Salvatore Antonio Bravo – «Viva la Revoluciòn» di E. Hobsbawm.

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Viva la revolución. Il secolo delle utopie in America Latina copia

Viva la revolución. Il secolo delle utopie in America Latina copia

Viva la Revoluciòn di E. Hobsbawm è un resoconto delle potenzialità critiche e rivoluzionarie dell’America Latina. Lo storico de Il secolo breve analizza le condizioni storiche che hanno fatto dei paesi dell’America latina un laboratorio politico nel quale esperimenti sociali si coniugano con potenzialità rivoluzionarie e riformiste inespresse. L’attenta e documentata rassegna dei diversi movimenti sono esaminati cogliendo le contraddizioni ed i limiti che hanno imbrigliato le possibilità politiche e rivoluzionarie. Leggendo il testo non si possono non cogliere analogie con l’attuale condizione italiana ed europea. Lo sguardo cognitivo rivolto verso l’America latina ci offre strumenti per capire la condizione dell’Occidente. Nell’anomia dell’informazione e della politica abbiamo necessità di capire, il diritto a capire e ad agire politicamente è stato sostituito dal flusso delle informazioni senza concetti, in tal modo non resta che il “panta rei”, per cui tutto scorre, ma nulla resta di concettualizzato ed elaborato per l’azione: si assiste al divenire senza l’essere metafora della politica.

Hobsbawm evidenzia quanto lo stesso sviluppo economico dell’America latina produca un sistema neofeudale. I nuovi schiavi sono tali perché le classi subalterne sono completamente asservite agli interessi dei nuovi proprietari feudali. L’economia, divenuta complice della politica, l’ha resa sua serva, in assenza di limiti politici e mossa dalla necessità di produrre ad infinitum. Lo sviluppo economico neofeudale ha quale effetto, contadini e classi medie passivizzate e sempre più funzionali al nuovo sistema economico. Politica ed economia si confondono nel neofeudalesimo descritto da Hobsbawm. Lo sviluppo economico dev’essere demitizzato per essere compreso. Il dogma dello sviluppo economico, del Pil quale parametro unico di valutazione cela tra le sue pieghe contraddizioni vissute ma non consapevoli. Il neofeudalesimo dell’America latina è speculare al neofeudalesimo finanziario dei nostri giorni. Il sistema di sviluppo agricolo di La Convenciòn ha tutti i tratti del neofeudalesimo tra corvè e sfruttamento: «La Convenciòn impartisce un’ultima lezione allo studente di sviluppo economico, sebbene forse gli sia piuttosto familiare: dimostra una volta di più che la crescita stessa del mercato mondiale capitalista sulla frontiera dello sviluppo, in determinate fasi, produce, o riproduce, forme arcaiche di dominazione di classe. Le società schiaviste dell’America del XVIII e XIX secolo erano il prodotto dello sviluppo capitalista, e così – benché su scala più modesta e localizzata – è stato anche il neofeudalesimo che prevalse a La Convenciòn fino al suo crollo, speriamo definitivo, grazie alla rivolta dei contadini».[1]

Tali osservazioni furono scritte nel 1969: è implicita la critica al modo di studiare economia accademico, alla falsa oggettività con cui gli studenti di economia si confrontano e trasformano l’economia in una religione del progresso che ha nella quantificazione il paradigma unico della lettura dei fenomeni economici. L’economia, sembra dirci Hobsbawm, quella reale, è differente dall’economia naturalizzata delle accademie universitarie. Dinanzi al delinearsi di forme di neofeudalesimo nell’America Latina, ed a potenziali condizioni per la Rivoluzione spesso si assiste o a forme di spontaneismo rivoluzionario o a rassegnazione e fatalismo: «È ovvio che la Colombia, come tutti gli altri Paesi latino-americani – a eccezione, forse, di Argentina e Uraguay – contenga la materia prima per una rivoluzione sociale sia dei contadini sia dei poveri delle aree urbane. Come in altre nazioni del continente, infatti, il problema non è trovare “materiale infiammabile”, ma capire perché non abbia già preso fuoco». [2]

Hobsbawm sembra parlarci, quando afferma che le condizioni per una rivoluzione, o per una politica riformista, non son solo attraverso le diffuse ingiustizie sociali; o meglio, per poterle definire tali, vi dev’essere la consapevolezza di sé, della classe sociale a cui si appartiene mediata dalla coscienza che la miseria non è un fatto naturale ma il prodotto di una sperequazione sociale voluta ed intenzionale: non si nasce poveri, non si nasce schiavi, si pensi alla dinamica servo-padrone di Hegel nella Fenomenologia dello Spirito, ma lo si diventa quando si rinuncia a lottare ed a pensare: «Innanzitutto, il gruppo attualmente privo di terra, il proletariato rurale, è di norma uno dei gruppi agrari meno dinamici e facili da organizzare sul piano politico (tranne forse dove c’è un’economia di piantagione avanzata) attraverso i metodi quasi urbani del sindacalismo. È il contadino – e non necessariamente quello che ha una quantità di terra insufficiente – a costruire l’elemento esplosivo più immediato. In secondo luogo, il minifondismo o la povertà non sono in se stessi sufficienti a produrre agitazioni agrarie: di norma è la giustapposizione del contadino all’hacienda (soprattutto l’hacienda la cui struttura e le cui funzioni stanno cambiando, per esempio con il passaggio dall’uso estensivo a quello intensivo delle terre, o dalla piantagione diretta allo sfruttamento attraverso contratti d’affitto o di mezzadria) a produrre miscela politicamente infiammabile».[3]

Hobsbawm ribadisce più volte che il passaggio dalla potenza all’atto non è meccanico. In assenza di un partito comunista che talvolta è diffuso, ma i cui aderenti vi partecipano in vista di un generico e non chiaro desiderio di riforma, a cui si accompagnano forti divisioni interne nell’area di sinistra, il neofeudalesimo può avanzare, malgrado gli improvvisi scoppi di rabbia e le politiche di riforma parzialmente ottenute: «Purtroppo anche la sinistra marxista, che non fu mai una forza politica rilevante se non in un numero ristretto di Stati, oggi nella maggioranza delle repubbliche è forse troppo debole e divisa per fornire un efficace contesto nazionale d’azione o una forza politicamente decisiva dal punto di vista della leadership. Anzi, l’effetto concreto degli anni Sessanta è stato, per una varietà di motivi, quello di indebolirla e frammentarla più che mai, rendendo la sua unificazione e la sua normale azione molto problematici. Ciò non esclude le grandi trasformazioni sociali, anche rivoluzionarie, ma fa in modo che, probabilmente, a mettervisi a capo, almeno da principio, siano altre forze».[4]

La sinistra divisa, ridotta in fazioni in lotta per briciole di potere, è ciò a cui assistiamo oggi. Ciò permette alle forze autoritarie in economia e travestite da libertarie in campo etico e dei diritti civili di naturalizzare il liberismo. Si diffonde l’idea della impossibilità dell’alternativa mortificando gli animi degli sfruttati per rafforzare potentati economici sempre più feudali. Nel vuoto di spazio politico autentico si generano movimenti anche violenti, ma privi di progettualità.

In assenza di forze aggreganti mosse da un radicamento nel territorio in America Latina il banditismo è divenuto il facile e sanguinoso surrogato dell’assenza di un progetto autenticamente emancipativo e dunque condiviso e partecipato: «Tuttavia, riformista o rivoluzionario che sia, il banditismo in sé non costituisce un movimento sociale. Può essere un suo surrogato, come quando i contadini ammirano i Robin Hood come propri campioni per sopperire alla mancanza di una propria attività positiva diretta». [5]

Hobsbawm sembra guidarci verso la comprensione del presente post ’89 mediante l’analisi dei movimenti rivoluzionari dell’America Latina. La nostra condizione è ancora più difficile, poiché le cosiddette “sinistre” non sono solo divise, ma ciò che più temono è proprio di essere percepite come vicine comunismo e socialismo. Di qui il moltiplicacarsi del fatalismo attuale, che diventa elemento germinatore dello stesso neofeudalesimo. La chiarezza filosofica – che si saldi con la prassi – è invece aggregante poiché svela la possibilità di un oltre, e può sottrae le coscienze degli oppressi dal gorgo nichilistico in cui vengono quotidianamente precipitate.

Salvatore Antonio Bravo

***

[1] E. Hobsbawm, Viva la Revoluciòn. Il secolo delle utopie in America Latina, Rizzoli, Milano 2016, pag. 119.

[2] Ibidem, pag. 59.

[3] Ibidem, pag. 219.

[4] Ibidem, pag. 237.

[5] Ibidem, pag. 124.

 


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CSR Casa di Alice – «Passeggiando per Pistoia. L’essenziale è invisibile agli occhi». Guardare insieme a una città, guardarsi reciprocamente nel guardarla, nell’accudirla, nel comprenderla.

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Coperta intera

Guardare insieme a una città, guardarsi reciprocamente nel guardarla, nell’accudirla, nel comprenderla; avere quella comunione fondamentale di prospettiva (la cura, la responsabilità, il dare) è l’unica strada che può renderci un po’ alla volta capaci di amare davvero la dimensione collettiva, quello strano mix di singoli e di insiemi che è la città.

Amore per la città è quello degli amici della Casa di Alice, invitati ad alzare lo sguardo verso le pietre e non solo che riempiono lo spazio di questa nostra città.
Quando l’amore si esprime attraverso la passione artistica e guida il tuo sguardo a cogliere attimi di vita e di storia, non puoi tenere nascoste le tue opere.
È questo dunque il senso del “prendersi cura” della città:

«I care»,

diceva don Lorenzo Milani.

 

 

Grazie, dunque, ad
Alessandra M., Elisa, Francesco, Ilaria,
Mariella, Silvia L., Romano, William,
Gian Giacomo, Matteo;

e inoltre ad
Angela, Alessandra B., Cristiano,
Francesca, Gabriele, Gessica,
“Gigio”, Giuseppe, Loriana,
Loriano, Marco, Roberta,
Rossella, Silvia B.

 

per averci richiamato a riflettere con la loro opera su questi valori fondamentali.

Cristiano Vannucchi

 

 

Casina Alice

CSR Casa Alice

Casa di Alice è un centro socio-riabilitativo per adulti diversamente abili. Attivo dal 1998, lavora per migliorare le capacità relazionali, percettive, motorie e di comunicazione di persone con disabilità. Infatti, l’ASL eroga questo servizio ponendo particolare attenzione a tutte le proposte che possono facilitare e promuovere l’integrazione e la socializzazione degli utenti. La guida si inserisce in un progetto più ampio, nato nel 2010 e portato avanti con professionalità e competenza dagli operatori.


Volevamo far conoscere ai nostri concittadini, ma anche a chi viene da fuori, un una città diversa da quella che viene solitamente proposta, vista con gli occhi di questi ragazzi e l’obiettivo è stato pienamente raggiunto con un grande impegno e tanta passione.

Paolo Carrara
Presidente della Fondazione Un Raggio di Luce

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Coperta 280

Gian Giacomo Degli Esposti, Matteo Caffiero (a cura di)

Passeggiando per Pistoia. L’essenziale è invisibile agli occhi.

Postfazione di Cristiano Vannucchi.

ISBN 978-88-7588-168-9, 2017, pp. 136, formato 170×240 mm., Euro 12.

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Una guida di Pistoia?


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Guy Debord (1931-1994) – … andate in giro a piedi … e guardate ogni cosa come se fosse la prima volta … e percepite lo spazio come un insieme unitario … e lasciarvi attrarre dai particolari.

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Guida psicogeografica di Parigi

Guida psicogeografica di Parigi

 

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Introduzione a una critica della geografia urbana

«[…] andate in giro a piedi … Scegliete man mano il percorso non in base a ciò che sapete, ma in base a ciò che vedete intorno. Dovete essere straniati e guardare ogni cosa come se fosse la prima volta … camminare con passo cadenzato e sguardo leggermente inclinato verso l’alto, in modo da portare al centro del campo visivo l’architettura e lasciare il piano stradale al margine inferiore della vista. Dovete percepire lo spazio come un insieme unitario e lasciarvi attrarre dai particolari».

Guy Debord, Théorie de la dérive, in Les Lèvres nues, n. 9, Bruxelles, novembre 1956. Ripubblicato in: Internationale Situationniste, n. 2, Paris, décembre 1958; trad. it.: Internazionale Situazionista, Nautilus, Torino.

 

Il pianeta malato

Il pianeta malato

 

Fra i diversi procedimenti situazionisti, la deriva si presenta come una tecnica del passaggio veloce attraverso svariati ambienti. Il concetto di deriva è indissolubilmente legato al riconoscere effetti di natura psicogeografica ed all’affermazione di un comportamento ludico-costruttivo, ciò che da tutti i punti di vista lo oppone alle nozioni classiche di viaggio e di passeggiata. Una o più persone che si lasciano andare alla deriva rinunciano, per una durata di tempo più o meno lunga, alle ragioni di spostarsi e di agire che sono loro generalmente abituali, concernenti le relazioni, i lavori e gli svaghi che sono loro propri, per lasciarsi andare alle sollecitazioni del terreno e degli incontri che vi corrispondono. La parte di alcatorietà è qui meno determinante di quanto si creda: dal punto di vista della deriva, esiste un rilievo psicogeografico delle città, con delle correnti costanti, dei punti fissi e dei vortici che rendono molto disagevoli l’accesso o la fuoriuscita da certe zone. Ma la deriva, nella sua unità, comprende nello stesso tempo questo lasciarsi andare e la sua contraddizione necessaria: il dominio delle variazioni psicogeografiche attraverso la conoscenza ed il calcolo delle loro possibilità. Sotto quest’ultimo aspetto, i dati messi in risalto dall’ecologia, per quanto sia limitato a priori lo spazio sociale che questa scienza si propone di studiare, non cessano di sostenere utilmente il pensiero psicogeografico.
L’analisi ecologica del carattere relativo o assoluto delle scissure del tessuto urbano, del ruolo dei microclimi, delle unità elementari interamente distinte dai quartieri amministrativi e soprattutto dall’azione dominante di centri d’attrazione, deve venire utilizzata e completata con il metodo psicogeografico. Il terreno passionale oggettivo in cui si muove la deriva deve venir definito contemporaneamente sia secondo il suo proprio determinismo, sia secondo i suoi rapporti con la morfologia sociale.

Psicogeografia: Studio degli effetti precisi dell’ambiente geografico, disposto coscientemente o meno, che agisce direttamente sul comportamento affettivo degli individui.

Internazionale situazionista ( 1958-69)

Internazionale situazionista ( 1958-69)

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Testo completo : http://gliocchidiblimunda.wordpress.com/2009/12/14/teoria-della-deriva-di-guy-debord/

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Guy Debord (1931-1994) – Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini. È l’altra faccia del denaro. È l’ideologia per eccellenza.

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Charles Wright Mills (1916-1962) – Una percezione vigile oggi implica la capacità di smascherare continuamente e infrangere gli stereotipi del giudizio e dell’intelligenza.

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L’artista e l’intellettuale indipendenti sono tra le poche personalità rimaste in grado di opporsi e di combattere la normalizzazione, e quindi la morte delle cose che vivono di vita autentica. Una percezione vigile oggi implica la capacità di smascherare continuamente e infrangere gli stereotipi del giudizio e dell’intelligenza, di cui le odierne comunicazioni [ossia gli odierni sistemi di rappresentazione; ed eravamo soltanto nel 1962; n.d.r.] ci sommergono. […] Per questa ragione la solidarietà e l’impegno intellettuale hanno il loro fulcro nella politica. Il pensatore che non assuma come riferimento il valore della verità nella lotta politica non può affrontare responsabilmente l’esperienza del vivere nella sua interezza.

 

Charles Wright Mills, Power, Politics, and People: The Collected Essays or C. Wright Mills, a cura di Irving Louis Horowitz, Ballantine, New York 1963, p. 299.


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Thomas Mann (1875-1955) – L’uomo era dunque il prodotto della curiosità di Dio di conoscere se stesso. Ma anche la Somma Saggezza poteva non bastare del tutto a prevenire errori.

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Giuseppe il nutritore

Giuseppe il nutritore

Nelle sfere e nelle gerarchie celesti regnava […] una soddisfazione lievemente ironica […]. E ciò a causa di una idea bizzarra […] di Colui che tale idea aveva concepito e attuato. E l’idea era questa: «Gli angeli sono creati a nostra immagine, ma non sono fecondi. Gli animali invece, guarda, sono fecondi, ma non sono a immagine nostra. Vogliamo creare l’uomo: a immagine degli angeli, ma fecondo».
Un’idea assurda. Più che superflua, aberrante, capricciosa, e gravida di pentimento e di amarezza. Noi non eravamo “fecondi”, certamente no. Camerlenghi della luce, taciti cortigiani eravamo noi […]
Questa onnipotenza, questa facoltà assoluta di immaginare e suscitar nuove forme, di dare esistenza con un semplice “fiat” aveva naturalmente i suoi pericoli … Anche la Somma Saggezza poteva non essere pienamente in grado di superarli, poteva non bastare del tutto a prevenire errori e passi inopportuni nell’esercizio di queste sue facoltà assolute. Per puro istinto di agire, puro bisogno di attuazione, ardente desiderio del “dopo questo anche quest’altro”, “dopo gli angeli e gli animali anche l’animale angelico”, la Somma Saggezza si avventurò in impresa non saggia, creò un essere palesemente precario e imbarazzante […].
Ma Iddio, era Egli stato tratto da sé, di propria iniziativa, a questa creazione spiacevole? Nelle gerarchie e negli ordini celesti correvano supposizioni che, confidenzialmente e segretamente, negavano questa indipendenza; supposizioni indimostrabili ma con un fondamento di verosimiglianza, secondo le quali tutto era dovuto a un suggerimento del grande Semael, che, prima della folgorante caduta, era stato molto vicino al Trono. Il suggerimento rispecchiava proprio la sua natura e le sue intenzioni […]. Affinché il Male venisse nel mondo era esattamente necessaria quella creatura che, secondo ogni supposizione, Semael aveva proposto di creare: un essere a somiglianza di Dio, eppur fecondo: l’uomo. […]
La malizia di Semael consisteva in questo: se gli animali, dotati di fecondità, non furono creati a somiglianza di Dio nemmeno noi, cortigiane immagini di Dio, a giudicar rigorosamente, lo fummo, perché noi, grazie, al cielo, venne pulitamente negata la fecondità. Le qualità ripartite tra gli animali e noi, divinità e fecondltà, originariamente erano unite nello stesso Creatore, e a immagine sua sarebbe stato creato soltanto l’essere proposto da Semael, e in cui appunto si effettuò questa unione. Ma con questo essere, con l’uomo, venne il Male nel mondo.
Non era un caso ironico da suscitare un risolino di scherno? Proprio la creatura che, se si vuole, era la più somigliante al Creatore, portò con sé il Male. Per consiglio di Semael, Iddio si creò in essa uno specchio, non certo lusinghevole, anzi tutto l’opposto, e che Egli in seguito era stato più volte sul punto di annientare per collera e per imbarazzo, senza tuttavia giungere mai all’estremo; o perché non gli bastasse l’animo di far ricadere nel nulla l’essere da lui stesso chiamato in vita; o che amasse di più quest’opera mancata che quelle ben riuscite; o che non volesse riconoscere come definitivamente sbagliata una creatura tanto simile a lui; o infine perché uno specchio è un mezzo per conoscer se stessi […].
L’uomo era dunque il prodotto della curiosità di Dio di conoscere se stesso: curiosità accortamente prevista da Semael e da lui sfruttata con l’astuto consiglio. […]
Il “peccato originale” consisté solo in questo: l’anima, mossa da una specie di malinconica sensualità, che in uno dei principi primi del mondo superiore ci turba e sorprende, si lasciò, per suscitar forme da cui trarre piaceri corporei, vincere dal desiderio di penetrare con amore la materia ancora informe e tenacemente risoluta a rimaner tale. E chi se non Dio stesso le venne in aiuto in quella sua lotta d’amore troppo superiore alle sue forze; chi creò per lei l’avventuroso mondo dell’accadere, il mondo delle forme e della morte? Egli lo fece per compassione delle angustie in cui si dibatteva la sua traviata compagna, per una comprensione che lascia arguire una certa affinità costituzionale e sentimentale tra i due. Ma là dove si può si deve anche trarre una conclusione, anche se paia ardita e perfino sacrilega, poiché nello stesso istante si parla di traviamento.
[…] Semael contava sull’errore universalmente diffuso per cui si crede che, se due persone hanno lo stesso pensiero, quel pensiero dev’essere buono.
È inutile far misteri e usar parole timidamente allusive. Quello che il grande Semael, una mano al mento, l’altra tesa perorante verso il Trono, propose, fu l’incarnazione del Sommo in una stirpe eletta ancora inesistente ma da crearsi, l’assumere corpo secondo il modello delle altre divinità etniche e razziali della terra, ricche di magica potenza e carnalmente piene di vita. Non a caso adopriamo l’espressione “piene di vita”, perché come una volta con la proposta di crear l’uomo anche ora, ma in un senso più drastico anzi carnale, l’argomento primo del Maligno era l’accrescimento di vitalità che, seguendo quel consiglio, il Dio spirituale, estraneo e superiore al mondo, avrebbe ottenuto.[…]
La sfera affettiva, a cui quegli argomenti si volgevano, era l’ambizione; un’ambizione necessariamente rivolta verso il basso perché nell’Essere Supremo ogni ambizione verso l’alto è impensabile, ambizione verso il basso, uguagliarsi agli altri, “volere-anche-essere-come-gli-altri”, rinunciare a ogni qualità eccezionale e straordinaria. Facile fu per il Maligno appellarsi al sentimento di sé troppo vergognosamente generico e astratto, troppo incolore e insapore, che Dio, confrontando la sua ultramondana spiritualità con la sensualità magica degli dèi etnici e razziali, doveva inevitabilmente provare. Da tali confronti nasceva appunto quell’ambizione di abbassarsi, di fortemente limitarsi, di dare alla propria forma di vita più sensuale sapore e colore.
Cedere la sublimità un po’ pallida di una spirituale universalità per la sanguigna e carnale esistenza di un Dio fattosi corpo vivo di una gente, essere come gli altri dèi: questa l’aspirazione più segreta, il pensiero ancora latente del Sommo. E a questo pensiero Semael venne incontro con il suo insidioso consiglio. […]

 

Thomas Mann, Giuseppe il nutritore, Mondadori, 1982, pp. 19-27.

 

Thomas Mann – La conoscenza umana e l’approfondimento della vita umana hanno un carattere di maggiore maturità che non la speculazione sulla Via Lattea. Il vero studio dell’umanità è l’uomo.
Thomas Mann (1875 – 1955) – L’arte è come se ricominciasse ogni volta da capo. Essa non minaccia la vita poiché è creata per dare alla vita la vita dello spirito. È alleata del bene, e nel suo fondo vi è la bontà. Nata dalla solitudine, il suo effetto è il ricongiungimento.

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Daniele Guastini – «Prima dell’estetica. Poetica e filosofia nell’antichità». Un’analisi storica e un confronto teorico tra due grandi nozioni della cultura antica: quella di mimesis e quella di allegoria.

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Prima dell'estetica. Poetica e filosofia nellantichità

Prima dell’estetica. Poetica e filosofia nell’antichità

Introduzione

L’estetica ha con la propria storia un rapporto spesso elusivo. Non sempre negli studi estetici viene data la dovuta importanza al fatto che l’estetica è una disciplina nata in un periodo storico determinato, il Settecento, e formata tra il XV e il XVIII secolo, in perfetta coincidenza con il cammino della modernità. Quando questo atto costitutivo non viene addirittura taciuto o relegato in qualche nota a piè di pagina, il suo riconoscimento raramente oltrepassa la mera constatazione di fatto. D’altronde, non basta registrare in modo impassibile la nascita storica dell’estetica. Occorre farsi carico del significato essenziale che questo dato porta con sé: che l’estetica è un evento storico. E che se la sua formazione, la sua nascita, il suo sviluppo, sono parte di un evento storico, ciò vuoi dire, molto semplicemente, che c’è stato un prima dell’estetica in cui le cose – in particolare certe cose di cui diremo tra poco – si vedevano in modo diverso, e che ci sarà un poi in cui il modo di vedere le cose che ha portato all’estetica potrebbe venir meno.

Ora, non è della questione di un possibile dopo dell’estetica – che pure appare questione cruciale e su cui, da certi segnali, si avverte sempre maggiore l’urgenza di avviare una discussione – ma della questione del prima (che può tuttavia portare non pochi elementi di riflessione e chiarimento anche alla discussione su un eventuale dopo) che questo libro intende occuparsi. Cosa c’era prima dell’estetica? Cosa ne ha preceduto la costituzione disciplinare? E cosa è dovuto accadere perché ad un certo punto se ne cominciassero a gettare le basi? Tutte domande che aiutano a ritrovare il senso di quella storicità che l’estetica porta con sé in modo affatto peculiare e che spesso, come si è detto, nella passione del dibattito estetologico, viene dimenticata a tutto vantaggio di un occhio specialistico, di un’attenzione per il singolo problema, che talvolta fanno perdere di vista il quadro complessivo. Sia chiaro: questa storicità non viene dimenticata quando resta sullo sfondo. Non è indispensabile tematizzarla per farne agire le istanze fondamentali. Si può farla trapelare anche discutendo questioni di dettaglio interne all’orizzonte estetico. Viene dimenticata davvero solo quando si pensa l’estetica sub specie aeternitatis, come se fosse una parte sempre esistita della filosofia, che ha dovuto solo attendere più delle altre per vedere riconosciuto un proprio statuto disciplinare. Qui sta la vera dimenticanza, quella che finisce per appiattire all’interno di un unico orizzonte, l’orizzonte tipico della modernità, ciò che invece dovrebbe restarne fuori e che è significativo, appunto, perché ne resta fuori. Da questo punto di vista è sintomatico sentir parlare di “estetica antica”, espressione tutt’altro che innocente o convenzionale, nella quale è sottintesa l’idea che l’unica vera differenza tra l’estetica e le altre parti di cui nell’antichità si riteneva composta la filosofia – teoretica, logica, etica e fisica – alla fine riguarderebbe l’acquisizione del nome, che le altre discipline hanno assunto subito e che invece l’estetica, per avventura, non avrebbe acquisito prima dell’età moderna. Differenza, dunque, riguardante il nome e non anche la cosa, che fin dall’antichità invece si troverebbe già disseminata all’interno di vari filoni di studio: poietike, teoria del bello, psychagogia, lexis, elocutio retorica, e via dicendo.

La ricerca di questo libro muove dalla prospettiva opposta. Dall’idea che l’estetica, nel nome come nella cosa, non sia potuta esistere prima dell’età moderna. E per un fatto molto semplice: perché ne costituisce uno degli eventi storici fondativi. Perché, cioè, la sua origine storica è conseguenza del nuovo modo di vedere le cose tipico della modernità; di una lunga e laboriosa formazione rimasta sostanzialmente estranea all’orizzonte dell’antichità. A conferma di questo fatto basta guardare all’oggetto intorno al quale l’estetica si costituisce: l’arte. Ma cos’è l’arte? Anche qui, per comprendere, occorre fare una considerazione storica. L’oggetto costitutivo dell’estetica, quello che fin dall’inizio essa ha eletto a proprio contenuto disciplinare – l’arte bella, di cui l’estetica diventa presto la filosofia, finendo per autocomprendersi come ‘filosofia dell’arte’ – non può essere in nessun modo considerato un oggetto “naturale”. Non è, infatti, un dato e non può essere trattato come tale. La gran parte degli oggetti che dal Settecento la cultura comincia ad accomunare sotto la definizione di ‘opere dell’arte bella’ e su cui inizia a esercitarsi la riflessione estetica provengono da un passato che non li aveva mai considerati tali. Fino a tutto il Seicento – benché si sia già interamente consumata, nel Rinascimento, la distinzione tra arte e religione e sia già in atto quella, forse più decisiva, tra arte e scienza – attività, come poesia, pittura e musica, che di lì a poco saranno riunite sotto l’idea del bello, ancora vengono accomunate ad attività quali meccanica e ottica, la tradizione degli studia humanitatis resiste e il cosiddetto ‘sistema delle belle arti’ è ben là da venire.

Insomma: l’estetica è un evento storico perché lo è il suo oggetto disciplinare. Ed è proprio questa radicale storicità del suo oggetto, quando l’estetica sa riconoscerla come tale, a renderla una disciplina così unica, capace di offrire come nessun’altra un punto di vista interno sulla genesi della modernità. Mentre altre discipline, anche filosofiche, hanno per oggetto dei dati, ossia enti, fenomeni, eventi, che ne precedono la costituzione e che, in certo senso, si darebbero anche se tali discipline non si fossero mai costituite, viceversa l’estetica non ha per oggetto dati, ma si costituisce insieme ai suoi dati, forma i suoi dati. Il suo oggetto è effetto e non presupposto della sua formazione storica.

Appare, quindi, per molti versi un falso dilemma chiedersi se l’estetica sia nata come una filosofia dell’arte o come una teoria della sensibilità. Questa separazione diviene decisiva – per più di un motivo che qui non sarà possibile discutere – solo a nascita avvenuta. Precisamente da Kant in poi, e non prima. Ma alla sua nascita, l’estetica si mostra portatrice di entrambe le istanze: quella di concepire una nuova idea di sensibilità e contemporaneamente quella di tenere a battesimo una nuova nozione di ‘arte’. E, del resto, non potrebbe essere altrimenti. La nuova nozione di arte come la nuova idea di sensibilità non sono che l’effetto di un fenomeno unico, che abbiamo appunto chiamato ‘un nuovo modo di vedere le cose’ e che sostanzialmente corrisponde all’esito di quel movimento di creazione del soggetto moderno che ha avuto una lunga gestazione e trova uno dei più precisi riscontri proprio nella nascita dell’estetica. Il rendersi autonomo dagli altri campi dell’attività umana di qualcosa che da un certo momento in poi prende ad essere riconosciuta come «arte bella» e il diventare, da parte di questo nuovo campo di oggetti, terreno d’elezione di una nuova facoltà, la facoltà sensibile (estetica, appunto) a sé stante, ma allo stesso tempo «inferiore» rispetto alla facoltà intellettuale da un punto di vista conoscitivo, possono anche essere fasi procedute separatamente quanto ai tempi della loro elaborazione, ma portano tuttavia lo stesso segno. Un segno di fondamentale discontinuità con un passato di cui qui cercheremo di comprendere bene principi, motivi e conseguenze. Non per spirito antiquario o per passione filologica, ma perché ciò ci consente per un momento di prendere le distanze dall’orizzonte culturale in cui ancora ci troviamo, così da comprenderne criticamente certi tratti fondamentali e coglierne da un lato tutta la contingenza storica e dall’altro le radici lontane.

Sarà allora all’insegna di questa discontinuità tra passato e presente che il libro si muoverà, facendo attenzione a cogliere alcuni, seppur remoti, momenti fondamentali della complessa vicenda che porta alla formazione dell’estetica moderna. Per farlo, occorre ripercorrere un tratto di strada così lungo e tortuoso che si può sperare di colmare soltanto riuscendo a individuarne le tappe e i punti di svolta fondamentali e mettendo in preventivo qualche svista e qualche incidente di percorso. In questo compito, ci viene comunque in aiuto chi questa strada l’ha compiuta prima e con ben maggiore autorevolezza. Hegel, ad esempio, quando nella sua estetica indicò nel cristianesimo un nuovo inizio, il punto di svolta dal quale è possibile cogliere un cambiamento essenziale nel modo di intendere la sensibilità e quegli oggetti che molti secoli dopo l’estetica definirà arte bella. O Schelling, che nella sua Filosofia della mitologia si rese conto di come il mito, considerato per tutta l’età classica greca una delle forme di rivelazione del divino e in seguito considerato dall’estetica un’invenzione poetica, avesse già subìto un sostanziale mutamento di significato entro la nuova cornice allegorica ritagliata per l’interpretazione dei poemi omerici dall’ellenismo e poi dalla tarda antichità pagana.

Per anticipare in modo più specifico i temi che tratteremo, va detto che sono proprio questi tre – antichità classica, ellenismo pagano e avvento del cristianesimo – i termini della discussione che impegnerà il libro e dalla quale si cercherà di trarre indicazioni utili a determinare gli antefatti che hanno concorso al processo di formazione dell’estetica. Discussione che verrà organizzata attorno a un’analisi storica e a un confronto teorico tra due grandi nozioni della cultura antica: quella di mimesis e quella di allegoria. Perché questa scelta? Se l’intenzione fosse stata quella di ricostruire un quadro più completo della poetica antica, avremmo certamente dovuto discutere anche altre nozioni. Ma poiché lo scopo di questo libro non è, almeno in prima istanza, fornire una panoramica su certi processi, ma cercare di risalirne le cause, allora mimesis e allegoria si prestano perfettamente al caso e possono essere in certa misura isolate nel contesto delle teorie poetiche. Dato il rapporto diretto che mimesis e allegoria stabiliscono con la dimensione extra-poetica, nessun’altra nozione elaborata nel quadro della poetica antica può probabilmente prestarsi meglio a uscire da ambiti di stretta competenza specialistica e a ricondurre le questioni poetiche alla loro più autentica e generale portata ontologica e conoscitiva.

La ricerca sarà quindi condotta discutendo nei primi tre capitoli le tesi classiche sulla mimesis – da quelle rintracciabili in ambito preplatonico, alle teorie formulate da Platone e Aristotele – e nel quarto, più in sintesi, la svolta ellenistica e tardo antica, riflessa sia nel mutamento di significato della nozione di mimesis, sia nel progressivo farsi strada, prima in ambito pagano e poi in ambito giudaico-cristiano, della nozione di allegoria. Per condurre tale ricerca ci avvarremo di testi teorici (sempre citati in traduzione italiana), ma ci avvarremo anche di opere – testi poetici e non, dall’Odissea, a Pindaro, ad Euripide, ad alcuni passi biblici – ritenute emblematiche dell’epoca presa in esame. Seguirà poi una breve conclusione, da cui si cercherà di trarre i risultati del lungo itinerario percorso e di porre la formazione dell’estetica nella sua prospettiva storica più adeguata.

Daniele Guastini, Prima dell’estetica. Poetica e filosofia nell’antichità, Laterza, 2003, pp. VII-XII.


Perima dell’estetica_Indice

 

Arte e verità dall'antichità alla filosofia contemporanea

Arte e verità dall’antichità alla filosofia contemporanea

 

Come si diventava uomini. Etica e poetica nella tragedia greca

Come si diventava uomini. Etica e poetica nella tragedia greca

 

Il piacere del tragico

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Philia e amicizia. Il concetto classico di philia e le sue trasformazioni

Philia e amicizia. Il concetto classico di philia e le sue trasformazioni

 

Parole chiave della nuova estetica

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Dizionario del pensiero ecologico. Da Pitagora ai no-global

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Herbert George Wells (1866-1946) – Ecco la logica conseguenza dell’odierno sistema industriale. Il suo trionfo non era stato solo un trionfo sulla natura, ma un trionfo sulla natura e sull’uomo.

Herbert George Wells01
Herbert George Wells, La macchina del tempo

H. G. Wells, La macchina del tempo

 «Il grande trionfo dell’umanità di cui mi ero illuso assunse nella mia mente ben altra fisionomia. L’educazione morale e la cooperazione universale non avevano affatto vinto come mi ero immaginato: al contrario, mi trovavo di fronte ad una vera aristocrazia che […] aveva portato alla sua logica conseguenza l’odierno sistema industriale. Il suo trionfo non era stato solo un trionfo sulla natura, ma un trionfo sulla natura e sull’uomo».
Herbert George Wells, La macchina del tempo, traduzione di Michele Mari, Einaudi, 2017, p. 64.

Leggi un estratto

Quarta di copertina

Un inventore mette a punto una macchina del tempo con la quale riesce a raggiungere l’anno 802 701. Vi trova un mondo diviso in due razze umane: gli Eloj, creature delicate e pacifiche che conducono una vita di svaghi, e i Morlock, esseri pallidi e ripugnanti che vivono nei sotterranei. Dopo angoscianti avventure, riuscirà ad andare ancora più lontano nel tempo, vedrà una Terra senza più tracce di uomini, abitata soltanto da crostacei con «occhi maligni» e «bocche bramose di cibo». Fantascienza, critica sociale, romanzo distopico: il capolavoro di Wells è soprattutto l’opera di un grande visionario. Michele Mari, nel ritradurlo, ha trovato pane per i suoi denti: il fantastico, l’avventura, l’horror vampiresco, lo sguardo cosmico sugli affanni del mondo. L’incontro tra lo scrittore-traduttore e uno dei suoi romanzi preferiti era destinato a produrre scintille…

«Era orribile sentire nel buio tutte quelle creature viscide ammucchiate su di me, come essere in una mostruosa ragnatela»

La Macchina del Tempo è del 1895, l’edizione definitiva dell’Uomo delinquente di Lombroso è del 1897: a Darwin, rapidamente divulgato, era già subentrato il darwinismo, tanto che Wells, che pure aveva fatto un discreto tirocinio prima come studente e poi come docente di biologia, arriva a concepire la regressione per una via tutta formale: se dalla scimmia è derivato l’uomo, si chiede, perché non immaginare un’ulteriore evoluzione non in avanti ma all’indietro? Perché escludere «l’idea opposta», cioè una «regressione zoologica»? Per questa via Wells giunse a ipotizzare la totale estinzione del genere umano, come inscenato appunto nella parte finale (la cosiddetta «visione ulteriore») della Macchina del Tempo. Dipendendo dal raffreddamento del Sole, la visione finale – un mondo senza esseri umani né mammiferi – ha comunque una sua pace; la cupezza della profezia wellsiana è invece tutta nel complementare destino dei ricchi e dei poveri rispettivamente come vegetali e come bruti, secondo la logica di un dissidio tutto interno all’evoluzionismo: da una parte Huxley e Wells, dall’altra un evoluzionista della prim’ora come Herbert Spencer, convinto che l’uomo avrebbe indefinitamente migliorato se stesso.
Dalla prefazione di Michele Mari


Prima edizione del 1895

Prima edizione del 1895


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Tomaso Montanari – Costruire una società critica, una società del dissenso, è la condizione vitale per il futuro della democrazia.

Tomaso Montanari
Cassandra muta

Cassandra muta. Intellettuali e potere nell’Italia senza verità, Edizioni Gruppo Abele, 2017

 


Quarta di copertina

Quando Cassandra parla, dice la verità: ma è giudicata un intralcio, una sacerdotessa del no. Quando Cassandra tace è perché sta sul carro del potere: e poco cambia che ci sia salita volontariamente, o che sia stata portata in catene. Il risultato è lo stesso: il tradimento degli intellettuali, e cioè il silenzio della critica. Lo vediamo ogni giorno: nel conformismo dei giornali e dell’università, nella trasformazione della cultura in intrattenimento, nello svuotamento della scuola. Qual è il ruolo, quale lo spazio, del pensiero critico nel suo rapporto con il potere, con la comunità della conoscenza, con la comunicazione, con la scuola, con quella che chiamiamo “cultura”? Costruire una società critica, una società del dissenso, è la condizione vitale per il futuro della democrazia. Dire la verità lega alla politica, intesa come arte del costruire la polis, la comunità: ma, al tempo stesso, non si può fare politica attiva dicendo la verità.


Tomaso Montanari

Tomaso Montanari (Firenze 1971) insegna Storia dell’arte moderna all’Università di Napoli Federico II. Prende parte al discorso pubblico sulla democrazia e sui beni comuni. È presidente di Libertà e Giustizia. Tra i suoi libri: Le pietre e il popolo. Restituire ai cittadini l’arte e la storia delle città italiane (Minimum fax, 2013), Privati del patrimonio (Einaudi, 2015), La libertà di Bernini. La sovranità dell’artista e le regole del potere (Einaudi, 2016).
Tutti i libri di Tomaso Montanari


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David Harvey – Il diritto alla città è un diritto a cambiare e reinventare la città in base alle nostre esigenze.

David Harvey

 

Città ribelli, il Saggiatore, 2013

Città ribelli, il Saggiatore, 2013

«Il diritto alla città, è molto di più di un diritto di accesso individuale o di gruppo alle risorse urbane è un diritto a cambiare e reinventare la città in base alle nostre esigenze. Il diritto alla città è la libertà di costruire e ricostruire le nostre città e noi stessi è uno dei più preziosi tra i diritti umani e nondimeno è anche uno dei più negletti. Come si può esercitare al meglio questo diritto?». David Harvey

Città ribelli. I movimenti urbani dalla Comune di Parigi a Occupy Wall Street” di David Harvey

 


Quarta di copertina

Un secolo e mezzo prima che Occupy riempisse le strade e le piazze del mondo, la città moderna era già fucina di idee rivoluzionarie, e fu dallo spazio urbano che soffiarono i primi venti del cambiamento sociale e politico. Da sempre le città sono teatri che mettono in scena il pensiero utopico, ma anche centri di accumulazione capitalistica, e quindi spazi di conflitto contro quei pochi che, controllando l’accesso alle risorse comuni, determinano la qualità della vita di molti. L’urbanizzazione ha giocato un ruolo primario nell’assorbimento del surplus di capitale, alimentando processi di “distruzione creatrice” che hanno sottratto alle masse il diritto di costruire e ricostruire le proprie città. Questo conflitto latente è esploso periodicamente in grandi rivolte popolari, come nella Comune di Parigi del 1871, a seguito della riconfigurazione urbanistica voluta da Napoleone III e realizzata da Haussmann, quando i cittadini espropriati si sollevarono per imporre il governo rivoluzionario sulla capitale. O come nel 1968, con i grandi movimenti sociali urbani che agitarono Chicago e Berlino, Praga e Città del Messico, o ancora, nell’estate 2011, con i riots che hanno bruciato le periferie di Londra e con l’ondata di indignazione contro il potere finanziario che ha scosso America ed Europa. “Città ribelli” ripercorre la storia delle città come centri propulsori della lotta di classe e dei movimenti di riappropriazione dei diritti collettivi.


David Harvey

Geografo, sociologo e politologo inglese.
Si occupa di geografia politica e, dal 2001, è professore di Antropologia alla Graduate School della City University di New York.
Precedentemente è stato professore di Geografia presso le università di Oxford e Johns Hopkins.
L’“Independent” ha citato il suo libro La crisi della modernità come una delle cinquanta opere più importanti del secondo dopoguerra. Nel 1995 gli è stata conferita la Patron’s Medal della Royal Geographical Society e nel 2007 è stato eletto membro della American Academy of Arts and Sciences.
Tra i suoi libri tradotti in italiano: La crisi della modernità (il Saggiatore, 2002), La guerra perpetua (il Saggiatore, 2006), Breve storia del neoliberalismo (il Saggiatore, 2007), Neoliberismo e potere di classe (Allemandi, 2008), Il capitalismo contro il diritto alla città (Ombre corte, 2012), Città ribelli (il Saggiatore, 2013), Giustizia sociale e città (Feltrinelli, 1978), L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza (Feltrinelli 2011) e Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo (Feltrinelli, 2014).


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Clara Usón – Il valore assoluto, il dogma, l’ideale del XXI secolo è il profitto, il denaro. Il valore morale equivale a quello economico.

Clara Usón

«Il valore assoluto, il dogma, l’ideale del XXI secolo è il profitto, il denaro. Il valore morale equivale a quello economico». Clara Usón, il manifesto, 13-09-2016.

 

Valori

Clara Usón, Valori, Sellerio, 2016

Quarta di copertina

«Una volta gli eroi erano persone che dimostravano il loro valore, o la loro dignità. Oggi gli eroi sono i calciatori, non altro che mercenari, oppure gli imprenditori come Steve Jobs. Adesso che il lavoro è scarso ammiriamo i ricchi, i milionari. Siamo diventati schiavi consapevoli, rassegnati e vili». In queste parole di Clara Usón è la traccia di un romanzo di sorprendenti corrispondenze e simmetrie, in cui il destino dei personaggi diventa materia di riflessione e di passione civile.
Nei nostri giorni una direttrice di banca vende ai suoi clienti azioni privilegiate ma di nessuna consistenza economica. Nel 1930 un giovane militare, fedele agli ideali repubblicani, insorge con una rivolta armata contro l’oppressione della monarchia. Durante la seconda guerra mondiale un prete rivela il suo fanatismo nel campo di concentramento di Jasenovac, in Croazia. Un legame profondo, un comune dilemma morale, accomuna queste vicende distanti solo in apparenza. Nel mettere alla prova il proprio sistema di valori, che sia l’idealismo politico, la fede religiosa o il culto della ricchezza, i tre personaggi cercano di assicurarsi un futuro, di realizzare la propria vita. Nella loro sorte si incarnano la venerazione del denaro, il prezzo della libertà, la violenza della religione che diventa dogma, e la divergenza delle loro scelte li mette di fronte alla felicità o a un baratro di disperazione, a un segno esemplare di libertà e coraggio o allo stigma della più infame colpevolezza.
Clara Usón intreccia magistralmente i piani temporali e narrativi, e ispirandosi a fatti reali racconta l’integrità e la spregevolezza morale, i paradossi dell’audacia e della viltà, la potenza delle convinzioni personali, tratteggiando in momenti diversi della Storia le idee e i principi che hanno ispirato e causato atti di umanità esemplare, o di sconcertante barbarie. Nasce così una poetica della sopravvivenza, che nella simultaneità dei tempi e delle circostanze dei protagonisti dà forma a una nuova coniugazione, tutta contemporanea, del «romanzo politico».


Clara Usón è nata nel 1961 a Barcellona. Autrice di sette romanzi, all’esordio nel 1998 ha vinto il Premio Lumen e nel 2009 il Premio Biblioteca Breve Seix Barral con Corazón de napalm. È stata riconosciuta dalla critica spagnola come una delle maggiori scrittrici contemporanee, dotata di una grande creatività e di un’originale sensibilità espressiva, che fanno di lei una «degna erede di Čechov» (El Mundo). Con questa casa editrice ha pubblicato La figlia (2013), un caso letterario in Italia, e un grande successo di critica e di pubblico, e Valori (2016).


 


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