David Herbert Lawrence (1885-1930) – Tutta la loro vita si basa sul denaro che spendono. Se si potesse soltanto dir loro che vivere e spendere non sono la stessa cosa. Il denaro avvelena quelli che ne hanno e affama quelli che ne sono privi.

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«Parlano molto di nazionalizzazione: dei profitti, nazionalizzazione di tutta l’industria. Ma non si può nazionalizzare e lasciare le altre industrie come sono. […] Gli operai sono molto
apatici. Sentono che tutta la maledetta baracca è destinata alla rovina, e credo che abbiano ragione. E anch’ essi sono rovinati nello stesso tempo. Alcuni, fra i giovani, strepitano per costituire un ‘Soviet’ ma senza molta convinzione. Non sono veramente convinti di niente, senonché tutto è confusione e imbroglio. […] Gli uomini sono muti e sentono una condanna fatale e vanno in giro come se non ci fosse nulla da fare.
In ogni modo, nessuno sa che cosa si dovrebbe fare, nonostante tutte le chiacchiere, i giovani sono furiosi perché non hanno denaro da spendere, tutta la loro vita si basa sul denaro che spendono, e ora il denaro è finito.
[…] Se si potesse soltanto dir loro che vivere e spendere non sono la stessa cosa! Ma non serve a nulla. […] Dovrebbero imparare ad essere nudi e belli, a cantare in massa, a ballare le antiche danze in gruppo, a intagliare gli sgabelli su cui seggono e a ricamare i propri simboli. Allora non avrebbero pili bisogno di denaro. Questo è il solo mezzo per risolvere il problema industriale: insegnare al popolo a vivere e vÌvere in bellezza, senza bisogno di spendere. […]
Il denaro avvelena quelli che ne hanno e affama quelli che ne sono privi.
[…]  Sento il diavolo nell’ aria, e cercherà di afferrarci. O , forse, non il diavolo ma Mammona, il quale non è altra cosa, credo, se non la volontà collettiva degli uomini che vogliono il denaro e odiano la vita.
Comunque sento nell’aria grandi mani bianche avide che tentano di prendere per la gola e di far schizzar fuori la vita a chiunque cerca di vivere, vivere di là del denaro. I brutti
tempi si avvicinano. Si avvicinano i brutti tempi, ragazzi, si avvicinano: se le cose rimangono come sono, l’avvenire non offre che morte e distruzione alle masse industriali. […] Tutte le sciagure che sono accadute non sono state in grado di far appassire i fiori, e neppure l’amore delle donne. Perciò non potranno spegnere il mio desiderio di te né la piccola luce fra te e me. L’anno venturo saremo insieme. E sebbene abbia paura, credo nella nostra unione. L’uomo deve difendersi e fare del suo meglio, e poi avere fiducia in qualche cosa che lo superi. La sola precauzione che si può prendere contro il futuro è quella di credere in quanto si ha di meglio in se stessi e credere nella potenza che ci supera. Perciò credo nella piccola fiamma che arde fra noi».

 

David Herbert Lawrence, L’amante di Lady Chatterley [1928], Mondadori, 1947, pp. 371-372.

 

 


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Giuseppe Cambiano, Cesare Pianciola – Esistenza, ragione, storia. Pietro Chiodi (1915-1970)

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Giuseppe CambianoCesare Pianciola (a cura di), Esistenza, ragione, storia. Pietro Chiodi (1915-1970). Hanno inoltre collaborato a questo volume: Gianluca Garelli, Pino Marchetti, Andrea Mecacci, Gabriele Pedullà, Cesare Pianciola, Aida Ribero, Francesco Remotti.

ISBN 978-88-7588-195-5, 2017, pp. 160, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [73]. In copertina: foto di Pietro Chiodi, di Aldo Agnelli, Alba (Archivio Aida Ribero).

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Banditi

Sartre and Marxism

L'esistenzialismo

L'esistenzialismo di Heidegger

Il pensiero di Immanuel Kant

I. Kant

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Hanno collaborato a questo volume

Giuseppe Cambiano (Torino, 1941)

dopo la laurea in Filosofia, sotto la guida di Nicola Abbagnano, nel 1965 presso l’Università di Torino, ha lavorato con Chiodi come assistente presso la cattedra di Filosofia della Storia. Ha insegnato Storia della filosofia e poi Storia della filosofia antica, all’Università di Torino dal 1975 al 2002 e dal 2003 al 2011 presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, di cui è ora professore emerito. È socio nazionale dell’Accademia delle Scienze di Torino e dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Tra le sue pubblicazioni: Platone e le tecniche, Laterza, 1991; Storia della filosofia antica, Laterza, 2009; Perché leggere i classici. Interpretazione e scrittura, il Mulino, 2010, Come nave in tempesta. Il governo della città in Platone e Aristotele, Laterza, 2016.

Gianluca Garelli (Torino, 1969)

ha studiato a Torino, Bologna, Heidelberg e Berlino; è professore associato presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze. Si è occupato principalmente di filosofia classica tedesca e sua ricezione nel pensiero contem­poraneo; storia dell’estetica; ermeneutica filosofica; teoria del tragico. È autore fra l’altro di traduzioni italiane di scritti di Peter Szondi (Saggio sul tragico, 1996), Hegel (La fenomenologia dello spirito, 2008) e Kant (Lezioni di enciclopedia filosofica, 2002; Antropologia dal punto di vista pragmatico, 2010). L’ultimo libro che ha pubblicato è La questione della bellezza. Dialettica e storia di un’idea filosofica (Einaudi, 2016).

Pino Marchetti (Pontoglio, 1955) insegna filosofia e storia al Liceo “Veronica Gambara” di Brescia. Ha curato Pietro Chiodi. Bibliografia per la mostra documentaria presso la Biblioteca Queriniana di Brescia (2015) e P. Chiodi, Lettere (1955-1970), Corteno Golgi 2015.

Andrea Mecacci (Roma, 1972) è professore associato di Estetica presso l’Università degli Studi di Firenze. L’estetizzazione della contemporaneità, le sue declinazioni teoriche e operative e l’analisi di alcune categorie (il pop, il kitsch) compongono l’orizzonte delle sue ricerche attuali. Tra le sue pubblicazioni: Introduzione a Andy Warhol (Laterza, 2008); L’estetica del pop (Donzelli, 2011); Estetica e design (il Mulino, 2012); Il kitsch (il Mulino, 2014).

Gabriele Pedullà (Roma, 1972) insegna Letteratura italiana presso l’università di Roma 3 ed è stato visiting professor a Stanford e UCLA. Ha pubblicato monografie su Beppe Fenoglio (La strada più lunga, Donzelli, 2001), sul cinema e le altre arti (In piena luce, Bompiani, 2008) e su Machiavelli (Machiavelli in tumulto, Bulzoni, 2011). Ha curato: Aa. Vv., Racconti della Resistenza (Einaudi, 2005); Aa. Vv., Parole al potere. Discorsi politici italiani (Bur. 2011); Niccolò Machiavelli, Il principe (Donzelli. 2011); Beppe Fenoglio, Il libro di Johnny (Einaudi. 2015) e, assieme a Sergio Luzzatto, l’Atlante della letteratura italiana (Einaudi. 2010-12). Presso Einaudi ha pubblicato anche i racconti Lo spagnolo senza sforzo (2009) e il romanzo Lame (2017). Collabora con il supplemento culturale della domenica del «Sole 24 Ore».

Cesare Pianciola (Torino, 1939) è stato assistente presso la cattedra di Filosofia della storia dell’Università di Torino, docente di storia e filosofia nella Secondaria superiore fino al 1994 e di Analisi di testi filosofici dal 2001 al 2008 presso la S.I.S. di Torino. Fa parte del comitato editoriale de «L’Indice dei libri del mese» e del consiglio direttivo del Centro studi Piero Gobetti (al quale ha dedicato vari saggi, tra cui Piero Gobetti. Biografia per immagini, Gribaudo, 2001). Ha pubblicato lavori su Hannah Arendt, sulla filosofia contemporanea italiana e francese, su Marx e il marxismo. Con Franco Sbarberi ha curato e introdotto la raccolta di inediti di N. Bobbio, Scritti su Marx. Dialettica, stato, società civile, Donzelli, 2014.

Aida Ribero (Buenos Aires, 1935) è stata insegnante; ha fondato il Telefono Rosa e il Centro Studi e Documentazione Pensiero Femminile di Torino. Ha organizzato mostre sulla storia del percorso di libertà delle donne del secolo scorso e scritto saggi sul femminismo (tra cui Una questione di libertà. Il femminismo degli anni settanta, Rosenberg & Sellier, 1999). Ha curato Glossario-Lessico della differenza, Regione Piemonte, Torino, 2007, e Procreare la vita filosofare la morte. Maternità e femminismo, Il Poligrafo, 2011.

Francesco Remotti (Pozzolo Formigaro, 1943) si è laureato con Chiodi con una tesi su Lévi-Strauss (su cui ha pubblicato Lévi-Strauss. Struttura e storia, Einaudi, 1972). È stato professore ordinario di Antropo­logia culturale, insegnando anche Etnologia dell’Africa, ed è professore emerito dell’Università di Torino. Dal 2002 è socio corrispondente dell’Accademia delle Scienze di Torino. Tra i suoi ultimi libri: Fare umanità. I drammi dell’antropo-poiesi, Laterza, 2013; Per un’antropologia inattuale, Elèuthera, 2014.


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Massimo Ammaniti – Forse si invecchia veramente solo quando non ci si stupisce più, quando si dà tutto per scontato e la vita sembra non riservare più sorprese. Si può mantenere il gusto della conoscenza e sapersi ancora meravigliare di un fiore che si schiude o di una bambina che ti sorride.

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Forse si invecchia veramente solo quando non ci si stupisce più, quando si dà tutto per scontato e la vita sembra non riservare più sorprese. Ma si può essere vecchi e mantenere il gusto della conoscenza e sapersi ancora meravigliare degli insoliti colori di un tramonto, di un fiore che si schiude o di una bambina che ti sorride con aria divertita.

 

Massimo Ammaniti

La curiosità non invecchia

Massimo Ammaniti, La curiosità non invecchia. Elogio della quarta età, Mondadori, 2017.

 

«Forse si invecchia veramente solo quando non ci si stupisce più, quando si dà tutto per scontato e la vita sembra non riservare più sorprese. Ma si può essere vecchi e mantenere il gusto della conoscenza e sapersi ancora meravigliare degli insoliti colori di un tramonto, di un fiore che si schiude o di una bambina che ti sorride con aria divertita.» Il nuovo libro di Massimo Ammaniti è una riflessione sulla terza e quarta età, e più in generale sulla vecchiaia, stimolata anche dalle testimonianze di ottantenni e novantenni protagonisti della vita culturale e politica del nostro paese (come Andrea Camilleri, Raffaele La Capria, Aldo Masullo, Mario Pirani, Alfredo Reichlin, Luciana Castellina, Angela Levi Bianchini) che ora raccontano di come e quanto è cambiato il loro modo di vivere i sentimenti e le esperienze propri della vita di ogni essere umano: la famiglia, l’amore, l’amicizia, il senso del tempo, i sogni, il desiderio, i ricordi, i lutti. Ammaniti ci mostra che non lasciarsi sopraffare dalla rabbia e dal rancore, non ripiegarsi su se stessi, ma continuare a coltivare affetti, interessi e passioni, a rimanere agganciati al presente e a fare progetti per il futuro, magari condividendo in modo partecipe quelli di figli e nipoti, è il segreto per far sì che la vecchiaia non corrisponda al tetro stereotipo di periodo di inquietudine e sconforto, di abulia e rassegnazione, insomma di vuota attesa della morte. Come l’anziano professor Borg, l’indimenticabile protagonista del film Il posto delle fragole di Ingmar Bergman, anche le persone intervistate rivisitano la storia della propria vita per rintracciare il filo rosso che l’ha attraversata e, con esso, la direzione e il significato del percorso compiuto. Così la dimensione anagrafica ed esistenziale della vecchiaia ritrova la sua verità, quella di una stagione indubbiamente difficile, irta di insidie fisiche e psicologiche, di paure e di perdite, ma che, se affrontata accettando la propria condizione senza risentimento né eccessivi rimpianti, e con la lucidità dovuta a una maggiore consapevolezza di sé e a un minor coinvolgimento emotivo nelle vicende del mondo, può rivelarsi una fase di straordinario arricchimento interiore e affettivo. Come quando il giorno concede al tramonto la sua luce più intensa e più vera.

 

 

Massimo Ammaniti è professore onorario della Sapienza Università di Roma, psicoanalista dell’International Psychoanalytical Association ed è stato nel Board of Directors della World Association of Infant Mental Health. I suoi interessi di studio e di ricerca si sono orientati in prevalenza ai temi della genitorialità e della maternità, dello sviluppo infantile e dell’adolescenza. Autore di numerosi testi scientifici, tradotti anche all’estero, ha fra l’altro pubblicato: Nel nome del figlio (con N. Ammaniti, 1995), Crescere con i figli (1997), Pensare per due. Nella mente delle madri (2008), Noi. Perché due sono meglio di uno (2014), La nascita dell’intersoggettività (con V. Gallese, 2014), La famiglia adolescente (2015).

 


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Peter Sloterdijk – L’arte come baluardo di messa in crisi dell’attuale in favore di un possibile ancora non realizzato.

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Peter Sloterdijk, L’impeartivo estetico. Scritti sull’arte, Raffaello Cortina, 2017.

 

L’estetica di Sloterdijk non è semplicemente una filosofia dell’arte, ma anzitutto un modo eminente di fare filosofia. Al centro della riflessione che attraversa i saggi qui raccolti è la questione dell’aisthesis – la sensazione o sensibilità – nella sua più ampia declinazione. Da un lato si attribuisce all’arte “in senso stretto” uno spazio eccentrico rispetto alla norma, dall’altro si fa valere un modo alternativo di guardare all’esperienza estetica, riconoscendole un ruolo guida nelle scelte consapevoli e nelle condotte inconsapevoli dell’essere umano. Così concepita, l’estetica possiede un profondo potere euristico: ci aiuta a capire che tipo di mondo ci siamo costruiti, come ci “sentiamo” in questo mondo e in che modo potremmo cambiarlo, cominciando da noi stessi.
Con lo stile incisivo e la profondità analitica che gli sono propri, Sloterdijk affronta un ampio spettro di questioni tradizionalmente assegnate alla dimensione estetica – dall’architettura alla musica, dal design alla pittura, dalla forma della città alla letteratura – inquadrandole nella sua originale e innovativa antropologia filosofica.



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Giacomo Leopardi (1798-1837) – La più sublime, la più nobile tra le Fisiche scienze ella è senza dubbio l’Astronomia. L’uomo s’innalza per mezzo di essa come al di sopra di se medesimo.

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«La più sublime, la più nobile tra le Fisiche scienze ella è senza dubbio l’Astronomia. L’uomo s’innalza per mezzo di essa come al di sopra di se medesimo».

Giacomo Leopardi

 

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logo La vita felice

Giacomo Leopardi, Storia della astronomia dalla sua origine fino all’anno MDCCCXIII, La Vits Felice, 2014, pp. 464; con uno scritto di Armando Massarenti e un’appendice di Laura Zampieri.

 

«Trecento pagine di erudizione densissima, in cui si ripercorre l’evoluzione della disciplina dall’antichità fino al presente, elencando con dettaglio puntiglioso tutte le fonti, con una completezza e una competenza che forse non ho incontrato (mi perdonino) nei miei collkeghi storici della scienza. E tutto questo composto da Giacomo Leopardi a … quindici anni».

Carlo Rovelli

Quarta di copertina

«La più sublime, la più nobile tra le Fisiche scienze ella è senza dubbio l’Astronomia. L’uomo s’innalza per mezzo di essa come al di sopra di se medesimo, e giunge a conoscere la causa dei fenomeni più straordinari. Una così utile scienza dopo essere stata per molto tempo soggetta alle tenebre dell’errore ed alle follie degli antichi filosofi, venne finalmente ne’ posteriori secoli illustrata a segno, che meritamente può dirsi, poche esser quelle scienze, che ad un tal grado di perfezione sieno ancor giunte». Esordisce così Giacomo Leopardi in questa opera giovanile (è del 1813) dalla quale riceverà riconoscimenti che salgono ben presto a un grado di ammirazione e che esaltano la eccezionale importanza del filologo. La Storia della astronomia, infatti, è senza dubbio un’opera di letteratura. Leopardi si avvale delle enormi cognizioni scientifiche di cui è in possesso e le usa per collegarle ovunque agli scrittori greci e romani della classicità, per sottolineare quanto anch’essi avessero fatto riferimento nelle loro opere alle scienze astronomiche e quindi se ne fossero fatti portavoce, attribuendo così una missione vaticinante e una funzione storico-conoscitiva al letterato.

Ancora su Giacomo Leopardi

Edoardo BoncinelliGiulio Gioriello, L’incanto e il disinganno: Leopardi. Poeta, filosofo, scienziato, Guanda, 2016.

Annalisa Strada, Leopardi e l’amore nascente, Raffaello Ragazzi, 2016.

Sebastiano Timpanaro, Alcune osservazioni sul pensiero di Leopardi, Solfanelli, 2015.

Giorgio Cosmacini, L’infinito di Leopardi, un impossibile congedo, Sedizioni, 2016.

Alessandro D’Avenia, L’arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita, Mondadori, 2016.


Giacomo Leopardi – Cos’è la lettura per l’arte dello scrivere
Giacomo Leopardi (1798-1837) – Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione
Giacomo Leopardi (1798-1837) – La felicità non è che la perfezione, il compimento della vita.
Giacomo Leopardi (1798-1837) – Un sorriso e una poesia possono aggiungere un filo alla trama brevissima della vita, accrescendo la nostra vitalità.

 


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Byung-Chul Han – La vita contemplativa è più attiva di qualsiasi iperattività, che rappresenta un sintomo di esaurimento spirituale.

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La società della stanxhezza

La società della stanxhezza

Byung-Chul Han nella sua opera La società della stanchezza descrive la vita “dell’ultimo uomo”, l’uomo del mercato globalizzato, formato per la produzione H24 – a volere usare un’espressione in voga nel sistema dell’efficienza a tutti costi –, del risultato quale paradigma di giudizio per discriminare gli inclusi dagli esclusi.
È la società del poter fare: lo Stato non più garante dei diritti sociali ed individuali interviene per porre le condizioni perché possa essere possibile sempre la competizione. Il nuovo imperativo invita al poter fare, alla passività dinanzi all’iperstimolazione. La società del doping: tutto diviene lecito purchè il risultato sia possibile. L’ego ipertrofico raccoglie nel vuoto del proprio narcisismo ogni stimolazione all’azione con l’effetto di un io esponenziale che, con la sua ombra, oscura la comunità, il libero pensiero, ogni atto creativo. La gettatezza dell’iperattivismo comporta la passività. La libertà, invece, conosce la resistenza. Il riposo e la noia quali momenti imprescindibili della creazione del nuovo. ”Ci sono due forme di potenza. La potenza positiva è la potenza di fare qualcosa. La potenza negativa è invece la potenza di non fare – di dire no, per esprimerci con Nietzsche. Questa potenza negativa si distingue però dalla mera impotenza, dall’incapacità di fare qualcosa. L’impotenza è soltanto il contrario della potenza positiva. È essa stessa positiva nella misura in cui è vincolata a qualcosa. Essa, intatti, è un non poter fare qualcosa. La potenza negativa supera questa positività che è vincolata a qualcosa, è una potenza di non fare. Se possedessimo solo la potenza positiva di percepire qualcosa, senza quella negativa di non percepire, la percezione sarebbe esposta senza difese a tutti gli stimoli e gli impulsi che premono e s’impongono. Non sarebbe possibile, così, alcuna “spiritualità”. Se possedessimo solo la potenza di fare qualcosa e non la potenza di non fare, giungeremmo a un’iperattività mortale. Se avessimo solo la potenza di pensare qualcosa, il pensiero si disperderebbe nella serie infinita degli oggetti. Sarebbe impossibile riflettere, poiché la potenza positiva, l’eccesso di positività, ammette solo di prolungare il pensieri” [1]
Il paradosso è che la società che si presenta come la più libera in assoluto, modello oltre il quale non vi è che il nulla, fa dell’attività il suo integralismo che uccide la libertà. Quest’ultima necessita del tempo sospeso per aprirsi ai legami, alla cura del sé, al pensiero critico, mentre la produzione assume carattere di consenso e nel contempo mezzo per narcotizzare le masse.
Il nuovo “oppio dei poveri” è l’iperproduzione senza consapevolezza.
L’uomo dell’iperproduzione disimpara a vedere, a contemplare la ricchezza della vita, la sua problematicità creativa. Si vogliono uomini ciechi per il nuovo integralismo, oscurati dalla produzione, che anestetizzano il loro sentirsi nel mondo “La mancanza di spirito, la meschinità si fonderebbero sull’“incapacità di resistere a uno stimolo”, di contrapporgli un “no”. Reagire immediatamente e seguire ogni impulso sarebbe già una malattia, una decadenza, un sintomo d’esaurimento. Qui Nietzsche non esprime altro che la necessità di una rivitalizzazione della vita contemplativa. Questa non è un aprirsi passivo, che dice “sì” a tutto ciò che i viene e che accade. Al contrario, essa oppone resistenza agli stimoli che premono e s’impongono. Invece di abbandonare lo sguardo all’impulso esterno, essa lo guida sovrana. Come fare sovrano che dice no, la vita contemplativa è più attiva di qualsiasi iperattività, che rappresenta allora un sintomo di esaurimento spirituale.”[2]
Contro la pressione alla prestazione Byung Chul Han propone la stanchezza che cura. La noia come la stanchezza spostano l’asse percettivo, il soggetto nel tempo sospeso dalla produzione riconfigura i significati, coglie nella noia la percezione che il presente non è tutto, ma solo il frammento della possibilità, della storia multilineare che attende per essere rimessa in gioco “La stanchezza da esaurimento è una stanchezza della potenza positiva. Rende incapaci di fare qualcosa. La stanchezza che ispira è una stanchezza della potenza negativa, ossia del non-fare. Anche lo Shabbat, che in origine significava “smettere”, è un giorno del non-fare, un giorno libero da ogni fare-per, da ogni cura (Sorge) – per dirla con Heidegger. Non si tratta di un intervallo. Dopo la creazione, Dio designò il settimo giorno come sacro. Sacro non è, dunque, il giorno del fare-per, ma il giorno del non fare, un giorno in cui sarebbe possibile l’utilizzo dell’inutilizzabile. Il giorno della stanchezza. L’intervallo è un tempo senza lavoro, un tempo di gioco, diverso anche dal tempo di Heidegger, che è essenzialmente un tempo della cura e del lavoro. Handke descrive questo intervallo come un tempo di pace. La stanchezza è disarmante. Nel lungo, lento sguardo di chi è stanco sorge la risolutezza della quiete. L’intervallo è un tempo dell’in-differenza come cortesia: “Io qui sto raccontando della stanchezza in un momento di pace, nell’intervallo. E in quelle ore c’era pace […]. E la cosa sorprendente è che la mia stanchezza là pareva collaborare al momento di pace – acquietando? attenuando? – disarmando ogni volta già sul nascere con lo sguardo i gesti di violenza, di rissa o anche soltanto di scortesia”.[3]
La stanchezza è disarmante perché si orienta verso l’ascolto di se stessi e degli altri, la relazione riemerge nella sua dinamicità ed intenzionalità verso la trasformazione dei processi naturalizzati che in quanto tali sono portatori di violenza e passività. La dialettica del possibile non può più attendere, la società del doping descritta dal filosofo vive nella dimenticanza di sé , cela nel ventre dell’iperattività la sua disperazione. Solo la resistenza pensata e progettata può rivitalizzare un sistema ripiegato nel suo meccanicismo depressivo

Salvatore Bravo

[1] Byung Chul Han La società della stanchezza ( ed. nottetempo Roma, 2013-pag 20)

[2] Ibidem pag 19

[3] Ibidem pag 27

 

 


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María Zambrano (1904-1991) – Il punto dolente della cultura moderna è la sua mancanza di trasformazione della conoscenza pura in conoscenza attiva, che possa alimentare la vita dell’uomo di ciò che necessita.

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Persona e democrazia

Persona e democrazia

«[…] tocchiamo il punto dolente della cultura moderna: la sua mancanza di trasformazione della conoscenza pura in conoscenza attiva, che possa alimentare la vita dell’uomo di ciò che necessita» (p. 56)

 

María Zambrano

Il nuovo totalitarismo per la Zambrano è la tirannia dell’attività illimitata che rende la persona cosa, frammento di natura, oggetto di leggi meccaniche.

Persona e democrazia di Maria Zambrano è il testo di una pensatrice eterodossa, sempre al limite dei sistemi ideologici che ha incarnato la filosofia nell’atto dl vivere. Eterodossa perché libera dai sistemi poteri rassicuranti, dalle verità pronte per l’uso. Cattolica senza chiesa e donna di sinistra senza partito, ha vissuto la libera scelta del pensiero con l’esilio e con la miseria materiale. Pensare per la Zambrano significava vivere la dimensione del tempo ricurvo, ritornare su se stessi per capire, ricategorizzare le possibilità della realtà storica vissuta, per cui vi è pensiero solo nel soggetto che ritorna in sé, in un movimento dialettico disalienante, per “sentire la propria identità” coagularsi attorno alla dimensione del pensare. La comunicazione è possibile nel tempo sospeso dalla prassi, nell’incontro che non vuole affascinare e predare ma accoglie la parola per sentirla nella profondità del pensiero in cui la densità emotiva mai è recisa dal piano della razionalità. In Persona e democrazia la Zambrano coglie con chiarezza il profilarsi del totalitarismo del tempo pieno delle democrazie liberiste. Filosofa senza pregiudizi a cui la marginalità ha donato la capacità di giudicare i pericoli che minacciano la comunità delle persone, la Zambrano giudica la democrazia liberista una nuova forma di totalitarismo. Le democrazie hanno fatto dell’azione e della produzione la metafisica del loro consenso, il loro feticcio, ma il tempo pieno osserva la Zambrano è tempo senza pensiero, perché il tempo non più ricurvo, è rettilineo, segue il ritmo naturale della produzione. Il tempo pieno dei totalitarismi dal nazionalsocialismo al tempo pieno delle democrazie liberale, annichilendo il pensiero vorrebbero eterizzare se stessi mediante un processo di naturalizzazione con il quale il sistema si sottrae al pensiero. E proclama la fine della storia. Solo il tempo vuoto consente la libertà e la democrazia autentica poiché è il tempo che ritorna su se stesso, emancipato dalla pratica coatta, dall’orizzonte delle sole cose, consente al soggetto di appartenersi, di andare verso se stessi e gli altri con intenzionalità spontanea. Il nuovo totalitarismo per la Zambrano è la tirannia dell’attività illimitata che rende la persona cosa, frammento di natura, oggetto di leggi meccaniche. Il suo appello – denuncia del nuovo totalitarismo – non deve coglierci impreparati ed inermi, ma motivarci all’attiva difesa del pensiero e dunque della comunità democratica e partecipata.

Salvatore Bravo

 

María Zambrano, Persona e democrazia, Bruno Mondadori, 2000.


Maria Zambrano – La virtù della delicatezza
Maria Zambrano (1904-1991) – Il silenzio che accoglie la parola assoluta del pensiero umano diventa il dialogo silenzioso dell’anima con se stessa.
Maria Zambrano (1904-1991) – Saper guardare un’icona significa liberarne l’essenza, portarla alla nostra vita

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Marija Gimbutas (1921-1994) – L’inquietudine del «Pensatore» di Hamangia, metafisico contemplatore dell’universo di settanta secoli fa.

Il «Pensatore» di Hamangia

Il Pensatore di Crnavoda. Cultura di Hamangia, 500-4600 aC, Bucarest, Museo Nazionale di Storia della Romania

Il «Pensatore».
Cultura di Hamangia, 500-4600 a.C., Bucarest, Museo Nazionale di Storia della Romania.

«Questo libro splendidamente illustrato
 raccoglie una documentazione archeologica
 che difficilmente può essere trovata altrove».
Mircea Eliade

 

 

Le dee e gli dei dell'Antica Europa. Miti e immagini del culto

Le dee e gli dei dell’Antica Europa. Miti e immagini del culto

 

Marija Gimbutas (1921-1994), Le dee e gli dei dell’Antica Europa. Miti e immagini del culto, trad. e cura di Mariagrazia Pelaia, Stampa Alernativa, pp. 336, 2016.

 

Quarta di copertina

Scritto nel 1974 e riveduto e aggiornato nel 1982, questo volume determinò la notorietà dell’Autrice. La civiltà europea fiorita fra il 6500 e il 3500 a.C. – molto prima della civiltà greca e di quella giudaico-cristiana – non è stata un mero riflesso delle culture confinanti del Vicino Oriente, ma una cultura autonoma dotata di un suo carattere originale. L’immaginario mitico dell’epoca matrilineare rivela quali fossero le prime concezioni che l’umanità aveva del cosmo, dei rapporti tra uomo e natura e tra maschio e femmina: con al centro la Grande Dea che incarnava il principio creatore come fonte e scaturigine di tutto. Attraverso lo studio delle sculture, dei vasi e degli oggetti di culto provenienti dall’Europa sud-orientale, Gimbutas descrive una cultura che si strutturava intorno al villaggio, prima di essere travolta e dispersa dagli Indoeuropei patriarcali.

 

Marija Gimbutas, nata in Lituania nel 1921, dopo l’occupazione sovietica si trasferisce in Germania e poi nel 1949 come rifugiata negli Stati Uniti dove, alla Harvard University, si specializza nell’archeologia dell’Europa orientale, mettendo a disposizione dei colleghi testi e materiali altrimenti illeggibili. Nel 1963 le viene offerta la cattedra di Archeologia europea all’Università di California, che occupa fino al 1989. Dirige campagne di scavo nei Balcani e in Italia meridionale in siti dell’età neolitica. I suoi ultimi tre libri sono quelli che hanno suscitato maggiori reazioni in ambito accademico e culturale a livello mondiale: The Goddesses and Gods of Old Europe (1974, 1982; l’opera qui presentata è per la prima volta tradotta in italiano), The Language of the Goddess (1989; tr. it.: Il linguaggio della Dea, Longanesi) e The Civilization of the Goddess (1991; tr. it.: La civiltà della Dea – voll. 1 e 2, Stampa Alternativa). Con le sue intense ricerche sul significato sociale e simbolico delle antiche culture neolitiche ha ampliato in senso interdisciplinare il consueto approccio accademico fondando una nuova disciplina: l’archeomitologia.
Muore a Los Angeles nel 1994.



Oltre la linea che separa la Grecia dalle nebbie che la lambiscono, un retaggio ancestrale guida e mette in scena il pensatore mitico: ha l’aspirazione alla totalità, immagina spenditi vasi e statue, costruisce cosmogonie. Dal pullulare di forme appare la terracotta del “Pensatore” di Hamangia (Romania, 500-4600 a.C.). La figura maschile, forse un dio della vegetazione, sta seduta con il volto tra le mani, esprimendo un’inquietudine senza limiti profonda. Frutto di una convenzione già antinaturalistica, la statuina è una stenografia, una nota toroniana per il dolore del mondo. Questo contemplatore dell’universo, laliconico, metafisico di settanta secoli fa, è ltra le più struggenti testimonianze della presenza dell’uopmo nella storia.

Domenico Pinto, L’inquitudine della terracotta di Hamangia, “Alias”, il manifesto, 22-01-2017, p. 8.


 


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Fernando Eros Caro – In un Paese che fu creato sterminando la popolazione che già vi risiedeva, come si fa a credere che una giuria sia infallibile? Non smettete mai di sognare.

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Prigionieri dell'uomo bianco

Prigionieri dell’uomo bianco

«Il termine giusto per definire il modo in cui le scelte delle masse vengono fatte oscillare da una parte piuttosto che da un’altra è “manipolazione”. […] Dopo tutto le masse sono ingenue e credono a ciò che viene detto loro. Le loro priorità nella vita non sono fare le indagini approfondite e confrontare le cose vere. Preferiscono adagiarsi sulle argomentazioni dello stato, che dice che la legge è legge […] Poi c’è anche la tattica del “e se …”. E se la pena di morte fosse abolita, cosa accadrebbe dopo? Il sospetto nasce semplicemente dalla ignoranza delle persone! Quindi la manipolazione si limiterà a far credere falsamente che questi uomini un giorno verranno liberati. Fino a quando verrà utilizzata la tattica di istillare la paura nelle masse, si otterranno le risposte volute. […] Si può vivere, si può morire, ma nessuno dovrebbe vivere aspettando di morire».
Fernando Eros Caro

 

Non smettete mai di sognare

Non smettete mai di sognare

 

 

«La mentalità dei giurati americani sarà sempre un’incognita in un Paese che permette l’incremento dei senzatetto, l’abbandono nelle strade dei malati di mente, che sottrae il denaro all’educazione scolastica per investirlo nel prolungamento delle guerre. In un Paese che fu creato sterminando la popolazione che già vi risiedeva, come si fa a credere che una giuria sia infallibile?».

Fernando Eros Caro

 

 

 

Fernando Eros Caro

Fernando Eros Caro

FERNANDO EROS CARO CI HA LASCIATO*

Il mio fratello adottivo yaqui, Fernando Eros Caro, prigioniero da 35 anni nel braccio della morte di San Quentin, ci ha lasciato. Aveva 77 anni. Lo hanno trovato senza vita nella sua cella, il 28 gennaio. Non si sa come sia morto, al telefono il medico diceva che le sue condizioni di salute erano buone. La stranezza è che nel giro di pochi giorni è deceduto anche un altro detenuto a San Quentin. L’unica consolazione per Fernando è che adesso non dovrà più subire il degradante protocollo delle sentenze capitali. Qui una poesia che scrissi per lui nel 2007, il giorno successivo al nostro primo incontro in carcere…

***

FRATELLO NEL BRACCIO
(a mio fratello Fernando Eros Caro)

Sguardi ingabbiati
in tuguri vuoti di speranza
tombe di carne ancora sorridono
nella vergogna smarrita dell’umanità
fioriscono volti d’innocenza incompiuta.

Mi sento colpevole mille volte
per quanto non lo sia
per quanto non condivida
per quanto mi opponga in ogni modo
che ogni modo non è mai abbastanza.

Straniero in questo campo di morte
l’orizzonte chiuso di vite a perdere
gente! qui nessuno uccide o viene ucciso
soltanto burocrazia da smaltire
nell’immarcescibile banalità dell’orrore.

Ho stretto le tue mani dopo
un gelido click di manette
ci narriamo l’infinito dagli occhi
viaggiando in ogni possibile dove
passi invisibili oltre, oltre
oltre cancelli & secondini.

Un uomo a due gabbie da noi
barcolla come un grido spezzato
col suo dolore implorante dentro
gli occhiali più grandi del viso
prego lacrime nelle sue ferite.

Una bambina piange suo padre
forse per l’ultima volta
fuori di qui, al di là di questi muri
la libertà tace come un privilegio incompreso
ciascuno torna alla sua
quotidiana prigione.

ma tu, Yoeme, persona antica
tu, Saai Maso, popolo del cervo
fratello mio
tu, storia vivente
resistere da più di 500 anni
tu, davanti a me, come un’alba
non ti piegherai, non ti piegheranno
il tuo dono è il mio sogno

un saluto Yaqui da lasciare al vento
nello spirito che evade all’incubo
sul nostro abbraccio che non finisce
che non finisce
mai!

––––– Marco Cinque –––––––

(*) postato su Facebook e poi segnalato in rete.
Nella foto qui sotto Marco e Fernando insieme.

***

 

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Marco Cinque, Cha Cha (sorella di Fernando) e Farnando
nella cella delle visite del braccio della morte di San Quentin.

Saai Maso. Fratello Cervo

Saai Maso. Fratello Cervo




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Marco Cinque – FERNANDO EROS CARO CI HA LASCIATO. «Il tuo dono è il mio sogno / un saluto Yaqui da lasciare al vento».

Marco Cinque 01

«Il termine giusto per definire il modo in cui le scelte delle masse vengono fatte oscillare da una parte piuttosto che da un’altra è “manipolazione”. […] Dopo tutto le masse sono ingenue e credono a ciò che viene detto loro. Le loro priorità nella vita non sono fare le indagini approfondite e confrontare le cose vere. Preferiscono adagiarsi sulle argomentazioni dello stato, che dice che la legge è legge […] Poi c’è anche la tattica del “e se …”. E se la pena di morte fosse abolita, cosa accadrebbe dopo? Il sospetto nasce semplicemente dalla ignoranza delle persone! Quindi la manipolazione si limiterà a far credere falsamente che questi uomini un giorno verranno liberati. Fino a quando verrà utilizzata la tattica di istillare la paura nelle masse, si otterranno le risposte volute. […] Si può vivere, si può morire, ma nessuno dovrebbe vivere aspettando di morire».
Fernando Eros Caro

 

Fernando Eros Caro

Fernando Eros Caro

FERNANDO EROS CARO CI HA LASCIATO*

Il mio fratello adottivo yaqui, Fernando Eros Caro, prigioniero da 35 anni nel braccio della morte di San Quentin, ci ha lasciato. Aveva 77 anni. Lo hanno trovato senza vita nella sua cella, il 28 gennaio. Non si sa come sia morto, al telefono il medico diceva che le sue condizioni di salute erano buone. La stranezza è che nel giro di pochi giorni è deceduto anche un altro detenuto a San Quentin. L’unica consolazione per Fernando è che adesso non dovrà più subire il degradante protocollo delle sentenze capitali. Qui una poesia che scrissi per lui nel 2007, il giorno successivo al nostro primo incontro in carcere…

***

FRATELLO NEL BRACCIO
(a mio fratello Fernando Eros Caro)

Sguardi ingabbiati
in tuguri vuoti di speranza
tombe di carne ancora sorridono
nella vergogna smarrita dell’umanità
fioriscono volti d’innocenza incompiuta.

Mi sento colpevole mille volte
per quanto non lo sia
per quanto non condivida
per quanto mi opponga in ogni modo
che ogni modo non è mai abbastanza.

Straniero in questo campo di morte
l’orizzonte chiuso di vite a perdere
gente! qui nessuno uccide o viene ucciso
soltanto burocrazia da smaltire
nell’immarcescibile banalità dell’orrore.

Ho stretto le tue mani dopo
un gelido click di manette
ci narriamo l’infinito dagli occhi
viaggiando in ogni possibile dove
passi invisibili oltre, oltre
oltre cancelli & secondini.

Un uomo a due gabbie da noi
barcolla come un grido spezzato
col suo dolore implorante dentro
gli occhiali più grandi del viso
prego lacrime nelle sue ferite.

Una bambina piange suo padre
forse per l’ultima volta
fuori di qui, al di là di questi muri
la libertà tace come un privilegio incompreso
ciascuno torna alla sua
quotidiana prigione.

ma tu, Yoeme, persona antica
tu, Saai Maso, popolo del cervo
fratello mio
tu, storia vivente
resistere da più di 500 anni
tu, davanti a me, come un’alba
non ti piegherai, non ti piegheranno
il tuo dono è il mio sogno

un saluto Yaqui da lasciare al vento
nello spirito che evade all’incubo
sul nostro abbraccio che non finisce
che non finisce
mai!

––––– Marco Cinque –––––––

(*) postato su Facebook e poi segnalato in rete.
Nella foto qui sotto Marco e Fernando insieme.

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Marco Cinque, Cha Cha (sorella di Fernando) e Farnando
nella cella delle visite del braccio della morte di San Quentin.


 

 

 

 

Civiltà Cannibali

Civiltà Cannibali

 

Marco Cinque, Civiltà cannibali, Edizioni Montedit, 2004.
Questo libro di Marco Cinque arriva in un momento particolare. Particolare ma preannunciato. Siamo in guerra, una guerra totale, assurda, sudicia. Ci siamo dentro tutti, armati e disarmati. Correi della catastrofe, dello sprofondamento della civiltà. E che cosa può fare un libro di poesia? I poeti possiedono le parole, ma le parole sono nude, usurate, svilite. Tuttavia, sono le parole le loro armi. Parole come pietre, come sassi, come gridi di ribellione e di speranza. Irriducibili.
La poesia non salva il mondo. Non scongiura la follia. Non ferma le guerre, gli eccidi, le mostruosità. Ma senza la poesia la tragica stupidità del mondo vincerebbe. E dunque, c’è bisogno di poesia. E c’è bisogno di poesia come questa. Le strade della poesia sono tante e tortuose e tutte hanno licenza di percorrimento. Sfuggendo alle definizioni, la poesia ci induce a prendere scorciatoie per semplificare: lirica, epica, civile (come se potesse esistere una poesia incivile). La poesia è sempre civile, intendendo per “civile” il grado di coinvolgimento, l’impegno, il mettersi in gioco, mente e cuore.
È il caso di questo libro coinvolgente, appassionante, necessario, dove le ragioni della poesia passano forse in seconda linea. L’imperativo per l’Autore è dire, è schierarsi contro ogni tipo di barbarie con la coscienza di uomo consapevole delle proprie armi e dei propri limiti. Sotto la penna vorace di Cinque scorre il mondo terribile e meraviglioso: diversi, emarginati, prigionieri in attesa della morte, bambini difficili, barboni, guerre, missili, sogni, amore, inganni e ombre rosse, tamburi e libertà, pace e stragi, e genocidi… Lui guarda col cuore e parla, scrive, suona, fotografa…
Le sue ballate sono fatte per essere dette a più voci, cantate in coro, nelle piazze. Parlano spietatamente di morte e evocano fortemente la vita, la gioia di vivere, l’innocenza, la grazia, la poesia dei bambini. Perché Marco sa che i bambini sono poeti. Non a caso i destinatari privilegiati sono proprio loro, quei bambini, che nei suoi viaggi nelle scuole Marco riesce a stupire e coinvolgere come un mago delle parole e delle meraviglie. “Da piccoli siamo tutti analfabeti e poeti. Quando diventiamo grandi impariamo a leggere e scrivere, ma spesso perdiamo la poesia”, dice Marco.
Lui, la poesia non l’ha perduta.
SignorNò

SignorNò

 

 

finepenamai

Finepenamai



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