Georg Simmel (1858-1918) – Ciò che dobbiamo avere per poterlo godere, prima o poi, lo distruggiamo attraverso il possesso. Ecco la linea di separazione tra la bassezza e la nobiltà dei valori: gli uni possiamo averli senza che ci rendano appagati, mentre gli altri ci rendono felici anche se non li possediamo

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***

«Ci rallegriamo a osservare sopra di noi le stelle e gli altri corpi celesti che brillano, senza sentire per questo il bisogno di appropriarsene. Di fronte alla bellezza delle donne gli uomini si dividono tra coloro che devono «averle» per poter essere felici e coloro che, anche senza possederle, sono contenti del fatto di poterle solo ammirare e di sapere che questa indicibile bellezza esiste ed è sperimentabile. Non diversamente dagli uomini anche le cose manifestano la loro qualità nella misura in cui ci rendono lieti solo se le abbiamo o se anche non le possediamo. In quest’ultimo caso sta infatti l’eternità delle cose. Ciò che dobbiamo avere per poterlo godere, prima o poi, lo distruggiamo attraverso il possesso. Ma i beni spirituali e i beni che hanno il loro valore nella forma stanno al di là del problema se sia necessario il possesso per goderli. Un paesaggio di Bðcklin si fa beffa di colui che pretende di rinchiuderlo nel suo possesso e allieta solo colui che può goderlo anche senza necessariamente “averlo”. Questa è l’immodificabile linea di separazione tra la bassezza e la nobiltà dei valori: gli uni possiamo averli senza che ci rendano appagati, mentre gli altri ci rendono felici anche se non li possediamo».

Georg Simmel, Istantanee sub specie aeternitatis, in Id., Denaro e vita. Senso e forme dell’esistere, a cura di Francesco Mora, Mimesis Edizioni, 2010, p. 112.

***

Isola+dei+Morti+III

L’isola dei morti (in tedesco, Die Toteninsel)
è il più noto dipinto del pittore simbolista svizzero Arnold Böcklin (1827-1901).

 


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Vincent Van Gogh (1853-1890) – Ho un grande fuoco nell’anima … qualcuno verrà a sedersi davanti a questo fuoco, e magari vi si fermerà

van gogh 05
«Penso a volte di vedere qualcosa di più profondo e di infinito,
di più eterno che nell’oceano, negli occhi di un bimbo,
quando si sveglia al mattino,
e ride,
perché vede il sole che splende sulla sua culla.» 
 Vincent van Gogh

 

Van-Gogh-Filippetti_1

Roberto Filippetti, Van Gogh. Un grande fuoco nel cuore, Itacalibri, 2008.

«Uno ha un grande fuoco nell’anima e nessuno viene mai a scaldarsi, i passanti non scorgono che un po’ di fumo in cima al comignolo e se ne vanno per la loro strada. E allora che fare, ravvivare questo fuoco interiore, avere del sale in sé, attendere pazientemente – ma con quanta impazienza –, attendere il momento in cui, mi dico, qualcuno verrà a sedersi davanti a questo fuoco, e magari vi si fermerà».

Vincent Van Gogh, A Theo van Gogh, 22-24 giugno 1880

 


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Vincent Van Gogh (1853-1890) – Quando c’è convenzionalismo, c’è sempre la sfiducia e la sfiducia dà sempre luogo a ogni sorta di intrighi

Van Gogh 03

Lettere a Teo

«Se c’è il desiderio di essere amici da ambedue le parti, può esserci qualche discordanza di opinioni, ma non si litiga tanto facilmente, e anche se lo si fa, è facile rappacificarsi.
Quando invece c’è del convenzionale l’amarezza è pressoché inevitabile, proprio perché non ci si sente liberi, e anche se non si esprimono i propri veri sentimenti, questi traspaiono a sufficienza per lasciare un’impressione spiacevole da entrambe le parti e rendere del tutto inutile la speranza di profittare beneficamente della reciproca consuetudine.
Quando c’è convenzionalismo, c’è sempre la sfiducia e la sfiducia dà sempre luogo a ogni sorta di intrighi.
E sì che con un po’ più di sincerità le nostre vite sarebbero ben più facili».

 

 

Vincent Van Gogh, Lettere a Teo

 

 

 


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Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) – L’arte di interrogare non è facile come si pensa

Rousseau 03
Giulia o la Nuova Eloisa

Giulia o la Nuova Eloisa

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«L’arte di interrogare non è facile come si pensa. È più arte da maestri che da discepoli. Bisogna già aver imparato molte cose per saper domandare ciò che non si sa».


Jean-Jacques Rousseau, Giulia o la nuova Eloisa, 1761.

 

 


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Heinrich von Kleist (1777-1811) – Nulla può essere più triste e inquietante di questa posizione nel mondo: l’unica scintilla di vita nel vasto dominio della morte

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Caspar David Friedrich, Monaco in riva al mare.

Nell’opera pittorica di Caspar David Friedrich, e in particolare in una sua tela Monaco in riva al mare, 1808-1810, si intrecciano solitudine e malinconia. Nella tela un monaco su di una spiaggia deserta contempla il mare; e le impressioni di tristezza e di solitudine nascono dal contrasto fra l’esile figura umana e la sconfinata immensità del mare. Su questa tela Heinrich von Kleist ha scritto:

Kleist Meridiani

«È magnifico volgere lo sguardo, in una infinita solitudine sulla riva del mare, sotto un cielo grigio, verso uno sconfinato deserto d’acqua. Ciò richiede nondimeno che si sia andati là, che si debba tornare indietro, che si desideri passare dall’altra parte, che non lo si possa fare, che si senta la mancanza di tutto l’occorrente per scrivere, eppure si oda la voce della vita nel mormorio della marea, nell’alito dell’aria, nel passaggio delle nuvole, nel grido solitario degli uccelli. […] Nulla può essere più triste e inquietante di questa posizione nel mondo: l’unica scintilla di vita nel vasto dominio della morte, il solitario centro in un orbe solitario. Il quadro, con i suoi due o tre oggetti misteriosi, sta lì come l’Apocalisse, quasi avesse i Pensieri notturni di Young, e poiché, nella sua uniformità e sconfinatezza, non ha altro primo piano che la cornice, è come se a chi lo osserva fossero recise le palpebre».

Heinrich von KleistOpere, Mondadori, Milano, 2012

 

 

 


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Maria Zambrano (1904-1991) – Saper guardare un’icona significa liberarne l’essenza, portarla alla nostra vita

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Luoghi della pittura

«Ogni icona chiede di essere liberata, ogni forma è un carcere, però è anche il solo modo in cui, nel mondo in cui viviamo, un’essenza si conserva senza disperdersi – anche la parola è una fonna che cattura e opprime. Saper guardare un’icona significa liberarne l’essenza, portarla alla nostra vita, senza distruggere la forma che la contiene, lasciandola allo stesso tempo lì; è una cosa difficile e che ha bisogno di allenamento. […] Saper contemplare deve essere saper guardare con tutta l’anima, con tutta !’intelligenza e persino con il cosiddetto cuore, il che significa partecipare, partecipare all’essenza contemplata nell’immagine, vivificarla».

Maria Zambrano, Luoghi della pittura, medusa, Milano, 2002.

 

 


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Giovanni Pozzi (1923-2002) – Per ascoltare occorre tacere. Il libro, deposito della memoria, antidoto al caos dell’oblio, dove la parola giace, ma insonne, pronta a farsi incontro con passo silenzioso a chi la sollecita, è amico discretissimo. Colmo di parole, tace

Pozzi Giovanni

Tacet

«Per ascoltare occorre tacere.
Non soltanto attenersi a un silenzio fisico che non interrompa il discorso altrui (o se lo interrompe, lo faccia per rimettersi a un successivo ascolto), ma a un silenzio interiore, ossia un atteggiamento tutto rivolto ad accogliere la parola altrui.
Bisogna far tacere il lavorio del proprio pensiero, sedare l’irrequietezza del cuore, il tumulto dei fastidi, ogni sorta di distrazioni.
Nulla come l’ascolto, il vero ascolto, ci può far capire la correlazione fra il silenzio e la parola. È l’analogo della musica. La si ascolta pienamente quando tutto tace intorno a noi e dentro di noi».

Pietro_Martire_che_ingiunge_il_silenzio__angelico_san_marco

«La cella e il libro sono le stanze della solitudine e del silenzio.
Della solitudine, la cella, non casupola di frasche nel deserto, né carcere murato, ma collocato al centro dell’uomo: il cuore che mai non dorme. Vigile nell’ascolto, metafora assoluta dell’abitacolo e metonimia dell’intera persona umana. […]
Del silenzio, il libro, deposito della memoria, antidoto al caos dell’oblio, dove la parola giace, ma insonne, pronta a farsi incontro con passo silenzioso a chi la sollecita. Amico discretissimo, il libro non petulante, risponde solo se richiesto, non urge oltre quando gli si chiede una sosta. Colmo di parole, tace».

Giovanni Pozzi, Tacet, Adelphi, 2013.

 

ritratto_tacet

San Pietro Martire che ingiunge il silenzio
è una lunetta affrescata di Beato Angelico conservata nel chiostro detto “di Sant’Antonino” nel convento di San Marco a Firenze. Viene datata al 1442 circa.


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Aristofane (450 a.C.-385 a.C.) – I politicanti, finché restano poveri hanno a cuore il paese. Fattisi ricchi col denaro pubblico, eccoli a minacciare la democrazia

Aristofane 01

Pluto

«Guarda i politicanti, in ogni Stato, finché restano poveri
hanno a cuore il paese e i cittadini. Ma poi, immediatamente,
fattisi ricchi col denaro pubblico, eccoli disonesti
a minacciare la democrazia, a fare guerra al popolo».

Aristofane, Pluto, 467-470 (388 a.C.); trad. di F. Condello.

 

 


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Socrate (470 a.C.-399 a.C.) – Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta

Socrate 006

 

apologia

«Io sono persuaso di non aver fatto mai, volontariamente, ingiuria a nessuno; soltanto, non riesco a persuaderne voi: troppo poco tempo abbiamo potuto conversare insieme. […] Ecco la cosa più difficile di tutte a persuaderne alcuni di voi. Perché se io vi dico che questo significa disobbedire al dio, e che perciò non è possibile io viva quieto, voi non mi credete e dite che io parlo per ironia; se poi vi dico che proprio questo è per l’uomo il bene maggiore, ragionare ogni giorno della virtù e degli altri argomenti sui quali m’avete udito disputare e far ricerche su me stesso e su gli altri, e che una vita che non faccia di cotali ricerche non è degna d’esser vissuta: s’io vi dico questo, mi credete anche meno. Eppure la cosa è così com’io vi dico, o cittadini; ma persuadervene non è facile».


Platone, Apologia, 37 a-38 c

 

 


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Luigi Pirandello (1867-1936) – “Guarda le cose anche con gli occhi di quelli che non le vedono più! Ne avrai un rammarico, figlio, che te le renderà più sane e più belle”

Colloqui coi personaggi

9788804567431-us

«Nell’ombra che veniva lenta e stanca dopo quei lunghissimi afosi pomeriggi estivi e mi invadeva a poco a poco la stanza, recando come una mestizia di frescura, un rammarico di lontane dolcezze perdute, io però da alcuni giorni non mi sentivo più solo. Qualcosa brulicava in quell’ombra, in un angolo della mia stanza. Ombre nell’ombra, che seguivano commiseranti la mia ansia, le mie smanie, i miei abbattimenti, i miei scatti, tutta la mia passione, da cui forse eran nate o cominciavano ora a nascere. Mi guardavano, mi spiavano. Mi avrebbero guardato tanto, che alla fine, per forza, mi sarei voltato verso di loro. [Pirandello continua con riflessioni sulla morte, sulla morte della madre, e sul senso lancinante di questa separazione] […] Potrei seguitare a immaginarti così con una realtà di vita che non potrebbe essere maggiore: quella stessa realtà di vita che per tanti anni, così da lontano, t’ho data sapendoti realmente seduta là in quel cantuccio. Ma io piango per altro, Mamma! Io piango perché tu, Mamma, tu non puoi più dare a me una realtà. È caduto a me, alla mia realtà, un sostegno, un conforto. Quando tu stavi seduta laggiù in quel cantuccio, io dicevo: “Se Ella da lontano mi pensa, io sono vivo per lei” – E questo mi sosteneva, mi confortava. […]».

["La morte della madre non si accompagna alla dimenticanza, all'oblio, della sua figura (della sua realtà umana) e della sua presenza che non diviene mai un'assenza; ma toglie realtà a chi continua a vivere. In queste parole bellissime e accorate che ci dicono, in particolare, come l'essere pensati da un'altra persona, anche se lontana, ci dona vita (ci fa vivere), si nasconde davvero il mistero della alterità e del dialogo (nel silenzio); ed è in questa lacerazione, in questa impossibilità esistenziale, a cui porta la morte di una persona cara, che si esprimono il dolore e la solitudine di chi resta: di chi continua a vivere ma nella separatezza e nell'abbandono. La vita non sarà mai più quella di prima dopo la morte di una madre: non sarà più animata dal suo sguardo e dalla sua presenza anche nell'assenza. Non ci sarà più reciprocità nel pensare e nell'immaginare le cose" (Eugenio Borgna, L'arcipelago delle emozioni, Feltrinelli,2001, p. 161)].

«Ora che tu sei morta, io non dico che non sei più viva per me; tu sei viva, viva com’eri, con la stessa realtà che per tanti anni t’ho data da lontano, pensandoti, senza vedere il tuo corpo, e viva sempre sarai finché io sarò vivo; ma vedi? è questo, è questo, che io, ora, non sono più vivo, e non sarò più vivo per te mai più! Perché tu non puoi pensarmi com’io ti sento. È ben per questo, Mamma, ben per questo quelli che si credono vivi credono anche di piangere i loro morti e piangono invece una loro morte, una loro realtà che non è più nel sentimento di quelli che se ne sono andati. […] Tu l’avrai sempre, sempre, nel sentimento mio: io, Mamma, invece, non l’avrò più in te. Tu sei qui; tu m’hai parlato: sei proprio viva qui, ti vedo, vedo la tua fronte, i tuoi occhi, la tua bocca, le tue mani; vedo il corrugarsi della tua fronte, il battere dei tuoi occhi, il sorriso della tua bocca, il gesto delle tue povere piccole mani offese, e ti sento parlare, parlare veramente le parole tue, perché sei qui davanti a me una realtà vera, viva, e spirante, ma che sono più io, per te? Nulla. Tu sei e sarai per sempre la mamma mia; ma io? io, figlio, fui e non sono più, non sarò più […]. L’ombra s’è fatta tenebra nella stanza. Non mi vedo e non mi sento più. Ma sento come da lontano lontano un fruscio lungo, continuo, di fronde, che per poco m’illude e mi fa pensare al sordo fragorio del mare, di quel mare presso al quale vedo ancora mia madre […]. Sento dentro, ma come da lontano, la sua voce che mi sospira: “Guarda le cose anche con gli occhi di quelli che non le vedono più! Ne avrai un rammarico, figlio, che te le renderà più sane e più belle“».

Luigi Pirandello, Colloqui coi personaggi, in Novelle per un anno, vol. III, tomo II, Mondadori, Milano, 1990, pp. 1138-1153.

 ["Hegel ci ha insegnato che nessuno possiede per se stesso la propria verità, perché nessuno può mai comprendersi totalmente: comprendersi significherebbe raggiungere la nostra origine, ma questa sempre si trascende e resta pur sempre un irraggiungibile passato. E, posto pure che si fosse all'origine, la verità della comprensione potrebbe dispiegarsi solo quando, in uno stesso sguardo, ci fosse concesso di considerare noi stessi e l'origine, noi stessi e gli spazi, le tradizioni, le storie che ci costituiscono... Ma la finitudine del nostro sguardo è anche l'insuperabile limite d'una prospettiva: ci pennette di guardare, ma non di guardarsi insieme a ciò che guardiamo. Solo uno sguardo d'altri potrebbe infine colmare questa distanza e disporre alla pari, sullo stesso piano, il nostro esserci e quello del mondo: potrebbe così riconoscere la verità o l'errore del nostro sguardo, potrebbe infine restituirci a noi stessi e persino disvelarci nell'impensato del nostro destino e della nostra possibilità" (Virgilio Melchiorre, Al di là dell'ultimo. Filosofie della morte e filosofie della vita, Vita e Pensiero, Milano, 1998)].

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