Plutarco (45 d.C.-120 d.C.) – Lo sguardo ininterrotto sui soli nostri pensieri, specie se in preda all’ira, impedendoci di guadagnare una distanza prospettica, può nascondere alla vista errori e discordanze

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Busto di Plutarco, oggi conservato al museo archeologico di Delfi.

Busto di Plutarco, oggi conservato al museo archeologico di Delfi.

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«Un buon metodo, mi sembra, […] è quello seguito dai pittori, che osservano di tanto in tanto i loro dipinti prima di considerarli finiti. Fanno così perché, allontanando lo sguardo ed osservando spesso il lavoro, sono in grado di farsi un giudizio preciso, capace di soffermarsi sulla più piccola divergenza, che invece la familiarità di uno sguardo ininterrotto potrebbe nascondere alla vista».

Plutarco, Sul controllo dell’ira, 452f-453a)

 

 


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Gabriella Putignano – In Carlo Michelstaedter c’è una potente richiesta di parresìa, una autentica serietà teoretica ed esistenziale, l’esortazione ad una purissima coerenza etica

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Gabriella Putignano,

L’esistenza al bivio. «La persuasione e la rettorica» di Carlo Michelstaedter, Stamen, 2015.

L'esistenza al bivio

Risvolto di copertina

La principale e più nota opera di Carlo Michelstaedter, scrittore e filosofo goriziano morto suicida a ventritré anni, una delle figure più originali e tragiche della filosofia contemporanea, è “La persuasione e la rettorica”, tesi di laurea atipica e disarmante, che ruota attorno al doppio binario indicato nel titolo. “Persuasione” e “rettorica” non sono semplicemente due figure linguistico-retoriche, ma vanno intese quali stringenti ed antitetiche possibilità esistenziali. La sfida teoretica, che questo saggio si pone, è proprio quella di afferrare il senso profondo di questa alternativa, di scavare all’interno delle sue conseguenze ed implicazioni.

 

Prefazione

«Ci sono volte nella vita in cui ci si sente messi con le spalle al muro, la trama tranquillizzante della quotidianità si squarcia, esplode come una mina ripiena di perturbamento e d’inquietudine. È il momento in cui l’esistenza è al bivio: o destarsi in una
palingenesi catartica o ricostruire in tutti i modi un’armatura monotona e sordida. Solitamente questo vertiginoso aut-aut è provocato da una persona in carne ed ossa oppure da un particolare ed indescrivibile evento intramondano. Per noi non è andata così: la possibilità di un’altra vita, la conversione ad un altro atteggiamento, ci è stata posta da un giovane goriziano, di origine ebrea, Carlo Michelstaedter (Gorizia, 1887-1910). I suoi scritti sono state pugnalate all’interno del nostro grigiore e della nostra mollezza, un ferro rovente che ci ha tolto il respiro, una colata lavica che ha mozzato ogni vacua adulazione.
La principale opera del ventitreenne, oggetto della nostra analisi, è La persuasione e la rettorica, una tesi di laurea atipica e disarmante, che ruota tutta attorno ad un doppio binario: la Persuasione o la Rettorica. Tertium non datur. Persuasione e rettorica non sono semplicemente due figure linguistiche/filologiche, poiché vanno intese – lo comprenderemo nel prosieguo – quali stringenti ed antitetiche possibilità esistenziali. La sfida teoretica, che ci proponiamo in questo lavoro, è quindi quella di afferrare, anzitutto, il senso profondo di siffatta alternativa, di scavare dentro le sue decisive conseguenze ed implicazioni. In secondo luogo – ma non perché sia meno importante – intendiamo seguire un metodo ben preciso e determinato.
Difatti La persuasione e la rettorica è un testo che non giunse alla discussione e fu pubblicato postumo: il Nostro si tolse la vita con un assordante colpo di rivoltella, che gli traforò la tempia, ed il cui rimbombo continua tutt’oggi ad interpellarci. Il pericolo, in un caso talmente delicato, è quello di cadere in un fatuo psicologismo o di leggere la sua teoresi in un modo aprioristico, troppo condizionato dal gesto del suicidio.
Nonostante intellettuali del calibro di Eugenio Garin e di Giovanni Amendola abbiano insistito nel sottolineare l’indissociabile continuità fra pensiero e biografia michelstaedteriana, noi procederemo spezzando tale consueta unione. Riteniamo che, proprio perché fare filosofia significava – per questo giovane studente – “venire ai ferri corti” con la vita, con se stessi, occorra cogliere lo iato fra il filosofo e l’uomo, fra le sue parole e le sue azioni. Ed in tale dissonanza scorgere il pericolo della tragedia e del fallimento. Senza avere la pretesa (rettorica) d’innalzarci a ‘signori benpensanti’, con un giudizio già pronto o un pietismo lacrimevole e falso, preferiamo piuttosto recepire lucidamente cosa ci comunichi l’opera del goriziano. E quanto questa possa ancora dischiudere l’energia di un risveglio, la potenza di un riscatto».

Gabriella Putignano, L’esistenza al bivio. “La persuasione e la rettorica” di Carlo Michelstaedter, Stamen, 2015.

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INDICE
Presentazione, di Corrado De Benedittis
PREFAZIONE

I. IL FILOSOFO MICHELSTAEDTER
Il primo bivio – La gabbia della rettorica
I. La vita che (s)fugge
2. La conoscenza rettorica come «tecnica di rassicuramento»
3. L’apparato sociale rettorico. Ovvero un’esistenza da galera

II. IL SECONDO BIVIO
La fiamma della persuasione
I. Il sublime virtuosismo del tempo persuaso
2. La conoscenza delle «anime ignude»
3. Dal consistere al coesistere amorizzante

III. L’UOMO MICHELSTAEDTER
Il terzo bivio – Fare i conti con se stessi
I. Un’esigenza incondizionata di purezza
2. Il contesto storico-letterario
3. Carlo Michelstaedter, “l’uomo che non poté essere imperatore”

CONCLUSIONI
Cosa può dirci oggi quello sparo

APPENDICE
L’uomo che non poté essere imperatore, di G. Papini

RlFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

 

 


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Eraclito (535 a.C. – 475 a.C.) – Unico e comune è il mondo per coloro che sono desti

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I presocratici

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«Unico e comune è il mondo per coloro che sono desti,
mentre nel sonno ciascuno si rinchiude
in un mondo suo proprio e particolare
».

Eraclito, Diels – Kranz 22 B 89; trad. it. di G. Giannantoni, in I presocratici. Testimonianze e frammenti, Laterza, Bari 1975, vol. I, p. 215.

***

 

I presocratici, Bompiani

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Eraclito, ritratto da Raffaello ne La scuola di Atene, con le fattezze di Michelangelo Buonarroti

Eraclito, ritratto da Raffaello ne La scuola di Atene, con le fattezze di Michelangelo Buonarroti

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Nell’immagine in evidenza: Paulus Utrecht Moreelse (1571 – 1638), Eraclito.


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Georg Simmel (1858-1918) – Ciò che dobbiamo avere per poterlo godere, prima o poi, lo distruggiamo attraverso il possesso. Ecco la linea di separazione tra la bassezza e la nobiltà dei valori: gli uni possiamo averli senza che ci rendano appagati, mentre gli altri ci rendono felici anche se non li possediamo

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«Ci rallegriamo a osservare sopra di noi le stelle e gli altri corpi celesti che brillano, senza sentire per questo il bisogno di appropriarsene. Di fronte alla bellezza delle donne gli uomini si dividono tra coloro che devono «averle» per poter essere felici e coloro che, anche senza possederle, sono contenti del fatto di poterle solo ammirare e di sapere che questa indicibile bellezza esiste ed è sperimentabile. Non diversamente dagli uomini anche le cose manifestano la loro qualità nella misura in cui ci rendono lieti solo se le abbiamo o se anche non le possediamo. In quest’ultimo caso sta infatti l’eternità delle cose. Ciò che dobbiamo avere per poterlo godere, prima o poi, lo distruggiamo attraverso il possesso. Ma i beni spirituali e i beni che hanno il loro valore nella forma stanno al di là del problema se sia necessario il possesso per goderli. Un paesaggio di Bðcklin si fa beffa di colui che pretende di rinchiuderlo nel suo possesso e allieta solo colui che può goderlo anche senza necessariamente “averlo”. Questa è l’immodificabile linea di separazione tra la bassezza e la nobiltà dei valori: gli uni possiamo averli senza che ci rendano appagati, mentre gli altri ci rendono felici anche se non li possediamo».

Georg Simmel, Istantanee sub specie aeternitatis, in Id., Denaro e vita. Senso e forme dell’esistere, a cura di Francesco Mora, Mimesis Edizioni, 2010, p. 112.

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L’isola dei morti (in tedesco, Die Toteninsel)
è il più noto dipinto del pittore simbolista svizzero Arnold Böcklin (1827-1901).

 


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Vincent Van Gogh (1853-1890) – Ho un grande fuoco nell’anima … qualcuno verrà a sedersi davanti a questo fuoco, e magari vi si fermerà

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«Penso a volte di vedere qualcosa di più profondo e di infinito,
di più eterno che nell’oceano, negli occhi di un bimbo,
quando si sveglia al mattino,
e ride,
perché vede il sole che splende sulla sua culla.» 
 Vincent van Gogh

 

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Roberto Filippetti, Van Gogh. Un grande fuoco nel cuore, Itacalibri, 2008.

«Uno ha un grande fuoco nell’anima e nessuno viene mai a scaldarsi, i passanti non scorgono che un po’ di fumo in cima al comignolo e se ne vanno per la loro strada. E allora che fare, ravvivare questo fuoco interiore, avere del sale in sé, attendere pazientemente – ma con quanta impazienza –, attendere il momento in cui, mi dico, qualcuno verrà a sedersi davanti a questo fuoco, e magari vi si fermerà».

Vincent Van Gogh, A Theo van Gogh, 22-24 giugno 1880

 


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Vincent Van Gogh (1853-1890) – Quando c’è convenzionalismo, c’è sempre la sfiducia e la sfiducia dà sempre luogo a ogni sorta di intrighi

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Lettere a Teo

«Se c’è il desiderio di essere amici da ambedue le parti, può esserci qualche discordanza di opinioni, ma non si litiga tanto facilmente, e anche se lo si fa, è facile rappacificarsi.
Quando invece c’è del convenzionale l’amarezza è pressoché inevitabile, proprio perché non ci si sente liberi, e anche se non si esprimono i propri veri sentimenti, questi traspaiono a sufficienza per lasciare un’impressione spiacevole da entrambe le parti e rendere del tutto inutile la speranza di profittare beneficamente della reciproca consuetudine.
Quando c’è convenzionalismo, c’è sempre la sfiducia e la sfiducia dà sempre luogo a ogni sorta di intrighi.
E sì che con un po’ più di sincerità le nostre vite sarebbero ben più facili».

 

 

Vincent Van Gogh, Lettere a Teo

 

 

 


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Jean-Jacques Rousseau (1712-1778) – L’arte di interrogare non è facile come si pensa

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Giulia o la Nuova Eloisa

Giulia o la Nuova Eloisa

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«L’arte di interrogare non è facile come si pensa. È più arte da maestri che da discepoli. Bisogna già aver imparato molte cose per saper domandare ciò che non si sa».


Jean-Jacques Rousseau, Giulia o la nuova Eloisa, 1761.

 

 


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Heinrich von Kleist (1777-1811) – Nulla può essere più triste e inquietante di questa posizione nel mondo: l’unica scintilla di vita nel vasto dominio della morte

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Caspar David Friedrich, Monaco in riva al mare.

Nell’opera pittorica di Caspar David Friedrich, e in particolare in una sua tela Monaco in riva al mare, 1808-1810, si intrecciano solitudine e malinconia. Nella tela un monaco su di una spiaggia deserta contempla il mare; e le impressioni di tristezza e di solitudine nascono dal contrasto fra l’esile figura umana e la sconfinata immensità del mare. Su questa tela Heinrich von Kleist ha scritto:

Kleist Meridiani

«È magnifico volgere lo sguardo, in una infinita solitudine sulla riva del mare, sotto un cielo grigio, verso uno sconfinato deserto d’acqua. Ciò richiede nondimeno che si sia andati là, che si debba tornare indietro, che si desideri passare dall’altra parte, che non lo si possa fare, che si senta la mancanza di tutto l’occorrente per scrivere, eppure si oda la voce della vita nel mormorio della marea, nell’alito dell’aria, nel passaggio delle nuvole, nel grido solitario degli uccelli. […] Nulla può essere più triste e inquietante di questa posizione nel mondo: l’unica scintilla di vita nel vasto dominio della morte, il solitario centro in un orbe solitario. Il quadro, con i suoi due o tre oggetti misteriosi, sta lì come l’Apocalisse, quasi avesse i Pensieri notturni di Young, e poiché, nella sua uniformità e sconfinatezza, non ha altro primo piano che la cornice, è come se a chi lo osserva fossero recise le palpebre».

Heinrich von KleistOpere, Mondadori, Milano, 2012

 

 

 


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Maria Zambrano (1904-1991) – Saper guardare un’icona significa liberarne l’essenza, portarla alla nostra vita

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Luoghi della pittura

«Ogni icona chiede di essere liberata, ogni forma è un carcere, però è anche il solo modo in cui, nel mondo in cui viviamo, un’essenza si conserva senza disperdersi – anche la parola è una fonna che cattura e opprime. Saper guardare un’icona significa liberarne l’essenza, portarla alla nostra vita, senza distruggere la forma che la contiene, lasciandola allo stesso tempo lì; è una cosa difficile e che ha bisogno di allenamento. […] Saper contemplare deve essere saper guardare con tutta l’anima, con tutta !’intelligenza e persino con il cosiddetto cuore, il che significa partecipare, partecipare all’essenza contemplata nell’immagine, vivificarla».

Maria Zambrano, Luoghi della pittura, medusa, Milano, 2002.

 

 


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Giovanni Pozzi (1923-2002) – Per ascoltare occorre tacere. Il libro, deposito della memoria, antidoto al caos dell’oblio, dove la parola giace, ma insonne, pronta a farsi incontro con passo silenzioso a chi la sollecita, è amico discretissimo. Colmo di parole, tace

Pozzi Giovanni

Tacet

«Per ascoltare occorre tacere.
Non soltanto attenersi a un silenzio fisico che non interrompa il discorso altrui (o se lo interrompe, lo faccia per rimettersi a un successivo ascolto), ma a un silenzio interiore, ossia un atteggiamento tutto rivolto ad accogliere la parola altrui.
Bisogna far tacere il lavorio del proprio pensiero, sedare l’irrequietezza del cuore, il tumulto dei fastidi, ogni sorta di distrazioni.
Nulla come l’ascolto, il vero ascolto, ci può far capire la correlazione fra il silenzio e la parola. È l’analogo della musica. La si ascolta pienamente quando tutto tace intorno a noi e dentro di noi».

Pietro_Martire_che_ingiunge_il_silenzio__angelico_san_marco

«La cella e il libro sono le stanze della solitudine e del silenzio.
Della solitudine, la cella, non casupola di frasche nel deserto, né carcere murato, ma collocato al centro dell’uomo: il cuore che mai non dorme. Vigile nell’ascolto, metafora assoluta dell’abitacolo e metonimia dell’intera persona umana. […]
Del silenzio, il libro, deposito della memoria, antidoto al caos dell’oblio, dove la parola giace, ma insonne, pronta a farsi incontro con passo silenzioso a chi la sollecita. Amico discretissimo, il libro non petulante, risponde solo se richiesto, non urge oltre quando gli si chiede una sosta. Colmo di parole, tace».

Giovanni Pozzi, Tacet, Adelphi, 2013.

 

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San Pietro Martire che ingiunge il silenzio
è una lunetta affrescata di Beato Angelico conservata nel chiostro detto “di Sant’Antonino” nel convento di San Marco a Firenze. Viene datata al 1442 circa.


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