Salvatore Bravo – Lo sradicamento è vita fuori dalla storia, dalla coscienza, dalla comunità in cui la vita fiorisce. Lo sradicamento massimo è la riduzione di tutto sulla linea della quantità, è associare il bene solo alla quantità. Ma se il bene è la quantità, il male è per tutti.

Bravo Salvatore 028

 

Xilografia del 1474

Xilografia del 1474

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“E dimmi che non vuoi morire”.
Quattordici volte avrebbe pronunciato questa frase,
una per ognuno dei suoi quattordici figli,
sette maschi e sette femmine
uccisi a causa della sua superbia.

Solo il numero la rendeva orgogliosa,
non giudicava le qualità interiori dei figli,
ma si soffermava solo al loro esteriore aspetto.

Zeus la condannò a un pianto eterno.
Pianto che continuò a sgorgare
nonostante fosse stata trasformata in pietra da Zeus.

 

Niobe di pietra

Salvatore Bravo

L’epoca degli sradicamenti

 

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Gegenstand ed obiectum
La velocità
La manipolazione del concreto
Il mito di Niobe
Proprietà pubblica
Proprietà privata
La verità


L’epoca dello sradicamento, ovvero della vita fuori dalla storia, sia della coscienza che della comunità in cui la vita fiorisce. Per capire la profondità esiziale dello sradicamento globale può esserci d’ausilio Hegel con la Fenomenologia dello Spirito: le figure che si susseguono nell’opera rappresentano il percorso di radicamento della coscienza, i passaggi ed il travaglio per nascere a forme di vita sempre più consapevoli.
Il travaglio della coscienza è la storia del radicamento, della consapevolezza, del baricentro che si sposta dal fuori al dentro, e del suo disporsi verso e nella comunità. La prima figura è la coscienza, lo stadio più primitivo è la certezza sensibile in cui il soggetto giudica l’oggetto non posto dal soggetto, ma soggetto animato di vita propria.

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Gegenstand ed obiectum

È il trionfo dell’obiectum sul Gegenstand. Lo sradicamento opera a favore della certezza sensibile e dunque dell’obiectum, mentre nel Gegenstand è la coscienza a porre la realtà, a conoscerla per trasformarla. Con l’integralismo dell’obiectum, il soggetto vive fuori di sé, è alienato, si inginocchia dinanzi all’oggetto non riconoscendolo come sua creazione. Lo sradicamento globale è il regno della certezza sensibile, il soggetto è spettatore nel turbine degli eventi che si concretizzano dinanzi a lui, e che fatalmente deve servire. L’asservimento globale è dunque sradicamento. Fenomeno complesso e poliforme, talvolta difficilmente riconoscibile, poiché in modo semplicistico è associato ai migranti, flusso ininterrotto di viaggiatori senza meta per il globo, odissea senza patria, senza ritorno. E dunque anche l’atto del partire è privo di densità emotiva e storica: non si parte da nessun luogo, per lo sradicato tutti i luoghi sono non luoghi, sono soste nel transito perenne.
La perversione dello sradicamento del migrante è solo una voce del fenomeno, in verità sono presenti manifestazioni altrettanto perniciose, ma non riconosciute.

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La velocità

La velocità, vero mito baconiano della contemporaneità, è una forma di sradicamento. La velocità nella mitizzazione della stessa è espressione di efficienza e competitività. Se si guarda la velocità da un altro punto di vista, essa è la manifestazione dello sradicamento da ogni pensiero, dall’ascolto dei pensieri che ci giungono per svelarci mondi. La velocità orienta a vivere in uno stato costante di disorientamento: non conta verso dove è finalizzato l’accrescimento cinetico, ma è valutato solo il risultato finale. La produzione a ritmi crescenti è incentivata senza critica, non importa se il mondo si inabissa tra prodotti e scorie. La velocità è competizione: l’altro è sempre il nemico da battere sul tempo e nel tempo. Ogni percezione dell’altro è dunque puramente strumentale. I predoni della velocità, misurano i tempi delle prestazioni, ogni riflessione sulla qualità tace.
Ogni problema teoretico è solo un limite nella logica della competizione. La sindrome della velocità è entrata nelle relazioni umane, che velocemente si consumano. Nel linguaggio comune vi sono soltanto rapporti flessibili, che si orientano – già nella loro genesi iniziale – ad una durata velocemente transeunte. Nelle scuole gli apprendimenti devono essere veloci e “concreti”.

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La manipolazione del concreto

Il termine è concreto è utilizzato con somma superficialità. Il concreto è parola che deriva da concrescĕre, dunque da cum e crescĕre, crescere con, dove appunto particolare ed universale sono compresenti. Nulla è più complesso del concreto che esige la lentezza della lettura filologica. Il “concreto” all’epoca dello sradicamento è semplicemente il dato dilavato da ogni principio e contesto: in tal modo il concreto diviene astratto, empiria volgare e semplice. Lo sradicamento è polimorfo nel senso freudiano: fenomeno perverso in cui le parole perdono il loro radicamento significante per essere flatus vocis. Se le manifestazioni dello sradicamento sono innumerevoli, diventa pur necessario riportare tale fenomeno alla sua verità logica, storia e sostanziale. In questo caso ci viene in aiuto un mito greco analizzato da Simone Weil.

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La roccia piangente sul monte Sipilo, Manisa, in Turchia, conosciuta come Niobe

La roccia piangente sul monte Sipilo, Manisa, in Turchia, conosciuta come Niobe.

Il mito di Niobe

Niobe è il simbolo di coloro che associano il bene alla quantità. Niobe giudicava i suoi quattordici figli, sette maschi muscolosi e sani, sette femmine bellissime, il bene assoluto. Il numero la rendeva orgogliosa, non giudicava le qualità interiori dei figli, ma si soffermava solo al loro esteriore aspetto. I valori della res extensa contro i valori della res cogitans.
Per Simone Weil lo sradicamento massimo è la riduzione di tutto sulla linea della quantità, l’essere umano così, si sradica dal pensiero, dalla coscienza per essere parte della natura. La quantità si rende manifesta nell’occupazione del tempo asservito al solo lavoro:

 

La prima radice

La prima radice

«Non è la quantità del metallo che conta, bensì il grado della lega. In questo campo, un po’ d’oro puro vale molto oro puro. Un po’ di verità pura vale quanto molta verità pura. E così una statua greca perfetta contiene altrettanta bellezza di due statue greche perfette. Il peccato di Niobe consisteva nell’ignorare che la quantità non ha nessun rapporto col bene; e venne punita con la morte dei figli. Noi commettiamo lo stesso peccato ogni giorno, e veniamo puniti allo stesso modo».[1]

La punizione è quotidiana: se il bene è la quantità, il male è per tutti.[2] L’atomistica delle solitudini ne è conseguenza: sradicati da se stessi, dalla comunità, dalla storia come da ogni tradizione. Lo sradicamento e la quantità occupano lo spazio della mente: il tempo è pieno per cui non vi è spazio che per le mercificazioni. Il successo dello sradicamento non potrebbe essere più totale. L’essere umano ridotto ad atomo, ad individuo, non ha anticorpi per opporsi alla manipolazione: diviene, così, facile preda dei mercati, vera rete mondiale del saccheggio. La punizione ricade su tutti, poiché ogni vita è speculare alle altre, per quanto tentino di convincerci del contrario. Non solo l’infelicità nelle forme di alienazione si radica per divenire capillare, ma ancor più è in pericolo un intero pianeta: ogni vita umana è sotto scacco. La quantità agisce per trasformare l’altro in “fondo” da cui trarre plusvalore ed energia per eventuali piani di investimenti.
Il linguaggio stesso si contrae per essere veicolo della separazione. Nella lingua di ogni giorno le parole della quantificazione restringono le visuali e con esse le capacità empatiche. Le parole della quantificazione sono respingenti, creano mondi nei cui paesaggi la presenza umana non è contemplata. Dinanzi a processi di disgregazione di tale enormità, Simon Weil riconosce l’importanza degli spazi pubblici quali luoghi nei quali vivere lo spirito della comunità come appartenenza partecipata ad una storia.

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Proprietà pubblica

La proprietà pubblica implica la pubblica fruizione di spazi monumentali e politici. In questo modo tutti vivono l’esperienza del pubblico radicamento senza chiusura. Il radicamento nello spazio-tempo pubblico educa all’empatia, diviene educazione sentimentale e razionale sconosciuta al regno della quantità dove vige un sostanziale analfabetismo emotivo e razionale:

«Un bisogno altrettanto importante è la partecipazione ai beni collettivi, partecipazione che non consiste in una fruizione materiale, ma in un sentimento di proprietà. Si tratta più di uno stato spirituale che di una disposizione giuridica. Là dove esiste veramente una vita civica, ognuno si sente personalmente proprietario dei monumenti pubblici, dei giardini, della magnificenza esibita nelle cerimonie; e così, il lusso che quasi ogni essere umano desidera è concesso persino ai più poveri. Ma non solo lo Stato bensì qualsiasi specie di collettività ha il dovere di fornire la soddisfazione di questo bisogno. Una grande fabbrica moderna costituisce uno spreco dal punto di vista della proprietà. Né gli operai, né il direttore che dipende da un consiglio d’amministrazione, né i membri del consiglio che non la vedono mai, né gli azionisti che ne ignorano l’esistenza, possono trovarvi la minima soddisfazione a questo bisogno. Le modalità di scambio e di acquisto, quando comportano lo spreco dei nutrimenti materiali e morali, vanno trasformate. Non esiste nessun legame naturale fra la proprietà e il danaro. Il legame oggi stabilito è solo il risultato di un sistema che ha concentrato sul danaro la forza di ogni possibile movente. Questo sistema è dannoso; occorre operare la dissociazione inversa».[3]

Lo sradicamento si invera nelle fabbriche, nelle quali la gratificazione, il senso di esistere è assente. Sono luoghi della non vita. Solo la relazione, l’esplicitarsi di bisogni profondi ed irrinunciabili possono rendere le condizioni qualitative. La punizione cade su tutti nel regno della quantità, dal vertice della gerarchia al suo livello più basso: tutti sono coinvolti e stravolti dalla violenza della quantità.

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Proprietà privata

Simone Weil non è radicale nella sua soluzione, ribadisce l’importanza anche della proprietà privata, ma come struttura finalizzata ai bisogni autentici. La casa, la terra, i mezzi di produzione devono essere parte diretta della vita del cittadino, in modo che la soddisfazione dei bisogni materiali autentici possa essere la premessa per la liberazione dall’ossessione della quantità, in modo da aprire un varco verso il pensiero dal quale nessuno dev’essere escluso:

«La proprietà privata è un bisogno vitale dell’anima. L’anima è isolata, perduta, se non è circondata da oggetti che siano per essa come un prolungamento delle membra del corpo. L’uomo è irresistibilmente portato ad appropriarsi col pensiero ciò che continuamente e a lungo ha usato per il lavoro, per il piacere o per le necessità della vita. Così un giardiniere, dopo un certo tempo, sente che il giardino è suo. Ma là dove il sentimento di appropriazione non coincide con la proprietà giuridica, l’uomo è continuamente minacciato da separazioni dolorosissime. Se la proprietà privata è riconosciuta come un bisogno, questo implica per tutti la possibilità di possedere altri oggetti oltre quelli di normale consumo. Le modalità di questo bisogno variano molto secondo le circostanze; ma è auspicabile che la maggior parte degli uomini sia proprietaria dell’alloggio e di un po’ di terra e, quando non vi sia una impossibilità tecnica, degli strumenti di lavoro. La terra e il bestiame fanno parte degli strumenti del lavoro agricolo. Il principio della proprietà privata è violato nel caso di terra lavorata da braccianti e da servi di fattoria sottoposti agli ordini di un amministratore, e che sia proprietà di cittadini i quali ne percepiscano il reddito. Perché fra quanti sono in rapporto con quella terra non ve n’è neppur uno che, in un modo o in un altro, non le sia estraneo. C’è spreco non dal punto di vista del frumento prodotto ma dal punto di vista della soddisfazione che quella terra potrebbe offrire al bisogno di proprietà. Fra questo caso estremo e l’altro caso limite del contadino che coltiva con la sua famiglia la terra di sua proprietà, ci sono molte situazioni intermedie nelle quali il bisogno umano di appropriazione è più o meno misconosciuta».[4]

La proprietà come espressione di sé, non è sradicamento, ma relazione. La cura, il rispecchiarsi nella proprietà come parte di sé e della propria storia può avvenire solo qualora soddisfi l’autoconsumo o sia luogo della comunità famiglia. La proprietà privata così fatta sublima l’individuale, lo investe, trascendendolo. Nella proprietà finalizzata all’accumulo, non vi è che un senso di estraneità e sradicamento, di ignoranza della stessa. Gli accumulatori seriali di proprietà non le gestiscono, non le conoscono, le usano soltanto.

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La verità

Nella quantità vi è lo sradicamento dalla verità. Il radicamento è verità immanente e trascendente, mentre lo sradicamento è menzogna, dimenticanza dell’altro come dell’appartenenza la quale è di ordine orizzontale e verticale, nel primo caso è il legame carnale con la comunità dei viventi, nel secondo caso radicamento nella storia, nell’invisibile che motiva l’apertura all’altro nel presente:

«Non è possibile soddisfare l’esigenza di verità di un popolo se a tal fine non si riesce a trovare uomini che amino la verità. Il radicamento è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell’anima umana. È tra i più difficili da definire. Mediante la sua partecipazione reale, attiva e naturale all’esistenza di una collettività che conservi vivi certi tesori del passato e certi presentimenti del futuro, l’essere umano ha una radice. Partecipazione naturale, cioè imposta automaticamente dal luogo, dalla nascita, dalla professione, dall’ambiente. Ad ogni essere umano occorrono radici multiple. Ha bisogno di ricevere quasi tutta la sua vita morale, intellettuale, spirituale tramite gli ambienti cui appartiene naturalmente».[5]

Si osanna il relativismo, la libertà da ogni legame, per mettere in atto il nichilismo economico, il quale esige il superamento di ogni limite. La verità è giudicata nel circo mediatico come limite minaccioso, da cui liberarsi velocemente.
Lo sradicamento è dunque una condizione innaturale, l’irruzione nella storia di un tentativo di mutazione antropologica. L’essere umano nella sua natura è relazione concreta. Lo sviluppo qualitativo della sua personalità e del pensiero non può che avvenire nelle relazioni. L’accelerazione e la speditezza sono divenute gli ausili per bruciare le relazioni, per svuotarle di significato, renderle inautentiche, in modo da favorire lo sradicamento. Ogni relazione è giudicata nella spettacolarizzazione della libertà come limite, anzi chiunque faccia resistenza è già “vecchio”.
Ci costringono a vivere nello sradicamento anche dalla propria età, e radicati invece nella fuga nel tempo. Il totalitarismo economico, non riconosciuto, è la tragedia politica di questi anni.

Nikolaj Gavrilovič Černyševskij, Che fare? (1863)

N. G. Cernysevskij, Che fare? (1863)

 

La prima edizione del libro Che fare? (1902 di Lenin)

V.I. Lenin, La prima edizione del libro Che fare? (1902)

Dinanzi ad un’apocalisse antropologica che si annuncia, deve risuonare nuovamente il Che fare? di N. G. Černyševskij e il Che fare? di V. I. Lenin. A questa domanda si dovrà rispondere, il rischio è l’oblio dell’uomo, ed il riapparire del “musulmano” [6] l’essere umano al limite dell’inumano, della cosa, descritto da Agamben in Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone (Bollati Boringhieri, 1998), non più come eccezione, ma come sistema, come normale prassi della vita.

Salvatore Bravo

 

[1] Simone Weil, La prima radice, trad. di F. Fortini, SE, Milano, 1990, pag. 32.

[2] «Fare il male, come ha detto Simone Weil, ma è anche ciò che testimoniano da Auschwitz Primo Levi o Elie Wiesel, è ridurre l’uomo a cosa. […] il dolore di un “cancro”, il dolore dell’anima, che non a caso si è detto che “impietrisce”, come nel mito di Niobe, ci fanno “cose”. Le SS nei campi di sterminio riducevano l’uomo a cosa, quasi si fossero calati nel ruolo di agenti storici del male universale, incarnando, per così dire, ogni dolore e ogni pestilenza. Uno dei personaggi di Ombre sulll’Hudson di Singer si chiede se Dio stesso, il creatore e l’ordinatore dell’universo, non sia un Hitler cosmico che scatena appunto i suoi agenti contro l’uomo, come è già stato raccontato nel Libro di Giobbe, nella Bibbia. […] La sofferenza affonda il mondo, ci rende muti, afasici, senza linguaggio come meri oggetti, relitti abbandonali su una squallida riva …» (Franco Rella, Figure del male, Meltemi, 2002).

[3] Ibidem, pag. 18.

[4] Ibidem, pag. 17.

[5] Ibidem, pag. 21.

[6] Scrive Isabella Adinolfi: «Chi è il musulmano? Secondo la  rappresentazione e definizione che ne hanno dato testimoni quali Levi, Wiesel, Amery, Carpi, Bettheleim, e storici del calibro di Sofsky, Kogon, i musulmani, erano morti viventi, cadaveri ambulanti. Affamati, degradati, appartenevano a un regno intermedio tra la vita e la morte, tra l’umano e il non umano: non erano – sintetizza Pier Vincenzo Mengaldo – né veramente vivi, né ancora morti, né ancora veramente uomini, né del tutto non uomini. Le descrizioni del musulmano concordano tutte nell’indicare questo stadio cui, prima o poi, quasi tutti gli internati raggiungevano, come “perdita di coscienza, di consapevolezza”, come il venir meno “della volontà di vivere”, come “ripiegamento” e chiusura su se stessi. Nella “situazione estrema”, nell’”esperienza limite” del campo, il musulmano, secondo Bettelheim, è colui che “non resta un essere umano”, colui che non riesce a rimanere uomo.

Quel che resta di Auschwitz. L'archivio e il testimone

Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone

 

 

Figure del male

Figure del male

C’è, secondo quest’autore, “un punto di non-ritorno”, una sorta di discrimine morale tra umano e non umano, una soglia che il prigioniero non deve mai varcare e oltrepassare, se vuole rimanere uomo. Quando perde ogni senso di dignità, di rispetto di sé, di decenza, quando abdica anche all’ultimo margine di libertà, quando rinuncia alla dimensione della coscienza, allora l’uomo cessa di essere veramente uomo, muore spiritualmente e moralmente e talora anche fisicamente» (I. Adinolfi, Quel che resta di Auschiwitz. Una riflessione sul saggio di Giorgio Agamben, minima&moralia, blog di approfondimento culturale, 24-01-2014: http://www.minimaetmoralia.it/wp/quel-che-resta-di-auschwitz-una-riflessione-sul-libro-di-giorgio-agamben/).



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Romano Luperini – Prigionieri di una logica e di un linguaggio esclusivamente economici, dovevamo subito seppellire questo linguaggio. E invece con questo linguaggio ci hanno perfettamente addomesticato e addestrato. Noi stessi, noi docenti, siamo diventati la macchina amministrativa del sistema.

Luperini Romano 02

Solo dopo l’ultima sillaba il verso di una poesia acquista significato. Solo alla fine di una vita se ne dovrebbe scorgere il senso.

L'ultima sillaba del verso

L’ultima sillaba del verso

 

Sono andato a malincuore al convegno annuale di Italianistica che si è tenuto a Roma. Tema: la malinconia e la riscrittura. Vent’anni fa sarebbe stato: strutture sociali e strutture formali. Quella e nel mezzo deve accontentare tutti strizzando l’occhio alle principali tendenze di moda, strutturalismo e marxismo allora, pensiero debole e postmodemo oggi. Una nuova generazione, quella fra i cinquanta e i sessant’anni, di cui faccio parte, con questo convegno ha assunto finalmente la direzione della critica accademica e soprattutto il controllo dei concorsi e dei finanziamenti pubblici alla ricerca. I vecchi e i giovani vi avevano avuto un posto ormai marginale, puramente celebrativo per gli uni, di apprendistato per gli altri.
Ma io non amo i miei coetanei, che, anche senza volerlo o saperlo, travolti dalle mutazioni che hanno sconvolto le istituzioni letterarie e accademiche, hanno trasformato la letteratura in un mestiere e la funzione sociale in un ruolo professionale. I vecchi, o almeno alcuni di essi, portano dentro di sé il peso della storia, hanno partecipato a grandi esperienze, conservano qualcosa da ricordare e da raccontare; i giovani sono almeno ingenui, possono ancora entusiasmarsi e magari provare nostalgia per un mondo mai vissuto e divenuto per loro quasi leggendario. Ma i coetanei? Con quanta disinvolta rapidità sono restati sulla cresta dell’onda passando dal primato dell’economia politica a quello del linguaggio, della poesia, della scrittura (anzi, la Scrittura, con la maiuscola addirittura) o ovviamente della riscrittura (p. 119).

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«Da Berlinguer alla Gelmini non è cambiato nulla. Destra o sinistra non c’entrano. E neppure che uno sia stato un rettore e l’altra invece sia una semianalfabeta. Tutti seguono la stessa logica, fanno le stesse riforme. Beato te che sei in pensione, te ne sei andato in tempo per non vedere il disastro» ha detto.
Si è alzato, ha cominciato a camminare avanti e indietro sotto la pergola. Poi si è fermato e ha declamato in piedi: «Asn Anvur Vqr Gev Ava Pqa Psa … Sembra una filastrocca. Non sai cosa vogliono dire? Peggio per te. Senza di loro sei perduto. Sono gli acronimi che santificano la nostra esistenza quotidiana di docenti burocrati. “La bêtise, la bêtise trionfante” ha scritto un nostro collega su un blog citando Flaubert. Bêtise? Sono sciocchezze, stupidità, certo, ma sciocchezze e stupidità niente affatto casuali e che anzi corrispondono a precisi interessi, a una precisa razionalità. Non per nulla siamo prigionieri di una logica e di un linguaggio esclusivamente economici: crediti-debiti-capitale umano-prodotti della ricerca-offerta formativa-università come azienda.»
«Dovevamo subito seppellire questi acronimi e questo linguaggio con una sola risata, bisognava che da tutte le università della penisola si alzasse insieme una unica grande risata … E invece a poco a poco, con questi acronimi e con questo linguaggio, ci hanno perfettamente addomesticato e addestrato. Abbiamo tutti collaborato alla catastrofe. Noi stessi, noi docenti, siamo diventati la macchina amministrativa del sistema. Siamo stati molto zelanti, molto americani, anzi più americani degli americani, più realisti del re … Abbiamo accettato senza fiatare i blocchi stipendiali, la sospensione delle assunzioni, la decimazione del corpo docente e dei dottorati, ci siamo posti alla testa della ritirata, abbiamo promosso le valutazioni e le autovalutazioni, i criteri di qualità puramente quantitativi, i requisiti di docenza e i loro parametri numerici … » (pp. 242-243).

Romano Luperini, L’ultima sillaba del verso. Romanzo, Mondadori, 2017.


Quarta di copertina

Dopo La rancura Romano Luperini continua a fondere l’Io al Noi, per raccontare, con ricordi commossi e riflessioni amare, profonde speranze e altrettanto abissali disincanti, i due decenni a cavallo tra il vecchio e il nuovo millennio.

«Non è vero che l’impegno è chiacchiera, che ogni cosa esiste solo per la distruzione e la morte e che la mente umana vi cerca un senso e una storia solo perchè ammalata di cultura e di civiltà. Quelle erbe, quei fiori, quei boschi, quei campi costituiscono inevitabilmente un paesaggio, un insieme sensato e interpretabile. Quel viottolo color argilla, che congiunge un gruppo di case ai campi, viene percorso dal trattore rosso che li lavora. Quegli uccelli che sfrecciano dal tetto della casa alla macchia di salici nella valle e da questi agli alberi di acacia più lontani seguono traiettorie obbligate e ragionevoli: collegano il nido sul tetto ai campi e i campi al ruscello che scorre sotto i salici. Se è impossibile trovare un senso generale che spieghi il percorso della storia e il significato della vita e della morte, è possibile però interpretare la società e la natura, raccogliere frammenti di senso, mettere insieme dei tasselli, costruire delle storie e della narrazioni.»

Solo dopo l’ultima sillaba il verso di una poesia acquista significato. Solo alla fine di una vita se ne dovrebbe scorgere il senso. Valerio, il narratore e protagonista di questo romanzo, è sopravvissuto a stento a una terribile malattia che ha devastato il suo corpo. Si trova in una condizione di incertezza, mezzo vivo e mezzo già morto, solo nella campagna più solitaria, fra boschi, colli, uccelli, animali selvatici. E, sul limitare dell’ultima sillaba, prova a chiedersi quale sia stato il significato del suo percorso. In quest’opera di ricostruzione, convoca alla memoria gli eventi della sua storia privata e della Storia collettiva dall’88 fin quasi ai giorni nostri: la separazione dalla moglie, la fine di una militanza e di una fede politica che lo impegnavano dagli anni Sessanta, la caduta del muro di Berlino, la breve relazione con Margareth, la Guerra del Golfo, il legame con una ragazza canadese, Betty, la morte della madre, l’inizio dell’inchiesta Mani pulite, che coinvolge anche il fratello; e poi, imprevisto, un evento che pesa più degli altri: l’incontro con Claudine, un’allieva dell’università, da cui Valerio è attratto al punto da idealizzarla, sovrapponendola al personaggio di un racconto di Musil che porta il suo nome. L’amore con Claudine sembra ridare una meta ai suoi giorni, ma il declino progressivo del corpo, “bene mobile”, gli ricorda quotidianamente che ha davanti a sé nient’altro che una serie di ultime volte, che è, in fondo, come il falco che osserva dalla finestra del suo casolare, che “tutto il giorno si prepara, spia la campagna intorno, si protende, aspetta. Aspetta cosa? Se poi la morte arriva e se lo piglia”. E tuttavia, dopo dieci anni dall’ultimo incontro, i due avranno modo, sorprendentemente, di vedersi ancora una volta. Nonostante tutto, Claudine non è diventata ancora una figlia: resta una possibile, misteriosa e imprendibile amante. Dopo La rancura – che dando voce a tre generazioni ripercorreva quasi un secolo di storia italiana – Romano Luperini continua a fondere l’Io al Noi, a creare, per usare le parole di Annie Ernaux, “un legame indissolubile fra collettività e individualità attraverso la presenza della Storia”. Per raccontare, con ricordi commossi e riflessioni amare, profonde speranze e altrettanto abissali disincanti, i due decenni a cavallo tra il vecchio e il nuovo millennio.




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Carmine Fiorillo – I ponti, ancor prima di essere strutture materiali, sono strutture di pensiero, ponti eidetici, su cui si sedimentano quelle tracce di significato che consentono l’attraversamento dalla vita alla vita. L’antropologia capitalistica ci riserva solo la necrofila distopia del ponte. I veri costruttori di ponti li progettano in armonia con l’essenza umana, nel rispetto della natura.

Ponti eidetici

Paul Klee, Rivoluzione del Viadotto, 1937

Paul Klee, Rivoluzione del Viadotto, 1937

ponte

Noi siamo storia
e siamo la nostra storia nella storia.
Siamo una trama di significati.
Le nostre tracce di significato sono ponti.
Costruiamo ponti che ci portino ad amare e generare il bene e il bello.

La storia è soprattutto trama di significati universali.
E per ogni essere umano è trama di significati di quel che la persona è stata ed è, le scelte che ha compiuto e che ha in animo di compiere, le azioni che ha messo in atto per concretizzare la propria progettualità sociale e il proprio cammino di conoscenza, come pure le azioni che non ha messo in atto per preservare la propria identità in questo cammino.

La storia di chi ha cercato (e cerca) di vivere con profondità di senso e di valori ogni esperienza di comunicazione è costituita dalla traccia di significato di quei fatti che continuano ad essere in lui vitali, e preservati in spirito, ad illuminare il proprio presente nella progettazione di ponti verso il futuro. Noi siamo storia e siamo la nostra storia nella storia.
Dobbiamo sempre cercare una possibile strada per liberarci dalla “gabbia d’acciaio” del “puro presente” e per combattere il nichilismo moderno che ci avvolge da ogni lato cercando di convincerci che sia possibile vivere solo “al presente”, senza bisogno di storia, senza bisogno di passato, senza bisogno di futuro.

Le nostre tracce di significato sono ponti, sono ciò che unisce “quel che è stato” a “quel che sarà”.

Perché i ponti, ancor prima di essere strutture materiali, sono strutture di pensiero che pongono in comunicazione, descrivendo la parabola efficace di uno stato relazionale.

Attraverso questi ponti eidetici noi consentiamo, e ci consentiamo, un passaggio, un attraversamento, non solo da un luogo ad un altro, ma soprattutto dal passato al presente, dall’oggi al futuro, dalla vita alla vita.

L’antropologia capitalistica ci riserva distopia: offre “in dono” il “presente assoluto” di ponti unicamente “materici” destinati a schiacciare lo spirito per la loro intrinseca deteriorabilità strutturale, perché confligge con l’idea stessa di ponte, pur dovendoli costruire, e vorrebbe vedere il mondo solo come una pianura senza fine, con un paesaggio assolutamente piatto, che per questo non necessita della presenza di ponti.

Per il capitalismo mondializzato, per gli speculatori e le lobby dell’ingegneria dei ponti, l’idea stessa di ponte viene vissuta come un “non senso”, da risolvere con i “pacificanti” calcoli matematici: «un ponte non può smettere di essere ponte senza precipitare» (F. Kafka).
Ma anche un pericolo.
E non perchè i ponti possono «precipitare», e dunque occorre poi “spendere” per ricostruirli.

Per essi è l’idea stessa di ponte ad essere un pericolo in quanto i veri costruttori di ponti testimoniano un alto grado di differenziazione dall’onnivora omologazione, e soprattutto di consapevolezza delle possibili condizioni alternative per il movimento, per l’attraversamento, per il cambiamento, per il dialogo, ed anche per il conflitto.

Impariamo dunque che il senso profondo della cultura e della storia, della nostra storia (anche “minore”, anche della nostra storia personale e psicologica) lo dobbiamo ritrovare progettando quei ponti su cui si sedimentano tracce di significato.

Ponti che ci portino ad amare e generare il bene e il bello, promuovendoli nella relazione con tutti coloro che incontriamo nell’attraversamento della quotidianità, generando ciò che davvero vale e che ci sopravvive, ponti generazionali.

Tracce di significato, perché traccia è:

segno” lasciato sul terreno della storia;

vestigio” che permette di riconoscere, ricordare, rammemorare;

testimonianza”  di pienezza di valore vissuta,
di progettualità impegnata comunitariamente;

orma” che rinvia al “cammino” dell’uomo
nella realizzazione della propria compiuta umanità;

indizio” di eventi passati che il tempo ha reso evanescenti,
ma che sono prefigurazione di un futuro;

cifra” di virtualità che cercano la vita nel presente;

segnacolo” di accadimenti futuri;

impronta” della possibile dialettica di comprensibilità tra passato e presente;

abbozzo” che serva da guida;

filo conduttore” di un discorso di rilevanza umanistica;

schizzo” di un progetto di ricerca sul bene e sul bello;

metafora” della fiducia critica nella memoria storica dell’uomo.

Carmine Fiorillo


Il «Ponte del capello», particolare dell’affresco nella Chiesa di Santa Maria in Piano a Loreto Aprutino

Il «Ponte del capello», particolare dell’affresco nella Chiesa di Santa Maria in Piano a Loreto Aprutino.


Edvard Munch, L'urlo, 1893.

Edvard Munch, L’urlo, 1893.

 


«Stenditi, ponte, mettiti all’ordine, trave senza spalletta, sorreggi colui che ti è affidato. Compensa insensibilmente l’incertezza del suo passo, ma se poi vacilla, fatti conoscere e lancialo sulla terra come un Dio montano […]una volta gettato, un ponte non può smettere di essere ponte senza precipitare» (Franz Kafka).[1]

«Non una casa vien costruita, non un’architettura progettata, ove la ruina non sia implicita, posta quale pietra di fondamento» (Ernst Jünger).[2]

«Astraendo due cose dalla imperturbata situazione della natura, per designarle come “separate”, noi le abbiamo già nella nostra coscienza riferite l’una all’altra, le abbiamo distinte entrambe, insieme, nei confronti di tutto ciò che sta loro in mezzo. E viceversa: noi sentiamo come collegato, soltanto ciò che abbiamo in precedenza e in qualche modo isolato. Le cose devono essere prima divise l’una dall’altra, per essere poi unite. Dal punto di vista pratico come da quello logico, sarebbe senza senso legare ciò che non era diviso, ancor più: ciò che in qualche modo non rimane ancora diviso» (Georg Simmel).[3]

«Allora io capisco […] perché d’altra parte tanto amore io sento per il mondo ‘di là dal ponte’» (Alberto Savinio).[4]

«A me piacciono i ponti so-spe-si, che volano da una sponda all’altra, con un solo grande balzo, come una plancia. Allora non c’è acqua che può far danni» (Rudyard Kipling).[5]

 


[1] Franz Kafka, Die Brücke, 1916, in Id., Ein Landarzt, 1918, trad. it. Il ponte, in Id., Il messaggio dell’imperatore. Racconti, versione di Anita Rho, Milano, Frassinelli, 1935, 19686, pp. 319-321: 321.

[2] Ernst Jünger, Sulle scogliere di marmo, Guanda, 2002.

[3] Georg Simmel, Brücke und Tür, in «Der Tag», 15 settembre 1909, ora in Id., Brücke und Tür. Essays des Philosophen zur Geschichte, Religion, Kunst und Gesellschaft, im Verein mit Margarete Susman, herausgegeben von Michael Landmann, Stuttgart, Koehler, 1957, trad. it. Ponte e porta, in Id., Saggi di estetica, introduzione e note di Massimo Cacciari, Padova, Liviana, 1970, pp. 1-8: 3.

[4] Alberto Savinio, Ad vocem «Zoografia», in Nuova enciclopedia, Milano, Adelphi, 1977, 20025, p. 401.

[5] Rudyard Kipling, The Bridge-Builders, trad. it. I costruttori di ponti, in Id., I figli dello Zodiaco, A cura di Ottavio Fatica, Milano, Adelphi, 2008, p. 166.



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Theodor Ludwig Adorno (1903-1969) – Una società emancipata è la realizzazione dell’universale nella conciliazione delle differenze. Una politica a cui questo stesse veramente a cuore dovrebbe richiamare l’attenzione sulla cattiva eguaglianza di oggi […] e concepire uno stato di cose migliore come quello in cui si potrà essere diversi senza paura.

Theodor Ludwig Adorno03

 

Minima moralia

Minima moralia

 

«Una società emancipata

è la realizzazione dell’universale

nella conciliazione delle differenze.

Una politica a cui questo

stesse veramente a cuore

dovrebbe richiamare l’attenzione

sulla cattiva eguaglianza di oggi […]

e concepire uno stato di cose

migliore come quello in cui si potrà

essere diversi senza paura».

 

Theodor Ludwig Adorno, Minima moralia, Einaudi.

 




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Romano Luperini – Non si dà educazione senza utopia, senza un progetto. Ogni educazione presuppone una utopia, la esige. La scuola deve educare coltivando l’universale umano che è in tutti noi.

Romano Luperini 01
2013 Insegnare la letteratura oggi

Insegnare la letteratura oggi

«[…] con quale criterio si riconosce il contenuto di verità che dobbiamo cercare nelle opere? Per un insegnante – e per un insegnante di materie letterarie soprattutto – questo criterio è quello dell’utopia. Ogni educazione presuppone una utopia, la esige. Ciò è valido sempre, in generale; figuriamoci oggi, nella situazione di miseria e di assedio a cui è sottoposta la scuola e in cui ci troviamo a vivere. Non si dà educazione senza utopia, senza un progetto in nome del quale “tirare su”, verso una qualche meta, i giovani che ci vengono affidati. Definire la meta dell’oggi: questo è l’essenziale, dunque. E ancora una volta per trovare la nostra utopia bisogna tornare indietro, alle nostre radici. Passato e futuro hanno d’altronde un destino solo. Salvare l’uno è anche salvare l’altro» (p. 40).

«La scuola  […] deve educare facendo fronte a una nuova drammatica condizione umana che la globalizzazione proietta ormai su una scala planetaria. Un compito estremo. Perché la scuola, in questo spazio lacerato da immani contraddizioni, deve educare alla cittadinanza del mondo: deve, come ha scritto Martha Nussbaum, “coltivare l’umanità”, l’universale umano che è in tutti noi. Un compito estremo, reso più difficile nella situazione attuale italiana da almeno due circostanze: il declino in questi anni della civiltà italiana e con esso – ed è coincidenza niente affatto casuale – del prestigio e del ruolo della letteratura e di chi la insegna; e l’involuzione della scuola prodotta dai processi di “riforma” in atto. Dai documenti che circolano si ricavano infatti alcune tendenze di fondo: l’ideologia ministeriale punta a incoraggiare l’individualismo e la competizione, inducendo gli allievi a percorsi personali: la disarticolazione e settorializzazione della comunità scolastica si traduce in canalizzazione precoce, cosicché la divisione riguarda non solo i singoli ma i gruppi sociali, alcuni spinti verso l’alto (i licei), gli altri verso il basso (le scuole professionali), senza che venga garantita una base unitaria e neppure possibilità reale di interscambio dal basso all’alto; viene di fatto distrutta la classe come comunità organica, sede di formazione unitaria e di un sapere comune, a esclusivo vantaggio della proiezione sul mondo del lavoro, dei curricoli personali degli allievi e della influenza delle loro famiglie; questa impostazione non solo dissolve qualsiasi tendenza alla socializzazione del sapere, ma mina alle radici la possibilità stessa di una formazione unitaria di base: con il terzo anno di ogni ciclo proiettato verso l’alto (il 2 più 1), viene di fatto ridotto lo spazio dei programmi comuni; la scuola pubblica, proprio in quanto pubblica, viene vista con sospetto, a favore delle scuole private, l’articolazione e disarticolazione particolaristica delle quali è più congeniale al progetto ideologico perseguito.
Viene così colpita a morte la spinta verso l’unità del sapere e verso un sapere condiviso. La nuova scuola prefigura una società in cui ciascuno è solo sul mercato del lavoro, in concorrenza con tutti gli altri; e prefigura un mondo in cui ciascun popolo si comporta in modo predace su scala mondiale. Mentre la forza dell’educazione sta nell’unire verticalmente (dal passato al presente) e orizzontalmente (avvicinando i vari popoli e le varie culture di oggi), la cosiddetta “riforma” smembra, settorializza, contrappone. Fa trionfare i particolarismi.
La “riforma” in atto nega l’utopia umanistica; è, alla radice, antieducativa. Pone in discussione la possibilità stessa di fare della classe una comunità ermeneutica, in cui si sviluppi una libera dialettica interpretativa all’interno di un sapere comune. In una comunità ermeneutica ognuno muove sì dalla propria parzialità, ma non per assolutizzarla, bensì per porla in rapporto dialettico con le altre parzialità al fine di creare lo spazio interpretativo e democratico di una verità comune articolata, complessa e tendenzialmente universale.
La classe, in quanto comunità interdialogica, prefigura un mondo senza frontiere. In una scuola pubblica e dunque pluralistica per sua natura, la classe costruisce uno spazio che rispetta le differenze, e tuttavia non esclude, ma unisce. Aspira all’universalità dell’umanesimo. Ebbene, oggi è proprio questa universalità a essere minacciata. Siamo in una situazione-limite. I professori di italiano non potranno e non dovranno dimenticare di essere gli ultimi eredi di una tradizione umanistica che può apparire per certi versi ormai consumata, ma che conserva nel suo fondo un nucleo ancora vitale e un’utopia necessaria e attuale» (pp. 41-43).

Romano Luperini, Insegnare la letteratura oggi, Manni Editore, 2013, quinta edizione ampliata 2016.

Quarta di copertina

La crisi della scuola, l’insegnamento della letteratura, il problema della storiografia letteraria e della manualistica costituiscono i temi principali di questo volume, che spazia dalla teoria alla didattica della letteratura. L’insegnamento deve essere basato non sulla centralità del testo, ma sulla centralità della lettura, intesa come esperienza vitale e partecipazione interpretante. Un posto di rilievo spetta alla interdisciplinarità, ai percorsi tematici e per generi, all’interculturalismo e al canone europeo, in relazione anche alle ultime indicazioni ministeriali. L’autore non intende soltanto suggerire “come” insegnare la letteratura nella scuola media superiore di oggi e di domani, ma anche spiegare “perché” essa va insegnata.


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Salvatore Bravo – Il ponte di Genova: simbolo dell’economia curvata sul privato, sul plusvalore ad ogni costo. Il denaro, questa astrazione vuota ed estraniata della proprietà, è stato fatto signore della vita e della morte.

Ponte Morandi di Genova

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«Fare soldi è un arte, […].

Un buon affare è il massimo di tutte le arti»

                                                                      Andy Warhol

Salvatore Bravo

Il ponte di Genova:
l’economia curvata sul privato, sul plusvalore ad ogni costo

Il denaro, questa astrazione vuota ed estraniata della proprietà, è stato fatto signore della vita e della morte.

 

Il crollo del ponte di Genova è simbolo e sostanza del capitalismo assoluto. È simbolo di una prassi dell’abbandono di ogni spazio pubblico. I governi di ogni colore negli ultimi anni si sono succeduti per confermare la consegna ai privati del pubblico. Il privato come mantra della soluzione di ogni problema finanziario mostra le sue nefandezze ed i suoi crimini. L’economia curvata sul privato, sul plusvalore ad ogni costo, palesa la stupidità dell’integralismo economico. In assenza di ogni misura, etica e progetto comunitario, l’integralismo economico fa dell’immediato, del guadagno senza prospettive e responsabilità, la sua legge suprema. Si spinge per l’angustia di prospettive ad uccidere la mucca che quotidianamente munge.

Il disastro di Genova è stato annunciato da decenni, se lo stesso Morandi nel 1979 dichiarò, in un articolo sul quotidiano La Verità, che il ponte andava incontro a problemi di ruggine causa usura tempo e salsedine. Ricorda, tale tragedia, il Vajont per la collusione pubblico-privato, e per gli studi che annunciano il disastro. L’appalto per il rifacimento degli stralli era stato espletato, ma si è deciso di rimandare i lavori a settembre. Sorge il dubbio che tale posticipo sia dovuto al desiderio improrogabile a non rinunciare ai guadagni dei pedaggi che nella stagione estiva sono notevoli. Il simbolo diviene sostanza del turbocapitalismo, il fine di ogni prassi nel capitalismo assoluto è il denaro, la riduzione di ogni persona, di ogni comunità a plusvalore. Tale logica è confermata dall’amministratore delegato Castellucci che, seppelliti i morti, propone 500 mln di euro per i sopravvissuti, e la ricostruzione del ponte in acciaio in otto mesi. Ancora una volta il denaro diviene padrone del mondo, dovrebbe lenire la tragedia. I servitori del turbocapitalismo vorrebbero acquietare gli animi con una manciata di quattrini, non certo rendendo pubblici gli accordi finanziari secretati. L’ipertecnologico capitalismo globale ruota su se stesso per affermare il nuovo Medioevo del denaro: i pochi possono tutto, usare finanche i beni pubblici come feudo personale, i tanti restano in uno stato semischiavile, esposti al pericolo di perdere la vita e la dignità.

 

Il Plusvalore legge dell’economia e delle sue tragedie

La cancrena del plusvalore è così parte del modo di agire ed esserci, il dispositivo è parte in un modo così meccanico che ad un errore causato dal plusvalore si vuol riparare con un errore più grande, confermando la logica profonda sottesa a tale tragedia. Marx descrive il denaro come la logica del capitalismo che tutto trasforma, capovolge il mondo come i sentimenti, ne dimostra la pericolosità. Fin quando ci si inginocchia alle logiche del plusvalore siamo tutti in pericolo:

 

«Il denaro, in quanto possiede la proprietà di comprar tutto, di appropriarsi di tutti gli oggetti, è dunque l’oggetto in senso eminente. L’universalità della sua proprietà costituisce l’onnipotenza del suo essere, esso è considerato, quindi come ente onnipotente. […] Il denaro è il mediatore fra il bisogno e l’oggetto, fra la vita e il mezzo di vita dell’uomo. Ma ciò che media a me la mia vita mi media anche l’esistenza degli altri uomini. Per me è questo l’altro uomo. […] Tanto grande è la mia forza quanto grande è la forza del denaro. Le proprietà del denaro sono mie, di me suo possessore: le sue proprietà e forze essenziali. Ciò ch’io sono e posso non è dunque affatto determinato dalla mia individualità. Io sono brutto, ma posso comprarmi la più bella fra le donne. Dunque non sono brutto, in quanto l’effetto della bruttezza, il suo potere scoraggiante, è annullato dal denaro. Io sono, come individuo storpio, ma il denaro mi dà 24 gambe: non sono dunque storpio. Io sono un uomo malvagio, infame, senza coscienza, senza ingegno, ma il denaro è onorato, dunque lo è anche il suo possessore. Il denaro è il più grande dei beni, dunque il suo possessore è buono: il denaro mi dispensa dalla pena di esser disonesto, io sono, dunque, considerato onesto; io sono stupido, ma il denaro è la vera intelligenza di ogni cosa: come potrebbe essere stupido il suo possessore? Inoltre questo può comprarsi le persone intelligenti, e chi ha potere sulle persone intelligenti non è egli più intelligente dell’uomo intelligente? Io, che mediante il denaro posso tutto ciò che un cuore umano desidera, non possiedo io tutti i poteri umani? Il mio denaro non tramuta tutte le mie deficienze nel loro contrario? […] Poichè il denaro, in quanto concetto esistente e attuale del valore, confonde e scambia tutte le cose, esso costituisce la generale confusione e inversione di ogni cosa, dunque il mondo sovvertito, la confusione e inversione di tutte le qualità naturali e umane. […] Il denaro, questa astrazione vuota ed estraniata della proprietà, è stato fatto signore del mondo. L’uomo ha cessato di essere schiavo dell’uomo ed è diventato schiavo della cosa; il capovolgimento dei rapporti umani è compiuto; la servitù del moderno mondo di trafficanti, la venalità giunta a perfezione e divenuta universale è più disumana e più comprensiva della servitù della gleba dell’era feudale […]».[1]

 

L’asservimento a tali logiche spinge verso il baratro, ma può essere occasione di coscienza, di consapevolezza. La scissione dimostrata ai funerali di Stato tra quanti hanno accettato i funerali di Stato e quanti lo hanno rifiutato, è la spia evidente di una contraddizione in seno alla comunità, di un diffuso sentimento di abbandono di parti enormi della popolazione italiana ed europea. La tragedia nella tragedia è stato l‘atteggiamento delle “ex-sinistre” di governo, la loro malcelata difesa dei Benetton.

Nichilismo dell’integralismo economico

A “sinistra” non vi sono idee, ma interessi, e ciò è parte del declino italiano ed europeo. È necessario rammentare i valori ed i vissuti che fra tante contraddizioni nel secondo dopoguerra hanno posto un limite agli interessi privati per affermare la centralità dei diritti sociali. La pietà deve trasformarsi in pensiero, in progetto politico altrimenti il rischio è un’irrimediabile deriva nichilistica. L’atomistica delle solitudini lasciata a se stessa diviene bacino elettorale di forze che non hanno nel loro progetto la comunità solidale e l’individuo liberato. Senza una chiara progettualità comunitaria, senza una “buona utopia”, senza una nuova consapevolezza collettiva mediata dal pensiero è problematico solo ipotizzare una nuova coscienza civile capace di porre le condizioni per superare la palude in cui siamo caduti.

 

Il bivio tra crematistica ed economia

 Per inoltrare lo sguardo verso il futuro è necessario radicarsi criticamente verso il passato. Il bivio è tra crematistica ed economia. Se si abbraccia la crematistica, inevitabilmente, l’eccesso come regola al di là dei bisogni autentici, spingerà verso la tragedia i singoli come l’umanità. L’economia, dal greco οἴκος (oikos), “casa” e νόμος (nomos), è il regolamentare i bisogni veri della casa. Tale bivio nella condizione attuale può apparire distante, astorica, in quanto ormai non si pensa che secondo la logica crematistica (dal greco “χρήματα” ricchezza illimitata). In verità «Il noto è sconosciuto», come affermava Hegel: dinanzi ad un pianeta che non regge per il consumo illimitato delle risorse (pianeta limitato, ma assoggettato a desideri illimitati), si può comprendere come la scelta del percorso da intraprendere sarà determinante per il futuro prossimo a venire.

Concludo con la distinzione svolta da Aristotele tra crematistica ed economia, distinzione dispersa e dimenticata nel linguaggio attuale, al punto che si chiama economia ciò che è crematistica.

L’indistinzione nella pratica favorisce le tragedie:

«È chiarito quindi anche il dubbio mosso all’inizio, se cioè la crematistica appartiene all’amministratore della casa e all’uomo di stato o no, ma si devono invece presupporre i beni (perché come la scienza dello stato non produce gli uomini, ma, ricevutili da natura, se ne serve, così pure la natura deve dare, quali mezzi di sostentamento, la terra, il mare e qualche altra cosa) e, dopo ciò, è compito dell’amministratore disporre il tutto in maniera conveniente. In effetti, l’arte del tessitore non deve produrre la lana, ma usarne e discernere qual è buona e utilizzabile, quale cattiva e non utilizzabile: che certo si potrebbe pure dubitare per quale motivo la crematistica è parte dell’amministrazione domestica e la medicina no; eppure i membri della casa devono stare in salute, proprio come devono vivere e avere ogni altra cosa necessaria. Il fatto è che, per un certo rispetto, appartiene all’amministratore e al governante vegliare pure sulla salute, ma per un certo rispetto no, bensì al medico: allo stesso modo, riguardo ai beni, per un certo rispetto appartiene all’amministratore interessarsene, per un certo rispetto no, bensì a un’arte subordinata. Ma è soprattutto la natura che, come s’è già detto, deve provvedere all’esistenza di tali beni: infatti è compito della natura fornire il nutrimento all’essere che nasce e, in realtà, ciascun essere trae il nutrimento dal residuo di materia da cui è nato. Perciò è secondo natura per tutti la crematistica che ha come oggetto i frutti della terra e gli animali. Essa, come dicemmo, ha due forme, l’attività commerciale e l’economia domestica: questa è necessaria e apprezzata, l’altra basata sullo scambio, giustamente riprovata (infatti non è secondo natura, ma praticata dagli uni a spese degli altri); perciò si ha pienissima ragione a detestare l’usura, per il fatto che in tal caso i guadagni provengono dal denaro stesso e non da ciò per cui il denaro è stato inventato. Perché fu introdotto in vista dello scambio, mentre l’interesse lo fa crescere sempre di più (e di qui ha pure tratto il nome: in realtà gli esseri generati sono simili ai genitori e l’interesse è moneta da moneta): sicché questa è tra le forme di guadagno la più contraria a natura».[2]

 

Andy Warhol e Donald Trump

Andy Warhol e Donald Trump.

Two dollars (Declaration of independence) Cartamoneta da 2 dollari 4 pezzi Firmata da Warhol

4 pezzi da 2 dollari 4 con firma di Warhol.

The Art History of Donald Trump, From Disappointing Christie’s to Becoming Warhol’s Bête Noire

 

Rappresentazione di Warhol della Trump Tower

Rappresentazione di Warhol della Trump Tower.

[1] K. Marx, Manoscritti economico filosofici, 1844.

[2] Aristotele, Politica, § 10.



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Tzvetan Todorov (1939-2017) – La letteratura è pensiero e conoscenza del mondo psichico e sociale in cui viviamo. La letteratura amplia il nostro universo, apre all’infinto la possibilità di interazione con gli altri e ci arricchisce infinitamente.

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http://blog.petiteplaisance.it/wp-content/uploads/2018/08/La-letteratura-in-pericolo01.jpg

 

«Essendo oggetto della letteratura la stessa condizione umana, chi la legge e la comprende non diventerà un esperto di analisi letteraria, ma un conoscitore dell’essere umano».

«La letteratura è pensiero e conoscenza del mondo psichico e sociale in cui viviamo. La realtà che la letteratura vuole conoscere è semplicemente (ma al tempo stesso, non vi è nulla di più complesso) l’esperienza umana».

«La letteratura ci aiuta a vivere: viviamo in un interscambio continuo fra le esperienza della vita e le esperienze della lettura».
«Quando mi chiedo perché amo la letteratura, mi viene spontaneo rispondere: Perché mi aiuta a vivere … Più densa, più eloquente della vita quotidiana ma non radicalmente diversa, la letteratura amplia il nostro universo, ci stimola a immaginare altri modi di concepirlo e organizzarlo. Siamo tutti fatti di ciò che ci donano gli altri: in primo luogo i genitori e poi quelli che ci stanno accanto; la letteratura apre all’infinto questa possibilità di interazione con gli altri e ci arricchisce, perciò, infinitamente. Ci procura sensazioni insostituibili, tali per cui il mondo reale diventa più ricco di significato e più bello».
«La concezione riduttiva della letteratura non aleggia soltanto nelle classi o nelle aule universitarie; è abbondantemente rappresentata anche tra i giornalisti che recensiscono i libri e persino tra gli stessi scrittori».
Tzvetan Todorov, La letteratura in pericolo, Garzanti, 2017.

L’assenza di incontri con soggetti differenti, è molto riposante, poiché non mette mai in discussione la nostra identità; è meno pericoloso osservare cammelli che uomini (T. Todorov, da Noi e gli altri, L’Esotico, Torino, 1991).

Quarta di copertina
In un mondo dominato dalla scienza e dalla tecnica, rischiamo di non capire più i grandi capolavori della letteratura. Sul versante della critica, negli ultimi decenni abbiamo messo a punto una serie di strumenti assai efficaci per l’analisi dei testi, a cominciare dalla filologia e dallo strutturalismo, che hanno assunto un’importanza crescente nell’insegnamento. In parallelo, fiorisce una produzione narrativa sempre più ripiegata sull’io, e hanno grande fortuna i romanzi di puro intrattenimento. Tuttavia rischiamo di perdere di vista quello che è il senso profondo della opere letterarie, quello che le rende importanti e necessarie. In queste pagine appassionate e polemiche, Tzvetan Todorov – che all’inizio degli anni Sessanta ebbe un ruolo determinante nella diffusione dei formalisti russi – va al cuore del problema: a che cosa ci serve, oggi, la letteratura? Todorov parte dalla propria vicenda di studioso, prima nella Bulgaria sovietica e poi nella Parigi di Genette e Barthes. Discute i metodi più in voga d’insegnamento della letteratura. Esplora l’attuale produzione narrativa. Soprattutto, si confronta con la lezione dei grandi del passato per ritrovare e rilanciare il valore insostituibile della letteratura.


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Salvatore Bravo – Tecnica e cultura classica. La potenza della tecnica non è garanzia di virtù e bene. Cultura classica come formazione alla libertà consapevole.

Tecnica e cultura classica
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Algoritmi

 

Salvatore Bravo

Tecnica e cultura classica

 

Il Prometeo scatenato

La potenza della tecnica non è garanzia di virtù e bene. Il capitalismo assoluto ha reso tale scissione prassi quotidiana. La tecnica divenuta strumento dell’integralismo economico, per potersi affermare senza che vi siano “ostacoli epistemologici,” ha reso la coscienza umana ed il simbolico presenze superflue della storia. Il mito della tecnica con i suoi dogmi vive e si espande a livello globale mediante la mitizzazione della stessa. Ogniqualvolta sono presenti difficoltà di ordine politico relative alla comunità, l’orientamento generale è il volgersi a professionisti della tecnica, i quali rispondono con l’ausilio delle macchine. Le previsioni economiche sono demandate ad economisti, i quali leggono ed interpretano proiezioni stabilite da algoritmi. L’onnipotenza si radica nell’astratto, nella scissione. L’assenza della mediazione politica comporta il delinearsi di “comunità” che piegano le ginocchia ed il capo dinanzi al nuovo “ipse dixit”: ciò fa del capitalismo assoluto – con le sue straordinarie potenzialità tecniche – un nuovo medioevo. I nuovi clerici che parlano in nome della nuova divinità non sono che l’espressione del trionfo della tecnica. I detentori del potere sono egualmente dominati, quanto lo è la comunità passivizzata ed alienata. La tecnica – senza la mediazione simbolica – trasforma l’intera comunità rinserrandola nella «gabbia d’acciaio» in cui l’oscurità – presenza impalpabile, ma onnipresente della tecnica – diviene l’essere, il fondamento pernicioso a cui gli schiavi non vogliono rinunciare. Non tutti gli schiavi sono in una eguale condizione. I possessori dei mezzi di controllo vivono una comoda condizione alienata, il loro privilegio li allontana dagli effetti della divinità di cui sono i tragici servitori. Gran parte dell’umanità invece, vive la tragedia della verità come un dato naturale ed intrasformabile. Le ragioni possono essere plurime. La vittima solitamente ha vergogna della condizione in cui versa, preferisce rimuovere il crimine che si perpetra a suo nocumento, piuttosto che guardare lo stato verso cui è stata spinta. Le vittime spesso non credono più in se stesse, la loro vita interiore è spezzata, resa muta dallo scorrere del tempo che, come Crono, divora attimo dopo attimo i suoi figli e le loro energie. L’onnipotenza della tecnica, vero Prometeo scatenato, umilia l’umanità, nessuna competizione è possibile tra l’essere umano e la macchina. Si assiste ad una nuova Rivoluzione copernicana alla centralità della macchina contro l’umanità. La macchina è posta al centro della storia, di essa si esaltano le formidabili capacità operative, la memoria, come l’instancabile operosità. Viene occultata la presenza umana. La “verità” della macchina vorrebbe imporsi in quanto tale, in dispregio del dato lapalissiano che senza il genio umano l’onnipotenza della macchina sarebbe inesistente. L’antidealismo del regno della macchina è così celato. L’operazione ideologica sulla soglia della fine della storia è l’esaltazione della macchina e la mortificazione dell’essere umano. La democrazia del capitalismo assoluto introduce in ogni ambito la macchina, anche dove non sarebbe necessario, si deve insegnare l’asservimento coatto alla macchina, in modo da limitare gli spazi di autonomia. La Storia senza l’essere umano è l’ambizione del capitalismo assoluto, dell’integralismo economico macchinale. In tale condizione che non può che essere affermata e confermata dal semplice sguardo che si posa, pensando, le semplici operazioni del nostro quotidiano. La formazione classica è resistenza al dispositivo, Gestell, all’impianto artificiale che sostituisce la vita.

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L’attualità del mito di Theuth

La cultura classica riapre il campo al logos, alla sua presenza simbolica. Il rapporto tra virtù (dal greco ἀρετή aretè) e tecnica (dal greco τέχνη téchne), ed i pericoli presenti nella loro scissione sono presenti nel mito di Theut. L’invenzione della scrittura quale nuova tecnica per conservare la memoria è potente, ma non virtuosa, poiché la scrittura riduce l’autonomia dell’essere umano, in quanto si delega al testo scritto la memoria. La presenza del testo scritto riduce lo spazio di attività dell’essere umano, il quale è fiducioso che il mezzo esterno possa conservare ciò che non può e non vuole con debita fatica ricordare nella mente. Il supporto della memoria è oggi un mezzo dalle potenzialità incontemplabili: i mezzi informatici. Essi hanno la funzione di ricordare per noi: arretra l’umano per lasciar spazio ad esseri chini, non metaforicamente, sui mezzi informatici, i quali rammentano, organizzano e dispongono della vita delle persone. L’atto del delegare è di ausilio alla fine della Storia. Esseri umani abituati alla delega, ad abdicare ogni energia non possono immaginare un’altra storia, di essere protagonisti della stessa, la possibilità che la Storia possa rompere gli ormeggi per un nuovo inizio. Il mito di Theut tratta di un altro problema in cui siamo implicati: la tecnica cambia il modo di imparare. Il supporto ridisegna le modalità con cui ci si relaziona al sapere. La scrittura come il supporto informatico consentono di accedere alle informazioni senza la mediazione, la discussione, la fatica di concettualizzare e ricostruire olisticamente i contesti dell’informazione. Il supporto diviene così veicolo della cultura o meglio dell’incultura dell’astratto. Solo la mediazione discorsiva, il mettere in gioco la parola tra dialoganti trasforma l’informazione in concetto, permette di elaborare la dialettica nello scontro come nella condivisione senza la quale ogni informazione rischia di passare come acqua su marmo, per essere esercizio mnestico momentaneo.

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Algoritmi Google

 

Le nuove scritture della memoria

Il cambiamento del supporto della conoscenza ha l’effetto di cambiare la posizione antropologica nella storia dell’umanità. Come nel mito di Platone l’assenza del vaglio delle possibilità e delle conseguenze nell’introduzione della tecniche comporta la decadenza dell’essere umano nella Storia. Tale riflessione non è svolta, anzi il sistema è organizzato per neutralizzare ogni discussione pubblica e valutazione sui proclamati benefici della tecnica. La motivazione è l’integralismo economico che trasforma ogni invenzione tecnica in occasione di investimento. L’ostilità verso la cultura classica cela il timore che questa possa riaprire spazi in cui l’essere umano si riappropri della propria presenza nella storia. Così Platone codifica tale problematica:

 

”[274 c] […] Socrate – Ho sentito narrare che a Naucrati d’Egitto dimorava uno dei vecchi dèi del paese, il dio a cui è sacro l’uccello chiamato ibis, e di nome detto Theuth. Egli fu l’inventore dei numeri, [d] del calcolo, della geometria e dell’astronomia, per non parlare del gioco del tavoliere e dei dadi e finalmente delle lettere dell’alfabeto. Re dell’intiero paese era a quel tempo Thamus, che abitava nella grande città dell’Alto Egitto che i Greci chiamano Tebe egiziana e il cui dio è Ammone. Theuth venne presso il re, gli rivelò le sue arti dicendo che esse dovevano esser diffuse presso tutti gli Egiziani. Il re di ciascuna gli chiedeva quale utilità comportasse, e poiché Theuth spiegava, egli disapprovava ciò che gli sembrava [e] negativo, lodava ciò che gli pareva dicesse bene. Su ciascuna arte, dice la storia, Thamus aveva molti argomenti da dire a Theuth sia contro che a favore, ma sarebbe troppo lungo esporli. Quando giunsero all’alfabeto: “Questa scienza, o re – disse Theuth – renderà gli Egiziani piú sapienti e arricchirà la loro memoria perché questa scoperta è una medicina per la sapienza e la memoria”. E il re rispose: “O ingegnosissimo Theuth, una cosa è la potenza creatrice di arti nuove, altra cosa è giudicare qual grado di danno e di utilità esse posseggano per coloro che le useranno. E così ora tu, per benevolenza verso l’alfabeto di cui sei [275 a] inventore, hai esposto il contrario del suo vero effetto. Perché esso ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitarsi la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria ma per richiamare alla mente. Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solo l’apparenza perché essi, grazie a te, potendo avere notizie di molte cose senza insegnamento, si crederanno d’essere dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà [b] una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che sapienti».[1]

 

La scrittura in quanto oggettivazione della parola mette in pratica una forma di riduzionismo, poiché la fonetica con la sua espressione viva, con il corpo vissuto nel contesto di formazione della parola è oggettivata nella scrittura. Tale riduzionismo, l’oggettivazione della vita, si ripresenta nell’uso delle macchine che asservono l’essere umano per sfruttarlo.

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Marx e il capitale fisso

Marx nel primo libro del Capitale ha descritto ed argomentato l’uso della tecnica per sfruttare, per astrarre dall’essere umano il plusvsalore. La tecnica è così il mezzo per ridurre l’altro a semplice strumento, a mezzo con la voce come ha affermato Aristotele nella Politica. La pericolosità si fa più stringente, plumbea presenza nichilistica, per la potenza esponenziale della tecnica. Già Marx descrive la condizione degli operai, delle operaie e dei bambini nelle fabbriche. Servitori delle macchine, muoiono di sfinimento per servire il Capitale che si concretizza nelle macchine produttri di PIL:

 

“Abbiamo già accennato in precedenza al deterioramento fisico dei fanciulli e degli adolescenti, come pure delle operaie, che le macchine assoggettano allo sfruttamento del capitale, prima direttamente nelle fabbriche, che sulla base delle macchine spuntano rapidamente, e poi indirettamente in tutte le altre branche dell’industria. Qui ci fermeremo quindi su un punto solo: la enorme mortalità tra i figli degli operai nei loro primi anni di vita. In Inghilterra si hanno sedici distretti di stato civile pei quali, come media annua, su centomila bambini viventi al di sotto di un anno si verificano solo novemila ottantacinque decessi (in un distretto solo settemila e quarantasette), in ventiquattro distretti, più di diecimila, ma meno di undicimila; in trentanove distretti, più di undicimila, ma meno di dodicimila, in quarantotto distretti più di dodicimila e meno di tredicimila, in ventidue distretti più di ventimila, in venticinque più di ventunmila, in diciassette più di ventiduemila, in undici più di ventitremila, a Hoo, Wolverhampton, Ashton-under-Lyne e Preston più di ventiquattromila, a Nottingham, Stockport e Bradford più di venticinquemila, a Wisbeach ventiseimila, e a Manchester ventiseimila e centoventicinque. Come ha dimostrato un’inchiesta medica ufficiale nel 1861, gli alti indici di mortalità si devono, prescindendo dalle condizioni locali, prevalentemente all’occupazione extra domestica delle madri, donde deriva che i bambini sono trascurati, maltrattati, fra l’altro sono nutriti in modo inadatto, mancano di nutrizione, vengono riempiti di oppiacei, ecc.; al che si aggiunge l’innaturale estraneamento delle madri nei riguardi dei loro figli, con la conseguenza dell’affamamento e dell’avvelenamento intenzionale. “Invece” in quei distretti agricoli “dove l’occupazione delle donne è minima, l’indice della mortalità è minimo”. Però la commissione d’inchiesta del 1861 dette l’inatteso risultato che in alcuni distretti puramente agricoli sulle coste del Mare del Nord, l’indice della mortalità per bambini al di sotto di un anno raggiungeva quasi i più famigerati distretti industriali».[2]

 

 

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Economia tecnocratica come Assoluto

Marx descrive l’estraniamento da se stessi e dagli altri, fino all’estraniamento della madre dal figlio. La tecnica si è evoluta, non ha le asperità della prima e della seconda Rivoluzione industriale, ciò malgrado opera per separare, per ridurre i tempi del logos e per asservire. La pervasività attuale in ogni campo, mentre promette prodigi, minaccia di ridurre l’essere umano a pura presenza complementare nella Storia, ad individuum, ad atomo. La tecnica non è al servizio dell’essere umano, ma del Capitale che può ben fregiarsi del titolo di Assoluto – absolutus – sciolto da ogni legame. Tecnica e Capitale in condizione di pace apparente, sono divenute il deterrente che imbavaglia la Storia, mentre ogni disobbedienza è pagata a prezzo di bombardamenti, la cui distruttività non ha memoria nella storia. Il nichilismo è il regno dell’angoscia, la minaccia ed il controllo sono onnipresenti.

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Il Frammento sulle macchine

Apriamo i Grundisse, nel Frammento sulle macchine: Marx elabora un abbozzo di uscita dalla gabbia d’acciaio e dal disincantamento. La macchina e la tecnica non più come strumenti per astrarre il lavoro vivo, ma come mezzo per l’umanità liberata. La tecnica resa concreta, liberata dall’alone metafisico, può divenire strumento per l’inizio della storia. La macchina per l’essere umano e non l’essere umano per la macchina. Il Prometeo scatenato del Capitale, può ritrovare la sua misura, il suo senso, se si realizza un percorso di consapevolezza e collaborazione collettiva che pongano le condizioni materiali e storiche per l’uso delle tecnologie in nome dell’essere umano. Le fabbriche come cellule di autogoverno, luogo di azione dal basso per il funzionamento della produzione per i bisogni della collettività e non per la sua alienazione legalizzata. La libertà nel Capitale è misura, soddisfazione di bisogni autentici e non indotti. La Storia irrompe nel meccanicismo riduzionistico dell’efficientismo della produzione per riportare l’umanità ad essere la protagonista della sua storia, l’artefice del suo destino.

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Cultura classica come formazione alla libertà consapevole

Vi è nel pensiero di Marx una presenza carsica che riappare: la sua formazione classica, dalla quale il filosofo di Treviri ha imparato la dignità dell’uomo con l’umanesimo greco. Nella sua tesi di laurea, La Differenza tra le filosofie della natura di Democrito e di Epicuro, del 15 Aprile 1841, Marx compara il sistema filosofico-fisico di Epicuro e Democrito. Predilige il sistema di Epicuro poiché pone al centro la libertà dell’essere umano, la sua possibilità di scegliere e dunque di essere responsabile della sua prassi. Il sistema della tecnica dev’essergli apparso non come destino, meccanicismo democriteo, ma come l’effetto di una umanità senza coscienza, che non crede nella possibilità di poter cambiare la Storia. L’umanesimo dei Greci vive nella storia intellettuale di Marx, per cui dinanzi alla violenza della tecnica, non la interpreta come necessità, ma come possibilità storicamente condizionata che attende di essere liberata delle sue potenzialità. La tecnica è posta dall’uomo, spetta all’umanità stabilirne le teleologie nella Storia. L’idealismo marxiano si rende evidente. La speranza nel futuro, in un presente di senso, non può che passare per la rilettura di Marx e per il potenziamento della cultura classica, senza i quali non può che esservi il naufragio di ogni comunità. I complici dell’integralismo economico e tecnocratico sono in primis le sinistre ufficiali che hanno smesso di credere nell’essere umano per abbracciare la finanza e la fine della Storia.

Salvatore Bravo

 

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[1] Platone, Opere, vol. I, Laterza, Bari, 1967, pagg. 790–791.

[2] K. Marx, Il Capitale, primo libro, capitolo XIII, III paragrafo.



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Richard Rorty (1931-2007) – Salvatore Bravo critica «il pensiero debole» alla Vattimo e il nichilismo pragmatista e liberista alla Rorty. Essi nascondono che il tempo del capitale assoluto è mera temporalità cronologica, che si traduce solo nei simboli della produttività coatta, deprivando dello slancio vitale.

Richard McKay Rorty 001

«Mi sembra che l’immagine greca della filosofia come riflessione sui problemi eterni che si ripresentano costantemente alla mente umana sia sbagliata. Non ci sono problemi filosofici fondamentali» (R. Rorty, Intervista, rilasciata a Massarenti A. per Il Sole 24 Ore, 23 luglio 1995).

 

 

«Il filosofo che ammiro di più, e che di cui di più vorrei pensarmi come discepolo, è John Dewey» (R. Rorty, Philosophy and Social Hope, Penguin Books, London 1999).

 

 

«Dietro il nichilismo liberale di Richard Rorty si nascondono progetti politico-culturali di natura autoritaria. Il fine del filosofo postmetafisico è proprio quello di eliminare le opinioni che divergono dalle proprie e di allontanare fisicamente quanti non accettano, in una presunta democrazia, il suo pensiero relativista. In quanto filosofo relativista, le idee di cui si fa portavoce ricalcano, seppur estremizzate, quelle del relativismo antico: inesistenza di una natura umana, inconcepibilità di valori oggettivi, assenza della verità. […] Una società tanto più apparentemente laica e liberale quanto più concretamente dittatoriale. Infatti chi non si accoda al pensiero debole dei postmetafisici non solo è bollato come pazzo, ma non ha neanche il diritto di chiamarsi cittadino di una democrazia liberale. […] La società rortiana non può che trasformarsi in una eterna guerra di tutti contro tutti, [… uno] scontro libero e aperto» […] . Una società «liberale» solidale con il pensiero dominante […] . Sorge il fondato sospetto che l’analisi rortiana poggi sulla concezione di un uomo inesistente, astorico (Irene Giurovich, La follia del nichilismo «liberale» in Richard Rorty, in Dialegesthai, url: <https://mondodomani.org/dialegesthai/ig01.htm>).

 

La filosofia e lo specchio della natura

La filosofia e lo specchio della natura

Salvatore Bravo

La filosofia senza specchio

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Il prospettivismo senza centro del pensiero debole
La palude del presente, l’impossibilità di immaginare un futuro con l’angoscia che ne consegue, a tale condizione in odore di colpa sociale e politica non è esente la Filosofia. Negli ultimi decenni la Filosofia è diventata organica al potere economico. Il pensiero debole codificato da Vattimo con il prospettivismo senza centro è divenuto postulato filosofico, comporta sicuramente la complicità con la deriva economicistica. Se tutte le prospettive sono poste sulla linea dell’irrilevanza, la critica ha il valore di semplice espressione fonetica senza fondamento. L’economicismo in tal modo si rafforza, tentacolare pervade ogni campo della vita civile fino ad essere parte integrante del modo di pensare e di agire delle persone-individui senza comunità e senza gruppi medi di discussione. La mediazione si esplica in presenza del pensiero forte, di una prospettiva che dialetticamente si confronta con le altre prospettive evidenziando una capacità fondativa forte.

Il pensiero debole

Il pensiero debole

Il pensiero debole rende la critica puro esercizio retorico, non motiva alla prassi, alla trasformazione, anzi è un pensiero che svuota ed indebolisce l’opposizione. Ogni prospettiva forte è subitaneamente tacciata di essere “totalitaria,” in quanto male assoluto, da eliminare dalla scena politica. Al suo posto vige una Filosofia da salotto, accademica, da bacio perugina: curiosità per i ceti semicolti che sfoggiano fraseologia ad effetto per rubare la scena della conversazione ad altri. Filosofia ha dunque abdicato al suo statuto epistemologico, ovvero alla ricerca della verità, per essere prospettiva tra le prospettive. La critica filosofica ha solo un effetto anodino. Il potere non può che irridere ad una disciplina che si esibisce senza nulla proporre. La società dello spettacolo nelle sue vetrine mette in scena la Filosofia. Nell’irrilevanza nichilistica generale vi sono testi ed autori che consacrano la morte della Filosofia. Le accademie filosofiche dunque, sono corresponsabili del ruolo terzo della Filosofia e del tramonto di ogni futuro possibile. Non resta che sguazzare nell’eterno presente disperso in una miriade di prospettive senza verità.

La Filosofia come ermeneutica
La Filosofia annuncia il suo tramonto, al suo posto non vi è che la sua mimesi, un’imitazione mediocre di ciò che è stato. L’industria del falso trionfa e con essa l’economicismo dello spettacolo. Richard Rorty (1931-2007) con la sua opera La Filosofia e lo specchio della natura (1979), è parte di un clima culturale in cui il progresso si sposa con il continuo trascendere di ogni tradizione, fino ad inaugurare una nuova epoca, nella quale la Filosofia – rinunciando ad ogni pretesa veritativa – diviene disciplina tra le discipline, pura ermeneutica, mediatrice nella contingenza del sovrapporsi di prospettive senza verità destinate ad arenarsi, ad impigliarsi nella storicità che tutto supera e consegna al vuoto. In tale condizione la Filosofia è semplicemente disciplina della consapevolezza che ogni verità è polvere, e dunque agisce affinché “la verità non vi sia”, e regni in tal modo la tolleranza, la fratellanza nella rinuncia ad ogni fondamento. R. Rorty si spinge oltre, sentenzia che la Filosofia deve rinunciare al suo linguaggio. La verità, la sostanza, i fondamenti devono essere tacitati in nome di una Filosofia ridotta a funzione ermeneutica, pertanto essa diviene mediatrice culturale, soccorre ogni prospettiva che osi porsi come verità schiacciandola nella contingenza liberata da ogni fondamento. Paladina senza linguaggio della tolleranza, il cui fine è rafforzare il sistema liberal-liberista, in quanto essa è conversazione, maieutica che forma alla consapevolezza che ogni posizione prospettica è debole:

«Se consideriamo la conoscenza non come il possesso di un’essenza, che debba essere descritta dagli scienziati e dai filosofi, ma piuttosto come un diritto, secondo modelli correnti, di credere, allora ci troviamo sulla strada giusta a vedere la conversazione come il contesto ultimo all’interno del quale la conoscenza dev’essere compresa. Il fuoco della nostra considerazione si sposta allora dalla relazione tra gli esseri umani e gli oggetti della loro ricerca, alla relazione tra modelli alternativi di giustificazione e di qui ai mutamenti reali in quei modelli che costituiscono la storia intellettuale».[1]

 

 

Il linguaggio filosofico
La Filosofia come conversazione per avvicinare posizioni apparentemente distanti, ma in realtà con un comune fondamento: la contingenza, il nichilismo. L’attività filosofica per poter procedere nella prassi dell’ermeneutica deve operare su se stessa ad una autentica mutilazione: il linguaggio. La Filosofia con il suo lessico specialistico è accusata di essere “totalitaria,” di aspirare ad un ruolo privilegiato all’interno del sapere, cioè di stabilire le condizioni autentiche del pensiero, e la corrispondenza tra rappresentazione e fenomeno. Il linguaggio filosofico intessuto dal “fondamentalismo epistemologico” inibisce la conversazione, poiché sclerotizza la conversazione con la sua pretesa veritativa. Si chiede alla Filosofia di rinunciare alla sua tradizione, al suo linguaggio per essere mediatrice ermeneutica:

«La discutibile sicurezza di sé di cui stiamo parlando è semplicemente la tendenza del discorso normale a bloccare il flusso della conversazione, presentandosi, come quello che è in grado di offrire il vocabolario canonico per la discussione di un dato argomento e, più in particolare, la tendenza della filosofia normale fondata epistemologicamente a sbarrare la strada imponendosi come il vocabolario definitivo di commisurazione per ogni possibile discorso razionale».[2]

Sistematici ed edificanti
Non vi è disciplina a cui si chieda di rinunciare al suo linguaggio specifico, di rompere con la sua tradizione. Con la Filosofia “normale” da Platone, a Cartesio, da Kant a Husserl, si intende la Filosofia veritativa. R. Rorty ai sistematici ed al loro linguaggio predilige i filosofi edificanti, i quali hanno rinunciato alla verità, da Nietzsche a Sartre passando per Heidegger, filosofi della contingenza, distruttori della tradizione, della verità. Nel caso di Heidegger, Rorty apprezza lo smantellamento della metafisica tradizionale in nome di una concezione dell’essere non definibile e sfuggente. La Filosofia dunque come conversazione sull’opinione, appiattita tra le discipline senza un suo statuto linguistico e dunque “figlia di un dio minore”. Una disciplina senza il suo lessico specifico, che ha rinunciato alla sua tradizione, si dubita possa divenire mediatrice ermeneutica. Non solo, la consapevolezza di appartenere ad una storia di fallimento deprime la motivazione a filosofare, ma specialmente ci si dovrebbero chiedere le motivazioni per cui nel simposio delle discipline si dovrebbe accettare la presenza di una disciplina esperta nelle contingenze del mondo, perché essa stessa ha sempre fallito. L’autorevolezza di cui non si ammanta la pone in un ruolo secondario. L’ermeneutica si riduce dunque a vuota sociologia, alla sua imitazione.

 

Il fraintendimento marxiano
Tra gli autori “edificanti,” Rorty individua Marx:

«Quando filosofi edificanti come Marx, Freud e Sartre offrono nuove spiegazioni dei nostri consueti modelli di giustificazione delle nostre azioni e delle nostre asserzioni, e quando queste spiegazioni sono assunte e integrate nelle nostre vite, noi diventiamo esempi evidenti del fenomeno di cambiamento del vocabolario e del comportamento aperto dalla riflessione».[3]

Naturalmente in questo caso, come negli altri, si fa una operazione fortemente ideologica: si privilegia una parte per inficiare il tutto. Il Marx di Rorty è il filosofo che dimostra che le verità e la coscienza non sono che prodotti ideologici. In realtà Marx non dispera affatto di dimostrare la verità della storia: la lotta di classe. Marx come Hegel evidenzia che verità e storicità non sono antitetiche, anzi la verità si svela e rileva nella storia con gradualità. La Filosofia edificante, invece, con il suo storicismo senza verità, con la Filosofia ridotta a rango di dossologia, palesa il legame silenzioso del filosofo statunitense con la Filosofia di Foucault e di Deleuze. Non esiste natura umana, pertanto ogni prospettiva è legittimata, anche e specialmente il liberismo capitalistico con la sua violenza mercificante, poiché immette tutto sul mercato indifferenziato delle merci: le opinioni sono merci, come tali sono tutte legittimate ad essere vendute. Nessuno può sottrarsi allo spazio della visibilità. Il logos, il metodo, la dialettica non sono che residui esiziali della tradizione da trascendere in nome della libera conversazione. La Filosofia diviene dunque complice del suo superamento, non si difende, non ricerca altre possibilità, semplicemente si annichilisce. R. Rorty ed i seguaci del pensiero debole fanno della Filosofia un’esperienza marginale a livello politico e teoretico. In verità, se è vero che la metafisica tradizionale non può essere riproposta, questo non significa che sia impossibile una nuova metafisica umanistica.

Sistemi aperti e chiusi
Ai sistemi chiusi si possono opporre sistemi aperti capaci di cogliere la verità, il fondamento nella storia, sicuramente perfettibile e disponibile all’autocorrezione. Nessuno potrebbe smentire che l’essere umano è relazione. Ogni atto umano presuppone la relazione, per cui ogni sistema che fa del privato, dell’atomizzazione la sua indiscutibile teleologia non è nella verità. La relazione vive le sollecitazioni della storia, del cambiamento senza essere trascesa. R. Rorty è espressione di una Filosofia accademica che diviene ideologica, ovvero con ragioni apparentemente forti è finalizzata a difendere il presente, ad eternizzarlo in nome dell’assenza della verità. E dunque il presente è tutto, intrasformabile, poiché si può dimostrare l’inconsistenza di ogni verità presunta, mentre l’unico fondamento è la conversazione che rende irrilevante ogni prospettiva. La decadenza dell’Occidente culturale trova nella Filosofia una complice evidente. Lo scenario culturale è fortemente depauperizzato dal clima di relativismo in cui il dinamismo è solo transazione finanziaria, spostamento di folle per il parco-giochi mondiale, o per migrazioni dei popoli resi schiavi dagli smisurati bisogni consumistici dell’Occidente. Il dinamismo cela sia la verità, sia la mercificazione di tutto, l’irrilevanza che consente ogni mercificazione. La Filosofia, se utilizza i propri linguaggi, i suoi metodi, è capace di rendere pubblica la verità e di effettuare la catabasi. La Filosofia come conversazione ermeneutica non può bastare, non è la risposta alle inquietudini del mondo piuttosto serve ad eternizzare “La notte del mondo”.

Pensiero debole e fine della Storia
La Rivoluzione per il capitale, parafrasando un articolo di Gramsci, si manifesta anche mediante il tramonto di una tradizione filosofica, l’abbandono della verità, della prassi per il contenimento della trasformazione e della ricerca in nome di un relativismo che vorrebbe chiudere il ciclo della storia. Il caso Rorty è strutturale alla fine della storia, ad una civiltà che ha sostituito la prassi con il poietico, con la produzione materiale delle merci, in cui la rinuncia alla fatica della verità è espressione di un ripiegamento sul presente scisso dalla tradizione, dal passato, e dal futuro. Il presente diviene l’attimo, il consumo senza slancio vitale. La verità necessita di slancio vitale, mentre la mera mediazione tra le opinioni è tipica della civiltà dell’indifferenza.

Il presente senza adesso
Eugène Minkowski ha distinto l’adesso dal presente in Il tempo vissuto:[4] l’adesso è il momento apicale in cui lo slancio vitale, l’inconscio, vive in modo diretto, senza mediazioni, è il momento della vita intensa, in cui la logica cronologica e distesa è messa tra parentesi. Il presente è l’adesso disteso, in cui il presente si coniuga con passato e l’avvenire. Senza l’adesso, il sentire fortemente se stessi ed il mondo, non vi può essere il futuro. L’adesso svela a se stesso il ruolo che la vita nella forma sostanziale e dinamica ha segnato a ciascuno. Sentire l’adesso è l’attimo in cui la collettività scopre l’orizzonte dell’agire. Senza l’ascolto dell’adesso non vi è che meccanicismo e solitudine: il tempo è ridotto a pura consequenzialità logica, a separazione da sé e dall’alterità. Salubre è società nella quale lo slancio vitale e la relazione non sono impedite e distorte, ma accolte nella loro irruenza creativa. Il tempo del capitale assoluto è temporalità cronologica, distesa lungo l’asse della relazione-successione per guardarla e tradurla solo nei simboli della produttività coatta. Si opera per recidere alla fonte la vita, l’adesso, nel quale l’individuale si sposa con il collettivo. La Filosofia è libera nell’adesso, nel non trovare unicamente ragioni produttive al suo dispiegarsi. La resistenza civile della Filosofia è nel rendere testimonianza che l’adesso è sempre possibile in ogni epoca ed in ogni condizione. La testimonianza filosofica è consustanziale all’umanità, è il distacco vivo dal meccanicismo per rendere voce alla libertà del pensiero. Trae la motivazione nel ripiegarsi sull’adesso per poi uscire fuori da sé. Il presente è successivo, è l’atto della traduzione dell’adesso nel tempo del presente che ridispone sul piano della successione. La società è vitale, se l’adesso è parte integrante di essa. Nell’adesso vi è il segreto del futuro, della trasformazione che conosce i ritmi della vita e del tempo. Le perle raccolte nell’adesso per diventare storia collettiva necessitano dopo l’atto creativo di una pluralità di ritmi temporali che si allungano, rallentano per essere coscienza collettiva. L’adesso è l’erotica di Platone, lo spirito dionisiaco nietzscheano, la durata di Bergson, senza i quali non vi è Filosofia, non vi è dialettica dell’avvenire, ma solo malinconica ripetizione. L’adesso è il tempo profondo della Filosofia e dell’umanità. L’attacco all’adesso, è il progetto razionalistico e tecnologico di disumanizzare e rendere eterno il presente: la fine della storia. Resistenza è continuare a vivere per l’adesso, la Filosofia è ovunque vi siano persone nell’adesso. L’adesso è una delle parole che spiega la nascita della Filosofia in ogni epoca. Contro l’adesso vi sono le continue mitragliate della produttività a tutti i costi, dell’integralismo economico, il cui fine è la società dello scollamento, della divisione, della separazione. Perché ci sia l’adesso è necessario che la Filosofia riconquisti il suo linguaggio, il suo statuto epistemologico.

Salvatore Bravo

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[1] Richard Rorty, La Filosofia e lo specchio della natura, Bompiani 2004, pp. 780-781.

[2] Ibidem, pp. 774-775.

[3] Ibidem, p. 773.

[4] Eugène Minkowski, Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia, Einaudi, 2004.



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Salvatore Bravo – L’umanesimo del lavoro in Marx. Il lavoro dell’«uomo macchina» distrugge il lavoro come progetto creativo in cui conoscersi perché il lavoro coatto brucia la creatività e inibisce la possibilità di costruire e produrre secondo le leggi della bellezza.

Marx e l'umanesimo del lavoro
Salvatore Bravo

L’umanesimo del lavoro in Marx

 

 

Il lavoro dell’uomo macchina
La competizione
La flessibilità
Il lavoro come progetto creativo in cui conoscersi
Marx palesa il suo umanesimo nell’analisi del lavoro
Il lavoro coatto brucia la creatività
Il conosci te stesso socratico risuona solo nel regno della libertà
Costruire e produrre secondo le leggi della bellezza

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Il lavoro dell’uomo macchina

Il lavoro è divenuto esperienza della costrizione, della coazione a ripetere. La globalizzazione, la competizione senza limiti intensificano a dismisura la dequalificazione del lavoro, il quale è pura attività produttiva finalizzata alla sopravvivenza biologica e del mercato. Il lavoro del capitalismo assoluto è molto di più che un fenomeno di abbrutimento dell’umano, è il tentativo scientemente organizzato di introdurre nella carne viva dell’essere umano il meccanicismo dell’uomo macchina. Si assiste dunque ad una nuova rivoluzione copernicana: questa volta al centro non vi l’uomo, ma il plusvalore che detta le leggi della produzione e delle macchine da riprodurre, e tra queste macchine l’essere umano. Il lavoro come pura meccanica è introdotta nella carne viva attraverso le parole. I linguaggi creano mondi e concetti e con essi disposizioni ad agire ed a essere. Le parole che risuonano come imperativi categorici sono: competizione-flessibilità.

 

La competizione

La competizione spinge il lavoratore a regredire ad una condizione emotivamente primitiva. Si vive la realtà dell’ambiente del lavoro come fosse stato di natura, per cui si diffida di tutti: per principio l’animale braccato, perennemente in tensione ansiosa, si rappresenta l’altro come nemico potenziale. Si disgrega in tal modo la naturale tendenza umana all’intenzionalità relazionale. La natura umana non la si può cancellare con un tratto di penna. Può sopravvivere, ma in modo perverso: il soggetto giudica la naturale disposizione ad aprirsi all’altro come debolezza, come patologia, e dunque utilizza le proprie energie per deviare l’intenzionalità dal suo obiettivo.

 

La flessibilità

La flessibilità è molto più che la perenne migrazione-sradicamento: è l’impossibilità di conoscersi. Si è sradicati, estranei, alienati specialmente da se stessi. Il cambiamento continuo, come l’aggiornamento continuo, spinge a vivere in superficie, a indossare maschere senza forma ed identità: dietro di esse non resta che il vuoto cosmico. La flessibilità è dunque la condizione che rende l’identità fragile e vulnerabile, abbatte la resilienza. L’insopportabile è tollerato perché il sistema – in modo silenziosamente coercitivo – produce musulmani, ovvero utilizzando il linguaggio di Agamben, esseri al limite tra l’umano e l’inumano. Si pensi alla condizione a cui è sottoposto un lavoratore in attività ripetitiva come nel call center, la fabbrica con la catena di montaggio, i campi dove si raccolgono i prodotti in modo semischiavile, in un clima di terrore e minaccia. Si può essere licenziati con estrema facilità con la conseguente impossibilità di sopravvivere. Il lavoro in tal modo diviene esperienza simile, ma non uguale, all’attività degli animali non umani: meccanica ripetizione di comportamenti, scollati da se stessi, dalla realtà materiale, e si realizza un riduzionismo regressivo.

 

Il lavoro come progetto creativo in cui conoscersi

Il lavoro come espressione di sé, della relazione comunitaria, progetto creativo in cui conoscersi è scomparso dalla discussione politica e culturale. La “sinistra ufficiale” ha sposato una visione liberista e primitiva del lavoro, irride chiunque ponga il lavoro come problema, come condizione imprescindibile della qualità della vita da intendersi non in senso del potere d’acquisto, elemento non secondario, ma come occasione vitale per sentirsi parte attiva della comunità, come percorso per conoscere le potenzialità profonde che ciascun soggetto reca con sé e che quasi sempre scopre solo nella relazione. Rileggere Marx è un buon esercizio contrastivo per comprendere il lavoro nella sua prismatica ricchezza sempre minacciata dai modi di produzione regressivi:

«Certamente anche l’animale produce. Si fabbrica un nido, delle abitazioni, come fanno le api, i castori, le formiche, ecc. Solo che l’animale produce unicamente ciò che gli occorre immediatamente per sé o per i suoi nati; produce in modo unilaterale, mentre l’uomo produce in modo universale; produce solo sotto l’imperio del bisogno fisico immediato, mentre l’uomo produce anche libero dal bisogno fisico, e produce veramente soltanto quando è libero da esso; l’animale riproduce soltanto se stesso, mentre l’uomo riproduce l’intera natura; il prodotto dell’animale appartiene immediatamente al suo corpo fisico, mentre l’uomo si pone liberamente di fronte al suo prodotto. L’animale costruisce soltanto secondo la natura e il bisogno della specie a cui appartiene, mentre l’uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie e sa ovunque predisporre la misura inerente a quel determinato oggetto; quindi l’uomo costruisce anche secondo le leggi della bellezza».[1]

Marx palesa il suo umanesimo nell’analisi del lavoro

L’essere umano in questo testo risplende per la sua umanità, porta con sé l’universo e la bellezza della natura e del cosmo, che le condizioni materiali e storiche non consentono si attuino. Marx palesa il suo umanesimo nell’analisi del lavoro. La produzione per l’essere umano non è un semplice atto ripetitivo, ma in esso si rende visibile tutta la natura. La bellezza del mondo, della natura con le sue infinite e multiformi forme, si realizza nell’attività pratica. L’antiumaniesimo è nel sistema industriale coatto il quale, allora come oggi, nega la natura umana ”Gattungswesen”, la natura umana generica, per ridurla, mortificarla, depauperizzarla. L’umanesimo del lavoro di Marx si oppone alla nientificazione dell’attuale sistema, il quale alla violenza della recisione delle potenzialità aggiunge sistemi di controllo tali da misurare, quantificare i tempi non dell’azione completa, ma dei singoli gesti che sono divisi per essere parcellizzati, misurati in modo da cogliere il gesto eccedente l’obiettivo e normalizzarlo. Si pensi ai lavoratori delle grandi multinazionali ed al silenzio della politica sulle loro condizioni lavorative. Lavoro eterodiretto dunque.

 

Il lavoro coatto brucia la creatività

Marx evidenzia invece che l’essere umano produce, sapendo liberamente misurare il gesto al fine, non necessita di comandi e gerarchie. La persona è attività pensante che concretizza la dignità dell’essere umano nella produzione autonoma e come tale disalienata. La libertà è creatività, ricchezza materiale ed culturale. Il lavoro coatto brucia la creatività per lasciare al suo posto solo una mente ingombra di comandi e merci, in cui non c’è più spazio per il pensiero autonomo. L’umanesimo di Marx è dunque il fondamento del suo pensiero filosofico. L’essere umano con la sua dignità eleva il mondo, mentre quando l’essere umano è abbassato a livello della pura biologia o di animale non umano è l’intero mondo che precipita.

 

La libertà è il regno in cui l’interiorità vitale si apre al mondo

L’umanesimo di Marx è lapalissiano nella speranza materiale di un regno in cui la necessità sia sostituita dalla libertà. Quest’ultima è parola abusata, utilizzata per descrivere la libertà dell’eccesso, della mercificazione del lavoro come di ogni essere umano. In Marx la libertà ritrova la sua gravità significante. La libertà è il regno in cui l’interiorità vitale trova spazio, si fa storia, si apre al mondo e dunque a se stessa:

«Di fatto, il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità e dalla finalità esterna; si trova quindi per sua natura oltre la sfera della produzione materiale vera e propria. Come il selvaggio deve lottare con la natura per soddisfare i suoi bisogni, per conservare e per riprodurre la sua vita, così deve fare anche l’uomo civile, e lo deve fare in tutte le forme della società e sotto tutti i possibili modi di produzione. A mano a mani che egli si sviluppa il regno delle necessità naturali si espande, perché si espandono i suoi bisogni, ma al tempo stesso si espandono le forze produttive che soddisfano questi bisogni. La libertà in questo campo può consistere soltanto in ciò, che l’uomo socializzato, cioè i produttori associati, regolano razionalmente questo loro ricambio organico con la natura, lo portano sotto il loro comune controllo, invece di essere da esso dominati come da una forza cieca; che essi eseguono il loro compito con il minore possibile impiego di energia e nelle condizioni più adeguate alla loro natura umana e più degne di essa. Ma questo rimane sempre un regno della necessità. Al di là di esso comincia lo sviluppo delle capacità umane, che è fine a se stesso, il vero regno della libertà, che tuttavia può fiorire soltanto sulle basi di quel regno della necessità. Condizione fondamentale di tutto ciò è la riduzione della giornata lavorativa».[2]

 

Il conosci te stesso socratico risuona solo nel regno della libertà

Il regno della libertà, e il lavoro liberato dai fini economicistici ridiventa senso della persona, gratificazione mediata. Il conosci te stesso socratico risuona solo nel regno della libertà. Il lavoro diviene l’innalzarsi dell’albero verso la luce, secondo la metafora nietzscheana, poiché l’attività pratica lavorativa è discesa nell’interiorità, dove si toccano emozioni e profondità sconosciute, e nello stesso tempo ci si innalza dalla necessità per sentirsi semplicemente esseri umani. Il regno della libertà è il regno dei lavoratori associati, ovvero dove tutti partecipano all’attività produttiva, dove non vi sono sudditi, o leader davanti ai quali inginocchiarsi, ma esseri umani in posizione attiva verso la storia, i quali come si afferma nell’Ideologia tedesca, non sono più costretti in un ruolo. L’idealismo di Marx qui si coniuga con l’umanesimo, poiché in entrambi i casi l’essere umano è considerato attività che pone la storia come il prodotto Gegenstand e non obiectum. L’uomo è libero quando pone il lavoro, il suo lavoro, se stesso.

 

Costruire e produrre secondo le leggi della bellezza

Solo nel regno della libertà l’essere umano può costruire e produrre secondo le leggi della bellezza. Il nostro Totalitarismo non riconosciuto è nel regno della necessità, nella sopravvivenza aumentata senza qualità. L’assenza del tema del lavoro in senso qualitativo è la prova evidente della regressione sociale e culturale a cui stiamo assistendo. Il silenzio delle così dette “sinistre” su tale tema è inquietante, proprio perché la qualità del lavoro è la sostanza dimenticata. Se la lettura di Marx continuerà ad essere occultata e rimossa, il deserto dell’alienazione continuerà ad avanzare inarrestabile. Il lavoro è il fondamento della nostra Costituzione (articoli, 1, 3, 36). Il lavoro – contro ogni riduzionismo – vi è contemplato non come semplice attività, ma come la dignità della persona, e non certo legata alla pura sopravvivenza. I costituenti per elaborare la costituzione avevano riferimenti culturali forti. Oggi il nichilismo dei contenuti è anche ignoranza dei grandi pensatori senza i quali non vi è che una progettualità da continua campagna elettorale senza contenuti.

Salvatore Bravo

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[1] Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino, 2004, p. 75.

[2]  Karl Marx, Il Capitale, vol. III, sez. VII, cap. 48, p. 933.



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