Salvatore Bravo – Debrà Libanòs è tra di noi. Il massacro perpetrato da italiani è sconosciuto alla maggioranza degli italiani di oggi: «Italiani, brava gente?».

Angelo Del Boca, Italiani brava gente? Debra Libanos

Se chiedete a un italiano, che cosa è avvenuto nel 1937 a Debra Libanos, quasi certamente non vi risponderà. Molti non saprebbero neppure dire dove si trova Debra Libanos. Il loro silenzio è il segno di come nel nostro Paese si conosca poco la storia, soprattutto quella coloniale, e di come una parte di essa (quella meno presentabile) sia stata rimossa. Debra Libanos è una delle pagine più vergognose della storia italiana. Dal 21 al 29 maggio, soldati del nostro esercito sterminarono centinaia di monaci, preti e pellegrini ortodossi (tutti ovviamente disarmati) radunati nel monastero etiope di Debra Libanos.

da Africarivista.it


Salvatore Bravo

Debrà Libanòs è tra di noi.
Il massacro perpetrato da italiani è sconosciuto alla maggioranza degli Italiani di oggi:
«Italiani, brava gente?».

 

Parlati dalla storia
Un popolo è la sua storia, il rapporto che un popolo instaura con la propria storia contribuisce largamente al suo presente ed al suo futuro, si costruisce e decostruisce la realtà effettiva per disoccultare le verità nascoste. L’identità è un’operazione di disvelamento senza la quale è esperienza di ripiegamento violento su se stessa. L’identità non è un deposito sacrale da trasmettere e riprodurre nel presente, ma la somma delle esperienze e degli errori da cui trarre la verità per un nuovo inizio. La memoria è l’esperienza che mediata dal logos collettivo germina in un nuovo inizio, ma senza memoria ogni progetto politico non può che arenarsi nel pericolo di ripetere errori e di non saperli individuare in un tempo utile per correggerli. La storia è vita collettiva senza la cui consapevolezza si procede ciecamente e biecamente nel flusso del tempo. Non è liturgia, conservazione stantia di cerimonie ed eventi per giustificare il presente, ma dialettica, con essa ci si confronta non per giudicare il passato, ma per capirlo al fine di non ripeterne le tragedie, altrimenti tutto ritorna. La dimenticanza è un boomerang i cui effetti possono essere esponenziali. La decadenza degli studi storici, la loro riduzione a biografie di grandi personaggi è in linea con il clima liberista, che riduce ogni complessità sociale a semplice omaggio alla grandezza di pochi grandi individui nel bene e nel male, i restanti sono i subalterni che si adattano agli eventi. La storia collettiva scompare sotto lo zoccolo dei grandi personaggi usati in modo ideologico per giustificare l’individualismo imperante. In tale contesto il disprezzo verso le differenze continua a circolare e specialmente, se il potere con le sue favole ideologiche è trasmesso senza mediazione del logos, inevitabilmente la logica gerarchica e aggressiva continuerà a produrre le sue conseguenze nel presente ed ad impedire un futuro non improntato a tali dinamiche. La violenza capillare che si diffonde in ogni campo, e che assume forme metamorfiche plurali non è causata solo da variabili contingenti, ma è il risultato della rimozione delle violenze del passato. Senza lo sguardo storico nella verità di ogni popolo non si vi sarà l’esodo da schemi sclerotizzati dall’abitudine: ogni grande progetto non potrà che ricadere su se stesso per il riemergere di comportamenti ed azioni sedimentati nell’inconscio collettivo. Si potrebbe dire parafrasando Heidegger che siamo parlati dalla storia, ci avvolge tanto più la ignoriamo, si insinua nelle parole e nei gesti e non li riconosciamo. Con la storia si dialoga, ci si relaziona sollevando domande che consentono di partecipare fortemente al presente, se il dialogo viene a mancare si fatalizza il proprio tempo favorendo il dominio e la subalternità generale.

 

Debrà Libanòs tra di noi
Il massacro di Debrà Libanòs il 21-29 maggio 1937 in Etiopia si aggira tra di noi, inficia le relazioni con i paesi africani e con le persone provenienti da quei luoghi tormentati dall’Occidente. Il massacro non è stato dimenticato, perché si dimentica solo ciò che è stato conosciuto. Debrà Libanòs è, invece, sconosciuto alla maggioranza della popolazione. L’eliminazione immotivata e tragica della comunità del monastero di Debrà Libanòs è un caso unico della storia europea. La comunità del monastero era di religione copta, i rapporti tra la classe dirigente dei copti e il regime fascista che aveva invaso l’Etiopia nel 1935 e proclamo l’impero nel 1936 erano pessimi. L’Etiopia era stata invasa, ma non domata, la propaganda nascondeva la verità con un falso trionfalismo imperiale.
La strage a seguito dell’attentato al viceré d’Etiopia Graziani fu occasione per liberarsi dell’opposizione etiope e rimarcare il dominio dei colonizzatori sui colonizzati. Fu eseguita dai musulmani sotto il comando italiano, li si spinse contro i cristiani usando l’odio religiosi a fini militari. Fu scelta la data di San Michele, perché in quel giorno si aveva il massimo afflusso di fedeli. Furono sterminati tutti senza constatare colpe, l’etiope era il nemico da abbattere, la selvaggina da predare. L’esecuzione ricorda i primi tentativi di sterminio degli ebrei prima della soluzione delle camere a gas: raduni e trasferimenti veloci sui luoghi dell’eliminazione con gli assassinati gettati nel dirupo. L’eccidio fu seguito dal saccheggio e dalla distruzione dell’antichissimo monastero e degli edifici limitrofi. In questi anni sono ricomparsi gli elenchi degli oggetti razziati dal fascismo, tra cui una serie di corone d’oro che si utilizzavano nelle cerimonie religiose. Gli oggetti potrebbero giacere dimenticati in qualche museo o in qualche collezione privata, sono scomparsi come le vittime. L’operazione fu genocidaria tutto doveva scomparire di quella realtà, non solo le persone, ma specialmente la cultura che si opponeva all’assimilazione[1]:

 

“Le vittime furono spinte giù dal camion e furono rapidamente fatte allineare, con il viso a nord e la schiena volta verso gli ascari. Furono quindi costrette a sedersi in fila lungo l’argine meridionale del fiume, che in quel periodo dell’anno era quasi completamente in secca. Gli ascari presero quindi un lungo telone, preparato appositamente per l’occasione, e lo stesero sui prigionieri come una stretta tenda formando un cappuccio sopra la testa di ognuno di loro. Si procedeva quindi alla fucilazione dei religiosi. E mentre un ufficiale italiano provvedeva a sparare il colpo di grazia alla testa, vicino all’orecchio, gli ascari toglievano il telone nero dai cadaveri per utilizzarlo per il successivo gruppo di condannati. Alle 15.30 del pomeriggio tutto era finito e Graziani poteva annunciare a Roma che «oggi, alle 13 in punto», il generale Maletti «ha destinato al plotone di esecuzione 297 monaci, incluso il vice-priore, e 23 laici sospetti di connivenza. Sono stati risparmiati i giovani diaconi, i maestri e altro personale d’ordine, che verranno tradotti e trattenuti nelle chiese di Debrà Berhàn. Il convento è stato di conseguenza chiuso definitivamente» Ma tre giorni dopo il viceré cambiava idea, sembra su istigazione di ras Hailù Tecla Haimanot, il più noto e spietato fra gli aristocratici collaborazionisti, e inviava a Maletti questa nuova direttiva: «Confermo pienamente la responsabilità del convento di Debrà Libanòs. Ordino pertanto di passare immediatamente per le armi tutti i diaconi di Debrà Libanòs. Assicuri con le parole: “Liquidazione completa”» .Il generale Maletti, con il consueto zelo, provvedeva subito a far scavare due profonde fosse in località Engecha, a pochi chilometri da Debra Berhàn, e nella mattinata del 26 maggio faceva sfilare davanti alle mitragliatrici 129 diaconi, martiri giovanetti che la cristianità non ricorda e non piange perché africani e diversi. «Per cui» concludeva Graziani «la cifra dei giustiziati saliva a 449». Ma la vera cifra degli assassinati era molto più alta, almeno tre volte superiore. Tra 1991 e 1994 i due docenti universitari già ricordati, l’inglese Ian L. Campbell e l’etiopico Degife Gabre-Tsadik, eseguivano nel territorio di Debrà Libanòs un’ampia e approfondita ricerca, interrogando monaci, cascì, civili, alcuni dei quali avevano assistito a una o più fasi del massacro. Dalle loro testimonianze emergeva che i fucilati a Laga Wolde non erano 320 ma tra 1000 e 1600. Successivamente, tra 1993 e 1998, il professor Campbell proseguiva da solo le indagini spostandosi nella regione di Debrà Berhàn per trovare informazioni sulla strage di Engecha. Egli non soltanto riusciva a localizzare le due fosse che contenevano i corpi dei 129 diaconi, ma poteva raccogliere le deposizioni di due testimoni oculari che avevano assistito alla strage dall’inizio alla fine. L’inchiesta di Campbell rivelava inoltre che Graziani, nel comunicare a Lessona l’eliminazione dei diaconi, aveva sostenuto il falso. Egli, infatti, non si era limitato a ordinare a Maletti la «liquidazione completa» dei 129 diaconi, ma gli aveva ingiunto di sopprimere altri 276 etiopici, fra insegnanti, studenti di teologia, monaci e sacerdoti che appartenevano ad altri monasteri e che nulla avevano a che fare con Debrà Libanòs. Per cui il bilancio della strage di Engecha saliva a 400 vittime e quello complessivo della rappresaglia contro la città conventuale di Debrà Libanòs si aggirava, secondo i due ricercatori, tra 1423 e 2033 morti. Mai, nella storia dell’Africa, una comunità religiosa aveva subìto uno sterminio di tali proporzioni”.

La violenza di Debrà Libanòs è giunta a noi nel silenzio e nel disprezzo con cui si inneggia alla differenza per omologarla, non si usano, in patria, gli ascari contro i diversi, ma i trombettieri del giudizio universale, il clero asservito che in nome della libertà laica ed atea inneggia all’omologazione. La differenza può sopravvivere solo come esperienza folcloristica, ma i comportamenti devono essere quelli dettati dal liberismo. Se avessimo trasformato la strage in cultura condivisa, probabilmente il “sì” automatico alle missioni di pace non sarebbe stato tanto “spontaneo”. I braccianti agricoli schiavizzati nella raccolta dei prodotti agricoli sono nella scia di quella violenza respinta nel dimenticatoio della storia. L’abitudine a rimuovere e a elaborare false immagini di sé giunge fino a noi e produce forme di sfruttamento diffuso, la tempesta della storia ci inghiotte e ci trascina verso la negazione della “buona vita”.

Senza storia non vi è umanesimo, ma solo una lenta agonia, in cui a morire è l’umanità nella sua totalità, al suo posto non resta che una temporalità circolare in cui ogni evento è destinato a ritornare nella sua tragicità inemendabile. La prassi necessita di senso storico comunitario, perché trae dagli avvenimenti della storia, la possibilità con cui riprogettare politiche sociali e visioni comunitarie. La storia ha la potenzialità di liberarci dalla condizione di subalterni, ci indica che la cultura di subalternità è la condizione per lo stragismo militare ed economico. Il subalterno rinuncia alla prassi per farsi servo e salvarsi dalle responsabilità verso la storia, verso il presente ed in passato, ma ogni subalterno compartecipa ai crimini della storia, è la mano esecutrice che si presta all’esecuzione. Emanciparsi significa liberarsi dalla subalternità. Ogni cultura e ogni politica che la inseguono è organica al dominio. Debrà Libanòs è tra di noi nella forma del fatalismo servile che ci rende corresponsabili della violenza dei nostri giorni.

[1] Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, capitolo dieci: Debrà Libanòs: una soluzione finale, Editore Neri Pozza, 2012.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Luigi Pareyson (1918-1991) – L’uomo deve scegliere se essere storia o avere storia, se identificarsi con la propria situazione o farne un tramite per attingere l’origine, se rinunciare alla verità o darne una rivelazione irripetibile.

Luigi Pareyson 02
L’uomo deve scegliere se essere storia o avere storia, se identificarsi con la propria situazione o farne un tramite per attingere l’origine, se rinunciare alla verità o darne una rivelazione irripetibile.
Luigi Pareyson, Verità e interpretazione, Mursia editore, Milano 2005, p. 116.

Luigi Pareyson (1918-1991) – L’esistenza dell’opera musicale non è quella inerte e muta dello spartito, ma quella viva e sonora dell’esecuzione, che è vita e possesso dell’opera.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Ilaria Gaspari – Vivere in modo virtuoso vuol dire vivere non soffocando le emozioni, ma cercando di decifrare la lingua degli affetti, riconoscendoci negli altri.

Gaspari Ilaria

«Vivere in modo virtuoso vuol dire vivere nel modo più attivo possibile, non soffocando le emozioni – cosa che porterebbe solo a renderle più riottose, isolate, in una parola: più tristi  e farebbe noi più passivi rispetto a quello che proviamo –, ma cercando di decifrare la lingua degli affetti, che possiamo comprendere solo riconoscendoci negli altri, specchiandoci in chi ci sta di fronte e scoprendo quanto ci somigliamo».

Ilaria Gaspari, Vita segreta delle emozioni, Einaudi, Torino 2021.


Ha studiato filosofia alla Scuola Normale Superiore di Pisa e si è addottorata all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne. Nel 2015 è uscito per Voland il suo primo romanzo, Etica dell’acquario, e nel 2018 ha pubblicato per Sonzogno Ragioni e sentimenti, un conte philosophique sull’amore. Per Einaudi ha pubblicato Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (2019). Collabora con diversi giornali e tiene corsi di scrittura alla Scuola Holden. Vive tra Roma e Parigi.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Josè Saramago (1922-2010) – Oggi gli ideali socialisti stanno attraversando il deserto, ma dire che l’idea socialista è morta significa cadere in una tentazione molto comune all’uomo che, avendo una vita breve, tende sempre a pensare che qualche altra cosa muoia prima di lui. Io sono ancora comunista. Certo che lo sono e non riesco a immaginare me stesso essere qualcosa di diverso.

José Saramago, Io sono comunista

«Oggi gli ideali socialisti stanno attraversando il deserto, ma dire che l’idea socialista è morta nel 1989 significa cadere in una tentazione molto comune all’uomo che, avendo una vita breve, tende sempre a pensare che qualche altra cosa muoia prima di lui».

«Qualche volta ho riflettuto sul fatto che io sono ancora comunista. Certo che lo sono e non riesco a immaginare me stesso essere qualcosa di diverso. Ma ho capito che avevo bisogno di aggiungere qualcosa a questo dire “io sono un comunista,” e quello che sto aggiungendo è che io sono un comunista libertario.
Il comunismo in Unione Sovietica è crollato per le stesse ragioni per cui crollerà la democrazia: perché non si può sopportare un sistema che si suppone sia democratico, che viene proclamato come un governo del popolo, che mette ogni giorno in bocca alla gente la parola democrazia, senza che nessuno si fermi per lo meno a chiedere se davvero quella che stiamo vivendo abbia qualcosa a che vedere con la realtà che avrebbe dovuto creare. Viviamo in un epoca in cui tutto può essere discusso, tranne la democrazia. Nessuno in questo mondo si domanda se davvero la democrazia sta facendo ciò che per sua stessa definizione è chiamata ad essere. Il nome della democrazia non si tocca, la sua fallacia non si disvela e rimaniamo con gli occhi bendati, riempiendo la bocca con una parola che funziona come una rappresentazione falsata di qualcosa che non ha cominciato a esistere. La democrazia non può essere limitata alla semplice sostituzione di un governo con un altro. Abbiamo una democrazia formale, abbiamo bisogno di una democrazia sostanziale.
Io ero ospite del programma di Bernard Pivot, il giornalista francese, e mi ha chiesto: “Come mai sei diventato un comunista?”. E io, che non ci avevo pensato, ho detto: “voglio lasciare un importante contributo al marxismo e alle idee di sinistra ed è che, come la barba o hanno alcuni tratti genetici attribuiti agli ormoni maschili, io sono un comunista ormonale “. Può essere attribuito agli ormoni, anche se senza dubbio, sarebbe meglio attribuirli alla coscienza. Ultimamente sto dicendo: comunista sì, però credo che si debba cambiare il qualificativo: sono un comunista libertario.
Marx ed Engels hanno scritto nella Sacra famiglia: «se l’uomo è formato dalle circostanze, allora bisogna formare le circostanze umanamente». Niente di più chiaro, niente di più eloquente, niente di più ricco di senso. Non avevo ancora trent’anni quando, per la prima volta, lessi quelle parole. Furono, per così dire, la mia via di Damasco. Capii che mi sarebbe stato impossibile tracciare una rotta per la mia vita al di fuori di quel principio e che solo un socialismo integralmente inteso (dunque, il comunismo) avrebbe potuto soddisfare i miei aneliti di giustizia sociale. Molti anni più tardi, in una intervista con Bernard Pivot, che voleva sapere perché continuassi a essere comunista dopo gli errori, i disastri e i crimini del sistema sovietico, risposi che, essendo un comunista «ormonale», mi era impossibile avere delle idee diverse: gli ormoni avevano deciso. La spiegazione è più seria di quanto sembri: e forse si capisce meglio se dico che, in qualche modo, ha un equivalente nel «non possumus» biblico. Recentemente, suscitando lo scandalo di certi compagni dediti alla più canonica ortodossia, ho osato scrivere che il socialismo – e a maggior ragione il comunismo – è uno stato dello spirito. Continuo a pensarlo. E la realtà si incarica giorno dopo giorno di darmi ragione.
Come è che dopo la caduta dell’Unione Sovietica, il crollo del muro di Berlino, i processi di Mosca, l’invasione dell’Ungheria, come si continua a essere comunista? Mi piacerebbe rispondere chiedendo: ‘Voi siete cattolica? Come è che siete ancora cattolica dopo l’Inquisizione? ‘ Io sono quello che si potrebbe chiamare un’ comunista ormonale ‘. Che cosa significa questo? Proprio come nel corpo ho un ormone che mi fa crescere la barba, c’è un altro ormone che mi obbliga che lo voglia o no , per una sorta di fatalità biologica, ad essere comunista. E’ molto semplice. Più tardi, ho cominciato a dire che essere un comunista è uno stato d’animo. E lo è. Potete leggere Marx, le opere più importanti che Lenin scrisse, ma in fondo, in fondo, è uno stato d’animo. (…) Marx non ha mai avuto tanta ragione come ora.
Nella mia vita ho capito che l’alienazione è uguale che provenga da un potere o da un altro, da un colore o un altro. Ecco perché sto dicendo che sono un comunista libertario. Forse si può credere che tra questi due termini vi sia una contraddizione, ma io l’ho piuttosto bene risolta. Io dico comunismo, sì, io dico che si può. Però non per ripetere quanto è stato fatto. Alcune cose sì. Quello che ho capito è che non si può, nel nome di qualsiasi cosa, cercare di imporre quella che si suppone sia la felicità senza ascoltare l’altro. Non sei più importante o migliore dell’altro. Lui potrebbe aver ragione.
Il socialismo non può essere costruito contro cittadini o senza i cittadini, e per non aver compreso questo che a sinistra c’è oggi un campo di rovine, dove, dopo tutto, alcuni ancora insistono a cercare e incollare i frammenti delle vecchie idee con la speranza di essere in grado di creare qualcosa di nuovo … ‘riusciranno a farlo?’, mi hanno chiesto, e ho detto, ‘Sì, un giorno, ma io già qui non ci sarò a vederlo …’
Come scrittore, credo di non essermi mai separato dalla mia coscienza di cittadino. Ritengo che dove va l’uno dovrà andare l’altro. Non rammento di aver scritto una sola parola che fosse in contraddizione con le convinzioni politiche che difendo, ma questo non significa che abbia mai messo la letteratura al servizio diretto dell’ideologia che è la mia. Vuol dire, questo sì, che quando scrivo cerco, in ogni parola di esprimere la totalità dell’uomo che sono. Lo ripeto: non separo la condizione di scrittore da quella di cittadino, ma non confondo la condizione di scrittore con quella del militante politico».

Josè Saramago




Josè Saramago (1922-2010) – Mi lascia indifferente il concetto di felicità, ritengo più importanti la serenità e l’armonia
José Saramago (1922-2010) – Quanti anni ho, io? Ho l’età in cui le cose si osservano con più calma, ma con l’intento di continuare a crescere. Ho gli anni che servono per abbandonare la paura e fare ciò che voglio e sento. Per continuare senza timore il mio cammino, perché porto con me l’esperienza acquisita e la forza dei miei sogni.
Josè Saramago (1922-2010) – Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, ciechi che, pur vedendo, non vedono.
Josè Saramago (1922-2010) – Marx ed Engels hanno scritto nella “Sacra famiglia”: «Se l’uomo è formato dalle circostanze, allora bisogna formare le circostanze umanamente». Il comunismo è per me uno stato dello spirito.
Josè Saramago (1922-2010) – Ecco cos’hanno di simpatico le parole semplici, non sanno ingannare.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Nicolas de Condorcet (1743-1794) – Le nostre speranze sullo stato futuro della specie umana possono ridursi a questi tre punti importanti: la distruzione della disuguaglianza fra le nazioni; i progressi dell’eguaglianza in seno ad uno stesso popolo, ed infine il reale perfezionamento dell’uomo.

Nicolas de Condorcet

Dans notre langue les mots âme, esprit, signifient dans un sens prècis, l’homme considéré come être sensible, ayant des idées et des affections, avec cette [différence], que le mot esprit se rapporte principalement à l’homme come ayant de sensations, des idées et âme, à l’homme comme susceptible de peine et de plaisir et ayant des désirs, des volontés, des affections.

N. de Condorcet

«Le nostre speranze sullo stato futuro della specie umana possono ridursi a questi tre punti importanti: la distruzione della disuguaglianza fra le nazioni; i progressi dell’eguaglianza in seno ad uno stesso popolo, ed infine il reale perfezionamento dell’uomo» (p. 165).

«Gli uomini non potranno acquisire lumi sulla natura e sullo sviluppo dei loro sentimenti morali, sui principî della morale, sui motivi naturali di conformarvi le loro azioni, sui loro interessi sia come individui sia come membri di una società, senza compiere al tempo stesso nella morale pratica progressi altrettanto reali quanto quelli della scienza stessa. […]  L’abitudine a riflettere sulla propria condotta, ad interrogare e ad ascoltare su di essa la propria ragione e la propria coscienza, quella dei dolci sentimenti che confondono la nostra felicità con l’altrui, non soni forse una conseguenza necessaria dello studio della morale ben indirizzata, di una maggiore eguaglianza nelle condizioni del patto sociale? Questa coscienza della propria dignità che appartiene all’uomo libero, un’educazione fondata su una conoscenza approfondita della nostra costituzione morale, non debbono forse rendere comuni a quasi tutti gli uomini quei principi di una giustizia rigorosa e pura, quei moti consueti di una benevolenza attiva, illuminata, di una sensibilità delicata e generosa, il cui germe la natura ha posto in tutti i cuori, e che per svilupparsi attendono soltanto il dolce influsso dei lumi e della libertà?» (pp. 182-183).

Marie-Jean-Antoine-Nicolas de Condorcet, Abbozzo di un quadro storico dei progressi dello spirito umano, Giulio Einaudi editore, Torino 1969.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Michèle Bertrand – L’homme ne cesse jamais d’appartenir à l’imaginaire, alors même qu’avec constance il poursuit le dessein de decouvrir (par la connaissance) la structure de l’univers ou sa propre verité singulière. Ce sont deux modes d’être et de penser, et non deux mondes.

Michèle Bertrand

«Spinoza n’oppose pas l’imaginaire à la réalité, mais bien plutôt la réalité de l’imaginaire à celle des événements physiques externes [Spinoza non oppone l’immaginario alla realtà, ma piuttosto la realtà dell’immaginario a quella degli eventi fisici esterni. ]» (p. 15).

«L’homme ne cesse jamais d’appartenir à l’imaginaire, alors même qu’avec constance il poursuit le dessein de decouvrir (par la connaissance) la structure de l’univers ou sa propre verité singulière. […] Le mouvement de la connaissance prend appui sur celui de l’imaginaire. Il s’en separe également. Mais ce sont deux modes d’être et de penser, et non deux mondes. L’homme ne cesse pas plus d’imaginer qu’il ne cesse d’être une partie de la nature. Mais la connaître n’est pas en devenir l’auteur. On ne cesse pas d’imaginer parce qu’on a commence de connaître; on ne devient pas ce que l’on connaît, et pour être capable de se lire sous un angle d’éternité, notre existence particuliere n’en devient pas pour autant éternelle» (p. 68).

Michèle Bertrand, Spinoza et l’imaginaire, PUF, Paris 1983.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Giupeppe Moscati – «Strategie macro-retoriche» di Livio Rossetti. L’importanza di decifrare i meccanismi della comunicazione. La macro-retorica intorno a noi.

Moscati Giuseppe 01
Giuseppe Moscati

L’importanza di decifrare i meccanismi della comunicazione.

La macro-retorica intorno a noi

 

Mi pare ben condivisibile l’idea di fondo secondo la quale ogni nostro atto, ogni nostra opera e prima ancora ogni nostra elaborazione teorica dipendono in qualche misura da una scelta – che facciamo o che talvolta subiamo – per cui siamo esseri responsabili, in parte o in toto.
Questo però significa che è necessaria e anzi determinante una seria e approfondita analisi delle procedure che ci portano a pensare, agire, comunicare. Nella intricata selva di azioni volontarie, di non detti, di congetture-riflessioni implicite e di quelli che sono e forse sempre rimarranno i segreti dell’agire comunicativo, la migliore bussola non può che essere ancora una volta il pensiero critico al quale Socrate, Kant e altri illuminati maestri ci hanno educato.
Muovendo dall’esercizio di disvelamento di quelli che chiama “incantesimi di ordine comunicazionale”, Livio Rossetti con il suo Strategie macro-retoriche (Petite Plaisance, Pistoia 2021) fresco di stampa propone, come suggerisce il sottotitolo del saggio, la “formattazione” dell’evento comunicazionale e pone l’accento su quella fondamentale distanza critica, appunto, che permette di identificare a dovere e “leggere” tra le righe l’impianto macro-retorico all’interno del quale volenti o nolenti ci muoviamo.
Come chiarisce nella sua Prefazione Mauro Serra, questo libro innanzitutto riconosce la natura sistemica dell’attività retorica, poi se da una parte presenta la macro-retorica come “indispensabile complemento al più tradizionale repertorio retorico”, dall’altra evidenzia la “strutturale complessità dell’attività comunicativa” che rischiamo di perdere a causa della notevole frammentazione legata alle svariate discipline che se ne sono via via occupate e che se ne occupano tutt’oggi.
Già docente di Storia della filosofia antica presso l’Università degli Studi di Perugia e studioso di un pensiero occidentale che egli si ostina a non far partire dal solo Talete per recuperarne appieno il fertile terreno sottostante, Rossetti si era concentrato oltre una ventina d’anni fa sulle “insidie della comunicazione seria” quale può essere, ad esempio, quella del libro di filosofia.
Egli ci porta qui a interrogarci su quelle strategie che di fatto ci raccontano, narrano di noi poiché “conoscono bene” il nostro modo di relazionarci con l’altro. Strada facendo, allora, emergono tutte le penombre della fenomenologia del comunicare: oltre che i cosiddetti sovraccarichi comunicazionali, i sempre riemergenti pregiudizi e le diverse mitizzazioni di un sapere, quello scientifico, presuntivamente del tutto neutrale e obiettivo; poi anche le diversificate forme di banalizzazione e/o di semplificazione che altro non sono che facili scorciatoie rispetto alla fatica del conoscere e dell’incontrare l’alterità: per non parlare della colpevole ignoranza di quanto sia importante decifrare i meccanismi che risiedono alla base di una comunicazione che può influenzare le scelte di politici, di operatori dell’economia e della finanza, di elettori, dell’opinione pubblica, di popoli.
Non tutto, nota opportunamente Rossetti, “si sedimenta nelle parole. In quanto ricettori (e così pure in veste di analisti) è proprio impensabile non ci si adoperi per risalire al pensato che sta a monte del dichiarato, specialmente a quel pensato che trova altre vie per arrivare fino a noi e per condizionare il nostro modo di recepire il – e di reagire al – dichiarato”. E così in Appendice l’autore s’incammina verso una rethorica universalis, tornando a scomodare Platone e a chiedergli un di più rispetto a ciò che una certa tradizione della letteratura critica si era accontentata di cogliere.
Adesso, però, tutto questo il lettore è chiamato a declinarlo in chiave “politica” così da poter porsi e porre nuovi interrogativi e riaprire questioni troppo frettolosamente chiuse, anche in merito a un certo modo di comunicare la politica stessa.

Da: Academia.edu <updates@academia-mail.com>

Giuseppe Moscati
Responsabile della Biblioteca Aureliana
dell’Accademia Neoumanistica
Via Giovine Italia, 1
06073 SOLOMEO – Perugia – Italia
Tel. 075 6970893 (int. 2893)
info: www.brunellocucinelli.it
E-mail giuseppe.moscati@fondazionebrunellocucinelli.it


Recensione già pubblicata su «Il Senso della Repubblica», maggio 2021.


Giuseppe Moscati è dottore di ricerca in Filosofia e Scienze umane e collaboratore del Dipartimento di Scienze filosofiche dell’Università degli Studi di Perugia. Si occupa di tematiche etico-politiche e socio-pedagogiche con particolare riferimento all’educazione nonviolenta. Giornalista pubblicista, scrive su riviste e pagine culturali di testate regionali e nazionali; per il quindicinale “Rocca”, di cui è redattore, cura una rubrica di letteratura contemporanea (“Nuova Antologia”) e una di filosofia e dintorni (“Maestri del nostro tempo”, insieme a S. Cazzato).


Etos del sacrificio, passione per il mondo e filosofia d’occasione.La critica della violenza in Karl Jaspers, Hannah Arendt e Günther Anders, Graphe.it Edizioni,

Una lettura critica del concetto e del fenomeno della violenza alla luce di alcune tra le più significative e penetranti riflessioni di tre filosofi contemporanei: Karl Jaspers, Hannah Arendt e Günther Anders.


Dalla filosofia della morte alla filosofia della vita La prospettiva etica dell’io-tu in Ludwig Feuerbach, Morlacchi editore, 2014

La questione prioritaria che pone Feuerbach è quella di un’etica per l’avvenire. Questa ricerca, andando in parte controcorrente rispetto alle letture tradizionali e tornando su alcune tra le più interessanti piste aperte dalla recente letteratura critica, tenta una non facile operazione: sottrarre Feuerbach alle sabbie mobili del riduttivismo e di quel materialismo tout court che egli stesso ha combattuto.L’uomo integrale e la riscoperta della corporeità, la dimensione morale dell’Ich-Du, il dialogo tra filosofia, antropologia e religione: questi e altri temi centrali nell’opera di un filosofo troppo spesso “etichettato” – e che invece ha ancora molto da dirci – vengono riletti alla luce del suggestivo orizzonte della trasformazione del ‘pensare la morte’ in filosofia della vita.

Rossetti Livio, Strategie macro-retoriche 01

Livio Rossetti, Strategie macro-retoriche.
Prefazione di Mauro Serra.
ISBN 978–88–7588-280-8, 2021, pp. 192, formato 130×200 mm, Euro 16 – Collana “Il giogo” [130].
In copertina: Joan Mirò, Il mio Alfabeto, 1972.


È strano che in una società invasa da forme di comunicazione sapiente e anche astuta (quindi insidiosa) qual è la nostra non si registri una congrua offerta di strumenti analitici sulle procedure cui è normale ricorrere in ogni momento.
In effetti, nel rivolgere la parola, nello scrivere o anche soltanto nel rispondere al telefono si manifestano moltissime scelte, alcune involontarie e altre consapevoli. Queste scelte delineano l’impostazione e il senso di ciò che io, per esempio, ho finito per dire o scrivere. Quindi parlano di me, del mio stato d’animo, dell’idea che mi ero fatta sul conto della persona o delle persone cui mi sono rivolto, dell’idea che mi ero fatta della situazione, di cosa credevo di fare e dei criteri che ho saputo adottare nel decidere cosa dire e come esprimermi, di cosa tacere, che cosa lasciare intendere etc. E a essere carica di tutti questi impliciti è ogni iniziativa comunicazionale, semplice o impegnativa che sia.
Per cercare di penetrare nei segreti della comunicazione e individuare anche ciò che transita sotto traccia, c’è poco da fare: bisogna attrezzarsi e prendere confidenza con cose così diverse come la ‘retorica dell’anti-retorica’, il feedback comunicazionale, la soglia critica, la saturazione, i meta-segnali e altro ancora. Questo libro fornisce l’apparato concettuale di cui c’è bisogno per mettersi a scavare in profondità.

Il nome di Livio Rossetti è facilmente associato alla filosofia greca – Socrate e Platone, Parmenide e Zenone – mentre non è intuitivo associarlo al tema della retorica, che è rimasta un filone leggermente in ombra della sua produzione scientifica. In effetti il volume sulle strategie macro-retoriche (1994), ora in seconda edizione, è nato a margine dei suoi studi sul dialogo socratico (alcuni dei quali figurano in Le dialogue socratique, Paris 2011) e avrebbe dovuto fornire le premesse concettuali per indagini più specifiche sull’insidiosa sapienza comunicazionale di Platone, indagini che però… devono ancora materializzarsi.
Docente di filosofia greca all’Università di Perugia per decenni, Rossetti ha pubblicato, da ultimo, Verso la filosofia: nuove prospettive su Parmenide, Zenone e Melisso (Baden Baden 2020), che si può considerare l’editio maior di Parmenide e Zenone sophoi ad Elea (in questa stessa collana, Pistoia 2020), mentre



Sommario

Questo libro

Prefazione di Mauro Serra

I. Iniziative comunicazionali, strategie comunicazionali e retorica

1. L’iniziativa comunicazionale
2. Individuare gli ‘incantesimi’ di ordine comunicazionale
3. Impostazione dell’iniziativa comunicazionale e forme di finissage
4. Progettare una iniziativa comunicazionali significa…
5. Identificare e analizzare l’impianto macroretorico

II. La formattazione dell ’unità comunicazionale

1.Una formattazione a molti livelli. Il feedback comunicazionale
2. Gli obiettivi da raggiungere

III. Ricettore ideale, distanza critica, dissimulazione. Il contratto comunicazionale

1. Lettore ideale e ricettore ideale. Il ruolo della dissimulazione
2. Contratto letterario e contratto comunicazionale. Il foedus iniquus

IV.  Gestione dell a soglia critica e forme di saturazione

1. Orizzonte di attesa, soglia critica e forme di saturazione
2. La pretesa di incidere sulla soglia critica
3. Risalire alla soglia critica prefigurata dal locutore

V. La comunicazione form attante. Il ‘sottotesto’

1. Farsi largo nella mente altrui; la pretesa di ‘comandare a casa nostra’
2. La semplificazione: grimaldello con cui si aggirano le difese altrui
3. Quando l’intreccio di contenuti epistemici e valori comunicazionali resiste all’analisi

VI. Formattazione e obsolescenza degli standard comunicazionali.
Come difendersi dall a formattazione sapiente?

1. Siamo sicuri che la magia dell’evento comunicazionale funzioni ancora?
2. Understatement, autoironia e ‘retorica dell’anti-retorica’
3. Le difese su cui possono contare i ricettori
4. Identificare il sovraccarico comunicazionale

VII. Conclusioni. Oltre la formattazione

Bibliografia

Appendice – Verso una rhetorica universalis

1. La mia comunicazione non è mai del tutto spontanea
2. Platone e la retorica degli altri
3. Le ossessioni dei moderni e le loro ‘aggressioni’ alla retorica
4. Oltre il mero arrocco. Nuovi aspetti della relazione retorica-filosofia nel Novecento
5.Verso una nuova idea di verità
6. Verso una nuova idea di retorica: la rhetorica universalis
Nota bibliografica

Soggettario

Indice dei nomi


Livio Rossetti – Parmenide e Zenone “sophoi” a Elea
Livio Rossetti – Rodolfo Mondolfo storico della filosofia antica
Livio Rossetti – Due falsI originali d autori di «qualità»: Enrico Berti (Arisotele) e Mario Vegetti (Platone).
Livio Rossetti – Anche i bambini pensano: tre modalità primarie di favorire lo sviluppo della filosofia germinale. Il libro di Dorella Cianci e Massimo Iiritano, «Pensare da bambini».

Livio Rossetti 01

Livio Rossetti

Parmenide e Zenone, sophoi ad Elea

Presentazione di Mariana Gardella Hueso.

ISBN 978-88-7588-256-3, 2020, pp. 160, Euro 15

indicepresentazioneautoresintesi

In questo Parmenide e Zenone sophoi a Elea Livio Rossetti ci propone una marcia di avvicinamento a due pensatori antichi di primissimo ordine. Il suo proposito è stato di lavorare su due ‘pezzi da museo’ che ci sono stati trasmessi pieni di polvere e di incrostazioni esegetiche, riportarli alla luce e tornare a osservarli da vicino.
Pretesa eccessiva? Non proprio, perché di Parmenide si sta riscoprendo solo ora lo stupefacente sapere naturalistico che pure formava parte integrante del suo poema, e di conseguenza il suo insegnamento richiede di essere visto da una prospettiva profondamente rinnovata. Quanto poi ai paradossi di Zenone, essi sono stati per lo più trattati come problemi da risolvere o calcoli da eseguire, senza considerare che Zenone avrà avuto interesse a idearli, non certo a risolverli e dissolverli. Quindi, anche qui, netto cambio di prospettiva.
L’autore ci invita dunque a guardare a questi due personaggi estremamente creativi senza pensare alle tradizioni interpretative, con la mente sgombra, con rinnovata curiosità. Lo fa con competenza, ma usando un linguaggio piano, cordiale, arioso, partendo dai luoghi e dal contesto. Avvicinarsi a quel mondo sarà una scoperta.


Un tuffo …

… tra alcuni dei  libri di Livio Rossetti …



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Adriano Prosperi – Siamo la prima generazione umana che abbia fatto tutta insieme un’esperienza collettiva del paradigma di Hobbes. Scopriamo dentro di noi una paura nuova: la paura della libertà … e la spontanea rinunzia alla libertà – a tante, diverse forme di libertà. In primo luogo alla libertà dei rapporti umani.

Adriano Prosperi 01

Frontespizio dell’opera di Thomas Hobbes «Leviatano».

Siamo la prima generazione umana che abbia fatto tutta insieme un’esperienza collettiva del paradigma di Hobbes: la paura della morte come causa della soggezione a un moderno Leviatano.

Della ragion di Stato, 1589

Un’opinione che fu anticipata dall’allievo dei gesuiti Giovanni Botero, il quale nella sua celebre e molto letta Ragion di Stato, scrisse: « Io sono di parere, che per la sicurezza de gli Stati, e de’ prencipi loro, miglior cosa sia la severità del governo, che la piacevolezza; e la paura, che l’amore; e la ragion si è, che il farti amare da tutto un popolo, non è in tua potestà; ma bene è in tua possanza il farti temere».

Aspettiamo di vedere le forme in cui prenderà corpo questa esperienza. Ma intanto è evidente che la percezione del nostro stato presente si è fatta strada in molti modi nelle menti: talvolta ideologizzata nelle fantasie di complotti e nell’evocazione di poteri pronti a cogliere l’occasione per impadronirsi del diritto di proclamare lo stato di eccezione, ma più spesso travestita da spontanea rinunzia alla libertà – a tante, diverse forme di libertà. In primo luogo alla libertà dei rapporti umani.
Ciò che è stato imposto dalla minaccia di morte, presenza impalpabile e invisibile veicolata dall’ambiente e da tutto quello che vi si muove, è diventato rapidamente un’abitudine, un istinto. La paura ha cancellato la fiducia, trasformando il rapporto con l’altro in una minaccia da evitare.
È vero in generale che nessun uomo è un’isola, ma per questo periodo tutti siamo diventati tante isole. Per approdare all’altra isola si è dovuto studiare come farlo, quali segnali mandare, quali garanzie esibire che non portavamo pericoli.
E mentre gli stati di emergenza si ripetono e si comincia a capire che con il Covid-19 siamo davanti alla prospettiva di una lunga convivenza, ci si viene accorgendo che qualcosa è passato dall’esterno all’interno di noi. Man mano che si tornava – o ci si illudeva di tornare – alla normalità, si scopriva da qualche parte dentro di noi una paura nuova: la paura della libertà. E questo perché nella libertà era presente il pericolo della morte.

Adriano Prosperi, Tremare è umano. Una breve storia della paura, Solferino, Milano 2021, pp. 146-147.


Risvolto di copertina

Avere paura è un grande destino umano. I tempi difficili in cui siamo immersi ne sono segnati e questo sentimento rischia di immobilizzarci, come animali di fronte a un pericolo. Ma forse è possibile guardarlo con altri occhi.
In queste pagine colte e appassionate, Adriano Prosperi ci accompagna a incontrare le paure dell’uomo, ci racconta le epoche di pestilenza e ci ricorda la potenza di un’iconografia del peccato e del Male che informa e percorre le costruzioni intellettuali attraverso cui comprendiamo la vita. E assieme al passato ci spiega il presente, mettendo a nudo il cuore antico della nostra modernità globalizzata, in un’analisi sferzante di ciò che davvero abbiamo da temere: un orizzonte di disparità economica, saccheggio ambientale e impoverimento culturale. Questo è il vero flagello, su questo orizzonte compariranno – o sono già comparsi – i nuovi cavalieri dell’Apocalisse. La pestilenza ha portato alla luce, come in ogni tempo, complottismi popolari e strategie dei potenti, attacchi ai medici e processioni penitenziali, pozioni miracolose e capri espiatori. Ma occorre guardare oltre. E riconoscere la paura nel suo aspetto più nascosto di forma di dominio, peste delle menti per cui esiste un solo rimedio, pietra filosofale ricercata nei secoli dalla scienza come dall’arte: la conoscenza. L’arma con cui possiamo affrontare un sentimento che ci appartiene e che, se riusciamo a dominarlo, può renderci più forti.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – il titanismo femminista della maternità di Naomi Campbell simboleggia il trionfo della tecnica (Gestell) come ir-razionalità calcolante.

Naomi Campbell mamma!

Nell’annuncio sui social non ha specificato il nome o quando è nata la bambina. La supermodella in passato aveva parlato a lungo sul suo desiderio di diventare mamma: nel 2014 aveva confidato alla stilista Diane von Furstenberg che “pensava tutto il tempo di avere bambini, a prescindere dell’essere o non essere in una relazione con un partner. Aveva poi detto tre anni dopo alla rivista dell'”Evening Standard” che “grazie alla scienza, pensava ora di poterlo fare quando avrebbe voluto“. (ANSA).


Salvatore Bravo

il titanismo femminista della maternità di Naomi Campbell
simboleggia il trionfo della tecnica (Gestell) come ir-razionalità calcolante


Naomi Campbell è diventata madre a 51 anni. L’annuncio sui social: i media esaltano la scelta di essere madre nella maturità e la discrezione con cui la modella ha curato la nascita “che annunciano”. Nessuna riflessione è stata svolta, non contro la persona, ma su una tendenza ormai consolidata e sempre sostenuta dal neo-femminismo liberale. La maternità in età avanzata è esaltata come una nuova conquista, un nuovo diritto del neoliberismo alleato con le tecnologie. Si occultano i dati essenziali. La maternità senza padre avvenuta molto probabilmente con le tecniche di riproduzione, in questo caso, è il segno di un nuovo individualismo, mai apparso nella storia umana, in cui la nascita appartiene all’individuo e non alla coppia. Si nega la natura duale della nascita in nome di un diritto che ha il sapore di altro. Il diritto è della sola madre, il figlio non ha diritto ad un padre e ad una madre, ma nasce nel taglio di un desiderio solitario consolidato dal potere economico e dal successo. Il destino del figlio è consegnato alla classe sociale del desiderante. L’età avanzata espone la madre, in questo caso, al rischio potenziale di non poter accudire per motivi di salute il figlio in futuro, ma a tale contingenza compensa la ricchezza della stessa. La possibilità di vivere la seconda giovinezza in un’età in cui le persone comuni già si orientano verso la vecchiaia, pensando alla futura pensione e a quello che sarà, denota l’appartenenza della modella ad un mondo di dèi e dee irraggiungibili. I media occultano, dunque, la verità di fondo che la maternità avanzata è “diritto” per censo e non altro. Le altre donne, invece, hanno un tasso di natalità basso per la precarietà lavorativa e per la violenza della cultura individualista imperante: sono spinte alla carriera, che spesso presuppone uno sfruttamento legalizzato, la speranza di un lavoro stabile e di un avanzamento comportano con gli anni la rinuncia alla generazione, ad una vita affettiva e comunitaria. Lo stesso modello di vita diventa a seconda del censo privilegio per alcune e per altre/altri semplice rinuncia che si rivela con gli anni ad una vita indegna di essere vissuta: naufragano in un mondo di cose e di illusioni e la libertà da tutto e da tutti si rivela essere solo disincanto. La violenza di tale condizione è taciuta dai media come dalle donne, le quali diventano più realiste del re, difendono il sogno titanico di una libertà senza limite e progetti, in tal modo devengono, loro malgrado, le crociate di un potere che le vuole suddite e silenziose. Le violenze peggiori sono quelle subite senza consapevolezza. La maternità di Naomi Campbell, inoltre, simboleggia il trionfo della tecnica (Gestell) come ir-razionalità calcolante: un figlio a fine carriera, quando non può essere di impaccio alla stessa. Il calcolo razionale stabilisce obiettivi e tempi in base a finalità soggettive. Il nuovo modello rampante del neo-femminismo anglosassone è organico al liberismo; ogni azione è finalizzata ad un risultato, non ci sono sorprese, la vita dev’essere dominata in base ai programmi personali, non c’è spazio per gli uomini, e la vita di coppia. Il nuovo nucleo sociale di base è la donna che si autoriproduce in solitudine, se il censo lo permette, e consegna la nascita ai media per un altro successo, per una nuova visibilità organizzata ad arte (si pensi all’immagine dell’annuncio). La violenza del neoliberismo va colta non solo nelle sue contraddizioni sociali, ma anche nella concretezza della vita quotidiana, negli episodi apparentemente minori, ma che rilevano la verità di un sistema censitario e violento che ha dissolto ogni limite e razionalità oggettiva in nome del diritto che si ribalta in titanico capriccio. Non una parola da parte dei media e delle donne sugli uomini e le donne costretti a rinunciare alla maternità e alla paternità ed indotti a vivere in una realtà di violenza, in cui il diritto a tutto è solo privilegio per pochi e tristezza quotidiana per tutti. Il transumanesimo si realizza a piccoli passi, dietro le nascite tardive vi è anche il desiderio di dirigere la natura ed i ritmi biologici verso finalità soggettive: si profila un’età di esseri che possono tutto e troppo e di servi (la maggioranza) che devono imparare a rinunciare. La sussunzione è la verità del capitalismo liberista che fa fatica ad emergere nella consapevolezza collettiva in metamorfosi verso nuove forme di antiumanesimo.

Salvatore Bravo

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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J. W. Goethe (1749-1832) – Quando invero si opera cercando l’effetto e basandosi sull’effetto, non si crede mai d’averlo reso abbastanza percettibile.

Johann Wolfgang von Goethe - Effetto

Quando invero si opera cercando l’effetto

e basandosi sull’effetto,

non si crede mai d’averlo reso abbastanza percettibile.

J. W. Goethe, Viaggio in Italia [1816/1817], 17 maggio 1787, tr. di Emilio Castellani, Garzanti, Milano 1997, p. 358.


Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Non si può chiedere al fisico di essere filosofo; ma ci si può attendere da esso che abbia sufficiente formazione filosofica
Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Qualunque sogno tu possa sognare, comincia ora.
Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Questa è l’ultima conclusione della saggezza: la libertà come la vita si merita soltanto chi ogni giorno la dovrà conquistare.
Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Ma le notti Amore mi vuole intento a opere diverse: vedo con occhio che sente, sento con mano che vede.
Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Nell’uomo vi è una scintilla più alta, la quale, se non riceve nutrimento, se non è ravvivata, viene coperta dalle ceneri della necessità e dell’indifferenza quotidiana.
Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Ciascun momento, ciascun attimo è di un valore infinito. Noi esistiamo proprio per rendere eterno ciò che è passeggero.
Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Per non rinunciare alla nostra personalità, molte cose che sono in nostro sicuro possesso interiore non dobbiamo esteriorizzarle.
Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – La mente deve essere addestrata, calzata e stretta in stivali spagnoli, perché s’incammini con prudenza sulle vie del pensiero, e non sfavilli come un fuoco fatuo.
Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Questo cuore è sempre costante, turgido come il più giovanile fiore. Io non voglio perderti mai! L’amore rende l’amore più forte. La vita è l’amore, e lo spirito è la vita della vita.
Johann Wolfgang von Goethe (1749-1832) – Chi è nell’errore vuol supplire con violenza a ciò che gli manca in verità e forza.
J. W. Goethe (1749-1832) – Possiamo e dobbiamo godere delle vere forze attive della vita terrena. Quanto più siamo aperti a questi godimenti, tanto più ci sentiamo felici. Se non vi partecipiamo, si manifesta la più grande malattia: considerare la vita come un peso nauseante.
W. von Goethe (1749-1832) – Non c’è segno esteriore di cortesia che non abbia una profonda base morale. C’è una cortesia del cuore che è vicina all’amore.

 

W. Goethe (1749-1832) – Quando ci poniamo di fronte all’antichità e la contemppliamo con serietà nell’intento di formarci su di essa, abbiamo il senso come di essere solo allora diventati veramente uomini.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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