Edizione postuma (1940) di Poeta en Nueva York.
Si noti il nome di Antonio Machado sul frontespizio.
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L’aurora di New York ha
quattro colonne di fango
e un uragano di negre colombe
che sguazzano nelle putride acque.
L’aurora di New York geme
sulle immense scale
cercando fra le ariste
nardi di angoscia disegnata.
L’aurora arriva e nessuno la riceve nella sua bocca
perché qui non esiste domani né speranza possibile.
A volte le monete a sciami furiosi
penetrano e divorano bambini addormentati.
I primi che escono comprendono con le proprie ossa
che non ci saranno paradiso né amori sfogliati;
sanno che vanno nel fango di numeri e leggi,
nei giochi senz’arte, in sudori senza frutto.
La luce è sepolta da catene e rumori
in sfida impudica di scienza senza radici.
Nei suburbi c’è gente che vacilla insonne
appena uscita da un naufragio di sangue.
F. G. Lorca, Autoritratto a New York.
Federico García Lorca, L’aurora, da: Poeta a New York, in Id., Tutte le poesie, a cura di Claudio Rendina, Newton Compton, 2002, 2 vol., vol. II, p.299.
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Ce ne parla un altro poeta:
R. Alberti con Lorca
Poeta a New York
Quando, nella primavera del 1929 […] Federico García Lorca decide di partire per New York, è già uno dei poeti nuovi di maggior prestigio in Spagna. […] Tutto farebbe pensare che egli partisse per New York contento, desideroso di […] tuffarsi presto in quella città, che ancor prima di visitare – a quanto confessa da Granada in una lettera al suo amico cileno Carlos Moria – già gli sembra orribile. Ma quel viaggio […] è importante per la sua vita. Egli lo avrebbe compiuto in compagnia del suo vecchio maestro di Diritto, Fernando de los Rios, uno dei dirigenti più illustri del socialismo spagnolo. […] García Lorca se ne andava negli Stati Uniti anche perché scosso dagli avvenimenti spagnoli […]. E Federico proprio allora se ne va negli Stati Uniti – è la prima volta che esce dalla Spagna – e apre laggiù, alla sua poesia, una strana parentesi di confusione e di ombre. Alcune delle poesie iniziali del libro che più tardi sarà il Poeta a New York, apparvero su riviste di Madrid […]. Che profonda ferita nella gola del poeta di Granada! Quando arriva a giugno a New York nella Columbia University, dove lo accoglie la calda amicizia di uno dei suoi vecchi amici di Madrid, il professore Angel del Rio, che sarà poi il primo a descrivere questo strano periodo americano di Lorca. Federico entra nella mostruosa città come chi va a trascorrere «una stagione all’inferno». Luis Felipe Vivanco dice infatti, molto accortamente, che il libro scritto da Lorca in America potrebbe benissimo avere come titolo quello di Rimbaud. Il poeta granadino si scontra violentemente contro i duri spigoli di New ork, a cui, per cominciare, nega la gioia pura dell’aurora, il risveglio umano della gente:
L’aurora di New York ha
quattro colonne di melma
e un uragano di nere colombe
che sguazzano nelle putride acque.
Ed è tale la convulsione che Garda Lorca soffre nel suo intimo che egli, uscito da poco dalla drammaticità disinteressata, con accento andaluso di cante jondo, del suo Romancero gitano, assume d’un tratto la parte di accusatore di quel tremendo delitto tramutato in freddo cemento che si apre dinnanzi ai suoi occhi. E ormai il suo verso non scorre più con lo splendore di prima. Le metafore tendono in lui a offuscarsi sino a disperdersi e le stesse corde basse della sua chitarra finiscono per strapparsi di fronte al frastuono di dolore e crudeltà che egli vede e ode da ogni parte. È quello il paese della democrazia e New York il suo simbolo vivente? No, non è più così. I tempi dell’ottimismo del vecchio Whitman sono passati. Federico si rende conto che laggiù accade qualcosa, che vi è una gelida macchina che s’incarica di schiacciare tutto, di estrarre la linfa dal sangue, tramutando le persone in automi, i quali fin dall’alba
sanno che vanno al fango di numeri e leggi,
ai giochi senz’arte, a sudori senza frutto.
García Lorca inaugura con questi componimenti la sua poesia antiartistica. Non si preoccupa né della struttura rigorosa del componimento, né della bellezza verbale né della immagine. Il linguaggio è diretto. La città senza aurora riceve da lui una frustata in una serie di poesie scritte con una attenta coscienza ma insieme con una furia cieca, vicina nei suoi momenti migliori all’impeto quasi surrealista dei profeti biblici. Ed è allora che scopre Harlem, il quartiere dei negri. Ed entra in una delle visioni più angosciose della sua poesia. Sente l’oppressione di quegli antichi schiavi in mezzo a una civiltà che ancora di più li tortura e li umilia. E grida tutta l’amarezza, il sangue prigioniero di quel quartiere, dove il timore dell’ira, dell’odio dei potenti bianchi porta il povero negro a vivere con le porte socchiuse, sempre in attesa di qualsiasi prepotenza, che potrebbe concludersi in un linciaggio.
Ahi, Harlem l Ahi Harlem! Ahi Harlem!
Non c’è angoscia paragonabile ai tuoi rossi oppressi,
al tuo sangue rabbrividito entro l’oscura eclissi,
alla tua violenza scarlatta sordomuta in penombra,
al tuo gran re prigioniero, con abito da portinaio!
[…] È ancora New York, è ancora Wall Street con i suoi milioni di uffici che lo respingono e lo attraggono allo stesso tempo. Ed egli torna con più forza alla denuncia, alla denuncia di coloro che ignorano l’altra metà dei propri simili, alla denuncia del sangue sfruttato, gemebondo, che palpita al di sotto delle moltiplicazioni, degli oscuri e terribili affari che fanno precipitare il mondo in un abisso di miseria e di morte.
«Vi sputo sul viso», arriva a gridare disperato. Lorca, in conseguenza di questo urto brutale con la grande città disumanizzata, diventa un poeta del suo tempo e, senza saperlo, uno dei primi luminosi segni di tutta una poesia di carattere sociale e protestatario che sarebbe apparsa qualche tempo dopo. In primavera il poeta parte per l’Avana, dove recupera, alla sua luce travolgente e musicale, il ritmo preciso del suo sangue andaluso, del suo core già turbato e sempre sul punto di scoppiare durante quell’infernale stagione trascorsa nella città dei grattacieli.
Rafael Alberti, García Lorca, Compagnia Edizioni Internazionali, Milano, 1966, pp. 60-63.
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