di questo libro coinvolgente, appassionante, necessario, dove le ragioni della poesia passano forse in seconda linea. L’imperativo per l’Autore è dire, è schierarsi contro ogni tipo di barbarie con la coscienza di uomo consapevole delle proprie armi e dei propri limiti. Sotto la penna vorace di Cinque scorre il mondo terribile e meraviglioso: diversi, emarginati, prigionieri in attesa della morte, bambini difficili, barboni, guerre, missili, sogni, amore, inganni e ombre rosse, tamburi e libertà, pace e stragi, e genocidi… Lui guarda col cuore e parla, scrive, suona, fotografa…
Le sue ballate sono fatte per essere dette a più voci, cantate in coro, nelle piazze. Parlano spietatamente di morte e evocano fortemente la vita, la gioia di vivere, l’innocenza, la grazia, la poesia dei bambini. Perché Marco sa che i bambini sono poeti. Non a caso i destinatari privilegiati sono proprio loro, quei bambini, che nei suoi viaggi nelle scuole Marco riesce a stupire e coinvolgere come un mago delle parole e delle meraviglie. “Da piccoli siamo tutti analfabeti e poeti. Quando diventiamo grandi impariamo a leggere e scrivere, ma spesso perdiamo la poesia”, dice Marco.
Lui, la poesia non l’ha perduta.
SignorNò

SignorNò

 

 

finepenamai

Finepenamai



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Lev Nicolaevič Tolstoj (1828-1910) – Non appena ho compreso l’essenza della ricchezza e del denaro, mi si è chiarito quanto in realtà sapevo già da molto.

Tolstoj Lev 26

 

 

Che fare, dunque

logo Fazi

 

«Non appena ho compreso l’essenza della ricchezza e del denaro, mi si è chiarito quanto in realtà sapevo già da molto, la verità che dai tempi più remoti hanno consegnato agli uomini Buddha, Isaia, Lao Tze, Socrate, e con particolare chiarezza e indiscutibilità Gesù Cristo e il suo predecessore, Giovanni Battista».

Lev Nicolaevič Tolstoj

 

«Primo: non mentire mai a se stessi,
per quanto il mio percorso esistenziale possa essere lontano
dalla via indicatami dalla ragione.

 

Secondo: rinunciare alla consapevolezza dei propri meriti e peculiarità
e riconoscere la propria fallacia.

 

Terzo: adempiere con il lavoro
all’obbligo inconfutabile del nostro vivere,
senza vergognsrsi di alcun tipo di attività svolta».

 

Lev Nicolaevič Tolstoj, Che fare dunque? Legge, archetipo e mito, traduzione di Flavia Sigona, Fazi, Roma, pp. 246, 2017.

 

 


Risvolto di copertina
Dopo essere stato a lungo a contatto con i contadini poverissimi e oppressi della campagna russa, sulla soglia dei sessant’anni Tolstoj scopre la terribile miseria metropolitana degli operai e dei senzatetto della città in cui vive d’inverno, Mosca, agli inizi del suo processo di industrializzazione. Ogni giorno, verso il tramonto, esce dalla sua bellissima villa in mezzo a un parco non lontano dal Cremlino e vaga per le strade per indagare come si vive nei quartieri popolari. Di fronte a un’umanità disperata e derelitta che si difende come può dalla fame e dal freddo, Tolstoj sente la sua ricchezza come una colpa. Non solo ha ereditato un enorme patrimonio, ma ora, dopo il successo di Guerra e pace e Anna Karenina, ogni anno guadagna un’ingente somma con i suoi libri che vengono venduti al prezzo medio-alto di diciassette rubli, denaro che proviene dalle tasche di piccolo-borghesi e studenti squattrinati. Gli capita addirittura di portare a casa qualche ragazzino indigente raccattato per strada, provocando l’ira della moglie e dei suoi figli maschi (le figlie gli sono più vicine e comprendono meglio il suo travaglio interiore). E mentre riflette su «Che fare?» si impegna in una raccolta di fondi presso i suoi amici facoltosi e si dedica allo studio dell’Economia politica, leggendo attentamente La ricchezza delle nazioni di Adam Smith. La scintilla di intelligenza divina che Tolstoj è, anche applicata all’economia, produce risultati meravigliosi.Che fare, dunque? è ancora oggi un libro di grandissima attualità, sia quando parla di problemi morali o analizza le enormi diseguaglianze sociali, sia quando si occupa della vera natura della moneta e dei meccanismi dell’economia di mercato, ma soprattutto quando insiste sulla necessità imprescindibile di una rinascita spirituale dell’Occidente e dell’Oriente.

 

Sfoglia il libro


Lev Nikolàevič Tolstòj (1828-1910) – Tutti i grandi cambiamenti cominciano e si compiono nel pensiero
Lev Tolstoj (1828-1910) – L’elevazione del lavoro a virtù è altrettanto assurda come l’innalzamento del nutrirsi dell’uomo a dignità e a virtù. nella nostra società falsamente ordinata, esso è per lo più un mezzo che uccide la sensibilità morale …
Lev Tolstoj – Che cos’è l’arte: L’arte incomincia là, dove incomincia l’appena appena
Lev Nikolàevič Tolstòj (1828-1910) – In una società dove esiste, sotto qualunque forma, lo sfruttamento o la violenza, il denaro non può assolutamente rappresentare il lavoro. La semplicità è la principale condizione della bellezza morale.
Lev Nikolàevič Tolstòj (1828-1910) – Ogni uomo reca in sé, in germe, tutte le qualità umane, e talvolta ne manifesta alcune, talvolta altre, e spesso non è affatto simile a sé, pur restando sempre unico e sempre se stesso.

 


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Costanza Fiorillo – La vera uguaglianza è la libertà di essere diversi. Il contrario di differente non è uguale, ma indifferente. Questo bisogna ricordare nel «Giorno della memoria».

Indifferenza

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Un disegno di Helga Weissova, una bambina morta a Tarezin.


Io penso che ciascuno è diverso e ha diritto di esserlo.
Togliere di libertà è un’azione crudele.
Ogni uomo ha diritto di scegliere la propria religione,
il luogo in cui vivere e la persona che vuole amare.
Anch’io sono differente, come lo sono tutti i miei amici.
Il contrario di differente
non è uguale, ma indifferente.
È quello che è successo durante la persecuzione degli ebrei,
e allora indifferenti sono stati tanti uomini.
La loro indifferenza ha permesso che quella mostruosità avvenisse.
Io credo che la vera uguaglianza sia la libertà di essere diversi.

Costanza Fiorillo,

Quinta elementare, Scuola elementare di Valdibrana, Pistoia.

27 gennaio 2017


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