Rodolfo Mondolfo (1877-1976) – Una rivoluzione non è un atto momentaneo di violenza. È la sostituzione di nuove forme di vita e d’azione alle precedenti: di forme che debbono costantemente mantenersi ed attuarsi, e richiedono per ciò un orientamento nuovo e deciso degli spiriti

Mondolfo 001

 Sulle orme di Marx

La conoscenza critica della realtà è la premessa necessaria ad ogni azione storica.
Significa che il materialismo storico è
- come io credo di averlo definito con una certa esattezza -
una concezione critico-pratica.
Dalla critica della realtà sociale alla praxis storica:
questo cammino segna il superamento dell'antitesi di volontarismo e fatalismo
in un concetto realistico e vivo della necessità storica.
Tanto più realistico e tanto più vivo,
in quanto la formula sopra enunciata si rovescia nella sua reciproca;
perché se non è possibile cangiare senza interpretare,
d'altra parte solo chi vuol cangiare ed agire sa interpretare.
Lo sforzo teorico del filosofo è vano
se non è accompagnato e sorretto dalla volontà d'azione:
soltanto nella praxis storica quindi
si compie e si saggia nella sua verità la critica della realtà sociale.
R. Mondolfo

«[…] la conquista della libertà non sta tanto nel momentaneo abbattimento dell’oppressore, quanto nel costante dominio di sé e delle condizioni del proprio operare» (settembre 1919).

«La lotta contro il passato può trionfare solo quando, da una parte le ragioni della sua persistenza e del suo risorgere sian venute meno, dall’altra l’avvenire si stia creando e sviluppando attivamente, e nel rigoglio della sua vita attinga la forza per debellare ogni contrasto, per districarsi da ogni impedimento al suo vigoroso cammino. Gli sterpi e i rovi non si estirpano, e al loro posto non si fanno fiorire le messi, le vigne e gli alberi da frutto, da chi alle male piante tagli pure tutti i rami, quando non possa distruggerne le radici e non disponga dei semi né delle pianticelle né delle condizioni di terreno adatte alle nuove piantagioni feconde, che gli affascinano l’immaginazione e il desiderio. Recisi pure i vecchi rami esistenti, nuovi germogli spunteranno sempre dalle stesse radici: e il tempo e l’energia dell’ingenuo coltivatore si esauriranno nel correre sempre a tagliare nuovi sterpi, senza che le feconde colture, che gli fioriscono nel sogno, possano tradursi nella realtà» (aprile 1919).

«Una rivoluzione non è, come un’insurrezione, un atto momentaneo di violenza, cui basti l’esaltazione temporanea della volontà e dell’eroismo. È la sostituzione di nuove forme di vita e d’azione alle precedenti: di forme che debbono costantemente mantenersi ed attuarsi, e richiedono per ciò un orientamento nuovo e deciso degli spiriti. Bisogna per tanto che la condizione di fatto, che essa viene a creare, sia tale da stimolare la volontà dei singoli e delle masse nella direzione alla quale essa tende; ché se gli impulsi, sorgenti continuamente dal contatto con la realtà, sospingessero la coscienza e l’azione dei più in senso contrario alle finalità che la rivoluzione si sia prefissa, questa a più o meno lungo andare sarebbe costretta al fallimento o a gravi rinunce e a mutamenti di strada» (agosto 1920).

Rodolfo Mondolfo, Sulle orme di Marx, Editrice Cappelli, 1923.

 

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L'umanismo di Marx

L’umanismo di Marx


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Karl Marx (1818-1883) – Sviluppo storico del senso artistico e umanesimo comunista. La soppressione della proprietà privata è la completa emancipazione di tutti i sensi umani e di tutte le qualità umane. Il comunismo è effettiva soppressione della proprietà privata quale autoalienazione dell’uomo, è reale appropriazione dell’umana essenza da parte dell’uomo e per l’uomo

giovane Marx

«L’uomo non si perde nel suo oggetto solo se questo gli diventa oggetto umano o uomo oggettivo. Ciò è possibile solo quando questo oggetto gli diventi un oggetto sociale, ed egli stesso diventi per sé un ente sociale come la società viene ad essere per lui in· questo oggetto.
Da un lato, perciò, quando ovunque, nella società, la realtà oggettiva diventa per l’uomo realtà delle forze essenziali dell’uomo, realtà umana, e perciò realtà delle sue proprie forze essenziali, tutti gli oggetti gli diventano la oggettivazione di lui stesso, oggetti che affermano e realizzano la sua individualità, oggetti suoi, e cioè egli stesso diventa oggetto. Come essi diventino suoi, ciò dipende dalla natura dell’oggetto e dalla natura della corrispondente forza essenziale, ché precisamente la determinatezza di questo rapporto costituisce il particolare, reale, modo dell’affermazione. L’oggetto dell’occhio si diversifica da quello dell’orecchio, e l’oggetto dell’occhio è altro da quello dell’orecchio. La peculiarità di ogni forza essenziale è precisamente la sua peculiare essenza, dunque anche la peculiare guisa della sua oggettivazione del suo oggettivo, reale, vivente essere. Non solo col pensiero, ma bensl con tutti i sensi, l’uomo si afferma quindi nel mondo oggettivo.
D’altro lato, sotto l’aspetto soggettivo, come la musica stimola soltanto il senso musicale dell’uomo, e per l’orecchio non musicale la più bella musica non ha alcun senso, [non] è un oggetto, in quanto il mio oggetto può esser soltanto la conferma di una mia forza essenziale, e dunque può essere per me solo com’è la mia forza essenziale per sé, quale facoltà soggettiva, andando il significato di un oggetto per me (oggetto avente significato soltanto per un senso corrispondente) tanto lontano quanto va il mio senso; così i sensi dell’uomo sociale sono altri da quelli dell’uomo asociale. È soltanto per la dispiegata ricchezza oggettiva dell’essenza umana che la ricchezza della soggettiva umana sensibilità, che un orecchio musicale, che un occhio, per la bellezza della forma, in breve le fruizioni umane, diventano dei sensi capaci, dei sensi che si affermano quali umane forze essenziali, e sono in parte sviluppati e in parte prodotti. Giacché non solo i cinque sensi, ma anche i sensi detti spirituali, la sensibilità pratica (la volontà, l’amore ecc.), in una parola la umana sensibilità, l’umanità dei sensi, si formano soltanto per l’esistenza del loro oggetto, per la natura umanizzata. L’educazione dei cinque sensi è opera dell’intera storia universale fino a questo tempo. Il senso costretto dal rozzo bisogno pratico ha anche soltanto una sensibilità limitata. Per l’uomo affamato non esiste il carattere umano del cibo, bensÌ soltanto la sua astratta esistenza di cibo: questo potrebbe indifferentemente
presentarsi a lui nella forma la più rozza; e non si può dire in che questa attività nutritiva si distinguerebbe da quella bestiale. L’uomo assorbito da cure, bisognoso, non ha sensi per lo spettacolo più bello. Il mercante di minerali vede solo il loro valore mercantile, non la bellezza e la peculiare natura del minerale; non ha alcun senso mineralogico. Dunque. si richiede l’oggettivazione dell’ente umano, e sotto l’aspetto teorico e sotto quello pratico, tanto per rendere umani i sensi dell’uomo che per creare la sensibilità umana corrispondente all’intera ricchezza dell’essenza dell’uomo e della natura».

K. MARX, Oekonomisch-philosophische manuskripte aus dem Jahre 1844 [Manoscritti economio-filosofici de 1844], in MARX-ENGELS, Kleine õkonomische Schriften, Bücherei des Marxismus-Leninismus, Bd. 42, Berlin, Dietz Verlag, 1955, pp. 133-1344.

 

***

«Il comunismo in quanto effettiva soppressione della proprietà privata quale autoalienazione dell’uomo, e però in quanto reale appropriazione dell’umana essenza da parte dell’uomo e per l’uomo; e in quanto ritorno completo, consapevole, compiuto conservando tutta la ricchezza dello sviluppo precedente, dell’uomo per sé quale uomo sociale, cioè uomo umano. Questo comunismo è, in quanto compiuto naturalismo, umanismo, e in quanto compiuto umanismo, naturalismo. Esso è la verace soluzione del contrasto dell’uomo con la natura e con l’uomo; la verace soluzione del conflitto fra esistenza ed essenza, fra oggettivazione e affermazione soggettiva, fra libertà e necessità, fra individuo e genere. È il risolto enigma della storia e si sa come tale soluzione.

L’uomo si appropria della sua essenza universale in maniera universale, dunque in quanto uomo totale. Ognuno dei suoi umani rapporti col mondo, il vedere, l’udire, l’odorare, il gustare, il toccare, il pensare, l’intuire, il sentire, il volere, l’agire, l’amare, in breve tutti gli organi della sua individualità, come organi che, nella loro forma, sono immediatamente organi sociali, sono, nel loro comportamento oggettivo, ossia nel loro rapporto all’oggetto, l’appropriazione di questo, l’appropriazione della realtà umana; il loro rapporto all’oggetto è la manifestazione della realtà umana; è l’attività umana e la sofferenza umana, perché considerata in senso umano, la sofferenza è un’autofruizione che l’uomo ha di sé.
La proprietà privata ci ha resi talmente ottusi e limitati che un oggetto è nostro solo quando l’abbiamo, quando, dunque, esiste per noi come capitale, o è immediatamente posseduto, mangiato, bevuto, portato sul nostro corpo, abitato, ecc., in breve utilizzato. Sebbene la proprietà privata comprenda tutte queste immediate realizzazioni del possesso soltanto come mezzi di vita, la vita, cui servono come mezzi, è la vita della proprietà privata, il lavoro e la capitalizzazione.
Tutti i sensi, fisici e spirituali, sono stati quindi sostituiti dalla semplice alienazione di essi tutti, dal senso dell’avere. A questa assoluta povertà doveva ridursì l’ente umano, per produrre alla luce la sua intima ricchezza (Sulla categoria dell’avere vedi Hess nei Ventuno fogli)*.
La soppressione della proprietà privata è, dunque, la completa emancipazione di tutti i sensi umani e di tutte le qualità umane; ma è questa emancipazione precisamente perché questi sensi e quaIità sono divenuti umani, sia soggettivamente che oggettivamente».

*MOSES HESS, Philosophie der Tat (Filosofia dell'azione), Sozialismus und Kommunismus (Socialismo e comunismo), saggi pubblicati negli Einundzwanzig Bogen aus der Schweiz (Ventuno fogli dalla Svizzera) di Georg Herwegh, Zurigo-Winterthur 1843, parte la, pp. 74 e sgg. e pp. 309 e sgg. [nota di Marx]

K. MARX, Oekonomitch-philosophische Manuskripte …, cit., pp. 127, 131-132.

 


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Karl Marx (1818-1883) – La patologia industriale. La suddivisione del lavoro è l’assassinio di un popolo

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Migliaia di studenti sono stati costretti ad abbandonare le lezioni universitarie per andare a lavorare alla Foxconn, l'azienda taiwanese licenziataria di Apple e produttrice di iPhone. Accade nella Cina orientale, a Huai'an, dove le autorità locali adottato questa misura per rispettare i tempi di consegna del nuovo melafonino
Nel capitale viene posta la perennità del valore […]
Ma questa capacità il capitale l’ottiene soltanto
succhiando di continuo l’anima del lavoro vivo, come un vampiro.
K. Marx, Grundrisse

«Un certo rattrappimento intellettuale e fisico è inseparabile perfino dalla divisione del lavoro nell’insieme della società in generale. Ma il periodo della manifattura, portando molto più avanti questa separazione sociale delle branche di lavoro, e d’altra parte intaccando la radice stessa della vita dell’individuo già in virtù della sua peculiare divisione del lavoro, fornisce anche per primo il materiale e l’impulso alla patologia industriale.
“Suddividere un uomo, è eseguire la sua condanna a morte, se merita la condanna; è assassinarlo se non la merita. La suddivisione del lavoro è l’assassinio di un popolo” [D. URQUHART, Familiar Words, Londra 1855, p. 119; Marx annota: “Hegel aveva opinioni molto eretiche sulla divisione del lavoro. Nella Filosofia del diritto dice: ‘Per uomini colti si possono intendere anzitutto quelli che son capaci di fare tutto quelloche fanno gli altri’ “; Il passo di Hegel si può trovare nei Lineamenti di filosofia del diritto, Bari 1954, p. 354. Aggiunta al § 187]».

K. MARX, Das Kapital. Kritik der Politischen Oekonomie, Erster Band MEW, Bd. 23, 1962, pp. 384-5 [tr. it. di D. Cantimori, KARL MARX, Il capitale, libro primo, Ed. Riuniti, Roma 1964, pp. 406-7].

 

 


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George Herbert (1593-1633) – O denaro, rovina della gioia e sorgente di dolore, da dove vieni mai, fresco e bello?

Herbert

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O denaro, rovina della gioia e sorgente
di dolore, da dove vieni mai, fresco e bello?
lo so che i tuoi natali sono bassi e volgari:
povero e sporco l’uomo t’ha trovato in miniera.
Certo tu hai tanto poco contribuito a questo
grande regno che adesso tu possiedi, che l’uomo
quand’eri miserabile dovette estrarti fuori
dalla caverna o grotta oscura in cui giacevi;
con la forza del fuoco poi ti rese lucente;
anzi, il volto dell’uomo tu hai assunto, ché abbiamo
con il nostro sigillo ceduto a te il diritto;
tu sei l’uomo, ed è l’uomo la tua scoria soltanto.
L’uomo t’ha fatto ricco, e ti chiama sua ricchezza:
e cade nella fossa che scava per estrarti.

George Herbert

 

 

Dumas

 


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Friedrich Hölderlin (1770-1843) – Dobbiamo uscire dalla pigra rassegnazione, dove non si vuole nulla, non ci sicura di nulla. L’originalità è intensità, profondità del cuore e dello spirito.

Holderlin

«Ero uscito dalla pigra rassegnazione,
dove non si vuole nulla, non ci sicura di nulla».
 Iperione

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«Ma questo nuovo colpo mi riportò comunque alla vita. Ero uscito dalla pigra rassegnazione, dove non si vuole nulla, non ci sicura di nulla, da quella calma di morte che, con tutta l’apparenza di saggezza con cui la difendono i vigliacchi, è la condizione più infame in cui l’uomo può ricadere. Nessuno si giustifichi dicendo che il mondo lo ha ucciso: è lui stesso che si è ucciso, in ogni caso».

«La Grecia fu il mio primo amore e non so se posso dire che sarà anche l’ultimo. […] Non mi interessa affatto che sia originale; originalità per noi significa novità, e le cose che amo di più sono invece quelle antiche come il mondo. Per me l’originalità è intensità, profondità del cuore e dello spirito. Ma di tutto questo, ora come ora, si vuol saper poco, almeno nell’arte […]».

«[…] soffrivi, quando ti conobbi, non tanto per una sventura precisa […] bensì per l’impotenza, per la volgarità; era l’insipido nulla che ti faceva soffrire, la morte insipida, l’insipida e mostruosa vacuità dei tuoi contemporanei […]».

Friedrich Hölderlin, Iperione o l’eremita in Grecia, Bompiani, 2015, pp. 759, 761, 877.

 

***

Friedrich Hölderlin (1770-1843) – L’uomo che pensa deve agire, deve dispiegarsi. Egli può molto, stupenda è la sua parola che strasforma il mondo. Un potente anelito, con radici profonde, lo spinge verso l’alto.

Friedrich Hölderlin (1770-1843)– Dall’intelletto soltanto non può scaturire la filosofia, perché la filosofia è più della conoscenza limitata di ciò che esiste. Dalla ragione soltanto non può scaturire la filosofia, perché la filosofia è più della cieca pretesa di un progresso senza fine. Senza la bellezza dello spirito e del cuore, la ragione è soltanto come un supervisore.

Friedrich Hölderlin (1770-1843) – Quando un popolo ama il bello l’egoismo si scioglie. Se così non è, sempre più aridi e più desolati divengono gli uomini, cresce la sottomissione e con essa l’arroganza, l’opulenza cresce insieme alla fame e all’ansia per il cibo. Così il mondo intorno a noi diviene un deserto e il passato si sfigura in un cattivo auspicio per un futuro senza speranza.

 

 

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Friedrich Hölderlin (1770-1843) – Quando un popolo ama il bello l’egoismo si scioglie. Se così non è, sempre più aridi e più desolati divengono gli uomini, cresce la sottomissione e con essa l’arroganza, l’opulenza cresce insieme alla fame e all’ansia per il cibo. Così il mondo intorno a noi diviene un deserto e il passato si sfigura in un cattivo auspicio per un futuro senza speranza.

Holderlin

«Che tutto cambi radicalmente!
Dalle radici dell'umanità germogli il nuovo mondo!».
 Iperione

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«Quando un popolo ama il bello […] lì soffia uno spirito universale come aura vitale, lì si apre la mente timida, l’egoismo si scioglie, pii e nobili sono tutti i cuori […]. Un tale popolo è patria per tutti gli uomini e volentieri vi soggiorna lo straniero. [Se così non è] spariscono le gioie migliori della vita e qualsiasi altro pianeta è migliore della Terra. Sempre più aridi, sempre più desolati divengono gli uomini che sono invece nati belli; cresce la sottomissione e con essa l’arroganza, l’ebbrezza aumenta insieme alle pene, l’opulenza cresce insieme alla fame e all’ansia per il cibo […]».

«Non dobbiamo consegnarci prigionieri al destino e ai nostri sensi, […] rinnegare la ragione e divenire animali […] strappando così il bel legame che ci unisce agli altri spiriti, rendendo un deserto il mondo ingtorno a noi […]».

«L’ideale di tutto ciò che esiste
Dobbiamo custodirlo sacro e puro.
L’istinto che abbiamo, di dare forma
All’informe secondo il divino che è in noi,
Di sottomettere la natura recalcitrante
Allo spirito che ci governa,
Non deve mai fermarsi a mezza strada.
Ma ancora più acuto è allora il dolore
Della lotta, ancora più grande il pericolo
Che il combattente saguinante e sconfortato
Abbandoni le armi divine,
Si pieghi alla ferrea necessità,
Rinneghi se stesso e diventi bestiale …
O anche che, inasprito dalla resistenza,
Combatta la natura non come dovrebbe,
Per donarle pace e unità,
Ma solo per piegare la ribelle.
Così uccidiamo il bisogno più umano,
Rinneghiamo quella disponibilità
Che ci univa agli altri spiriti.
Così il mondo intorno a noi diviene un deserto
E il passato si sfigura in un cattivo auspicio
Per un futuro senza speranza».

Friedrich Hölderlin, Iperione o l’eremita in Grecia, Bompiani, 2015, pp. 307, 457, 661, 669.

Friedrich Hölderlin (1770-1843)– Dall’intelletto soltanto non può scaturire la filosofia, perché la filosofia è più della conoscenza limitata di ciò che esiste. Dalla ragione soltanto non può scaturire la filosofia, perché la filosofia è più della cieca pretesa di un progresso senza fine. Senza la bellezza dello spirito e del cuore, la ragione è soltanto come un supervisore.

Friedrich Hölderlin (1770-1843) – L’uomo che pensa deve agire, deve dispiegarsi. Egli può molto, stupenda è la sua parola che strasforma il mondo. Un potente anelito, con radici profonde, lo spinge verso l’alto.

 

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Friedrich Hölderlin (1770-1843)– Dall’intelletto soltanto non può scaturire la filosofia, perché la filosofia è più della conoscenza limitata di ciò che esiste. Dalla ragione soltanto non può scaturire la filosofia, perché la filosofia è più della cieca pretesa di un progresso senza fine. Senza la bellezza dello spirito e del cuore, la ragione è soltanto come un supervisore.

Holderlin

«Chi si accontenta
del profumo della mia pianta
non la conosce,
e non la conosce nemmeno
chi la raccoglie soltanto per istruirsi».
 Iperione

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«Capite ora perché gli ateniesi in particolare dovevano essere un popolo di filosofi?
Gli egiziani non avrebbero potuto. Chi non vive un amore ricambiato alla pari con il cielo e la terra, chi non vive in questo senso unito all’elemento in cui si muove, non è così unito in se stesso per natura, e non sperimenta quindi la bellezza eterna così facilmente come un greco. […] L’egiziano si è consumato prima di diventare un tutto, e di conseguenza non sa nulla del tutto, nulla della bellezza, e la cosa più alta che conosce è un potere velato, un enigma spaventoso; la cupa e muta Iside è per lui l’alfa e l’omega, un’infinità vuota da cui non è mai venuto nulla di sensato. Anche dal nulla più sublime nasce solo il nulla.
Il Nord invece ritira troppo presto i suoi germogli, e se lo spirito passionale dell’egiziano se ne va subito per il mondo desideroso di viaggiare, lo spirito nel Nord si appresta a ritirarsi in se stesso ancora prima di essere pronto a partire. Nel Nord bisogna sviluppare l’intelletto ancora prima che i sentimenti siano maturi, ci si fa carico di tutte le colpe prima che si sia concluso il tempo felice della spensieratezza; bisogna essere razionali, consapevoli prima ancora di diventare uomini, persone intelligenti prima di essere bambini; non si lasciano crescere e maturare nell’uomo l’unità e la bellezza prima che egli inizi la sua formazione e il suo sviluppo. L’intelletto, la ragione soltanto sono i signori incontrastati del Nord.
Ma l’intelletto da solo non ha mai prodotto cose intelligenti, la ragione da sola non ha mai prodotto cose razionali.
Senza la bellezza dello spirito, l’intelletto è come un aiutante servizievole che dal legno grezzo ricava una staccionata seguendo le istruzioni, inchiodando insieme i paletti che ha preparato per il giardino che il padrone vuole costruirsi.
L’intelletto si occupa del minimo indispensabile. Ci protegge dal nonsenso e dall’ingiustizia, in quanto mantiene l’ordine; ma essere al sicuro dal nonsenso e dall’ingiustizia non è la condizione più alta dell’ eccellenza umana.
Senza la bellezza dello spirito e del cuore, la ragione è come un supervisore che il padrone di casa ha posto sopra i suoi servitori, che non sa quale sarà il risultato di tutto quel lavoro infinito, proprio come non lo sanno i servitori, e si limita a gridare: «sbrigatevi», ma allo stesso tempo non vede di buon occhio l’avanzamento dei lavori, perché alla fine non avrebbe più nulla da fare e il suo ruolo si esaurirebbe.
Dall’intelletto soltanto non può scaturire la filosofia, perché la filosofia è più della conoscenza limitata di ciò che esiste.
Dalla ragione soltanto non può scaturire la filosofia, perché la filosofia è più della cieca pretesa di un progresso senza fine nell’unione e nella divisione di ogni materia possibile».

Friedrich Hölderlin, Iperione o l’eremita in Grecia, Bompiani, 2015, pp. 293, 295.

 

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Pablo Neruda (1904-1973) – È cosi che nasce la poesia: viene da altezze invisibili. Canto e fecondazione è la poesia: l’ho concentrata come prodotto vitale della mia stessa esperienza, circondato dalla folla adorabile, dall’infinita e ricca moltitudine dell’uomo.

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Antonio Melis, Neruda, Il Castoro, n. 38 del 1970

A. Melis, Neruda, Il Castoro, n. 38 1970


 

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«Andando molti anni fa per il lago Ranco verso !’interno mi sembrò di trovare la fonte della patria o la culla silvestre della Poesia, attaccata e difesa da tutta la natura.
Il cielo si stagliava tra le superbe chiome dei cipressi, l’aria agitava le sostanze balsamiche della macchia, tutto aveva voce ed era silenzio, il sussurro degli uccelli nascosti, i frutti e gli stecchi che cadendo sfioravano il fogliame, tutto stava sospeso in un istante di solennità segreta, tutto nella selva sembrava aspettare.
Era imminente una nascita e quello che nasceva era un fiume. Non so come si chiama, ma le sue prime acque, vergini e oscure, erano quasi invisibili, deboli e silenziose, cercando un’uscita in mezzo ai grandi tronchi morti e alle pietre colossali.
Mille anni di foglie cadute nella sua sorgente, tutto il passato voleva trattenerlo, ma imbalsamava soltanto la sua strada. Il giovane fiume distruggeva le vecchie foglie morte e si impregnava di freschezza nutritiva che sarebbe andato ripartendo nel corso del suo cammino.
lo pensai: è cosi che nasce la poesia. Viene da altezze invisibili, è segreta e oscura nelle sue origini, solitaria e fragrante, e, come il fiume, dissolverà tutto quello che cade nella sua corrente, cercherà una strada tra le montagne e scuoterà il suo manto cristallino nelle praterie. Irrigherà i campi e darà pane all’affamato. Camminerà tra le spighe. Sazieranno in essa la loro sete i viandanti e canterà quando lottano o riposano gli uomini. E li unirà allora e tra di loro passerà, fondando paesi. Taglierà le vallate portando alle radici la moltiplicazione della vita.
Canto e fecondazione è la poesia. Ha lasciato le sue viscere segrete e corre fecondando e cantando. Accende l’energia con il suo movimento accresciuto, lavora producendo farina, conciando il cuoio, tagliando il legno, dando luce alle città. È utile e si risveglia con bandiere ai suoi margini. Le feste si celebrano accanto all’acqua che canta.
Mi ricordo a Firenze un giorno in cui andai a visitare una fabbrica. Vi lessi alcune mie poesie agli operai riuniti, le lessi con tutto il pudore che un uomo del continente giovane può provare parlando accanto all’ombra sacra che li soprawive. Gli operai della fabbrica mi fecero poi un regalo. Lo conservo ancora. È un’edizione del Petrarca dell’anno 1484.
La poesia era passata con le sue acque, aveva cantato in quella fabbrica e aveva convissuto per secoli con i lavoratori. Quel Petrarca, che vidi sempre imbacuccato sotto un cappuccio da monaco, era uno di quei semplici italiani e quel libro, che presi nelle mie mani con adorazione, assunse per me un nuovo prestigio, era solo un arnese divino nelle mani dell’uomo».

Pablo Neruda, dal discorso pronunciato a Santiago il 12 luglio del 1954, in occasione del 50° anniversario dell’Università del Cile.

***

«Sincerità, in questa parola cosi modesta, cosi arretrata, cosi calpestata e disprezzata dal seguito sfavillante che accompagna eroticamente l’estetica, si trova forse definita la mia azione costante. Ma semplicità non significa un abbandono semplicistico all’emozione
o alla conoscenza.
Quando rifuggii prima per vocazione e poi per decisione qualsiasi posizione di maestro letterario, ogni ambiguità esteriore che mi avrebbe esposto al rischio continuo di esteriorizzare, e non di costruire, compresi in maniera vaga che il mio lavoro doveva prodursi in forma cosi organica e totale che la mia poesia fosse come la mia stessa respirazione, prodotto ritmato della mia esistenza, risultato della mia crescita naturale.
Per questo, se qualche lezione proveniva da un’opera cosi intimamente e cosi oscuramente legata al mio essere, questa lezione avrebbe potuto essere sfruttata al di là della mia azione, al di là della mia attività, e soltanto attraverso il mio silenzio.
Sono uscito in strada durante tutti questi anni, disposto a difendere principi di solidarietà con uomini e con popoli, ma la mia poesia non ha potuto essere insegnata a nessuno. Volli che si diluisse sulla mia terra, come le piogge delle mie latitudini natali. Non ho preteso che frequentasse cenacoli o accademie, non l’ho imposta a giovani emigranti, l’ho concentrata come prodotto vitale della mia stessa esperienza, dei miei sensi, che rimasero aperti all’estensione dell’amore ardente e del mondo spazioso.
Non pretendo per me nessun privilegio di solitudine: non l’ebbi se non quando mi fu imposta come condizione terribile della mia vita. E allora scrissi i miei libri, come li scrissi circondato dalla folla adorabile, dall’infinita e ricca moltitudine dell’uomo. Né la solitudine né la società possono alterare i requisiti del poeta e quelli che si richiamano esclusi vamente all’una o all’altra falsificano la loro condizione di api che costruiscono da secoli la stessa cellula fragrante, con lo stesso alimento di cui ha bisogno il cuore umano. Tuttavia, non condanno né i poeti della solitudine né gli altoparlanti del grido collettivo: il silenzio, il suono, la separazione e l’integrazione degli uomini, tutto è materiale adeguato affinché le sillabe della poesia si aggreghino precipitando la combustione di un fuoco incancellabile, di una comunicazione inerente, di un’eredità sacra che da migliaia di anni si traduce nella parola e si innalza nel canto.

Pablo Neruda, da La torre, Prado e la mia stessa ombra (Discorso pronunciato all’Università del Cile il 30 marzo 1962).

Pablo-Neruda

I testi sono publicati in: Antonio Melis, Neruda, «Il Castoro», n. 38, Febbraio 1970, La Nuova Italia, pp. 6-8.


 

AntonioMelis

Antonio Melis.

 

Antonio Melis è nato nel 1942, a Vignola (PD). È professore ordinario di Lingue e Letterature Ispanoamericane presso la Facoltà di Lettere e Filosofia di Siena, dove insegna anche Civiltà Indigene d’America. Presso la stessa Facoltà coordina il Master in Traduzione Letteraria e Editing dei Testi e dirige il CISAI (Centro Interdipartimentale di Studi sull’America Indigena). È professore onorario dell’Università Nacional Mayor de San Marcos di Lima. Fa parte del comitato di redazione della Revista de Crítica Literaria Latinoamericana e di In Forma di Parole. Ha fatto parte della giuria di numerosi premi letterari internazionali, tra i quali il Casa de las Américas, il Juan Rulfo, il José Donoso e il Premio Italo Calvino. A partire dallo studio di alcune figure centrali dell’esperienza letteraria contemporanea come José Carlos, Mariátegui, César Vallejo e José María Arguedas, la sua ricerca si è andata orientando progressivamente verso le radici precoloniali e coloniali della cultura andina, con lavori su Juan de Espinosa Medrano e Waman Puma. Alla letteratura peruviana contemporanea ha dedicato numerosi studi e le traduzioni di poeti come Martín Adán, Carlos Germán Belli, Alejandro Romualdo, César Calvo, Luis Hernández, Antonio Cisneros, José Luis Ayala.  Accanto a questo filone centrale ha condotto ricerche sull’area antillana, in particolare con lavori su José Martí, Fernando Ortiz e Alejo Carpentier. Ha tradotto buona parte dell’opera poetica di Ernesto Cardenal. Negli ultimi anni, insieme a Fabio Rodríguez Amaya e Tommaso Scarano, cura per la casa editrice Adelphi l’edizione italiana delle opere complete di Borges, di cui ha tradotto Finzioni. Lo studio delle culture indigene americane è stato sviluppato in direzione del rapporto tra oralità e scrittura e in riferimento alla problematica ecologica. Per la casa editrice Gorée cura la collana “Le voci della terra”, dedicata alla poesia indigena, e “Impronte di parole”, che si occupa delle forme dell’improvvisazione poetica nel Mediterraneo e nell’America Latina. Ha pubblicato saggi monografici su Pablo Neruda, Federico García Lorca ed Ernesto Che Guevara.


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Federico García Lorca (1898-1936) – Poeta a New York: «La luce è sepolta da catene e rumori in sfida impudica di scienza senza radici: qui non esiste domani né speranza possibile. Le monete a sciami furiosi penetrano e divorano bambini addormentati: sanno che vanno nel fango di numeri e leggi, nei giochi senz’arte, in sudori senza frutto».

Lorca, Poeta en Nueva York

 

poeta-en-nueva-york

Edizione postuma (1940) di Poeta en Nueva York.
Si noti il nome di Antonio Machado sul frontespizio.

***

Federico García Lorca,
Poeta en Nueva York
(1929 – 1930)

***

L’aurora di New York ha
quattro colonne di fango
e un uragano di negre colombe
che sguazzano nelle putride acque.

L’aurora di New York geme
sulle immense scale
cercando fra le ariste
nardi di angoscia disegnata.

L’aurora arriva e nessuno la riceve nella sua bocca
perché qui non esiste domani né speranza possibile.
A volte le monete a sciami furiosi
penetrano e divorano bambini addormentati.

I primi che escono comprendono con le proprie ossa
che non ci saranno paradiso né amori sfogliati;
sanno che vanno nel fango di numeri e leggi,
nei giochi senz’arte, in sudori senza frutto.

La luce è sepolta da catene e rumori
in sfida impudica di scienza senza radici.
Nei suburbi c’è gente che vacilla insonne
appena uscita da un naufragio di sangue.

Federico García Lorca, Autoritratto a New York

F. G. Lorca, Autoritratto a New York.

Federico García Lorca, L’aurora, da: Poeta a New York, in Id., Tutte le poesie, a cura di Claudio Rendina, Newton Compton, 2002, 2 vol., vol. II, p.299.


Federico García Lorca, Un “Poeta a New York”:
la profezia e il dramma negli occhi del “niño”

 


***

Ce ne parla un altro poeta:

Rafael Alberti (1902 – 1999)

Rafael Alberti (1902 – 1999)

R. Alberti con Lorca

R. Alberti con Lorca

Poeta a New York
Quando, nella primavera del 1929 […] Federico García Lorca decide di partire per New York, è già uno dei poeti nuovi di maggior prestigio in Spagna. […] Tutto farebbe pensare che egli partisse per New York contento, desideroso di […] tuffarsi presto in quella città, che ancor prima di visitare – a quanto confessa da Granada in una lettera al suo amico cileno Carlos Moria – già gli sembra orribile. Ma quel viaggio […] è importante per la sua vita. Egli lo avrebbe compiuto in compagnia del suo vecchio maestro di Diritto, Fernando de los Rios, uno dei dirigenti più illustri del socialismo spagnolo. […] García Lorca se ne andava negli Stati Uniti anche perché scosso dagli avvenimenti spagnoli […]. E Federico proprio allora se ne va negli Stati Uniti – è la prima volta che esce dalla Spagna – e apre laggiù, alla sua poesia, una strana parentesi di confusione e di ombre. Alcune delle poesie iniziali del libro che più tardi sarà il Poeta a New York, apparvero su riviste di Madrid […]. Che profonda ferita nella gola del poeta di Granada! Quando arriva a giugno a New York nella Columbia University, dove lo accoglie la calda amicizia di uno dei suoi vecchi amici di Madrid, il professore Angel del Rio, che sarà poi il primo a descrivere questo strano periodo americano di Lorca. Federico entra nella mostruosa città come chi va a trascorrere «una stagione all’inferno». Luis Felipe Vivanco dice infatti, molto accortamente, che il libro scritto da Lorca in America potrebbe benissimo avere come titolo quello di Rimbaud. Il poeta granadino si scontra violentemente contro i duri spigoli di New ork, a cui, per cominciare, nega la gioia pura dell’aurora, il risveglio umano della gente:

L’aurora di New York ha
quattro colonne di melma
e un uragano di nere colombe
che sguazzano nelle putride acque.

Ed è tale la convulsione che Garda Lorca soffre nel suo intimo che egli, uscito da poco dalla drammaticità disinteressata, con accento andaluso di cante jondo, del suo Romancero gitano, assume d’un tratto la parte di accusatore di quel tremendo delitto tramutato in freddo cemento che si apre dinnanzi ai suoi occhi. E ormai il suo verso non scorre più con lo splendore di prima. Le metafore tendono in lui a offuscarsi sino a disperdersi e le stesse corde basse della sua chitarra finiscono per strapparsi di fronte al frastuono di dolore e crudeltà che egli vede e ode da ogni parte. È quello il paese della democrazia e New York il suo simbolo vivente? No, non è più così. I tempi dell’ottimismo del vecchio Whitman sono passati. Federico si rende conto che laggiù accade qualcosa, che vi è una gelida macchina che s’incarica di schiacciare tutto, di estrarre la linfa dal sangue, tramutando le persone in automi, i quali fin dall’alba

sanno che vanno al fango di numeri e leggi,
ai giochi senz’arte, a sudori senza frutto.

García Lorca inaugura con questi componimenti la sua poesia antiartistica. Non si preoccupa né della struttura rigorosa del componimento, né della bellezza verbale né della immagine. Il linguaggio è diretto. La città senza aurora riceve da lui una frustata in una serie di poesie scritte con una attenta coscienza ma insieme con una furia cieca, vicina nei suoi momenti migliori all’impeto quasi surrealista dei profeti biblici. Ed è allora che scopre Harlem, il quartiere dei negri. Ed entra in una delle visioni più angosciose della sua poesia. Sente l’oppressione di quegli antichi schiavi in mezzo a una civiltà che ancora di più li tortura e li umilia. E grida tutta l’amarezza, il sangue prigioniero di quel quartiere, dove il timore dell’ira, dell’odio dei potenti bianchi porta il povero negro a vivere con le porte socchiuse, sempre in attesa di qualsiasi prepotenza, che potrebbe concludersi in un linciaggio.

Ahi, Harlem l Ahi Harlem! Ahi Harlem!
Non c’è angoscia paragonabile ai tuoi rossi oppressi,
al tuo sangue rabbrividito entro l’oscura eclissi,
alla tua violenza scarlatta sordomuta in penombra,
al tuo gran re prigioniero, con abito da portinaio!

[…] È ancora New York, è ancora Wall Street con i suoi milioni di uffici che lo respingono e lo attraggono allo stesso tempo. Ed egli torna con più forza alla denuncia, alla denuncia di coloro che ignorano l’altra metà dei propri simili, alla denuncia del sangue sfruttato, gemebondo, che palpita al di sotto delle moltiplicazioni, degli oscuri e terribili affari che fanno precipitare il mondo in un abisso di miseria e di morte.
«Vi sputo sul viso», arriva a gridare disperato. Lorca, in conseguenza di questo urto brutale con la grande città disumanizzata, diventa un poeta del suo tempo e, senza saperlo, uno dei primi luminosi segni di tutta una poesia di carattere sociale e protestatario che sarebbe apparsa qualche tempo dopo. In primavera il poeta parte per l’Avana, dove recupera, alla sua luce travolgente e musicale, il ritmo preciso del suo sangue andaluso, del suo core già turbato e sempre sul punto di scoppiare durante quell’infernale stagione trascorsa nella città dei grattacieli.

Rafael Alberti, García Lorca, Compagnia Edizioni Internazionali, Milano, 1966, pp. 60-63.

 


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Curzio Malaparte (1898-1957) – L’uomo nella fortuna, l’uomo seduto sul trono del suo orgoglio, della sua potenza, della sua felicità; l’uomo vestito dei suoi orpelli e della sua insolenza di vincitore è uno spettacolo ripugnante.

Malaparte

Battibecco

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«Vi sono due modi di amare il proprio paese: quello di dir la verità apertamente, senza paura; sui mali, sulle miserie, sulle vergogne di cui soffriamo, e quello di nascondere la realtà sotto il mantello dell’ipocrisia, negando piaghe, miserie e vergogne, anzi esaltandole come virtù nazionali. Tra i due modi, preferisco il primo. Non solo perché a me sembra il giusto, ma perché la peggior forma di amor patrio è quella di chiudere gli occhi davanti alla realtà, e di spalancare la bocca in inni e in ipocriti elogi, che a nulla servono, neppure a nascondere a sé e agli altri i mali vivi e reali.
L’Italia in cui credo, in cui ho sempre creduto, per la quale ho combattuto in trincea, ho versato il mio sangue, ho sofferto la prigione e il confino, l’Italia per la quale son pronto, così oggi come ieri e come domani, a lottare e a soffrire, è la patria ideale dell’onore, della libertà, della giustizia, la patria di tutti coloro che hanno sofferto e soffrono per la verità, di tutti coloro che hanno dato la vita per combattere la menzogna: è l’Italia degli uomini semplici, onesti, buoni, generosi, chiusi da secoli in quella «prigione gratis» della miseria e della delusione,  […] dei privilegi di classe e della corruzione amministrativa».

Curzio Malaparte, Due anni di battibecco. 1953-55, Milano, Garzanti, 1955, pp. 18-20.


Kaputt

Kaputt01

«Ora che Hitler è morto già da alcuni anni, che il Nazismo è crollato, sarebbe cosa inutile, oziosa e stupida riparlar del Nazismo, se il Nazismo non mostrasse per molti segni non solo d’essere ancora vivo, ma di prepararsi a recitare, sotto altro nome e sotto altre bandiere, la stessa odiosa parte che ha recitato quando Hitler era ancora vivo. Non voglio essere profeta. E non si tratta qui di far profezie. Ma di veder chiaramente nel vostro avvenire. E poiché voi non avete il coraggio di dire la verità ai Tedeschi, perché avete paura del risorgimento del Nazismo, lasciate che sia un intellettuale a dir ciò che voi non osate dire».

Curzio Malaparte, Appendice ai Kaputt, ed. econ., Firenze, Vallecchi, 1966, pp. 411-12.


La pelle

«Non so quale sia piu difficile, se il mestiere del vinto o quello del vincitore. Ma una cosa so certamente, che il valore umano dei vinti è superiore a quello dei vincitori. Tutto il mio cristianesimo è in questa certezza, che ho tentato di comunicare agli altri nel mio libro La pelle, e che molti, senza dubbio per eccesso di orgoglio, di stupida vanagloria, non hanno capito, o hanno preferito rifiutare, per la tranquillità della loro coscienza.
In questi ultimi anni, ho viaggiato, spesso, e a lungo, nei paesi dei vincitori e in quelli dei vinti, ma dove mi trovo meglio, è tra i vinti. Non perché mi piaccia assistere allo spettacolo della miseria altrui, e dell’umiliazione, ma perché l’uomo è tollerabile, accettabile, soltanto nella miseria e nell’umiliazione. L’uomo nella fortuna, l’uomo seduto sul trono del suo orgoglio, della sua potenza, della sua felicità; l’uomo vestito dei suoi orpelli e della sua insolenza di vincitore, l’uomo seduto sul Campidoglio, per usare una immagine classica, è uno spettacolo ripugnante.
Non mi piace discutere con gente che non s’intende di quel che ragiona, o non sa ragionare, o di continuo travisa i fatti e i concetti. Né con gente che ingiuria, e dice cose in malafede, sol per aver l’aspetto della ragione, non la sostanza».

Curzio Malaparte, Appendice a La pelle, ed. econ., Milano, Garzanti, 1967, pp. 329-30.


Maledetti-toscani


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