Eugène Minkowski (1885-1972)  – La morte, mettendo fine alla vita, la inquadra interamente, in tutto il suo percorso. È la morte che trasforma il succedersi o la trama degli avvenimenti della vita in “una” vita. Non è nel nascere ma è col morire che si diventa un’unità, “un uomo”.

Minkowski 01

Il tempo vissuto

Eugène Minkowski, Il tempo vissuto, Einaudi.

 

«È forse utile ricordare
che il primo libro d’ispirazione fenomenologica
che mi è venuto fra le mani,
quasi contemporaneamente
a L’Essai sur les données immédiates de la Conscience di Bergson,
non è un’opera di Husserl, bensì il saggio sulla Simpatia di Scheler».

E. Minkowski, Trattato di psicopatologia, Roma, 2015, p. 334

 

 

 

Mai ci capita di prendere contatto in modo così intimo con la nozione di una vita, come di fronte alla morte. Questa nozione sembra esserci data in modo originario dal fenomeno della morte.

[…] Di fronte alla morte vedo sempre tutta una vita ergersi davanti a me e questo anche quando ignoro tutto di colui al quale ha messo fine l’esistenza. […]

La morte in quanto distruzione genera un divenire e non un essere.

Così la morte, mettendo fine alla vita, la inquadra interamente, in tutto il suo percorso. È la morte che trasforma il succedersi o la trama degli avvenimenti della vita in una vita. Non è nel nascere ma è col morire che si diventa un’unità, un uomo. […]

Ogni morte è un memento mori primario per i superstiti.

[…] La morte, venendo a delimitare, nel divenire, «una» vita, ci fornisce di colpo, nello stesso momento, con lo stesso atto, la nozione della mortalità di tutte le vite, ed è solo essa a contenere un dato di quest’ordine.

La vita comune, certo, può essere dominata ora da un atteggiamento ora dall’altro, e ciò, come dicevamo, indipendentemente dall’età reale del soggetto. Inoltre anche da questo punto di vista si possono rilevare differenze da individuo a individuo – dettaglio che è interessante notare di sfuggita. Vediamo gli uni accettare senza difficoltà progetti che possono giungere a un risultato solo dopo decine di anni di sforzi, o addirittura che possono dare un pieno rendimento solo dopo un lavoro di parecchie generazioni, ma ne fanno di buon animo il contenuto della loro vita; al contrario, altri esitano quando si tratta di uno o di due anni di vita per ottenere un risultato positivo; questo sembra loro troppo lungo, essi non sanno risolversi a sottrarre un simile lasso di tempo alla vita a beneficio di un avvenire che, pur senza essere lontano, nondimeno loro sfugge; come limitati nel loro slancio, si compiacciono in piccoli progetti a resa immediata; il loro orizzonte è ridotto, la loro funzione propulsiva è scarsa; più che creare lavoricchiano; vivono più sotto gli auspici del tempo che passa e della morte che si avvicina che del tempo che avanza e che facciamo avanzare con noi. Negli ansiosi, nei depressi, nei melanconici tale predominanza dei fattori della morte si accentua ancor più. […]

È l’anima dunque che si stacca dal corpo e ad esso sopravvive? Ma no, la morte compie una vita, vi mette fine. Ammettere un’anima che sopravvive, è formarla a immagine del corpo e prolungare la sua esistenza in un tempo concepito non più come un divenire, ma come un essere… [Continua a leggere]

Eugène Minkowski, Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia, Einaudi, 2004, pp. 125-137.

Logo Adobe Acrobat  Eugène Minkowski, Che cos’è dunque la morte

 

Le temps vécu

Le temps vécu.

 

 

 


 

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Saffo ( VII-VI sec. a.C. )  – La vera dolcezza di quella mela rosseggiante Saffo ci dice che può essere colta solo se raggiunta nell’alto della sua dimensione eidetica.

Saffo

οἶον τὸ γλυχὺμαλον ἐρεύθεται ἄχρῳ ἐπ’ ὔσδῳ
ἄχρον ἐπ’ ἄχροτάτῳ λελάθοντο δὲ μαλοδρόπηεϛ·
οὐ μὰν ἐχλελάθοντ’, ἀλλ’ οὐχ ἐδύναντ’ ἐπὶχεσθαι

QUALE DOLCE MELA

Quale dolce mela che su alto
ramo rosseggia, alta sul più
alto; la dimenticarono i coglitori;
no, non fu dimenticata: invano
tentarono raggiungerla.

Traduzione Salvatore Quasimodo

 

 

Come la mela dolce rosseggia sull’alto del ramo,
alta sul ramo più alto: la scordarono i coglitori.
No, certo non la scordarono:
non poterono raggiungerla.

Saffo, Fr. 116, in Lirici greci, a cura di F. Sisti, Garzanti, 1999, p. 147.

 

 

Quale una dolce mela a un alto ramo
rosseggia, in vetta alla più alta fronda:
i coglitori la dimenticarono?
Non l’han scordata, no, ma non poterono
raggiungerla.

Saffo, Fr. 116, in Renzo Gherardini, Lungo il mio sentiero,
tr. R. Gherardini, Petite Plaisance, 2010, p. 38.

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Busto di Saffo, Musei Capitolini.


 

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Daniele Giancane  – Stare sulla soglia: La poesia richiede lentezza. Pausa. Non è produttiva. Non è immediatamente utile.

Chi volete che legga i libri di poesia?
Cento lettori, ad andar bene.
Anche perché la poesia richiede una forma di impegno
(riflessione, concentrazione, sforzo ermeneutico)
che è in controtendenza ai nostri tempi:
scialbi, disimpegnati, superficiali, rapidi.
La poesia richiede lentezza.
Pausa.
Non è produttiva.
Non è immediatamente utile.

D. G.

 

 

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Mi accorgo sovente

di stare sulla soglia:

come se ci fosse

vicino un confine,

un fiato, un tenue filo.

Come se fossi qui in parte,

in parte altrove.

Simultaneo e ubiquo,

plurale e singolare assieme.

                             Daniele Giancane

 

 

Daniele Giancane, La soglia, in Diario dell’anima e un poema infernale, Besa editrice, 2003, p. 45.

 


 

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Emily Dickinson (1830-1866)  – Dedicata agli esseri umani in fuga dalla mente dell’uomo

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Emily Dickinson, Poesie, traduzione di Margherita Guidacci.

Se per fuggire alla memoria

avessimo le ali

in molti voleremmo.

Avvezzi a cose più lente

gli uccelli sbigottiti

contemplerebbero il possente stormo

degli uomini in fuga

dalla mente dell’uomo.

                               Emily Dickinson

 

 

Emily Dickinson, nel 1850

Emily Dickinson, nel 1850.

 

 


 

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Max Pohlenz (1872-1962)  – Il cammino del dell’uomo greco è illuminato da tre guide ideali: il vero, il bello, il bene. Il sentimento dell’incondizionata sudditanza gli è affatto sconosciuto. Nel suo intimo possiede la forza di resistere a tutti i rovesci del destino e plasmare la sua vita a proprio modo, nella consapevolezza di essere personalmente responsabile delle proprie azioni

Pohlenz

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«Prenderemo le mosse dal problema della misura in cui l’uomo greco, a prescindere da ogni altra considerazione, ha sicura coscienza della propria personalità e un chiaro sentimento dell’Io. Indagheremo quindi come questo Io impara a muoversi di fronte al Tu, in che rapporti si pone con le potenze soprasensibili, col destino e con la divinità, e poi con la comunità umana, nella quale soltanto l’individuo può esistere e svilupparsi compiutamente sia in senso fisico che spirituale. Vedremo allora come il cammino del Greco è illuminato da tre guide ideali: il vero, il bello, il bene; come egli, fondando la scienza e la filosofia, sottomette a sé teoreticamente il mondo che lo circonda; come, con la sua sensibilità estetica, organizza artisticamente quel mondo; come infine, sul piano pratico, cerca di realizzare in esso il destino che gli è additato dalla propria natura. La nostra indagine potrà concludersi ponendo questa domanda: che cosa significa per gli uomini questa civiltà greca, che cosa ha da dirci ancora oggi?

Il sentimento dell’incondizionata sudditanza gli è affatto sconosciuto.

L’uomo greco giunge alla dolorosa certezza che nessuno può sfuggire al fato specialmente in faccia alla morte. Tuttavia la morte non paralizza in lui la volontà e la forza di vivere. Fino all’ultimo respiro egli combatte per la sua vita, non c’è momento in cui smarrisca la consapevolezza di possedere nel suo intimo la forza di resistere a tutti i rovesci del destino e di avere il dovere di plasmare la sua vita a proprio modo, anche se il successo dei suoi sforzi potrà essere frustrato dall’esterno.
Rivolge preghiere agli dèi affinché lo assistano; ma nel caso che lo abbandonino, proprio ciò lo sprona a tendere al massimo le sue energie, mentre d’altro lato la persuasione di subire l’influenza degli dèi, un’influenza che arriva fin dentro la sua anima, non gli toglie la consapevolezza di essere personalmente responsabile delle proprie azioni. Per questo non si dà per lui un problema della libertà del volere, e quando i fondatori della Stoa, che erano di stirpe non greca, individuarono tale problema, erano già tanto profondamente compenetrati dallo spirito ellenico che cercarono di salvare ad ogni costo, nell’uomo, la libera decisione, la quale costituisce la sua specifica prerogativa e il presupposto per ogni azione e per ogni giudizio morale […]». [Continua a leggere]

 

Max Pohlenz, L’uomo greco, Saggio introduttivo di Giovanni reale, Bompiani, 2006, pp. 9, 831-833, 868-869.

 

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Max Pohlenz, L’uomo greco

 


 

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Dietrich von Hildebrand (1889-1977)  – Lo specifico dell’amore è il suo carattere di dono. Finché qualcuno è per me solo utile, finché posso solo averne bisogno, manca la base dell’amore. la persona amata ci stia di fronte come dotata di valore, preziosa.

Hildebrand

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L’amore nel senso più proprio e immediato […] è quello verso un’altra persona o l’amore per l’altro […]. Ogni «dipendere» da beni come il cibo, il bere, il denaro etc., invece, non può essere indicato come «amare» neppure nel senso analogo, in quanto si differenzia dall’amore in un aspetto proprio decisivo. Il beone non «ama» l’alcool, l’avaro non ama il denaro. Ne dipendono […]. Non appena parto dal fenomeno del «dipendere» da qualcosa, l’essenza dell’amore viene necessariamente fraintesa. Ciò che costituisce la proprietà dell’amore, ciò che è la sua specifica essenza, include proprio la differenza da tutte queste altre forme di «dipendere da qualcosa». La differenza che qui è in questione è la stessa fondamentale differenza che attraversa tutta la sfera affettiva e, in modo analogo, la sfera della volontà: la differenza tra la risposta al valore e la risposta a una cosa meramente piacevole. […] Qui tuttavia vale la pena di accennare nuovamente alla profonda distinzione che si dà tra la capacità di dilettare che è fondata in un valore e quella che non scaturisce da un valore. […] Si deve perciò indicare con ogni vigore che è molto pericoloso, nell’indagine sull’essenza dell’amore, trarre analogie da una sfera nella quale la capacità di dilettare non è fondata nel valore e nella quale il nostro atteggiamento rispetto al bene è del tutto diverso.

Lo specifico dell’amore è infatti il suo carattere di dono, cioè la sua trascendenza.

In ogni amore è essenziale che l’amato ci stia di fronte come prezioso, bello, amabile. Finché qualcuno è per me solo utile, finché posso solo averne bisogno, manca la base dell’amore. La dedizione che è essenziale per ogni amore – sia esso amore genitoriale, amore filiale, amore di amicizia o amore sponsale – presuppone necessariamente che la persona amata ci stia di fronte come dotata di valore, come bella, preziosa, come oggettivamente amabile.

L’amore è una risposta al valore.

 

Dietrich von Hildebrand, Essenza dell’amore, Introduzione, traduzione, note e apparati di Paola Premoli De Marchi, Bompiani, 203, pp. 85-95.

***

 

[Continua a leggere]

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Dietrich von Hildebrand, Essenza dell’amore

 


 

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Immanuel Kant (1724-1804)  – Nell’uomo esiste un tribunale interno: è la coscienza. Egli può magari cadere in un grado tale d’abbiezione da non prestare più alcuna attenzione a questa voce, ma non può evitare di udirla

Kant 01

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«La consapevolezza che nell’uomo esiste un tribunale interno (“davanti al quale i suoi pensieri si accusano o si giustificano a vicenda”) è la coscienza.

Ogni uomo ha una sua coscienza e si sente osservato, minacciato e in generale tenuto in rispetto (che è una stima unita a timore) da un giudice interno, e questa potenza, che veglia in lui all’esecuzione della legge, non è qualcosa da lui arbitrariamente costruito, ma è inerente al suo stesso essere. Essa lo segue come la sua ombra, quando egli tenta di sfuggirle.

L’uomo può bensì stordirsi o ottundersi con piaceri e distrazioni, ma non può evitare, di quando in quando, di ritornare in se stesso e di svegliarsi; e allora sente ben presto la voce terribile della coscienza.

Egli può magari cadere in un grado tale d’abbiezione da non prestare più alcuna attenzione a questa voce, ma non può evitare di udirla».

Immanuel Kant, Metafisica dei costumi, trad. it. di G. Vidari, nuova edizione a cura di N. Merker, Laterza, Bari 1970, p. 298.

 


 

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György Lukács (1885-1971)  –  «Thomas Mann e la tragedia dell’arte moderna». Il momento puramente soggettivo, l’estraniarsi da ogni collettività, il disprezzare ogni comunità annulla ogni vincolo con la società e nell’opera stessa: autodissoluzione dell’arte in seguito a quella lontananza dalla vita ch’essa si pone per principio.

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«Adrian Leverkühn [il protagonista del romanzo di Thomas Mann dal titolo titolo Doktor Faustus, iniziato nel 1943 e pubblicato nel 1947] sa con assoluta precisione quale sia la situazione storica della musica (dell’arte, dello spirito in genere) nel suo tempo. Egli non soltanto lo sa precisamente, non solo riflette in costante tensione su tutto ciò, ma tutti i suoi problemi stilistici nascono da questa tensione: l’epoca attuale è per ogni verso sfavorevole all’arte, alla musica – e com’è possibile ciò nonostante, in quest’epoca, creare una musica di livello artistico veramente alto, senza uscirne, senza romperla in modo risoluto e attivo con questo tempo? […] Quello che Thomas Mann ottiene nel configurare il processo creativo di Adrian Leverkühn, nella rappresentazione della genesi, della struttura e della influenza delle sue opere, raggiunge un livello altissimo, unico in tutta la letteratura universale. Fino ad ora le tragedie della vita di artisti erano state rappresentate quasi esclusivamente dal punto di vista del rapporto e del conflitto fra l’artista e la vita, fra l’arte e la realtà; e così pure essenzialmente era stato fatto dal giovane Thomas Mann. Qui tuttavia, dove il problema centrale verte e già trabocca nell’opera, la rappresentazione si deve estendere anche alla genesi e alla struttura di questa stessa opera e deve portare ad espressione artistica e formale l’insolubile, tragica problematica dell’arte moderna attorno a quelle stesse opere. […] [Continua a leggere]

György Lukács, Thomas Mann, Berlin, Aufbau Verlag, 1953; tr. it. Di Giorgio Dolfini, Thomas Mann e la tragedia dell’arte moderna, Milano, Feltrinelli, 1971, pp. 76, 77, 78-79).

Logo Adobe Acrobat   G. Lukács,
Thomas Mann e la tragedia dell’arte moderna

 

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Prima edizione europea, 1947.


 

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Georges Bataille (1897-1962)  – La noia rivela ciò che è il nulla dell’essere rinchiuso in se stesso. Questo nulla interno lo respinge verso l’angoscia.

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«La noia rivela ciò che è il nulla dell’essere rinchiuso in se stesso. Se non comunica più, un essere isolato intristisce, deperisce e sente (oscuramente) che, da solo, non esiste. Questo nulla interno, senza via d’uscita, senza alcuna attrattiva, lo respinge: egli soccombe al malessere della noia e la noia dal nulla interno lo rigetta in quello esterno, all’angoscia».

G. Bataille, Su Nietzsche, SE, 2006.


 

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Diego Fusaro – La gabbia d’acciaio: Max Weber e il capitalismo come destino.

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Max Weber and Karl Marx

È stato detto, e non senza buone ragioni, che le due grandi linee interpretative da seguire, se si vuole capire l’epoca in cui viviamo e il suo destino, sono quelle tracciate da Karl Marx (1818-1883) e da Max Weber (1864-1920): chi intenda venire a capo dell’Età moderna, non ha dunque che da indossare le «lenti» interpretative dell’uno o dell’altro autore, senza però pretendere di sovrapporle, perché esse si escludono a vicenda e, per così dire, restituiscono l’immagine di due mondi diversi e, per molti versi, incompatibili. Il punto comune da cui questi due grandi pensatori prendono le mosse nelle loro indagini è la constatazione che il nostro tempo è signoreggiato da una forza fatale – il capitalismo – che si è imposta con la stessa necessità con cui il destino dominava nelle tragedie greche: e, inscindibilmente connesso a questo problema, che costituisce il fulcro delle loro indagini, ve ne è un altro, quello del destino dell’uomo nel mondo contemporaneo. L’immagine e il destino dell’Occidente che affiorano dalle analisi di questi due pensatori sono, per molti versi, diametralmente opposte, a tal punto che non è illegittimo domandarsi se la realtà che essi hanno preso in esame fosse effettivamente la stessa. Là dove Weber registra «razionalizzazione» e «disincanto», Marx scorge i tratti di un mondo sospeso in un incantamento reificante e feticistico, in cui gli uomini sono signoreggiati dai prodotti della loro stessa mano e non riescono a intrattenere rapporti cristallini e non opachi né tra loro né con le merci che producono. Quello scrutato da Weber è un mondo «in ordine», in cui ogni cosa si trova al posto giusto e non vi è nulla che sfugga alla presa della razionalità: il profitto viene ricercato nel più razionale dei modi, le merci sono prodotte in modo efficace, il sapere si innesta fecondamente sulla prassi. Al contrario, quello sottoposto a critica da Marx è un mondo letteralmente spettrale, infestato da fantasmi di ogni tipo … [Continua a leggere]

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Diego Fusaro,
La gabbia d’acciaio. Max Weber e il capitalismo come destino

 

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Il saggio di Diego Fusaro è già stato pubblicato in Koiné [Filosofia e politica: che fare?]– Periodico culturale – Anno XVI  –  NN° 1-3 – Gennaio-Giugno 2009, pp. 57-73 – Reg. Trib. di Pistoia n° 2/93 del 16/2/93. Direttore responsabile: Carmine Fiorillo. Direttori Luca Grecchi e Diego Fusaro.

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