Fernanda Mazzoli – Il futuro, cento anni fa: «Scènes de la vie future», di Georges Duhamel. Dovremmo investigare il rapporto, a livello di immaginario, tra antichi miti dell’età dell’oro e promessa capitalistica del regno dell’abbondanza.
Fernanda Mazzoli
Il futuro, cento anni fa:
Scènes de la vie future, di Georges Duhamel
Dovremmo investigare il rapporto, a livello di immaginario,
tra antichi miti dell’età dell’oro e promessa capitalistica del regno dell’abbondanza
Nel 1929, in pieno proibizionismo e crisi finanziaria, il romanziere francese Georges Duhamel parte per gli Stati Uniti, spinto dall’intuizione che è là che sta incubando un nuovo modello sociale, una nuova forma di civiltà che non tarderà a conquistare il vecchio continente. Si ferma solo per alcune settimane, ma evidentemente dispone di uno sguardo profondo e sagace capace di vedere sotto la brillante superficie esibita da luoghi e persone e di un orecchio molto fine, atto a percepire, dietro il canto delle sirene che sale dalla neonata società dei consumi, la realtà brutale dell’alienazione e della disumanizzazione, pronte ad essere esportate nel mondo intero.
È questo suo intuito visionario che rende il suo resoconto di viaggio, Scènes de la vie future,1 sorprendente per attualità e prezioso per chiunque voglia leggere con lente critica il mondo in cui viviamo, quasi un secolo dopo l’esperienza americana di Duhamel. La sorpresa è anche maggiore se si considera che lo scrittore è oggi piuttosto dimenticato, relegato ad una paginetta scarsa nelle storie letterarie, vuoi come membro, accanto a Jules Romains, dell’Unanimisme,2 vuoi come esponente di un roman fleuve tenuto in gran sospetto dalla critica come retaggio ottocentesco, ciò che dimostra non tanto l’inadeguatezza di Duhamel – che in vita ricevette numerosi premi fra cui il Goncourt –, quanto il pressappochismo della critica stessa, costretta a pagare il suo tributo alle mode culturali.
1G. Duhamel, Scènes de la vie future, Points, Paris, 2018. I passaggi qui citati sono stati tradotti dall’autrice.
2Movimento letterario fondato agli inizi del Novecento intorno all’ Abbaye de Créteil, un falansterio artistico sul modello dell’abbazia rabelaisiana di Thélème; prende il nome dalla raccolta poetica La vie unanime di Jules Romains, secondo cui la poesia deve rendere gli uomini consapevoli della loro personalità comune, sociale che lega gli uni agli altri in un sentimento unanime.
Paradossalmente, quasi uno scherzo fatto da quel gran burlone che è il tempo, il libro che attesta il rifiuto da parte dell’autore della modernità quale si veniva disegnando negli USA e il suo radicamento nei tradizionali valori umanistici è ora diventato un testo quanto mai moderno, proprio per la sua capacità di prevedere gli sviluppi futuri di quel paradigma, sociale ma anche antropologico, che ha cambiato da cima a fondo le nostre società, fino a plasmarle nella forma che oggi conosciamo.
Degli Stati Uniti, in preda agli eccessi della civiltà industriale, il romanziere non ama quasi niente: gli ripugna il culto della velocità, dell’efficienza e del profitto, detesta l’architettura delle grandi città, rifiuta la spietata segregazione razziale, non lo convince la comodità offerta dall’automobile che, piuttosto che conquistare lo spazio, lo ha perso, denuncia nel cinema «il più potente strumento di conformismo morale, estetico e politico», percepisce dietro l’industria dell’intrattenimento l’amaro sentore di un veleno che avvilisce lo spirito, sollevandolo dallo sforzo di pensare, lo disgusta l’invadente presenza della pubblicità che finisce per deturpare gli affascinanti paesaggi del Connecticut, lo preoccupa l’interesse dell’amministrazione relativamente alle tendenze religiose e politiche dei visitatori stranieri. Lui, francese orgoglioso di quello spirito razionalistico che è una delle componenti essenziali della cultura natale, arriva a pensare che il volto della ragione potrebbe divenirgli addirittura odioso, a causa della curvatura che ha assunto in quel Paese, ovvero quella della ragione strumentale che ha assoggettato gli uomini ad un ritmo vitale in cui hanno perso il bene più prezioso: il tempo, tutto da dedicare alla produzione e all’accumulazione, salvo la parentesi prevista e consentita del divertimento che diventa, in senso pascaliano, divertissement, distrazione dalle grandi questioni dell’esistenza, quelle che consentono di attribuirle significato.
Duhamel non si limita a cogliere e a disapprovare gli aspetti più evidenti e fastidiosi di un’organizzazione sociale e di una forma di vita rispetto alle quali gli preme sottolineare la sua estraneità; non è in veste di moralista che ricusa il modello americano, anzi una delle storture che maggiormente lo inquieta è proprio il moralismo di fondo che sembra pervaderlo e che, in quel momento, trova espressione nel proibizionismo, ma che ispira anche le preoccupazioni dietetiche sul numero di calorie propinato da un pasto o l’ossessione igienista, o il divieto del fumo, o l’importuno controllo esercitato dalla burocrazia sulla vita privata dei cittadini. Senza fermarsi alla facciata più o meno folkloristica delle cose e senza incagliarsi nell’invettiva, egli afferra il nocciolo del problema, affronta l’avversario sul suo stesso terreno e lo smaschera con osservazioni fulminanti dette con un tono piano, senza pretese, nato dalla conversazione quotidiana con i suoi interlocutori, in gran parte – come non manca di precisare – ottime persone, amabili e colte. Suo bersaglio non è certo il popolo americano, ma quell’America che rappresenta l’Avvenire, un futuro già pronto all’uso su scala mondiale e decisamente allarmante.
È ai due pilastri di questa civiltà, ai suoi più conclamati motivi di vanto – la ricchezza e la libertà – che egli applica il proprio sguardo smitizzante. Quanto alla prima, la corsa al successo alla quale milioni di persone, sulla scia dei cercatori d’oro, sacrificano la propria vita gli sembra il segno perspicuo di una grande povertà che nega all’esperienza umana ogni dimensione che non sia quella materiale; d’altra parte, il sogno americano si rovescia molto spesso nell’incubo della discriminazione razziale o dell’emarginazione economica che schiaccia i perdenti.
Quanto alla libertà, essa si è capovolta in schiavitù: al suo stupefatto interlocutore, che oppone la libera Repubblica americana ad un’Europa sotto le grinfie dei regimi dittatoriali, Georges Duhamel oppone un punto di vista originale e discordante:
«Ciò che chiamate la libera America mi permette di giudicare cosa può diventare la libertà nel mondo futuro, in una società dalla quale mi immagino escluso senza troppo dispiacere. […] La dittatura politica è sicuramente odiosa e mi sembrerebbe senza dubbio intollerabile, ma, per strano che vi possa apparire, vi confesso che non occupa, nei miei timori, un posto davvero considerevole. La servitù politica è spesso violenta, grossolana, chiama e finisce per provocare la sommossa. Lo spirito della ribellione politica, fortunatamente, non è spento nel cuore dell’uomo.
[…] Non appena giunti ad un certo grado di cultura e a nutrire il sentimento del loro valore e delle loro speranze, gli uomini sopportano a fatica le restrizioni imposte dal tiranno nazionale o dal dominio straniero: invece, si adattano molto bene all’altra dittatura, quella della falsa civiltà, ed è questo che mi tormenta. […] Voi siete schiavi, ve lo ripeto, dei vostri moralisti, dei vostri legislatori, dei vostri igienisti, dei vostri medici, dei vostri urbanisti e persino dei vostri estetisti. Dei vostri poliziotti, dei vostri pubblicisti … che altro ancora? Siete schiavo dell’America, come il mondo intero sarà in futuro, sul vostro esempio, schiavo di se stesso».
Una schiavitù dolce e tenace che ha preso piede quasi insensibilmente ed in base a principi così ragionevoli – l’igiene, la morale, l’estetica, la protezione sociale – che opporvisi sarebbe equivalso ad opporsi a quel legittimo desiderio di sicurezza per il quale gli uomini sono disposti ad accettare una serie di limitazioni e a delegare ogni potere a specialisti tanto zelanti quanto interessati. Il cittadino non solo è preda di una burocrazia che lo sottomette a controlli, indagini, censure, ma accetta di assecondare lui stesso i suoi tormentatori, di compiere una parte del loro lavoro.
Duhamel – medico ancor prima che letterato – era rimasto sconvolto, nel porto di New Orleans, dalla pratica di sottoporre i nuovi arrivati ad una sbrigativa cerimonia di controllo sanitario che gli aveva fatto intravvedere (e con quanta preveggenza possiamo oggi giudicare con cognizione di causa!) una possibile pericolosa deriva salutista delle moderne società, anche in questo caso intuendo una questione di fondo che i recenti avvenimenti pandemici hanno posto all’ordine del giorno. Al suo anfitrione, molto orgoglioso degli innegabili progressi scientifici conseguiti pure nel campo della profilassi, lo scrittore-medico fa notare che, anche qualora si possedesse, contro ogni infezione contagiosa, un vaccino da somministrarsi obbligatoriamente, si soffrirebbe non più delle malattie, ma degli obblighi imposti dalle leggi, si soffrirebbe di salute. L’obbligo alla salute come dovere civico regolamentato dallo Stato che si incarica paternamente di difendere il cittadino contro se stesso allo scopo di salvaguardare per la patria la sua condizione fisica (come rivendica l’interlocutore del romanziere, Mister Pitkin) è materia di riflessione non banale e che apre una finestra non proprio limpida su implicazioni di bruciante attualità. Infatti, l’autore si chiede se dopo avere proibito a qualcuno di bere e poi di fumare, non si passerà a metterlo nell’impossibilità di «procreare una miserabile progenie», eventualmente scoprendo e ponendo in opera dei «procedimenti di fecondazione perfettamente razionali e controllati», attraverso un istituto scientifico in grado di consegnare materia seminale «selezionata». Il medico francese si diverte provocatoriamente ad elencare i diversi tipi da proporre alle signore in cerca di un bebé su misura: il businessman innanzitutto, poi il boxeur, lo sportivo, l’intellettuale … Insomma, qualche settimana negli USA sul finire degli anni Venti del Novecento (ed una decina di anni prima dell’avvio degli esperimenti nazisti di eugenetica) era bastata al nostro per comprendere quale direzione avrebbe imboccato, in nome del progresso e del miglioramento dell’uomo, la civiltà occidentale presa in ostaggio dal primato dell’economia e della tecnica. Non a caso, Mister Pitkin, che non è uno scienziato pazzo od un politico all’inseguimento di ricette elettorali vincenti, ma una persona posata e ragionevole, un cittadino esemplare del “migliore dei mondi possibili” prende al volo l’idea suggerita sarcasticamente dal suo ospite e comincia a fare dei conti e ad abbozzare uno schizzo relativo alla parte meccanica della faccenda … Il dominio della macchina, il suo progressivo sostituirsi all’uomo, non sembrano a Duhamel premessa di un affrancamento di quest’ultimo dalla fatica del lavoro, quanto, piuttosto, negazione delle sue qualità sostanziali, di ciò che lo rende tale. La macchina che pretende di liberarlo dallo sforzo, rischia in realtà di liberarlo da tutto, vivere compreso.
È alla luce di tale minaccia che lo scrittore, con un altro scarto rispetto alle idee correnti, matura, al termine del suo sofferto soggiorno, l’opinione che questa civiltà non rappresenti affatto il prolungamento, per quanto peculiare, di quella europea, ma piuttosto una rottura. È, questo, sicuramente un giudizio storico alquanto sommario ed opinabile che non tiene in debito conto indubbi motivi di continuità anche culturale, ma che ha il pregio di sottolineare la radicale distanza che Georges Duhamel intende stabilire tra i valori in cui si riconosce – fondati sull’umanesimo – e quelli giunti a maturazione sulle sponde dell’Atlantico. Pur presago della resa imminente al modello americano che per lui riveste i tratti di una vera distopia, la fedeltà a quei valori gli sembra la sola possibilità di salvare un patrimonio spirituale e di cultura che, malgrado i suoi tanti errori, ha arricchito l’intera umanità.
Quasi cento anni più tardi e di fronte all’avvenuta conquista a tappe più o meno forzate di buona parte del globo da parte dell’American way of life, la risposta del romanziere francese ci può apparire superata od inadeguata per affrontare l’attuale fase. Resta che di fronte all’affermazione del transumanesimo come ingrediente ideologico di punta del capitalismo più innovativo, dinamico ed aggressivo, il radicamento in una plurimillenaria tradizione culturale di ampio respiro, e che ha in se stessa gli strumenti per ripensarsi, risulta a mio parere imprescindibile.
Così come imprescindibile è un’altra domanda, alla quale Duhamel risponde in modo leggermente spiazzante, come nel suo stile, offrendo al lettore uno spunto interessante, ma sicuramente bisognoso di approfondimento: da dove nasce tanta capacità di penetrazione, da dove trae la sua forza e il suo successo questo sistema che, mentre sembra esaltare le potenzialità individuali, in realtà le annichilisce? La sua capacità di seduzione riposerebbe sulla sua semplicità, o meglio facilità: «Incanta le persone semplici e delizia i bambini». Risposta tutta giocata sul piano di una psicologia elementare e che non può certo accontentare chi cerca la rotellina capace di fare deragliare un meccanismo apparentemente ben rodato.
Riprendendo l’osservazione dello scrittore (tralasciando pertanto l’enorme investimento economico e militare che ha sostenuto la diffusione del modello culturale statunitense), una via feconda da percorrere potrebbe essere quella di investigare il rapporto, a livello di immaginario, tra antichi miti dell’età dell’oro e promessa capitalistica del regno dell’abbondanza.
Fernanda Mazzoli
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