Fabio Merlini – Sotto il regime dell’immediatezza qualsiasi prospettiva di lungo periodo risulta preclusa. L’assenza di prospettiva è resa effettuale dall’immediatezza, cioè l’appiattimento sul dato. Vivere nell’immediatezza significa vivere nella ripetizione di sé, privarsi di quella ulteriorità che fa dell’esistenza, oltre che uno spazio di esperienza, anche un orizzonte di attesa.

Fabio Merlini 01

Dietro l’estetica innovativa della nostra odierna mondanità ultra-modernizzata si celano non di rado situazioni di vita barbariche, cioè neo-schiavistiche, indifferenti ai diritti del lavoro, alla vivibilità del paesaggio circostante e, in generale, all’ecosistema. È la riattualizzazione speculativa, nel cuore stesso dell’innovazione, di una storia di violazioni rinnegata, a suo tempo, dagli ideali emancipativi della società moderna. Più che un progetto incompiuto, la modernità appare qui come un progetto interrotto, abbandonato. Triste è dunque l’estetica fatta propria – per assicurarsi un appeal continuo – da quella innovazione che si afferma sfruttando strategicamente processi non ordinati a una uniforme temporalità storica. Dove, cioè, le conoscenze e le tecniche più raffinate, le forme più seduttive, vengono rese concorrenziali da un ricorso cinico a risorse esposte a utilizzazioni fuori controllo, indifferenti ai valori e ai diritti nei quali la nostra cultura afferma di riconoscersi, come esito di una storia gloriosa e sofferta di rivendicazioni e conquiste.
Dunque, come esiste una scienza triste, così esiste anche un’estetica triste. Il suo principale alleato, quando si tratta di diffondere prodotti su larga scala, è un design che si appoggia allo stesso meccanismo con cui la moda brucia il tempo di apparizione, uso e consumo degli oggetti.
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Che cosa significa non disporre del tempo, vivere in un perenne affrettamento? Al di là della percezione immediata – una moltiplicazione di sollecitazioni e responsabilità, desiderate e temute al tempo stesso, cui è difficilissimo resistere –, l’essere senza tempo è una particolare stilizzazione della vita, dove mente e corpo stabiliscono una relazione privilegiata con l’immediatezza: tutto deve essere prodotto, promosso, richiesto, ottenuto e consumato all’istante. Di più: è l’esistenza stessa a essere chiamata a risolversi nell’istante. Per questo, essa si misura prioritariamente con una successione, rapida e irrelata, di «ora»: ora questo, ora quello, ora quest’altro ancora. Il non avere tempo è dunque una elisione reiterata del tempo, è la sua continua cancellazione più che la sua assenza. La velocizzazione che ne consegue – nei casi peggiori: l’essere in ritardo su tutto – risparmia il presente dalla sua dinamica temporale. Lo eternizza, grazie a una mobilitazione volta a sottacerne l’immobilità. Per poter rimanere saldo nel suo principio – l’economia capitalistica di mercato – esso agita e mette in moto soggetti e oggetti, programmando l’obsolescenza delle loro funzionalità, per chiamarli poi a una incessante renovatio.
[…]
L’ora, l’istante, l’urgenza elevata a regola impongono ai soggetti una identificazione totale con il presente. Quando la prassi non riconosce altro all’infuori del loro appello, allora l’immediatezza diventa l’immagine stessa del tempo che si azzera, a vantaggio di ciò che questo stesso presente, nel suo divenire autarchico, istituisce appunto come unico spazio dove chiamare i soggetti a dare (buona o cattiva) prova di sé. Mancare l’ora, l’istante, l’urgenza, significa mancare l’appuntamento con se stessi e con le cose. Sotto il regime dell’immediatezza, la prossimità al mondo è tale per cui qualsiasi prospettiva di lungo periodo risulta preclusa, perché l’accelerazione che ne deriva assorbe l’intera estensione del tempo. Se vi è protensione, essa si dà ancora solo nel dinamismo reso possibile da questa accelerazione, rispetto alla quale nulla sarà comunque mai sufficientemente rapido e performante. Ecco perché non è possibile vedere altro fine, se non l’esigenza di assecondare quanto l’immediatezza presenta come terreno di prova del valore (obiettivo raggiunto/obiettivo mancato), per un soggetto costantemente impegnato ad assicurarsi i mezzi del proprio potenziamento. Trovarsi così a «ridosso della realtà» significa affrontare le cose con uno sguardo deprivato di qualsiasi distanza prospettica. Un mondo in cui tutto è in movimento può benissimo essere un mondo in sé privo di movimento; un mondo congelato nella ripetizione infinita delle sue logiche riproduttive, il quale, per potersi ripetere in esse, ha appunto bisogno di questo movimento.

L’assenza di prospettiva, resa effettuale dall’immediatezza, cioè l’appiattimento sul dato […] definisce la nostra incapacità di guardare il mondo attuale come futuro del passato e, contemporaneamente, come passato del futuro. L’assolutizzazione del nostro presente presuppone questo sganciamento dal continuum temporale, per cui rispetto al passato, il presente non riconosce più alcun debito: esso ha innovato ciò che doveva essere innovato, potenziato ciò che doveva essere potenziato. Ha superato le sue insufficienze ed inefficienze, eliminando ciò che andava eliminato. Rispetto al futuro, invece, esso è ciò che lo attualizza incessantemente tramite l’innovazione: è la sua stessa garanzia, la sua condizione di possibilità. Per questo non vi è alcuna ragione di superare il presente. Perché mai sacrificarlo a qualcosa che esso stesso è benissimo in grado di produrre a partire dalle sue risorse?

Ma questa non è l’apertura sul futuro, come possibilità dell’affermazione di una divergenza, è la ripetizione di una identità: è il futuro del presente. In questo modo, il tempo viene privato di qualsiasi orizzonte. Vivere nell’immediatezza, nonostante le apparenze, significa allora vivere nella ripetizione di sé, privarsi di quella ulteriorità che fa dell’ esistenza, oltre che uno spazio di esperienza, anche un orizzonte di attesa.

 

Fabio Merlini, L’estetica triste. Seduzione e ipocrisia dell’innovazione, Bollati Boringhieri, Torino 2019, pp. 16 e 129-130.

Lorenzo Lippi, Allegoria della simulazione (1630), Musée des Beaux-Arts, Angers

Quarta di copertina

«Scienza triste»: l’economia non è più riuscita a liberarsi del suo epiteto ottocentesco, che metteva sotto accusa la brutalità di appetiti a malapena dissimulati dall’astrattezza dei principi regolatori del mercato. Motivi analoghi inducono oggi Fabio Merlini a qualificare come «triste» anche l’estetica, sfera a cui di solito assegniamo effetti rasserenanti, se non euforizzanti. La bella apparenza che tanto ci seduce nella scenografia della merce esercita infatti un potere di incantamento che da un lato occulta condizioni di produzione talora neoschiavistiche e offese all’ecosistema, e dall’altro stringe alleanze con i regimi di consunzione del tempo nei quali si estenua la nostra esistenza, convocata in un presente privo di orizzonte. Invece di disinnescarla, l’esuberanza delle cose potenzia la tonalità depressiva dell’innovazione, che vive di caducità indotta attraverso vettori di accelerazione: ogni novità presto confligge con la versione aggiornata di se stessa, condannandosi a rapida obsolescenza e denunciando la consanguineità tra moda e morte già colta da Leopardi due secoli fa. A questa inevitabile «tristezza» cooperano adesso la disintermediazione universale, il dinamismo immobile – immediatezza ostile a qualsiasi differimento – e la stilistica della prestazione, che all’insegna dell’easy style costringe in realtà a una sfibrante mobilitazione cognitiva. Di ossimoro in paradosso, Merlini con garbo ragionativo ispeziona il nostro mondo estetizzato e performante, in cui tutto è merce o aspira feticisticamente a diventarlo. Un mondo, conclude, sempre più inospitale.

 


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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