In ricordo di Antonio Melis. Testimonianze di: Antonio Prete, Riccardo Badini, Maurizio Masini, Daniela Brogi, Mauro Chechi, Antonella Cancellier, Martha Canfield, Romano Luperini, Pietro Clemente, Giovanni Preto, Giovanni Bartolomei, Flavio Fiorani, Manuel Plana, Guido Melis.

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Ricordo di Antonio Melis – Antonio Prete

Antonio Prete

Antonio Prete

«Antonio Melis è stato un ponte sempre attivo, sempre transitabile, un ponte con una serie di culture, non una cultura, ma le tante che il mondo latino americano raccoglieva in sé … Antonio era un tessitore … di relazioni culturali e intellettuali, ed era conosciutissimo in questo suo tessere relazioni … Questa sua conoscenza così plurale, così diffusa, la teneva con leggerezza: mai un atto di supponenza, o neppure di orgoglio. Per lui, studioso di letterature latinoamericane, lingua latinoamericana, ma di culture latinoamericane, era normale che tenesse rapporti, conoscenze e amicizie con quel mondo, sia invitando il più possibile questi personaggi, sia entrando in relazione con loro, sia traducendoli. Antonio è stato un grande traduttore, ha tradotto moltissimo, ha fatto conoscere in Italia grandi scrittori … e le sue conoscenze non erano soltanto quelle cosiddette letterarie ufficiali della cultura e della lingua ispanica, erano le conoscenze che andavano “oltre”, andavano verso le radici di quel mondo, le radici precolombiane: andavano verso le culture e le lingue indigene. E era straordinario come si muovesse verso questo orizzonte sepolto, cancellato, represso. Non solo conosceva il quechua, e traduceva dal quechua, ma ha imparato rapidamente una lingua nuova, la lingua dei Mapuche, del popolo della terra, per poter tradurre una poetessa, che lui ha invitato, che ci ha fatto conoscere … Rayen Kvyeh, che era la prima poetessa (poetisa de la tierra) di lingua mapuche. E Antonio ha imparato questa nuova lingua per tradurre questa poetessa. Luna dei primi germogli[1] è un libro di questa poetessa tradotto in italiano… Antonio era sorprendente in queste navigazioni, in queste relazioni … E il suo lavoro non si fermava a questo, ma continuava sempre con grande rigore …»

Antonio Prete,

14 settembre 2016, Giardino della Biblioteca Umanistica della Università di Siena

[1] Un popolo che lotta per la libertà della propria cultura e che riscopre l’orgoglio di radici antichissime attraverso il canto della poesia: è il popolo mapuche del Cile. Attraverso i versi della poetessa cilena Rayen Kvyeh. Antonio Melis è il curatore e traduttore del volume, docente di lingue e letterature ispano-americane e civiltà indigene d’America all’Università di Siena. La raccolta di poesie Luna dei primi germogli è uscita per la prima volta in Germania – paese d’esilio di Rayen negli anni della dittatura cilena – nel 1991. Per molto tempo la cultura mapuche è stata soltanto orale, linguisti e antropologi hanno raccolto il repertorio di canti in lingua mapudungun trascrivendoli con i caratteri latini e usando l’alfabeto spagnolo castigliano. L’importanza della edizione italiana bilingue (aprile 2006) di Edizioni Gorée, sta nell’aver trascritto la lingua mapudungun senza passare dall’alfabeto castigliano e nel proporre una versione italiana che non è una traduzione dallo spagnolo, ma cerca di rispettare lo spirito del testo originale.

Luuna dei primi germogli

Luuna dei primi germogli



 

Ricordo di Antonio Melis – Riccardo Badini

Riccardo Bardini

Riccardo Badini

 

«Ci eravamo recati con Antonio sulla tomba di Gamaliel Churata, a Puno in Perù, sulla sponda occidentale del lago Titicaca. Antonio, rivolgendosi allo scrittore proprio come se fosse vivo lì davanti a lui, gli disse che avremmo pubblicato le sue opere in Italia, e in quel momento io ho sentito veramente una emozione, perché in qualche modo ho capito che il sapere si trasmette in tanti modi e che intenzioni prese dal qualcun altro, vengono poi portate avanti in altro modo da altri. Penso che questa sia stata una delle ultime, tra le tante, lezioni che Antonio mi ha dato».

Riccardo Badini


Maurizio Masini

Maurizio Masini

«La cosa più bella che mi ha insegnato è che mi ha insegnato a insegnare».

Maurizio Masini


Ricordo di Antonio Melis – Daniela Brogi

Daniela Brogi

Daniela Brogi

«Antonio diceva sempre sì alla vita …, ma era anche capace di dire no, con una fermezza, … con una vitalità assolute. Lui mi ha fatto capire che studiare è importante, ma non basta per avere la lode dei migliori. E di questa comprensione gli sarò sempre molto grata, e cercherò di tenere in vita il più possibile questa memoria, questa presenza di Antonio».

Daniela Brogi


Ricordo di Antonio Melis – Mauro Chechi

 

Mauro Chechi

Mauro Chechi

 

«Antonio era vestito come noi. Nessuno avrebbe detto che era un professore universitario. Parlava in modo molto semplice, ma con concetti molto profondi …».

Mauro Chechi


Ricordo di Antonio Melis – Antonella Cancellier

 

Antonella Cancellier

Antonella Cancellier

 

«Ho imparato da Antonio come avvicinarsi all’America Latina, con molta delicatezza … Lui ha lasciato il suo cuore nelle Ande che amava tantissimo …».

Antonella Cancellier


Ricordo di Antonio Melis – Martha Canfield

 

Martha Canfield

Martha Canfield

 

«Antonio è stato più che un collega, è stato un amico carissimo e molto vicino ad ognuno di noi e agli studenti… Ciò che desidero sottolineare di lui  è la sua straordinaria umanità che emergeva nei suoi rapporti… e anche il quel suo “umorismo” … Solo lui sapeva giocarein modo così stupefacente con l’italiano e lo spagnolo, che conosceva in maniera straordinaria … Aveva anche uno spiccato senso ludico del rapporto con la cultura. Il poeta peruviano Antonio Cisneros era amico di Antonio ed a lui ha dedicato una poesia, il cui tema è la memoria, dove la memoria non è legata a grandi eventi o a grandi cose, ma a piccole cose che costituiscono semplicemente la quotidianità e l’emotività. Antonio Cisneros parlando di Antonio Melis faceva appello in questa poesia a questo tipo di memoria, e credo che qui ci ritroviamo tutti a evocare qui anche il nostro Antonio …».

Martha Canfield

Antonio Cisneros

Antonio Cisneros

 


Ricordo di Antonio Melis – Romano Luperini

Romano Luperini

Romano Luperini

«Non credo che basti l’Università per definire il profilo di una persona, ed infatti i miei ricordi di Antonio sono soprattutto fuori dell’Università anche se con Antonio Melis e con Antonio Prete siamo stati tra i fondatori di questa Università… In primavera facevamo lezione all’aperto; tutte le cariche erano a turno: non c’era competizione, non c’era sopraffazione. Questa comunità di docenti e di studenti era una comunità, per dir così, innocente. Prima di quella società di oggi invece basata sul controllo reciproco, sulla sopraffazione, oppure sulla valutazione e sull’autovalutazione; prima della burocratizzazione che è avvenuta poi nell’Università. Ciò che importava era insegnare, divertirsi a insegnare, imparare, imparare insieme. Questa atmosfera oggi è letteralmente inimmaginabile. Antonio è stato uno dei protagonisti di questa comunità, pre-gerarchica. I miei ricordi più vivi … sono comunque fuori dell’Università … Ho conosciuto Antonio nel 1965 … quando io e lui avevamo 24-25 anni, e l’ho conosciuto ad una riunione indetta da Ferruccio Rossi-Landi, per la rivista Ideologie, dato che Rossi-Landi voleva fare un numero su Cuba … Melis ed io ci siamo trovati a collaborare insieme a questa rivista … E lo ricordo quando si è presentato ad una riunione con i pantaloni corti: parlava sommessamente, in questo suo modo mite e discreto, assolutamente alieno (ciò che me lo ha reso sempre caro) da qualsiasi forma di narcisismo … Non solo ha insegnato ad amare la cultura, ma ha insegnato a vivere, e questo è ancora più importante».

Romano Luperini


Ricordo di Antonio Melis – Pietro Clemente

 

Pietro Clemente

Pietro Clemente

«Nel modo di fare di Antonio c’era questa sistematica compresenza di una grandissima socievolezza e di un impegno, possiamo dire anche militanza, che era sempre leggero e ironico… Una delle caratteristiche di Antonio era di offrire in continuazione occasioni, cioè il contrario esatto dell’avarizia: Antonio era la generosità. Tutte le iniziative che intraprendeva, in qualche modo cercava di estenderle, le seminava, favoriva incontri… Antonio ha perseguito sempre un’idea della cultura non strettamente specialistica, un’idea secondo cui la cultura è qualcosa che dobbiamo diffondere, far comprendere, estendere a campi diversi per conoscere le connessioni tra i mondi che traversiamo. Antonio era un antropologo di per sé, come aveva imparato da José María Arguedas … Antonio ci lascia un po’ questo messaggio: concepire il nostro lavoro, la nostra intelligenza in un ambito della cultura in senso più generale … Lo spirito delle iniziative che si facevano per passione più che per mestiere universitario, continui ad essere presente intorno all’Università perché è il bagno d’acqua in cui vive, e si trasmette, e senza il quale rischia sempre di essere uno specialismo arido perdendo il rapporto con il mondo».

Pietro Clemente


Ricordo di Antonio Melis – Giovanni Preto

 

Giovanni Preto

Giovanni Preto

«Ho sempre apprezzato in Antonio il grande senso di umanità che aveva e la sua determinazione, il suo impegno politico e sociale».

Giovanni Preto


Ricordo di Antonio Melis – Giovanni Bartolomei

Giovanni Bartolomei

Giovanni Bartolomei

 

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Condor Melis

Per Antonio Melis

Un giorno Antonio perse braccia e mani
ma acquistò l’ali se se ne volò via.
Un Condor Pasa lasciò l’Illimani
e oggi ci sorvola per magia.
Magia della memoria degli umani
che quando quell’oscura lotteria
si porta via un amico od un maestro
di conservar l’essenza ha l’arte e l’estro.

Gli umani non son bestie da capestro,
la libertà gli guida nel cammino
e sanno liberarsi dal sequestro
che gli imprigiona a quel fatal destino.
L’irrazionale emisfero destro
ci fa sentire Antonio a noi vicino
e il razional sinistro man ci dà
a rammentar del Melis la realtà.

D’Antonio proprio tutto mancherà:
L’arguzia e la sapiente parlantina,
il suo ascolto attento, l’onestà,
la sua cultura obrera y campesina.
Lloran La Paz y Lima y Bogotà,
llora toda la América Latina.
Lo piangono gli amici ed i parenti,
lo piangono i compagni qui presenti.

Antonio io lo so che non mi senti
ma so che ognuno un po’ della tua essenza
porta con sé, sicché se state attenti
voi garantite qui la sua presenza.
Il sol dell’avvenire par che stenti
a sorgere ma sento l’incombenza
di dire che ogni uomo nasce eguale
cantando in coro l’Internazionale.

 

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Giovanni Bartolomei da Prato
14 settembre 2016

 


Ricordo di Antonio Melis – Guido Melis

Guido Melis

Guido Melis

«Desidero lasciarvi, come mio ringraziamento, il ricordo che ho quando con il mio papà e insieme a mia sorella, eravamo allora piccoli, dopo la scuola e, dopo il pranzo, andavamo in sala e mettevamo un disco, e lo ascoltavamo dall’inizio fino alla fine: questo per dirvi quanto per lui la musica fosse qualcosa di importante che permeava tutta la sua curiosità verso il sapere».

Guido Melis

 


L'Internazionale, per Antonio Melis

Ricordo di Antonio Melis – L’Internazionale

 

 


 


In ricordo di Antonio Melis

 

Testimonianze di

Martha Canfield

Università di Firenze

Flavio Fiorani

Università di Modena

Manuel Plana

Università di Firenze

 

In ricordo di Antonio Melis_Locandina

 



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Federico García Lorca (1898-1936) – La poesia è qualcosa che cammina per le strade. Il teatro è sempre stato la mia vocazione. Adesso sto lavorando a una nuova commedia. Gli uomini non riusciranno mai a immaginarsi l’allegria che esploderà il giorno della Grande Rivoluzione. Non è vero che sto parlando proprio come un socialista?

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F. G. Lorca, Poeta en Nueva York

 

«La poesia è qualcosa che cammina per le strade. Che si muove, che passa accanto a noi. Tutte le cose hanno il loro mistero, e la poesia è il mistero che hanno tutte le cose. Si passa accanto a un uomo, si guarda una donna, si percepisce l’incedere obliquo di un cane, e in ciascuno di questi oggetti umani c’è la poesia».

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«Adesso sto lavorando a una nuova commedia. Non sarà più come quelle precedenti. Adesso è un’opera della quale non posso scrivere nulla, nemmeno una riga, perché si sono liberate e vagano per l’aria la verità e la menzogna, la fame e la poesia. Mi sono sfuggite dalle pagine. La verità della commedia è un problema religioso e socio-economico. Il mondo è immobile di fronte alla fame che devasta i popoli. Finché ci sarà squilibrio economico, il mondo non potrà pensare. Ne sono sicuro. Due uomini camminano sulla riva di un fiume. Uno è ricco, l’altro è povero. Uno ha la pancia piena, l’altro insozza l’aria con i suoi sbadigli. E il ricco dice: “Che bella barca si vede sull’acqua! Guardi, guardi il giglio che fiorisce sulla riva”. E il povero dice: “Ho fame, non vedo nulla. Ho fame, tanta fame”. È naturale. Il giorno in cui la fame sparirà, si produrrà nel mondo l’esplosione spirituale più grande che l’Umanità abbia mai conosciuto. Gli uomini non riusciranno mai a immaginarsi l’allegria che esploderà il giorno della Grande Rivoluzione. Non è vero che sto parlando proprio come un socialista?».

Da un’intervista realizzata da Felipe Morales,
pubblicata su La Voz di Madrid
il 7 aprile 1936.

Traduzioine di Antonio Melis.

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Omero – Come è la stirpe delle foglie, così quella degli uomini.

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«Come è la stirpe delle foglie, così quella degli uomini.
Le foglie il vento le riversa per terra, e altre la selva
fiorendo ne genera, quando torna la primavera;
così le stirpi degli uomini, l’una cresce e l’altra declina».

Omero, Iliade, VI, 180-184, traduzione di Guido Paduano, Mondadori, 2007

 

Omero

Ritratto immaginario di Omero, copia romana del II secolo d.C. di un’opera greca del II secolo a.C. Conservato al Museo del Louvre di Parigi.

 


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Robert Walser (1878-1956) – Con grande attenzione e amore colui che passeggia deve studiare e osservare ogni minima cosa vivente. Dovremmo capire, e sentire, che colui che veramente esiste è solo l’uomo interiore.

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Robert Walser, La passeggiata, traduzione di Emilio Castellani, Adelphi, 1999.

 

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«Con grande attenzione e amore colui che passeggia deve studiare e osservare ogni minima cosa vivente: sia un bambino, un cane, una zanzara, una farfalla , un passero, un verme, un fiore, un uomo, una casa, un albero, una coccola, una chiocciola, un topo, una nuvola, un monte, una foglia, come pure un misero pezzettuccio di carta gettato via, sul quale forse un bravo scolaretto ha tracciato i suoi primi malfermi caratteri.

[…]

Guardavo attento a quanto v’era di più piccolo, di più modesto, mentre il cielo pareva inarcarsi alto e scendere profondo. La terra si faceva sogno; io stesso ero divenuto interiorità e procedevo come dentro di essa  […]. lo non ero più io, ero un altro, ma appunto perciò più che mai me stesso. Nella soave luce d’amore credetti di dover capire, o di dover sentire, che colui che veramente esiste è solo l’uomo interiore».

Robert Walser, La passeggiata, traduzione di Emilio Castellani, Adelphi, 1999

 

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Risvolto di copertina

La passeggiata (1919) è uno dei testi più perfetti di Walser, il grande scrittore svizzero che ormai, soprattutto dopo la pubblicazione delle sue opere complete, viene posto accanto a Kafka, a Rilke, a Musil – ammesso cioè fra i massimi autori di lingua tedesca del nostro secolo. Ma La passeggiata ha anche un significato peculiare in rapporto a tutta l’opera di Walser: è in certo modo la metafora della sua scrittura nomade, perpetuamente dissociata e abbandonata agli incontri più incongrui, casuali e sorprendenti, come lo è appunto ogni accanito passeggiatore – e tale Walser era –, che abbraccia amorosamente ogni particolare del circostante e insieme lo osserva da una invalicabile distanza, quella del solitario, estraneo a ogni rapporto funzionale col mondo. In un décor di piccola città svizzera, e della campagna che la circonda, il passeggiatore Walser ci guida, con la sua disperata ironia, in un labirinto della mente, abitato da figure disparate, dalle più amabili alle più inquietanti. Da Eichendorff a Mahler, il vagabondaggio è stato un archetipo ricchissimo della più radicale letteratura moderna. Tutta quella grande tradizione sembra condensarsi, quasi clandestinamente, nella Passeggiata di Walser, a cui lo scrittore ci invita col suo irresistibile tono: «Lei non crederà assolutamente possibile che in una placida passeggiata del genere io m’imbatta in giganti, abbia l’onore d’incontrare professori, visiti di passata librai e funzionari di banca, discorra con cantanti e con attrici, pranzi con signore intellettuali, vada per boschi, imposti lettere pericolose e mi azzuffi fieramente con sarti perfidi e ironici. Eppure ciò può avvenire, e io credo che in realtà sia avvenuto».

 

Winfried Georg Sebald, Il passeggiatore solitario, Adelphi, 2006

Winfried Georg Sebald, Il passeggiatore solitario, Adelphi, 2006


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Francesco Petrarca (1304-1374) – Frugati dentro severamente. Anche il conoscere molte cose, che mai rileva se siete ignoti a voi stessi?

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Secretum, Copertina di un'edizione del 1470

Secretum, Copertina di un’edizione del 1470.
Prima edizione originale tra il 1347 e il 1353.

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«Frugati dentro severamente [Excute pectus tuum acriterJ, e troverai che tutto ciò che sai, se lo paragoni a quanto ignori, pareggia la proporzione di un ruscello destinato a seccarsi per gli ardori estivi, confrontato con l’Oceano. Benché, anche il conoscere molte cose, che mai rileva se, quando bene abbiate apprese le dimensioni del cielo e della terra, l’estensione del mare e le orbite degli astri, le virtù delle erbe e delle pietre e gli arcani della natura, siete ignoti a voi stessi?».

Francesco Petrarca, Secretum o De secreto conflictu curarum mearum (“Riguardo al segreto conflitto delle mie angosce”).

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Francesco Petrarca (1304-1374) – Gloria effimera è cercar fama solo nel barbaglio delle parole: il mio lettore, almeno finché legge, voglio che sia con me. Non voglio che apprenda senza fatica ciò che senza fatica non ho scritto.

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Marsilio Ficino (1433-1499) – Il lume dello spirito più copiosamente risplende per gli occhi: perché gli occhi sono sopra gli altri membri trasparenti e nitidi.

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Sopra lo amore

«E come il sole che è cuore del mondo, per il suo corso spande il lume, e per il lume le sue virtù diffonde in terra: cos1 il cuore del corpo nostro per un suo perpetuo movimento, agitando il sangue a sé propinquo, da quello spande gli spiriti in tutto il corpo: e per quelli diffonde le scintille de’ raggi in tutti i membri, massime per gli occhi: perché lo spirito essendo levissimo facilmente saglie a le parti del corpo altissime. E il lume dello spirito più copiosamente risplende per gli occhi: perché gli occhi sono sopra gli altri membri trasparenti e nitidi».

Marsilio Ficino, Sopra lo amore ovvero Convito di Platone [1544], trad. di Neri Dortellata, a cura di Giuseppe Rensi, Carabba, Lanciano 1914


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Lev Nikolàevič Tolstòj (1828 – 1910) – «Se lascio la vita con la coscienza d’aver sciupato tutto quanto mi fu dato e che ormai non c’è più nulla da fare, allora che sarà?». Ivan Il’ič è il personaggio dell’esteriorità. La sua è un’interiorità priva di ricerca, priva di interrogazione.

Tolstoj Lev 27

Che cosa accade quando in una vita priva di risonanza interiore,

priva di raccoglimento

– di abitudine al raccoglimento presso di sé –

e dunque tutta consegnata all’esteriorità,

irrompe l’inatteso, l’altro come inatteso?

 

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La morte di Ivan Il’ič

«Gli era venuto in capo che quanto gli era fin qui sembrato assolutamente inammissibile, di aver cioè vissuto non come si doveva, potesse invece essere la verità. Gli era venuto in capo che i suoi timidissimi tentativi di ribellione a ciò che la gente altolocata stimava il bene, tentativi che subito aveva soffocato in sé – che essi soli potessero essere gusti, e tutto il resto essere sbagliato. Il suo ufficio, il suo modo di vivere, e la famiglia, e gli interessi mondani e professionali, – tutto poteva essere sbagliato. S’era provato a difendere davanti a se stesso quelle cose. E a un tratto sentiva tutta l’inconsistenza di ciò che difendeva. Non c’era niente da difendere.
“E se così è, – s’era detto – e se lascio la vita colla coscienza d’aver sciupato tutto quanto mi fu dato e che ormai non c’è più nulla da fare, allora che sarà?”. S’era così disteso supino e aveva ricominciato a considerare tutta le sua vita sotto un nuovo aspetto. E quando al mattino venne il domestico, e poi la moglie, e poi la figlia, e poi il dottore, – ogni loro gesto, ogni loro parola gli avevano confermato l’orribile verità che gli si era aperta la notte. In loro vedeva se stesso, le cose di cui aveva vissuto; e chiaramente intendeva che tutto ciò non era quello che avrebbe dovuto essere, ma solo un enorme, uno spaventoso inganno che nascondeva la vita e la morte».

 Lev Nikolàevič Tolstòj, La morte di Ivan Il’ič, trad, di Tommaso Landolfi, Rizzoli, 1989, pp. 85-86.

 

Ivan Il’ič è il personaggio dell’esteriorità,

totalmente assorbito in essa.

Ma poiché il personaggio non ha mai, fino a quel momento,

alimentato in sé un dialogo con se stesso,

ecco che l’interiorità che si vorrebbe edificare

è un’interiorità priva di ricerca, priva di interrogazione.

 

«Che cosa accade quando in una vita priva di risonanza interiore, priva di raccoglimento – di abitudine al raccoglimento presso di sé – e dunque tutta consegnata all’esteriorità, irrompe l’inatteso, l’altro come inatteso? Un racconto di Tolstoj, La morte di Ivan Il’ič, mette in scena questo incontro dell’uomo esteriore con la figura estrema che nega ogni mondanità, ogni sociale convenzione, cioè la morte. Il giudice Ivan Il’ič: ha costruito le sue giornate, e il suo pubblico apparire, la sua sociale identità comme il faut, cioè così come occorre essere, come davvero ci si attende che uno sia, quando la vita è pensata come adeguazione piena ai costumi, alle convenzioni sul piano pubblico e alle convenienze sul piano privato. In tribunale, nei salotti, in famiglia Ivan Il’ič: è sempre all’altezza della situazione. Il suo stesso matrimonio è stato piegato alle convenienze, ma per essere all’altezza non è stato separato da quel tanto di amore che è pur necessario secondo le convenzioni sociali. Ivan Il’ič è il personaggio dell’esteriorità, totalmente assorbito in essa. Nessun turbamento, nessuna esitazione, nessuna debolezza in questa identità riuscita e sicura. Ma a un certo punto l’irruzione della malattia, e con essa, il rivelarsi della morte, del suo profilo, della sua attesa, comincia a sgretolare i contorni dell’esteriorità. Rivela, di colpo, l’inautentico di un’esistenza, la quale ha cancellato, o almeno rimosso, il rapporto con la morte, l’essere per la morte. Si mostra, per la prima volta, il disegno di un’interiorità come possibile spazio di un dialogo con l’altro, con la sua misteriosa presenza. Ma poiché il personaggio non ha mai, fino a quel momento, alimentato in sé un dialogo con se stesso, ecco che l’interiorità che si vorrebbe edificare è un’interiorità priva di ricerca, priva di interrogazione. Il racconto di Tolstoj si può leggere come una sorta di drammaturgia della coscienza: lo spazio della coscienza, riempito dai richiami delle sociali abitudini, si ritrova vuoto quando la malattia impone una nuova estrema relazione, quella con la morte. Il personaggio, nella sopravvenuta solitudine, percepisce che tutto continua al di fuori di lui, senza di lui, la moglie e la figlia continuano a uscire, a incontrare un mondo, forse quello che era il suo mondo, mentre lui è prigioniero di un nuovo ospite che implacabilmente, giorno dopo giorno, lo spoglia di ogni legame con gli altri, e persino con se stesso. Ivan Il’ič cade nel gelo di un’attesa che non può né riconoscersi come attesa né stemperarsi in un dialogo, un’attesa priva di pensieri. Estraneo all’esteriorità di un tempo, estraneo all’interiorità che il nuovo tempo esige».

Antonio Prete, Il cielo nascosto. Grammatica dell’interiorità, Bollati Boringhieri, 2016, pp. 50-52.


Lev Nikolàevič Tolstòj (1828-1910) – Tutti i grandi cambiamenti cominciano e si compiono nel pensiero
Lev Tolstoj (1828-1910) – L’elevazione del lavoro a virtù è altrettanto assurda come l’innalzamento del nutrirsi dell’uomo a dignità e a virtù. nella nostra società falsamente ordinata, esso è per lo più un mezzo che uccide la sensibilità morale …
Lev Tolstoj – Che cos’è l’arte: L’arte incomincia là, dove incomincia l’appena appena
Lev Nikolàevič Tolstòj (1828-1910) – In una società dove esiste, sotto qualunque forma, lo sfruttamento o la violenza, il denaro non può assolutamente rappresentare il lavoro. La semplicità è la principale condizione della bellezza morale.
Lev Nikolàevič Tolstòj (1828-1910) – Ogni uomo reca in sé, in germe, tutte le qualità umane, e talvolta ne manifesta alcune, talvolta altre, e spesso non è affatto simile a sé, pur restando sempre unico e sempre se stesso.
Lev Nicolaevič Tolstoj (1828-1910) – Non appena ho compreso l’essenza della ricchezza e del denaro, mi si è chiarito quanto in realtà sapevo già da molto.

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Jesús Marchamalo – Toccare i libri. Una passeggiata romantica e sensuale tra le pagine in tempi come i nostri di vertigine digitale.

Marchamalo Jesús

 

Toccare i libri

Toccare i libri

 

«In tempi come i nostri di vertigine digitale, in cui la tecnologia mette a repentaglio il futuro del libro quale noi lo conosciamo, Toccare i libri propone una difesa appassionata, complice e ironica, a volte umoristica, del libro e della lettura: parla del suono della carta, delle orecchie sugli angoli, degli appunti sui margini, delle dediche… Una rivendicazione con un pizzico di nostalgia anticipata – e ci auguriamo gratuita – di quello che significa vivere con i libri: gli scaffali strapieni, le pile negli angoli, i libri prestati, il disordine funesto, incorreggibile».

Jesús Marchamalo, Toccare i libri. Una passeggiata romantica e sensuale tra le pagine, Ponte alle Grazie, 2011.

 

 

Quarta di copertina

 Se vi piace toccare i libri, e lo state facendo anche ora, sapete di cosa parliamo. Libri. Da leggere, da sfogliare, da desiderare e da possedere, da perdere, prestare e regalare. Libri da contare, da sistemare, da classificare. Amici per una vita o incontri di un solo giorno, ricordati per sempre o subito dimenticati; libri illeggibili, letti e riletti... Nella passeggiata lungo queste pagine incontriamo tanti lettori illustri, curiosiamo nelle loro biblioteche e veniamo a sapere delle loro buone e cattive abitudini di lettura, talvolta così simili alle nostre. Quanti libri è possibile leggere in una vita? In che modo disporli? Come fare quando sono troppi? Ci piacciono di più tenuti come nuovi o un po’ maltrattati? Bisogna davvero leggerli tutti, o certi sono fatti apposta per non esserlo? Jesús Marchamalo racconta gli intrecci e i personaggi della grande storia d’amore fra libri e lettori con la divertita partecipazione di un innamorato che la sa lunga, e argutamente ci ricorda che come tutte le passioni, anche questa dev’essere assaporata con un po’ di sana ironia.

 


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David Herbert Lawrence (1885-1930) – Tutta la loro vita si basa sul denaro che spendono. Se si potesse soltanto dir loro che vivere e spendere non sono la stessa cosa. Il denaro avvelena quelli che ne hanno e affama quelli che ne sono privi.

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«Parlano molto di nazionalizzazione: dei profitti, nazionalizzazione di tutta l’industria. Ma non si può nazionalizzare e lasciare le altre industrie come sono. […] Gli operai sono molto
apatici. Sentono che tutta la maledetta baracca è destinata alla rovina, e credo che abbiano ragione. E anch’ essi sono rovinati nello stesso tempo. Alcuni, fra i giovani, strepitano per costituire un ‘Soviet’ ma senza molta convinzione. Non sono veramente convinti di niente, senonché tutto è confusione e imbroglio. […] Gli uomini sono muti e sentono una condanna fatale e vanno in giro come se non ci fosse nulla da fare.
In ogni modo, nessuno sa che cosa si dovrebbe fare, nonostante tutte le chiacchiere, i giovani sono furiosi perché non hanno denaro da spendere, tutta la loro vita si basa sul denaro che spendono, e ora il denaro è finito.
[…] Se si potesse soltanto dir loro che vivere e spendere non sono la stessa cosa! Ma non serve a nulla. […] Dovrebbero imparare ad essere nudi e belli, a cantare in massa, a ballare le antiche danze in gruppo, a intagliare gli sgabelli su cui seggono e a ricamare i propri simboli. Allora non avrebbero pili bisogno di denaro. Questo è il solo mezzo per risolvere il problema industriale: insegnare al popolo a vivere e vÌvere in bellezza, senza bisogno di spendere. […]
Il denaro avvelena quelli che ne hanno e affama quelli che ne sono privi.
[…]  Sento il diavolo nell’ aria, e cercherà di afferrarci. O , forse, non il diavolo ma Mammona, il quale non è altra cosa, credo, se non la volontà collettiva degli uomini che vogliono il denaro e odiano la vita.
Comunque sento nell’aria grandi mani bianche avide che tentano di prendere per la gola e di far schizzar fuori la vita a chiunque cerca di vivere, vivere di là del denaro. I brutti
tempi si avvicinano. Si avvicinano i brutti tempi, ragazzi, si avvicinano: se le cose rimangono come sono, l’avvenire non offre che morte e distruzione alle masse industriali. […] Tutte le sciagure che sono accadute non sono state in grado di far appassire i fiori, e neppure l’amore delle donne. Perciò non potranno spegnere il mio desiderio di te né la piccola luce fra te e me. L’anno venturo saremo insieme. E sebbene abbia paura, credo nella nostra unione. L’uomo deve difendersi e fare del suo meglio, e poi avere fiducia in qualche cosa che lo superi. La sola precauzione che si può prendere contro il futuro è quella di credere in quanto si ha di meglio in se stessi e credere nella potenza che ci supera. Perciò credo nella piccola fiamma che arde fra noi».

 

David Herbert Lawrence, L’amante di Lady Chatterley [1928], Mondadori, 1947, pp. 371-372.

 

 


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Daniele Orlandi – Quell’amore di Dino Buzzati

Dino Buzzati - Un amore

 

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Daniele Orlandi, Quell’amore di Dino Buzzati

 

Daniele Orlandi

Quell’amore di Dino Buzzati

 

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Taïde è, la puttana che rispuose
 al drudo suo quando disse “Ho io grazie
 grandi appo te?”: “Anzi maravigliose!” 

Dante, Inferno, XVIII, 133-135

 

Ci si può innamorare di una prostituta? Ragionavamo durante un corso illuminato del sempre caro professor Carmine Chiodo. Aula calda di corpi stipati e oltre i vetri la brina sui campi di mattine irreversibilmente perdute.
In termini di letteratura, ci dicevano – da Lesbia a Teodora[1], da Dulcinea del Toboso a Bocca di Rosa –, la risposta è affermativa. È possibile, anzi probabile, perdere la testa per una donna che, palesemente o sotto copertura, svolga la Professione. Oppure, e forse ancor di più, di una donna che non svolgendola ma guardandoci negli occhi, senza infingimenti alcuni dichiari: ebbene sì, in pensieri, parole, opere e omissioni io sono una puttana.

Un amore 02

Un amore 08

Un amore 07 A Love Affair

 

A questa antica domanda cercava di rispondere, con uno scavo interiore per l’epoca inaudito, anche Un amore. Libro coraggiosamente uscito nel 1963, anno straordinario in cui nelle patrie lettere venivano pubblicati romanzi epocali: da La cognizione del dolore di Gadda a La tregua di Primo Levi, da Lessico famigliare di Natalia Ginzburg a Una questione privata di Beppe Fenoglio. E ci fermiamo, altrimenti dovremmo aggiungere Fratelli d’Italia di Arbasino, Teorema di Pasolini o La giornata di uno scrutatore di Italo Calvino. Dovremmo disquisire sull’iconoclastia avanguardista del Gruppo ’63 e insomma, di questo ultimo anno del supposto boom economico di certo non verremmo più a capo.
Dicevamo: amare una donna imprendibile come la Fortezza Bastiani nel noto deserto di affettività. Una donna di facili costumi. Nell’Italia del Musichiere e delle prime lavatrici ma ancora nel paese della “Buon costume”. È fin troppo banale, per noi sopravvissuti al Novecento, costatare come il problema non stia nell’antinferno della promiscuità e della condivisione di lei con altri innumerevoli individui, quanto (nel caso non infrequente che la donna in questione del meretricio abbia sinanco la smaniosa indole) nella malebolgia della paura, nel panico di perderla, nell’insostenibile angoscia che da un momento all’altro possa dileguarsi, rendersi introvabile. Poiché qualcuno, prima o poi, le offrirà di più. Affitterà quella compagnia di carne e sangue a un prezzo maggiore (non migliore) lasciandoci tra le mani un amore di terra e pioggia.
Se poi, i due provenissero da incomunicabili umanità, voglio dire se lui fosse, mettiamo il caso un operaio o, peggio ancora, un intellettuale e lei una di quelle persone per cui una Mercedes SLK, una borsetta di Louis Vuitton e un ristorante blasonato contano incommensurabilmente di più di un romanzo, che so io, di Dino Buzzati, be’, in tal caso per lo sventurato amante l’approdo della sua ingestibile passione non potrebbe essere che la rinuncia o la rovina:

Intanto egli si sente precipitare sempre più giù, gli viene in mente il professore Unrath dell’Angelo azzurro. Oh come era vera quella storia […] Uno stimato professore di ginnasio degradarsi a quel punto. Oggi capisce. L’amore? È una maledizione che piomba addosso e resistere è impossibile[2].

Insomma, non serve che lei sia bella come Marlene Dietrich: un conto è saperla spregiudicata, altra storia è vederla puttana, essere osservatori partecipanti della sua inclinazione. C’è da impazzire. Perché lei, nel frattempo, è diventata simbolo vivo, quasi diremmo “logos incarnato” di un universo a te misterioso, fatto di cose che non sai, di locali proibiti, pubblicamente disprezzati ma oscuramente desiderati; ma, soprattutto, a te interdetto. Una vita che, pur a volerlo, non sapresti vivere. «Credete a chi n’ha fatto esperimento», direbbe l’Ariosto alle prese con la pazzia di Orlando, «che questo è ‘l duol che tutti gli altri passa» (dal Furioso, XXIII, 114-115).
A siffatto tormento si può forse contraporre soltanto l’analgesico di una pregressa esperienza. Ma, per sua triste fortuna, il protagonista del libro a cui si invita, l’architetto cinquantenne Antonio Dorigo, entrava in questo amore con commovente inconsapevolezza. E fu

come se quella ragazza fosse diversa dalle solite. Come se fra loro due dovessero succedere molte altre cose […] Come se ci fosse stata una predestinazione. Come quando uno, senza alcun particolare sintomo, ha la sensazione di stare per ammalarsi, ma non sa di che cosa né il motivo[3].

La squisita esattezza di queste righe. Una predestinazione, scrive l’autore e il personaggio inizia a crederci. Un po’ come la storia di quei due che «da sempre si cercavano nell’infinito dei mondi» e «all’ultimo s’erano una buona volta incontrati»[4], come racconterà, tre anni dopo, Giuseppe Berto, in un altro grande e dimenticato romanzo.
Se è così che ci s’innamora di una donna, sarà anche così che ci s’innamorerà di una prostituta.

***

Per noi bambini negli indomiti anni Ottanta, Dino Buzzati Traverso (Belluno, 1906 – Milano, 1972) era una firma in calce a qualche novella natalizia nel sussidiario di scuola elementare[5]. Con l’adolescenza venne anche il tempo di saperlo uno scrittore a tutti gli effetti e sarebbe con ogni probabilità finita lì se qualcuno tra noi non avesse commesso il fatale giovanile errore di intraprendere l’università e scoprire che razza di narratore fosse.
Uomo di molti mestieri. Giornalista di punta, grande elzevirista, del «Corriere della sera» (I misteri d’Italia, 1978), drammaturgo (Un caso clinico, 1953; Drammatica fine di un noto musicista, 1955), fumettista (Poema a fumetti, 1969; I miracoli di Val Morel, 1971), poeta (Tre colpi alla porta, 1965), critico d’arte e pittore egli stesso.

Bàrnabo delle montagne

Bàrnabo delle montagne

Attività ancelle di quella che lo ha reso celebre sia come romanziere (aveva, per dire, esordito con Bàrnabo delle montagne, 1933, seguito dalla mirabile storia del “Vento Matteo” in Il segreto del Bosco Vecchio, del 1935) sia come autore di short stories. Nel 1958, i Sessanta racconti, antologia che comprende fulminanti pezzi di bravura sull’indecifrabilità del reale come Qualcosa era successo, I sette messaggeri, Paura alla Scala, Sette piani, Il crollo della Balinverna, Il mantello, per citare soltanto i nostri prediletti, vincono il Premio Strega, distanziando di diciassette punti nientemeno che Carlo Cassola.
È qui, forse, che il cronista letterato – o letterato proprio perché cronista, con una lunga gavetta alla “nera” – dà il meglio di sé e grazie alle sue atmosfere fantastiche, a tratti oniriche ma soprattutto asfittiche e inquietanti, come di un’entità impalpabile che t’insegue o attende dietro l’angolo, va meritandosi l’appellativo di Kafka italiano che il Nostro ha tuttavia sempre fermamente rifiutato[6].
Eppure non ci piacciono le sinossi da libro di testo, i profili biografici da quarta di copertina. Un autore va letto nella sua interezza e a citarne due titoli a caso non si capisce nulla. Dunque è per necessità di sintesi se diciamo che per noi Dino Buzzati era sostanzialmente il suo capolavoro, ineliminabile riferimento e termine di paragone irrinunciabile in ogni discorso su di lui: Il deserto dei Tartari, cronaca di una guerra imminente nell’Italia in guerra per davvero, che Rizzoli pubblicava per i suoi tipi, nel funesto giugno 1940. Esattamente nel mese delle “decisioni irrevocabili” annunciate urbi et orbi da un balcone di Piazza Venezia.

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Il deserto dei Tartari

Era l’epopea dell’antiepos e della solitudine, enorme metafora della vita come attesa da riempire di un nulla che si ripete di continuo. Il deserto dei Tartari, certo. La storia senza tempo del sottotenente Giovanni Drogo, aspettando un nemico che non arriva, un messaggio che non giungerà. Mai. Era il 1976 quando Giancarlo Giannini prestava la sua voce a Jacques Perrin nel film di Valerio Zurlini, in cui entrava anche un sex symbol dell’epoca come Giuliano Gemma.
Tuttavia, ci sta a cuore una considerazione. Dino Buzzati, non v’è dubbio, è stato uno scrittore famoso e premiato. Basti dire che Albert Camus, il più giovane Nobel della storia, curò l’adattamento francese di Un caso clinico (Un cas intéressant, 1955), pièce teatrale tratta dal racconto Sette piani. Ciononostante, non sapremmo stabilire se questa notorietà sia stata presto dimenticata o sproporzionata alla caratura artistica dell’uomo. Pare, in sostanza, che non sia stata goduta fino in fondo, data quasi per scontata, poco scoperta. Negli inserti culturali dei quotidiani sembra che nessuno ne parli più.
Ci domandiamo chi in una breve lista di grandi autori italiani del XX secolo metterebbe senza esitare Dino Buzzati. Noi sì, ma la critica? Quella di ieri, sicuramente no. Quella di oggi, lentamente, pare stia lavorando per colmare questa lacuna. C’è ancora molto da fare, comunque, se ancora lo ricordiamo essenzialmente per Il deserto dei Tartari. «Sono tanti», è stato scritto a ragione, «gli scrittori-cronisti-pubblicisti-redattori-inviati che faticano ad avere un peso culturale duraturo, apparendo talora “satelliti” nel nostro canone letterario»[7].
Sono temi che lasciamo volentieri agli accademici e ai buzzatiani. Qui, ci limitiamo soltanto a sottolineare come il giovane soldato in camicia nera avesse fatto i conti col Ventennio in modo del tutto privato, senza giungere alla celebrità per la via mestra del neorealismo e senza divenire “organico” alla congerie culturale dei vincitori. Questo conservatorismo all’antica gli aveva inimicato i letterati marxisti, che nel secondo dopoguerra stavano a rappresentare quasi l’intera classe degli intellettuali italiani. Fino all’accusa di reazionarismo, ovviamente[8]. Buzzati continuava, nonostante questo, a rifiutare tanto la religione dell’impegno quanto le etichette (del fantastico o del realismo magico, del surrealismo) che la critica gli affibbiava nei tentativi di catalogare la sua sfuggente poetica.

***

Ma, chiediamo ostinati: avete mai provato a mettere da parte tutto quello che sapete di Dino Buzzati, tutte le nebulose, i sentito dire e ogni reminiscenza scolastica e leggere Un amore? L’esperienza è forte, drammaticamente gradevole. Senz’altro coinvolgente. Il libro non risente dei suoi cinquantanni. Non teme le mode del presente che ragionano su “anatomie” di sentimenti e passioni. Buzzati, questo sentimento – questo ronzio continuo e inaffidabile che dice “Senti? Mento!”, lo ha dissezionato come su un tavolo autoptico, contemporaneo prima dei contemporanei.
Per incontrare di nuovo certe atmosfere bisognerà attendere il secco Una spina nel cuore di Piero Chiara (1979), l’inevitabile Eutanasia di un amore di Giorgio Saviane (1976) o sbarcare sui lidi del postumo incompiuto, ossessivo L’odore del sangue, di Goffredo Parise (1997). Stupefacente come questi titoli, ma non solo, siano debitori all’introspezione di Un amore.
In poco più di duecentocinquanta pagine, Buzzati abbraccia tutti i generi senza farsene inglobare. È un romanzo rosa senza sentimentalismi, è uno psychological novel senza lettino, è un giallo senza colpevoli, un noir senza omicidio (certe ambientazioni urbane dei primi anni Sessanta ricordano la Milano scura e alevarica di Giorgio Scerbanenco) e certamente sì, è un romanzo erotico ma senza concessioni alla pornografia.
L’opera imporrebbe almeno due passaggi. Il primo, di occhi. Il secondo – dopo aver conosciuto la nostra personalissima Laide e, come Antonio, essere strati trascinati nel gorgo di un amore torbido e fraudolento -, di stomaco. Ma, direbbe Leopardi, “del cuore in nessun modo”. Perché non c’è cuore in questa malanovella, solo sabbie mobili che tirano giù senza soccorso. La condizione di Antonio, compiaciuto del suo dolore, nuovo heautontimorumenos, è stata descritta magistralmente da Eugenio Montale:

Il tema del libro è ancora la morte, non la morte fisica bensì la morte morale, la depravazione. L’abisso chiede, reclama, un abisso sempre peggiore e non c’è alcun possibile giudice che possa decretare una sentenza […] Anche una sola lacrima di pietà avrebbe reso indecente un libro che è soltanto vero, terribilmente vero [9].

Ideato e scritto a partire dal 1959, i biografi hanno visto in S. C., donna in quel periodo frequentata da Buzzati, l’ispiratrice e la protagonista di Un amore. Del resto, scriveva l’autore nei suoi diari: «L’unica per salvarmi è scrivere. Raccontare tutto, far capire il sogno ultimo dell’uomo alla porta della vecchiaia»[10]. Chiunuque abbia avuto una minima esperienza di scrittura sa quanto ciò sia l’operazione più difficile: far capire. Scrivere di una sofferenza, da dentro la sofferenza. Quando il dolore soffoca la prospettiva, la chirurgica precisione necessaria alla narrazione. Inutile dire che Dino Buzzati ce l’ha fatta. È il momento più eccentrico, in cui la biografia dell’autore coincide meglio con l’opera, non troveremo più in tutta la sua produzione un travaso simile a Un amore.
I luoghi di tolleranza erano stati aboliti cinque anni prima da un provvedimento noto come Legge Merlin. In Italia il paravento del decoro trovava realizzazione nell’ipocrisia. Le finestre cieche delle “case chiuse” affacciavano ora in appartamenti dal cuore sotterraneo, invisibile. È subito polemica, scandalo, il “caso Buzzati”. Il biasimo della più bieca, bigotta, ma trasversale ai ceti, sessuofobia cattocomunista.
In questa Milano color antracite, città parallela di clienti e “passioni recidive”, in questi palazzoni dove ogni portineria è un casellario politico, si svolge la storia di Antonio Dorigo e della ventenne Adelaide Anfossi, detta Laide (nomen omen). L’assonanza con Taide, mitologica sgualdrina, è fin troppo evidente. Non tanto la Taide dell’Eunuco terenziano né la ruffiana dantesca quanto piuttosto la Taïs di Anatole France, che danna le virtù del monaco Pafnuzio, lo stesso che l’ha fortemente voluta santa. Ma non scomodiamo il decadentismo: Laide non diverrà mai pia, nemmeno nell’ora della maternità che giunge, forse per entrambi, come una speranza fuori tempo massimo.
Antonio incontra Laide, consuma e se ne va. Come ha fatto molte altre volte, protetto dalla discrezione della signora Ermelina e dalla tariffa che garantisce e svincola dalle emozioni. Perché Antonio non concepisce, fino ad un momento prima di vedere Laide, altro amore che quello tra madre e figlio. Ma poi ci pensa su, vuole rivederla. La rivede, infatti, e qualcosa dell’oscuro fascino di lei lo attira e respinge, finché la prima ha il soppravento sulla seconda. Antonio si lascia girare dal mulinello improvviso che la giovinetta, con maestria e scolpita indifferenza, gli ha soffiato sulla superficie piatta e organizzata della sua vita.
Si è innamorato. Di una sconosciuta totale, tranne il corpo a ventimila lire l’ora. Ed eccolo discendere i ciglioni degli inferi tra mancanza, sospetto, gelosia attiva e retroattiva e un’inutilità diffusa si spalma sopra ogni cosa a cui mette mano nella vita, se lei non c’è. Perché ormai Antonio respira solo quando la vede o sa che tra poco la rivedrà. Le sue giornate si trasformano in una pausa tra un appuntamento e l’altro. Ma sa anche che Laide non è sua né di altri; come nel capolavoro pirandelliano, la giovane escort è uno, nessuno, centomila. Sicchè la commedia delle parti si muta in una tragedia shakespeariana. Misura per misura. Fino ad offrire a Laide una sorta di stipendio mensile per non vederla scomparire, per garantirsi la sua presenza. E la donna accetta.

Ascoltiamolo, in una delle pagine più derisorie e belle della letteratura italiana:

Eppure per lui è forse l’ora decisiva della vita, ed è un inferno. Se fosse malato, se gli capitasse una digrazia, se venisse messo in carcere, parenti e amici gli porterebbero l’aiuto. In questo caso no. È proibito. Anche se è terribilmente peggio. Gettato a terra, caplestato, devastato di dentro e di fuori, abbandonato nel fango, espulso a calci dalla sala. Ciononostante non c’è pietà disponibile per lui […] Ti sei creduto di poter tornare bambino? Ci voleva altra faccia che la tua. La partita è chiusa, il conto torna. Le porte si chiudono, la solitudine, il vuoto, il deserto, i muti singhiozzi che non udrà nessuno. Eccoti in porto, stupido uomo, che ti credevi chissà cosa[11].

Antonio ha inseguito una felicità inacciuffabile perché correva sulle gambe di gazzella un’altra persona. È dannato perché, come Ulisse, ha voluto provare il folle volo, andare oltre i limiti imposti dal tempo e dalla sua natura ma soprattutto dalla sua cultura: una cultura che sta storicamente perdendo.
No, pensa Antonio, in un passo struggente del libro, «l’amore non è bastato»[12].
Infine, sarà Laide a ribellarsi alla sua stessa necessità, gridando in faccia all’uomo tu mi hai sempre trattato come una puttana. Siamo al paradosso o lei in qualche modo – il suo modo, sciatto e indolente – lo ha amato? Ecco come Un amore metteva in scena il dramma del maschio italico davanti alla libertà, sia pure grossolana e arrogante, della donna; davanti alla sua consapevolezza, alla sua autodeterminazione. Un amore, ultimo romanzo italiano prima del femminismo (e prima dei Beatles), in questo senso chiudeva davvero un’epoca.
Sappiamo che l’autore confidava a un amico l’intenzione di un finale positivo[13]. Le ultime pagine restano ambigue. Ma noi ci auguriamo di no, che lei non lo abbia mai amato perché se così non fosse vorrebbe dire che davvero ogni cosa è perduta. La tragedia, non compiendosi, si ripeterebbe per sempre.

****

Se non è in grado di replicare negli occhi il film della storia e della vita, la letteratura non serve a un bel niente. Sono passati tanti anni da quella prima lettura. Il tempo ha più volte asciugato la brina di quelle fiabesche mattine universitarie. E tanti altri ne sono passati dalla seconda, quando il sole aveva ormai bruciato ogni filo d’erba di Tor Vergata e anche noi avevamo riletto Un amore dopo aver conosciuto una Laide, specifica e qualunque. Cosa resta, alfine, per noi che lo abbiamo seguito con accorata compassione, ai limiti del cordoglio? A noi che lo abbiamo sfogliato come un album di fotografie e circostanze così dolorosamente familiari?

Nulla. Se non, forse, una spietata confessione: Antonio Dorigo, c’est moi.

DANIELE ORLANDI

 

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[1] Teodora (Costantinopoli497548) è stata un’imperatrice bizantina, moglie di Giustiniano I. La sua vita dissoluta è raccontata da Procopio di Cesarea nel libello diffamatorio Anecdota (Storia segreta).

[2] D. Buzzati, Un amore, (1963), Milano, Mondadori, 200638, p. 144.

[3] Ivi, p. 37.

[4] G. Berto, La cosa buffa, Milano, Rizzoli, 1966, p. 19.

[5] D. Buzzati, Il panettone non bastò. Scritti, racconti e fiabe natalizie, a cura di L. Viganò, Milano, Mondadori, 2004.

[6] Cfr. l’elzeviro di D. Buzzati, Le case di Kafka, in «Il corriere della sera», 31 marzo 1965, scritto direttamente a Praga, dove l’autore era stato inviato dal giornale.

[7] A. R. Daniele, Satelliti del canone letterario: la “quaestio Buzzati” e la letteratura giornalistica, in I cantieri dell’italianistica. Ricerca, didattica e organizzazione agli inizi del XXI secolo. Atti del XVII congresso dell’ADI – Associazione degli Italianisti (Roma Sapienza, 18-21 settembre 2013), a cura di B. Alfonzetti, G. Baldassarri e F. Tomasi, Roma, Adi editore, 2014, pp. 1-13.

[8] Celebre resta l’articolo di Giorgio Bocca, I rischi e i timori di un reazionario, in «Il Giorno», 21 ottobre 1971.

[9] E. Montale, «Un amore», in «Corriere della sera», 18 aprile 1963.

[10] Citato in D. Buzzati, Un amore, cit., p. XXVII.

[11] D. Buzzati, Un amore, cit., p. 240.

[12] Ivi, p. 221.

[13] Cfr., N. Giannetto, «Sono arrivato all’ultimo capitolo…»: una preziosa lettera di Dino Buzzati a Franco Mandelli a proposito di «Un amore», in «Studi buzzantiani», VI (2001).

Buzzati alpinista

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