Costanzo Preve (1943-2013) – Su laicismo, verità, relativismo e nichilismo

Preve Costanzo 033

Fisicalismo

Costanzo Preve

Su laicismo, verità, relativismo e nichilismo

L’attuale concetto di “scienza” non ha più nulla a che vedere con il concetto greco di scienza (episteme). Il termine episteme deriva etimologicamente dal verbo epistamai che significa: “sto saldamente in piedi su di un terreno sicuro”. Anche la filosofia, intesa come sapere comunitario del bene, era quindi intesa a tutti gli effetti come una scienza, e non a caso il suo metodo (pensiamo ai Dialoghi di Platone) si ispirava al rigore della dimostrazione geometrica. Non bisogna infatti dimenticare che il termine logos significava almeno tre cose: linguaggio come strumento di convincimento razionale comunitario; ragione universalmente diffusa in tutti gli uomini; ed infine calcolo geometrico applicato alla giusta distribuzione del potere e delle ricchezze, in definitiva unico “freno” (katechon) nei confronti dell’irruzione del furore prepotente del singolo (hybris) e del caos inevitabilmente provocato dal dominio dell’infinito-indeterminato (apeiron), evidentemente metafora dell’infinitezza e dell’indeterminatezza delle ricchezze individuali (chremata, chrematistikè). La scienza antica era quindi per definizione figlia di una “responsabilità sociale” assunta consapevolmente come tale.

Il concetto moderno di scienza nasce nel Seicento come “fisicalismo”, e cioè come modello unico della scienza chiamata “fisica”. Anche le scienze naturali successive (chimica, biologia, genetica, ecc.) si sono conformate al modello della fisica, sia pure con modificazioni dovute alla specificità della loro disciplina. L’illuminismo settecentesco ha fortemente appoggiato questa concezione fisicalista (evidente per es. in Kant) e questo per una ragione socialmente ben precisa, e cioè che il fisicalismo delegittimava le pretese normative della vecchia metafisica.

Il positivismo ottocentesco ha ulteriormente sviluppato questa posizione, derubricando la religione ad attività infantile e la filosofia ad attività adolescenziale, per cui la “scienza positiva” è divenuta l’unica legittima forma di conoscenza. Tutti i tentativi di problematizzare questa tragicomica arroganza (la critica di Hegel all’esclusività del Verstand, e cioè dell’intelletto astratto, e, un secolo dopo, la posizione di Husserl per cui la scienza galileiana e cartesiana è certamente un’ideazione rispettabile, ma non è la sola ideazione umana titolare della conoscenza del mondo) sono falliti, e non sono usciti dalle educate tavole rotonde universitarie.

Vi è una ragione sociale di tutto questo? Evidentemente sì, ed essa sta in ciò, che la scienza fisicalista, nella forma di tecno-scienza unitaria, e cioè di fusione di ricerca scientifica e di applicazione tecnologica generalizzata, è divenuta il principale strumento di legittimazione e di riproduzione sociale, come lo fu la politica comunitaria al tempo dei greci e la religione al tempo del medioevo cristiano europeo. Dato questo fatto, si illudono coloro che ritengono che basti argomentare pacatamente in favore di una legittimazione conoscitiva pluralistica. Il monopolio della cosiddetta “scienza” (in realtà ideazione fisicalista post-seicentesca incorporata nella tecno-scienza odierna) è un fatto sociale strutturale. La scienza è – in poche parole – la teologia del nostro tempo.

Le cosiddette “scienze sociali” (o “scienze umane”) non sono mai riuscite a fare accettare le loro pretese di scientificità al grande pubblico, al di fuori degli apparati riproduttivi universitari, grandi distributori di potere, cattedre e finanziamenti (si tratta del clero regolare moderno, equivalente degli ordines francescani, domenicani e poi gesuiti). La cosiddetta “gente comune” le considera poco più che “opinioni”, nonostante la loro dotta formalizzazione categoriale (antropologia, sociologia, psicologia sociale, diritto economia, ecc.).

Sul fatto che l’economia sia uno strumento dei potenti, nessuno può veramente dubitarne. Sul fatto che il diritto privilegi i grandi sui piccoli, nessuno può dubitarne. In ogni caso il concetto di “oggettività” del papa delle scienze sociali, Max Weber, presuppone che prima vengano accettati cinque postulati interamente teologici (separazione tra giudizi di fatto e giudizi di valore, responsabilità degli intellettuali intesa come adeguamento alla compatibilità ultima della riproduzione sociale capitalistica moderna, connotazione del socialismo come utopia impraticabile nelle moderne società complesse, disincanto positivistico del mondo, politeismo dei valori di tipo nicciano con conseguente delegittimazione di ogni possibile “fondazione”). Il fatto che questi cinque postulati interamente teologici vengano qualificati come “razionali” è la chiave dell’interpretazione critica dell’intero pensiero moderno.

Se l’unica scienza è quella fisicalistico-naturale, e la scienza sociale weberiana implica l’accettazione preventiva di cinque postulati teologici, la filosofia è interamente delegittimata come impresa di conoscenza veritativa del mondo. Sul fatto che essa non abbia valore conoscitivo e veritativo, e che il sapere sociale debba essere “senza fondamenti” esiste oggi un consenso talmente totalitario che chi si oppone diventa automaticamente un “dissidente”. Si va da coloro che manifestano apertamente il loro disprezzo per la filosofia in quanto tale (Carnap e praticamente tutte le correnti neopositiviste variamente riciclate nell’ultimo secolo), a coloro che ne limitano l’attività alla sorveglianza epistemologica dell’attività scientifica (Popper e varie epistemologie post-popperiane, ma anche Althusser e la sua scuola nell’ambito cosiddetto “marxista”), fino a coloro che la limitano ad una sorta di cortese e relativistica convenzione basata su presupposti nichilistici (ma civilizzati e procedurali, e non provocatorio-martellanti come in Nietzsche), come ad es. Richard Rorty (ma anche Gianni Vattimo, pensiero debole ecc.). Lo sforzo di Platone, di Spinoza e di Hegel, di far diventare l’attività filosofica qualcosa che va oltre l’educato scambio di opinioni, è stato ontologicamente vanificato. La filosofia (cui oggi si affida grottescamente il ruolo di “terapia filosofica” in un contesto di capillare psicologizzazione individualistica del legame sociale) deve essere soltanto un teatro di opinioni. È morto il logos, viva la doxa! Questa delegittimazione integrale del sapere filosofico, unita al fisicalismo trionfante ed alla fondazione relativistico-weberiana delle scienze sociali, comporta ovviamente un attacco all’idea di verità. Il discorso sarebbe lungo ma per brevità lo compendio solo in due parti. In primo luogo il concetto di verità viene prima confuso, e poi identificato, con i concetti di certezza (sperimentabile), esattezza (verificabile) e veridicità (accertabile). Il fatto che Parigi sia la capitale della Francia, che la battaglia di Waterloo sia avvenuta nel 1815, che il pianeta Giove ruoti intorno al sole, che l’acqua bolla a cento gradi centigradi ecc., non dà assolutamente luogo a proposizioni vere, ma unicamente a proposizioni certe o esatte. Il modello fisicalista galileiano ed il modello sociologico weberiano non hanno a che fare con la verità, ma unicamente con la certezza e con l’esattezza.

La “verità”, qualunque essa sia (ed io non penso affatto di disporne) concerne soltanto l’unione di fatto e di valore, e riguarda esclusivamente il bene comunitario condiviso e compreso. Chi pensa che la solidarietà verso chi ha bisogno sia una semplice “opinione”, mentre l’accertamento della rotazione della luna intorno alla terra sia “vera” (e vera in quanto effettivamente dotata di procedure di accertamento condivise dalla comunità degli astronomi) deve necessariamente disprezzare la filosofia. La cosa non sarebbe neppure grave (ognuno apprezzi o disprezzi cosa vuole) se non avesse terribili conseguenze sociali, per cui ciò che più conta per la riproduzione comunitaria complessiva diventa una semplice “opinione”, mentre la verità è riservata alle pratiche di laboratorio.

In secondo luogo, il concetto di verità è temuto e disprezzato non solo come “residuo metafisico premoderno” (Habermas, ecc.), ma come fattore normativo autoritario. In nome del possesso della verità, infatti, potrei sentirmi autorizzato ad imporre norme giuridiche e costumi sociali autoritari, ed infatti è stato veramente così nell’esperienza millenaria europea dopo la fine del mondo antico. Ma questa indiscutibile rilevazione storica non deve, a mio avviso, delegittimare l’idea di verità.

L’acqua sporca deve essere gettata via, ma non si getta il bambino con l’acqua sporca. Ci ritornerò più avanti, perché qui sta ovviamente il cuore della questione. Per ora mi basti ricordare al lettore la ragione della relativa lunghezza di questo capitoletto; se Ratzinger è per la legittimazione della categoria filosofica di verità, mentre i cosiddetti “laici” sono di fatto per il fisicalismo e per il relativismo, non ho dubbi. Pur essendo un allievo critico di Spinoza, Hegel e Marx, e non un pensatore cristiano, e neppure cattolico, sto dalla parte di Ratzinger. E non mi chiamino – per favore – “ateo devoto”!

Il problema storico-sociale del nichilismo e del relativismo Il filosofo Ratzinger, prima ancora di diventare papa con il nome di Benedetto XVI, era già noto come critico radicale di due dimensioni culturali oggi dominanti, il nichilismo ed il relativismo. Sono anch’io un critico sia del nichilismo che del relativismo, e ritengo di esserne un critico radicale. Sono arrivato personalmente a questa critica non attraverso un ripensamento della filosofia classica (Aristotele) e della grande teologia cristiana (Tommaso d’Aquino), e neppure attraverso un confronto con il “modernismo teologico” (Hans Küng) e con il “marxismo utopico” (Ernst Bloch), come credo sia avvenuto per Ratzinger, ma vi sono arrivato attraverso una critica radicale del marxismo a base storicistica, messianica e sociologistica. In ogni caso, strade diverse possono condurre allo stesso posto, e da Torino si può arrivare a Firenze passando per Pisa oppure passando per Bologna. Quello che conta è arrivare a Firenze.

Da allievo critico di Marx, sono abituato al metodo della deduzione sociale delle categorie (Sohn-Rethel, Lukàcs, ecc.), e quindi non posso limitarmi a “constatare” che oggi nichilismo e relativismo sono “diffusi”. Certo che sono diffusi! È evidente che sono diffusi! È sufficiente sintonizzarsi sul circo mediatico-universitario, sui talk show e sulle supponenti tavole rotonde per semicolti (mid-brows). Ma, appunto, perché sono tanto diffusi? Il perché deve essere storico e sociale, e bisogna almeno porsi il problema di cercarlo.

Il nichilismo è semplicemente il termine colto e sofisticato per indicare che oggi la società moderna si fonda sul niente, e non ha (né vuole, né cerca) nessuna fondazione universalistica di tipo filosofico e religioso. In realtà, essa si fonda sull’allargamento globalizzato della produzione capitalistica, e questo allargamento è il suo unico fondamento. Questo allargamento deve essere “performativo”, e cioè avere successo, ed il suo successo (provvisorio), può sostituire la fondazione veritativa della società. Lo storico dell’economia Frédéric Clairmont ha stabilito con un’accurata ricerca statistica che nel 1870 il reddito medio pro capite nel mondo era circa 2 volte maggiore di quello dei più poveri, nel 1960 era divenuto 38 volte, e nel 1994 di 58 volte. L’economista Perroux faceva una distinzione fra il progresso (a beneficio di tutti) ed i progressi (che riguardano una ristretta cerchia di persone). Le Nazioni Unite hanno stabilito che, nel 1994, vi erano sulla terra 1,1 miliardi di persone in condizioni di povertà assoluta (e trascuro qui i disoccupati, i sottopagati, i lavoratori flessibili e precari, ecc.). Con un’inversione etimologica spaesante, Clairmont dà a tutto questo il nome di gulag. Da filosofo mi limito a chiamare questo “nichilismo”. Chi crede che il nichilismo sia la prevalenza, nel dibattito universitario alla moda, dei punti di vista di Nietzsche e di Heidegger sui precedenti punti di vista di Hegel e di Marx (definiti storicisti e/o sostanzialisti), dovrebbe più utilmente dedicarsi alle professioni di animatore turistico o di grafico pubblicitario.

Se questo è il nichilismo (ed infatti questo è il nichilismo) allora è da questo che deriva il cosiddetto “relativismo”. Chi pensa che il relativismo (con il convenzionalismo che lo segue come il gatto segue la volpe) sia un educato insieme di punti di vista, che inizia con i sofisti Protagora e Gorgia e finisce con Richard Rorty, farebbe bene a seguire l’onorata professione di operatore ecologico. Oggi il relativismo non è in primo luogo la critica alla metafisica o ai cosiddetti “fondazionalismi veritativi”. Oggi, il relativismo è il riflesso sociale necessario dell’unica assolutezza oggi socialmente consentita, quella della sovranità del valore di scambio (nel linguaggio di Romano Prodi, il “giudizio dei mercati”). Il valore di scambio deve potersi muovere liberamente in uno spazio sociale geograficamente globalizzato e socialmente privato dei precedenti “impacci moralistici” (sia religiosi che proto-borghesi e proto-proletari), in modo da poter corrispondere sempre a tutte le domande potenzialmente solvibili. È questo il “relativismo”. C’è veramente qualcuno che pensa di limitarlo o di vincerlo con educati scambi di opinioni filosofiche? Si pensa veramente di poter proseguire la discussione colta sul relativismo senza mai individuarne le ragioni sociali strutturali?

La riconversione dei tarantolati: dalla mania per la classe operaia rivoluzionaria alla mania per i diritti umani e per il darwinismo. Mentre l’ateismo risale all’antichità classica (e certamente anche prima), il laicismo risale a poco più di duecento anni fa. Si tratta di due fenomeni distinti, su cui ritornerò in alcuni dei capitoli della seconda e della terza parte. Per ora basti ricordare che le attuali gigantomachie (ma troppo spesso purtroppo logomachie, o più esattamente batracomiomachie) sul conflitto fra religione e ed ateismo non avvengono in un vuoto storico e generazionale. Esse avvengono invece in un pieno storico e generazionale che occorre conoscere per potersi orientare in questo dibattito. Ma di quale pieno storico e generazionale si tratta?

Azzardo un’ipotesi. Quest’anno il concerto mediatico-editoriale festeggia il mitico Sessantotto (1968-2008), che non è affatto un insieme di eventi storici differenziati, ma è un Mito di fondazione di una sorta di ipercapitalismo liberalizzato post-borghese e post-proletario, all’insegna della grottesca teologia sociologica del «vietato vietare». Tutti devono fare un giuramento politicamente corretto di adesione, da Massimo D’Alema a Gianfranco Fini, e questo non è un caso, perché le religioni moderne richiedono imperativamente riti di adesione, sia pure (lo concedo) più soft e meno hard di quelle tradizionali. Ma i ventenni urlanti nelle facoltà occupate sono oggi sessantenni al potere negli apparati politici, mediatici ed editoriali. Quarant’anni fa si agitavano come tarantolati in nome del marxismo (scambiato sciaguratamente per sociologismo operaistico e per sindacalismo conflittualistico – il povero barbuto di Treviri non c’entrava nulla), della classe operaia, dell’eroico guerrigliero latinoamericano, dei partigiani vietnamiti, della raccolta “differenziata” di Gramsci, Stalin, Trotzkij, Rosa Luxemburg ecc. Vi assicuro, come direbbe don Abbondio, «le ho viste io quelle facce!». Ebbene, nel frattempo sono passati quarant’anni, e la maggior parte di questi miserabili (uso questo termine “pesante” a ragion veduta) ha dovuto consumare la delusione sociale della precedente illusione ideologica, e sublima questa delusione sociale avvelenando i pozzi in cui aveva bevuto (in modo che nessun giovane possa più abbeverarsi). Basta con la rivoluzione! Basta con l’utopia necessariamente legata al terrore (si tratta di temi risalenti a Hegel ed a Merleau-Ponty svolti con lo stile di Tex Willer e di Kit Carson)! Basta con i lager e con i gulag! Viva il disincanto verso le grandi narrazioni (veramente Lyotard ne aveva elencate cinque, ma soltanto il disincanto verso il marxismo conta!)! Si tratta di una vicenda generazionale che ritengo di poter conoscere bene perché appartengo alla stessa generazione dei tarantolati (sono nato infatti nel 1943). Ma, appunto, il vero tarantolato non può abbandonare il suo scomposto ballo orgiastico senza passare ad un altro ballo, altrettanto frenetico, scomposto ed orgiastico. Chi ha studiato con cura la notevole teoria marxiana delle ideologie di giustificazione individuale e collettiva e delle forme sociali di falsa coscienza necessaria (ed io, come direbbe il grande comico Totò, modestamente l’ho fatto) deve cercare di comprendere il processo di riconversione dei tarantolati.

In estrema sintesi due sono state le forme ideologiche principali del processo sociale di riconversione dei tarantolati sessantottini. Si tratta, in primo luogo, della teologia interventistico-militare dei cosiddetti “diritti umani”, ed in secondo luogo, dell’uso del darwinismo e della teoria dell’evoluzione come profilo identitario di appartenenza del nuovo illuminismo in lotta con il vecchio oscurantismo. La rivista Micromega è in proposito particolarmente pittoresca per la forma arrogante ed assertiva di questa riconversione per i toni tarantolati del suo periodare. Ma la coppia ideologica (diritti umani/darwinismo) è diffusa in tutta la numerosissima tribù dei semi-colti (giornali del gruppo Scalfari-De Benedetti, caffè letterari intellettuali PCI-PDS-DS-PD, gruppi supponenti di professori universitari, ed infine tutti quelli che Stefano Benni ha chiamato in un suo romanzo umoristico «Gente di una Certa Kual Kultura»).

Intendiamoci. Non ho qui certo a disposizione lo spazio necessario per discutere seriamente dell’ideologia dei diritti umani e dello statuto epistemologico della teoria dell’evoluzione di Darwin. Nel primo caso lo potrei fare abbastanza bene, essendo uno studioso disciplinare di storia, filosofia e storia delle ideologie. Nel secondo me ne asterrei, data la mia incompetenza disciplinare. Ma qui non si tratta di approfondire questi nobili argomenti. Qui si tratta solo di segnalare l’incontinente (nel senso proprio dei pannoloni) riconversione ideologica dei tarantolati. Hanno smesso di credere nel loro grottesco “marxismo” operaistico-sindacalistico-storicistico-sociologistico, ed ecco si sono rinconvertiti in un quarantennio alla nuova ideologia laicista. Illuministi di tutto il mondo, unitevi! Non solo Deus non daretur, ma proprio Deus non est. E cosa rimane allora? Ma resta l’impero americano e la società capitalistica come fine della storia, of course!

Per quanto riguarda i diritti umani, sono personalmente un estimatore del vecchio diritto naturale, e sono anche un sostenitore dell’universalismo, secondo la linea filosofica Spinoza-Kant-Hegel e Marx. Non dovrei quindi vederli di malocchio (come è il caso del mio rispettato amico Alain de Benoist, che invece ne è un critico relativistico radicale). Ma qui non si è di fronte al vecchio e nobile problema del conflitto filosofico fra relativismo ed universalismo. Qui si è di fronte ad una arrogante teologia interventistica ad apertura alare asimmetrica ed a bombardamento “etico” incorporato, per cui la loro “violazione” in Jugoslavia ed in Iraq viene punita con la rilegittimazione della guerra, la loro “violazione” in Sudan, Iran, Myanmar e Zimbabwe è continuamente evocata dal sistema mediatico guerrafondaio impazzito, mentre la loro “super-violazione” compiuta da Israele e soprattutto dall’impero ideocratico USA è continuamente taciuta, scusata, relativizzata, e soprattutto connotata al massimo come “errore” e mai come “crimine”. Milosevic e Saddam hanno commesso dei “crimini”, mentre Sharon e Bush hanno soltanto commesso “errori”.

Di fronte a simili clamorose violazioni dell’equità e della giustizia (che per il pensiero greco consisteva nel dare agli eguali in quanto eguali ed ai diseguali in quanto diseguali) è necessario non soltanto l’esodo e la secessione, ma anche il disprezzo che si prova verso gli ipocriti. Abbasso la teologia dei diritti umani! Abbasso l’interventismo militare geopolitico travestito da “umanitarismo”! Viva l’indipendenza dei popoli, delle nazioni e degli stati!

Per quanto riguarda la teoria evoluzionistica di Darwin, non prendo qui posizione su di essa per manifesta incompetenza disciplinare. Ma in quanto studioso di storia della filosofia e delle ideologie (da non confondere mai con la filosofia stessa) sono indignato dal fatto che essa venga oggi utilizzata dal circo-concerto “laico” come definitiva prova provata dell’ateismo “materialistico”. È giusto e normale essere atei o credenti, materialisti e idealisti, sopportarsi a vicenda e dialogare nel modo più sereno e serio possibile. Come professore di filosofia, non ho fatto altro per tutta la mia vita. Ma qui abbiamo a che fare con dei tarantolati i quali, disillusi dalla propria arrogante ideologia precedente, e completamente “riconciliati” con la società capitalistica ed i suoi apparati di consenso, hanno deciso di alzare la bandiera dell’ateismo “laico” legittimato dal darwinismo come rivendicazione della loro “superiorità” scientifica e morale. Non bisogna fargliela passare liscia. Così come Marx non era responsabile dei gulag di Stalin, ed ovviamente Gesù di Nazareth non lo era per i comportamenti dell’inquisitore Torquemada, nello stesso modo Darwin non è responsabile per l’agitarsi scomposto del tarantolato Flores d’Arcais. E tuttavia, o questo è chiaro allettore, o non è facile proseguire l’analisi.

 

Costanzo Preve


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