Byung-Chul Han – L’anestesia permanente nella società palliativa derealizza il mondo. Il ‘like’ conduce allo smantellamento della realtà. Solo la vita che vive, che è capace di provare dolore riesce a pensare. All’intelligenza artificiale manca proprio questa vita del pensiero, che non è calcolo né artificiale intelligenza.

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«[…] La società palliativa è una società del mi piace, che cade vittima della mania di voler piacere. […] Il like è l’emblema, il vero e proprio analgesico della contemporaneità» (p. 8).

«La nuova formula di dominio recita: Sii felice. […] Nel regime neoliberista, anche il potere assume una forma positiva. Diventa smart. […] Il potere smart opera in chiave seduttiva e permissiva […]» (pp. 16-17).

«Il virus fa breccia nella zona di benessere palliativa e la trasforma in una quarantena in cui la vita s’irrigidisce diventando mera sopravvivenza. […] La società della sopravvivenza perde del tutto il senso della buona vita» (p. 22).

«L’anestesia permanente nella società palliativa derealizza il mondo. Anche la digitalizzazione riduce sempre più la resistenza e fa gradualmente sparire l’interlocutore recalcitrante, ciò che è contro, il controcorpo. Il protrarsi del like conduce a un’insensibilità, allo smantellamento della realtà. La digitalizzazione è anestesia.

Nell’epoca post-fattuale, con le fake news o i deep fake nasce un’apatia nei confronti della realtà, anzi un’anestesia della realtà. Solo un doloroso shock di realtà riuscirebbe a strapparci da questa situazione» (pp. 44-45).

«Senza dolore non è possibile alcuna conoscenza capace di rompere radicalmente col passato. Anche l’esperienza nel senso enfatico del termine presuppone la negatività del dolore. È un doloroso processo di trasformazione. Contiene una fase di patimento o sopportazione. In questo si distingue dall’evento, che non conduce ad alcun cambio di stato poiché diverte invece di trasformare. Solo il dolore produce un reale cambiamento. Nella società palliativa si perpetua l’Uguale. Andiamo da tutte le parti senza fare esperienza. Prendiamo atto di tutto senza approdare alla conoscenza. Le informazioni non portano né a esperire, né a conoscere. Manca loro la negatività della trasformazione. La negatività del dolore è costitutiva del pensiero. È il dolore a distinguere il pensiero dal calcolo e dall’intelligenza artificiale. Intelligenza significa scegliere tra (inter-legere). È la capacità di distinguere. Per cui non abbandona ciò che esiste già. Non è in grado di creare il completamente Altro. In ciò si differenza dallo spirito. Il dolore approfondisce il pensiero. Non esiste un calcolo profondo. In cosa consiste la profondità del pensiero? Al contrario del calcolo, il pensiero crea uno sguardo diversissimo sul mondo, proprio un altro mondo. Solo la vita che vive, che è capace di provare dolore riesce a pensare. All’intelligenza artificiale manca proprio questa vita. […] L’intelligenza artificiale è solo uno strumento di calcolo. È forse capace d’imparare, anche di deep learning, ma è incapace di fare esperienza. Solo il dolore trasforma l’intelligenza nello spirito» (pp. 53-54).

Byung-Chul Han, La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite, Einaudi, Torino 2021.


Quarta di copertina

Il mondo contemporaneo è terrorizzato dalla sofferenza. La paura del dolore è cosí pervasiva e diffusa da spingerci a rinunciare persino alla libertà pur di non doverlo affrontare. Il rischio, secondo Han, è chiuderci in una rassicurante finta sicurezza che si trasforma in una gabbia, perché è solo attraverso il dolore che ci si apre al mondo. E l’attuale pandemia, argomenta il filosofo tedesco-coreano, con la cautela di cui ha ammantato le nostre vite, è sintomo di una condizione che la precede: il rifiuto collettivo della nostra fragilità. Una rimozione che dobbiamo imparare a superare. Attingendo ai grandi del pensiero del Novecento, Han ci costringe, con questo saggio cristallino e tagliente come una scheggia di vetro, a mettere in discussione le nostre certezze. E nel farlo ci consegna nuovi e piú efficaci strumenti per leggere la realtà e la società che ci circondano.


Byung-Chul Han, nato a Seul, è considerato uno dei più interessanti filosofi contemporanei. Già docente di Filosofia e Teoria dei Media presso la Staatliche Hochschule für Gastaltung di Karlsruhe, insegna ora Filosofia e Cultural Studies alla Universität der Künste di Berlino, ed è autore di saggi sulla globalizzazione e l’ipercultura. Per nottetempo ha pubblicato La società della stanchezza (2012), Eros in agonia (2013) La società della trasparenza (2014), Nello sciame. Visioni del digitale (2015), Psicopolitica. Il neoliberismo e le nuove tecniche del potere (2016) e L’espulsione dell’altro (2017).


Byung-Chul Han – La levigatezza è il segno distintivo del nostro tempo. Non è necessaria alcuna riflessione o pensiero. Essa resta coscientemente infantile, banale, svuotata di qualsiasi profondità. Nessuna interiorità si nasconde dietro la sua superficie levigata. Giova dismettere vesti levigate accogliendo l’invito di Rilke: «Tu devi cambiare la tua vita».

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Renato Curcio – È tempo di ridare la fiducia e la dignità che meritano al pensiero critico e alle pratiche di conflitto indispensabili per poter ristabilire il primato dell’umano sull’artificiale, dell’intelligenza relazionale sull’intelligenza artificiale, della laicità comunista sulla religione cibernetica.

Renato Curcio - Identità cibernetiche


Quarta di copertina

Il paradigma della dissociazione identitaria, così come è stato posto da Janet sul finire dell’Ottocento e sviluppato da Hilgard, Ludwig, Lapassade e altri nel Novecento, si misura oggi con l’utilizzo dei più comuni dispositivi digitali da parte di un numero crescente di umani. La tesi sulla quale si incardina questo lavoro mette in luce una nuova forma di dissociazione adattativa, qui definita sdoppiamento digitale, indotta dal progressivo spostamento della vita di ciascuno dalle relazioni in presenza alle connessioni. Lavoro da casa, didattica a distanza, politica social-mediata, obbligando all’accesso a piattaforme e all’uso di dispositivi digitali, richiedono all’individuo di dissociarsi in una o più identità di connessione. Come queste identità siano vulnerabili a essere manipolate e, in prospettiva, comandate a distanza, riducendo progressivamente l’autonomia di pensiero e di azione, è il territorio su cui questo libro si affaccia per avviare una riflessione collettiva e un confronto con quanti si augurano che la tecnologia digitale possa un giorno essere messa al servizio degli umani, all’opposto di quanto oggi accade.


«[…] le tecno-scienze digitali fanno ormai parte della nostra vita quotidiana e, a loro modo, stanno modificando alla radice gli assetti identitari che hanno caratterizzato l’era precedente e in particolare gli anni dell’industrializzazione capitalistica. Oggi, non prendersi cura delle proprie identità di connessione, esposte all’insidia permanente della colonizzazione cibernetica, disinteressarsene – come viene fatto purtroppo da molti sotto l’effetto abbagliante della chincaglieria digitale e delle sue suggestioni – vuole dire affidare fideisticamente il proprio destino agli ingegneri e agli alchimisti digitali di aziende come Google, Amazon, Microsoft e Apple. D’altra parte, prendersi cura delle nostre identità di connessione significa dedicare a esse il tempo necessario alla loro più approfondita conoscenza e all’esplorazione delle trappole progettate e disseminate dai nuovi colonizzatori per catturarle e metterle al loro servizio. A questo compito, nelle pagine che seguono, proverò a dare il mio piccolo contributo. […]» (p. 8).

«[…] Ciò che vedremo […] non sarà altro che l’espansione abnorme di quanto già stiamo vedendo e riproducendo: l’accrescimento a dismisura della posizione dominante di un numero sempre più esiguo di gruppi capitalistici digitali multimiliardari e l’impoverimento, anzi, l’immiserimento, di una porzione maggioritaria e crescente della popolazione, la crescita esponenziale delle disuguaglianze. In ogni caso non potremo evitare una evoluzione digitalizzata della nostra configurazione identitaria poiché l’insieme delle nostre identità di connessione verrà spronato ad articolare e a rafforzare sempre più la sua posizione già oggi quasi “dominante” rispetto all’insieme delle nostre identità di relazione.
Una dialettica conflittuale e intracorporea dalla quale – come molti segni già ci hanno mostrato – usciremo tutti profondamente marchiati e trasformati. Ciò che però va qui urgentemente compreso e criticamente affrontato è il fatto che questa duplicità identitaria non si sta istituendo nella forma di “o l’una o l’altra” […] bensì in quella assai più complessa e sconosciuta nei suoi esiti di “l’una e l’altra”, ovvero nella stabilizzazione permanente di una dissociazione identitaria strutturata stabilmente, simultanea e bidimensionale. E già oggi per molti, se non ancora per tutti, di un inquietante sdoppia mento.
In questa duplicità complessa si radica forse la questione più scottante, perché dal grado di consapevolezza delle sue implicazioni dipendono la deriva distruttiva dello sdoppiamento o l’assunzione di una allerta critica e conflittuale. Nel primo caso, infatti, prevarrebbe l’obbedienza passiva agli algoritmi proprietari, nel secondo, invece, la disposizione a battersi per una Internet degli umani.
[…] Anche i dispositivi dell’obbedienza sociale in questa espansione del continente digitale si vanno radicalmente riconfigurando. […] Obbedire in presenza, obbedire a distanza. Ma in ogni caso obbedire. […] Nel continente digitale il comando diventa a tal punto istantaneo, diretto e personalizzato che a esso si può opporre solo un “sì” o un “no”; dove al “no” corrisponde l’estromissione immediata dal sistema. Intendo dire che per restare nel sistema diventa necessario “praticare il sì”. Si può forse disobbedire agli automatismi dell’intelligenza artificiale che organizza il traffico dei messaggi di una chat? Solo uscendo da essa lo si può fare. Ubbidendo, invece, si assume e si fa propria una condotta sociale standardizzata che prevede la cessione di dati all’azienda proprietaria; la rinuncia alla privacy barattando in cambio «tutte le comodità che oggi i giganti del web ci assicurano» . Non solo un comportamento, dunque, ma anche la muta sottomissione a uno sfruttamento e il coinvolgimento attivo nella propria colonizzazione.
[…] Non possiamo ignorare che, nel bene e nel male, la società digitale […] ci chiede di abbracciare la fede nella capacità delle tecno-scienze digitali e delle loro applicazioni, di sollevarci a uno stadio più maturo della convivenza sociale e di ridurre la forbice delle disuguaglianze sociali.
Certo, così non potrà essere proprio “per tutti”. D’altra parte, per il modo di produzione capitalista, gli obsoleti, gli inadeguati, gli inutili e gli indesiderabili sono sempre stati, e restano ancora, nient’altro che un costo e una disdetta.
Che il pensiero critico possa però avere la meglio su questa nuova religione cibernetica è un assunto che, per il momento, non trova conferme nella storia e nel presente. […]
Prendere atto di questo stato di cose – ovvero del fatto che il capitalismo digitale, in assenza di resistenze e altri immaginari istituenti, ci sta sospingendo nel vortice di una ulteriore e più profonda mutazione – sembra essere il presupposto elementare e necessario per riconsiderare il continente virtuale come un campo di battaglia entro cui le identità umane di connessione, per restare umane, dovranno assumere una posizione critica e un atteggiamento istituente.
A fronte dell’obbedienza vilmente barattata si dovranno disporre ad affrontare nuove domande sui fondamenti della convivenza sociale. Questo, del resto, è ciò che sta facendo quell’internazionale battagliera composta oggi da tutti coloro che in un modo o nell’altro, senza il confallo di una “appartenenza” si battono comunque per una “Internet di tutti” contro chi persegue una “Internet del tutto”.
Una Internet al servizio dei corpi viventi e non orientata al loro controllo cibernetico, alla predazione dei loro dati e, in definitiva, al loro sfruttamento e alloro dominio.
È tempo, per concludere, di ridare la fiducia e la dignità che meritano al pensiero critico e alle pratiche di conflitto indispensabili per poter ristabilire il primato dell’umano sull’artificiale, dell’intelligenza relazionale sull’intelligenza artificiale, della laicità comunista sulla religione cibernetica. È tempo di dedicarsi a pratiche reinventate di confronto in presenza e alla più ampia e approfondita ricerca collettiva di istituzioni liberate dal codice sorgente dello scambio ineguale e, soprattutto, creativamente autogestite.
Oggi più che mai tutto ciò è diventato urgente e necessario anche se soltanto un vasto e globale processo istituente riuscirà a immaginare davvero cosa comporti questa nuova sfida. Ma sappiamo che da essa dipende quantomeno la sopravvivenza della nostra personale ed elementare libertà di decidere come affrontare e vivere i piccoli e i grandi momenti della nostra vita quotidiana, territori strategici del conflitto e fondamento irrinunciabile di ogni altra libertà» (pp. 108-113).

Renato Curcio, Identità cibernetiche. Dissociazioni indotte, contesti obbliganti e comandi furtivi, Sensibili alle foglie, Roma 2020.


Indice



L’ impero virtuale. Colonizzazione dell’immaginario e controllo sociale, 2015

Alcune aziende che quindici anni fa non esistevano, come Google e Facebook, oggi costituiscono la nuova e potente oligarchia planetaria del capitalismo digitale. Internet ne rappresenta l’intelaiatura, e i suoi utenti, vale a dire circa tre miliardi di persone, la forza lavoro utilizzata. Le nuove tecnologie digitali fanno ormai parte della nostra vita quotidiana, le portiamo addosso e controllano tutti gli ambienti della vita sociale, dai luoghi di lavoro ai templi del consumo. Questo libro propone una riflessione sui dispositivi attraverso i quali questa oligarchia e queste tecnologie catturano e colonizzano il nostro immaginario a fini di profitto economico e di controllo sociale. E mette in luce il risvolto di tutto ciò, ovvero l’emergere di una nuova e impercepita sudditanza di quel popolo virtuale che, riversando ingenuamente messaggi, fotografie, selfie, e desideri su piattaforme e social-network, contribuisce con le sue stesse pratiche a rafforzare il dominio del nuovo impero. Non conosciamo ancora le conseguenze sui tempi lunghi di questo ulteriore passaggio del modo di produzione capitalistico. Chiara invece appare la necessità di immaginare pratiche di decolonizzazione.


L’ egemonia digitale. L’impatto delle nuove tecnologie nel mondo del lavoro, 2016.

Il percorso di un cantiere socioanalitico sui modi in cui l’impero virtuale cerca di costruire la sua capacità egemonica nel mondo del lavoro. Ripercorrendo la micro-fisica dei processi innescati dai dispositivi digitali che mediano l’attività lavorativa – smartphone, piattaforme, sistemi gestionali, registri elettronici – si esplorano alcune metamorfosi radicali che, mentre rovesciano il rapporto millenario tra gli umani e i loro strumenti, sconvolgono ciò che fino a ieri abbiamo chiamato “lavoro”. Alcuni territori chiave – la digitalizzazione della scuola, della professione medica, dei servizi, dei trasporti condivisi, dei grandi studi legali e delle banche assunti come analizzatori, ci raccontano l’impatto trasformativo delle nuove tecnologie e il disorientamento dei lavoratori. Ma fanno anche emergere le linee liberticide su cui questo processo procede: la cattura degli atti, la dittatura dei dati, il trionfo della quantità e le narrazioni sostitutive con cui esso si racconta. Analizzando le tendenze – l’autismo digitale, l’obesità tecnologica, l’ethos della quantità, lo smarrimento dei limiti – ci si interroga sulla differenza tra progresso sociale e progresso tecnologico.


La società artificiale. Miti e derive dell’impero virtuale, 2017.

Questo libro s’interessa delle implicazioni sociali dei nuovi strumenti digitali e del significato concreto che nella vita di relazione quotidiana, nella politica, negli stati di coscienza e nel mondo del lavoro espressioni come big data, profilazione predittiva, intelligenza artificiale, cloud, robot umanoidi, internet delle cose, vengono realmente a configurare. Più in generale questa esplorazione cerca di mostrare come “progresso sociale” e “tecnologie digitali” non siano affatto sinonimi. E anzi, come queste ultime innervino l’architettura di classe capitalistica invadendo e aggredendo dall’interno lo spazio vitale essenziale delle relazioni umane. Ben oltre la società industriale, la società dello spettacolo e la modernità liquida, la società artificiale ci mette dunque di fronte al germe accattivante e vorace di un nuovo totalitarismo. Un totalitarismo tecnologico che, a differenza di quelli ideologici del Novecento, invade e colonizza il luogo più “sacro” e fondamentale della libertà. D’altra parte, una matura consapevolezza di questa estrema deriva può essere anche il punto di partenza per un’ulteriore rimessa in discussione delle classi sociali e del destino di specie.


L’ algoritmo sovrano. Metamorfosi identitarie e rischi totalitari nella società artificiale, 2018.

Ripercorrendo le tappe salienti della colonizzazione della rete e delle identità virtuali dei suoi frequentatori, nella prima parte del libro si porta l’attenzione su alcuni dei dispositivi nascosti che stanno velocemente dissodando il terreno di una nuova e inedita deriva totalitaria. Nella seconda parte, si spinge lo sguardo sulle frontiere opache in cui gli Stati a più alta propensione digitale provano a difendere da questa sfida transumanista il loro stesso futuro, ma in una prospettiva cieca, “al rialzo”. Come in un incubo – documentato e niente affatto distopico – si profilano così i contorni di simil-democrazie dalle libertà sostanziali vacillanti in cui i cittadini, assoggettati biometricamente a un codice unico personale, si dispongono a riprodursi come cloni volontari di un algoritmo sovrano. Naturalmente, un’alternativa c’è ancora: prendere atto della nostra incompiutezza come specie e riportare la barra della nostra vita sociale anzitutto sui legami, sulle comunità istituenti e sulle relazioni faccia-a-faccia. Non “contro le tecnologie digitali” ma portando la critica direttamente alla radice del modo di produzione capitalistico che esse riproducono.


Il futuro colonizzato. Dalla virtualizzazione del futuro al presente addomesticato, 2019.

Dopo aver passato in rassegna i vari modelli di futuro che vengono avanzati dalle grandi aziende dell’oligarchia digitale, l’Autore si sofferma e s’interroga in particolare su alcuni fondamentali territori: le biotecnologie faustiane di intervento sul DNA; le ambigue previsioni sull’intelligenza artificiale; gli approcci disciplinari a cui si ispirano i nuovi paradigmi della sorveglianza; le ridefinizioni del lavoro – stretto tra l’obsolescenza di alcune sue figure novecentesche e l’emersione di nuove professioni dalla vita breve – e infine, le retoriche sulla necessità di un riallineamento dei cittadini al nuovo contesto digitale attraverso strategie di formazione lungo l’arco dell’intera vita. Nel contesto iper-capitalistico in cui viviamo, l’oligarchia digitale, assumendo nei fatti i propositi dell’ideologia transumanista, si è data l’obiettivo di colonizzare il pianeta, superando definitivamente i limiti dell’umano. A fronte di questa prospettiva, sembrerebbe urgente e necessario cominciare un percorso di decolonizzazione della rete e dell’immaginario.


Identità cibernetiche. Dissociazioni indotte, contesti obbliganti e comandi furtivi, 2020

Il paradigma della dissociazione identitaria, così come è stato posto da Janet sul finire dell’Ottocento e sviluppato da Hilgard, Ludwig, Lapassade e altri nel Novecento, si misura oggi con l’utilizzo dei più comuni dispositivi digitali da parte di un numero crescente di umani. La tesi sulla quale si incardina questo lavoro mette in luce una nuova forma di dissociazione adattativa, qui definita sdoppiamento digitale, indotta dal progressivo spostamento della vita di ciascuno dalle relazioni in presenza alle connessioni. Lavoro da casa, didattica a distanza, politica social-mediata, obbligando all’accesso a piattaforme e all’uso di dispositivi digitali, richiedono all’individuo di dissociarsi in una o più identità di connessione. Come queste identità siano vulnerabili a essere manipolate e, in prospettiva, comandate a distanza, riducendo progressivamente l’autonomia di pensiero e di azione, è il territorio su cui questo libro si affaccia per avviare una riflessione collettiva e un confronto con quanti si augurano che la tecnologia digitale possa un giorno essere messa al servizio degli umani, all’opposto di quanto oggi accade.

Renato Curcio – Introduzione al libro di Franco Del Moro, «Il dubbio necessario»: “Le persone che si adattano ad attività di pura sopravvivenza non raggiungono mai una piena realizzazione dei propri desideri, delle proprie capacità e aspirazioni: la vastità identitaria è la vera dimensione dell’esperienza umana nella creazione di nuovi mondi di senso”.
Renato Curcio – La materia più preziosa al mondo è l’anima degli umani, il loro immaginario. L’impero virtuale non è che la storia recente di una nuova e più insidiosa strategia di colonizzazione dell’immaginario.
Renato Curcio – Ben oltre la società industriale, la società dello spettacolo e la modernità liquida, la società artificiale ci mette dunque di fronte al germe accattivante e vorace di un nuovo totalitarismo. Sapremo scegliere o ci accontenteremo di essere scelti?
Renato Curcio – L’algoritmo sovrano. Metamorfosi identitarie e rischi totalitari nella società artificiale. Occorre riportare la barra della nostra vita sociale anzitutto sui legami, sulle comunità istituenti e sulle relazioni faccia-a-faccia. La critica va portata direttamente alla radice del modo di produzione capitalistico.

indicepresentazioneautoresintesi

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Livio Rossetti – Strategie macro-retoriche. Prefazione di Mauro Serra.

Rossetti Livio, Strategie macro-retoriche 01

Livio Rossetti, Strategie macro-retoriche.
Prefazione di Mauro Serra.
ISBN 978–88–7588-280-8, 2021, pp. 192, formato 130×200 mm, Euro 16 – Collana “Il giogo” [130].
In copertina: Joan Mirò, Il mio Alfabeto, 1972.


È strano che in una società invasa da forme di comunicazione sapiente e anche astuta (quindi insidiosa) qual è la nostra non si registri una congrua offerta di strumenti analitici sulle procedure cui è normale ricorrere in ogni momento.
In effetti, nel rivolgere la parola, nello scrivere o anche soltanto nel rispondere al telefono si manifestano moltissime scelte, alcune involontarie e altre consapevoli. Queste scelte delineano l’impostazione e il senso di ciò che io, per esempio, ho finito per dire o scrivere. Quindi parlano di me, del mio stato d’animo, dell’idea che mi ero fatta sul conto della persona o delle persone cui mi sono rivolto, dell’idea che mi ero fatta della situazione, di cosa credevo di fare e dei criteri che ho saputo adottare nel decidere cosa dire e come esprimermi, di cosa tacere, che cosa lasciare intendere etc. E a essere carica di tutti questi impliciti è ogni iniziativa comunicazionale, semplice o impegnativa che sia.
Per cercare di penetrare nei segreti della comunicazione e individuare anche ciò che transita sotto traccia, c’è poco da fare: bisogna attrezzarsi e prendere confidenza con cose così diverse come la ‘retorica dell’anti-retorica’, il feedback comunicazionale, la soglia critica, la saturazione, i meta-segnali e altro ancora. Questo libro fornisce l’apparato concettuale di cui c’è bisogno per mettersi a scavare in profondità.

Il nome di Livio Rossetti è facilmente associato alla filosofia greca – Socrate e Platone, Parmenide e Zenone – mentre non è intuitivo associarlo al tema della retorica, che è rimasta un filone leggermente in ombra della sua produzione scientifica. In effetti il volume sulle strategie macro-retoriche (1994), ora in seconda edizione, è nato a margine dei suoi studi sul dialogo socratico (alcuni dei quali figurano in Le dialogue socratique, Paris 2011) e avrebbe dovuto fornire le premesse concettuali per indagini più specifiche sull’insidiosa sapienza comunicazionale di Platone, indagini che però… devono ancora materializzarsi.
Docente di filosofia greca all’Università di Perugia per decenni, Rossetti ha pubblicato, da ultimo, Verso la filosofia: nuove prospettive su Parmenide, Zenone e Melisso (Baden Baden 2020), che si può considerare l’editio maior di Parmenide e Zenone sophoi ad Elea (in questa stessa collana, Pistoia 2020), mentre



Sommario

Questo libro

Prefazione di Mauro Serra

I. Iniziative comunicazionali, strategie comunicazionali e retorica

1. L’iniziativa comunicazionale
2. Individuare gli ‘incantesimi’ di ordine comunicazionale
3. Impostazione dell’iniziativa comunicazionale e forme di finissage
4. Progettare una iniziativa comunicazionali significa…
5. Identificare e analizzare l’impianto macroretorico

II. La formattazione dell ’unità comunicazionale

1.Una formattazione a molti livelli. Il feedback comunicazionale
2. Gli obiettivi da raggiungere

III. Ricettore ideale, distanza critica, dissimulazione. Il contratto comunicazionale

1. Lettore ideale e ricettore ideale. Il ruolo della dissimulazione
2. Contratto letterario e contratto comunicazionale. Il foedus iniquus

IV.  Gestione dell a soglia critica e forme di saturazione

1. Orizzonte di attesa, soglia critica e forme di saturazione
2. La pretesa di incidere sulla soglia critica
3. Risalire alla soglia critica prefigurata dal locutore

V. La comunicazione form attante. Il ‘sottotesto’

1. Farsi largo nella mente altrui; la pretesa di ‘comandare a casa nostra’
2. La semplificazione: grimaldello con cui si aggirano le difese altrui
3. Quando l’intreccio di contenuti epistemici e valori comunicazionali resiste all’analisi

VI. Formattazione e obsolescenza degli standard comunicazionali.
Come difendersi dall a formattazione sapiente?

1. Siamo sicuri che la magia dell’evento comunicazionale funzioni ancora?
2. Understatement, autoironia e ‘retorica dell’anti-retorica’
3. Le difese su cui possono contare i ricettori
4. Identificare il sovraccarico comunicazionale

VII. Conclusioni. Oltre la formattazione

Bibliografia

Appendice – Verso una rhetorica universalis

1. La mia comunicazione non è mai del tutto spontanea
2. Platone e la retorica degli altri
3. Le ossessioni dei moderni e le loro ‘aggressioni’ alla retorica
4. Oltre il mero arrocco. Nuovi aspetti della relazione retorica-filosofia nel Novecento
5.Verso una nuova idea di verità
6. Verso una nuova idea di retorica: la rhetorica universalis
Nota bibliografica

Soggettario

Indice dei nomi


Livio Rossetti – Parmenide e Zenone “sophoi” a Elea
Livio Rossetti – Rodolfo Mondolfo storico della filosofia antica
Livio Rossetti – Due falsI originali d autori di «qualità»: Enrico Berti (Arisotele) e Mario Vegetti (Platone).
Livio Rossetti – Anche i bambini pensano: tre modalità primarie di favorire lo sviluppo della filosofia germinale. Il libro di Dorella Cianci e Massimo Iiritano, «Pensare da bambini».

Livio Rossetti 01

Livio Rossetti

Parmenide e Zenone, sophoi ad Elea

Presentazione di Mariana Gardella Hueso.

ISBN 978-88-7588-256-3, 2020, pp. 160, Euro 15

indicepresentazioneautoresintesi

In questo Parmenide e Zenone sophoi a Elea Livio Rossetti ci propone una marcia di avvicinamento a due pensatori antichi di primissimo ordine. Il suo proposito è stato di lavorare su due ‘pezzi da museo’ che ci sono stati trasmessi pieni di polvere e di incrostazioni esegetiche, riportarli alla luce e tornare a osservarli da vicino.
Pretesa eccessiva? Non proprio, perché di Parmenide si sta riscoprendo solo ora lo stupefacente sapere naturalistico che pure formava parte integrante del suo poema, e di conseguenza il suo insegnamento richiede di essere visto da una prospettiva profondamente rinnovata. Quanto poi ai paradossi di Zenone, essi sono stati per lo più trattati come problemi da risolvere o calcoli da eseguire, senza considerare che Zenone avrà avuto interesse a idearli, non certo a risolverli e dissolverli. Quindi, anche qui, netto cambio di prospettiva.
L’autore ci invita dunque a guardare a questi due personaggi estremamente creativi senza pensare alle tradizioni interpretative, con la mente sgombra, con rinnovata curiosità. Lo fa con competenza, ma usando un linguaggio piano, cordiale, arioso, partendo dai luoghi e dal contesto. Avvicinarsi a quel mondo sarà una scoperta.


Un tuffo …

… tra alcuni dei  libri di Livio Rossetti …


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – Si devono riaprire «i chiostri de la verità» come diceva Giordano Bruno, abbandonando la «zona grigia» dei sopravvissuti in cui vorrebbero chiuderci i catalizzatori del consenso quando accettiamo la “menzogna conosciuta” come verità.

Giordano Bruno Verità
Gustav Klimt, Nuda Veritas, particolare.
Salvator Rosa (1615-1673), Allegoria della menzogna.

Salvatore Bravo

Si devono riaprire «i chiostri de la verità» come diceva Giordano Bruno,
abbandonando la «zona grigia» dei sopravvissuti in cui vorrebbero chiuderci
i catalizzatori del consenso quando accettiamo la “menzogna conosciuta” come verità.

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La pratica della menzogna conosciuta
In questi decenni difficili l’inaudito e l’osceno spesso sono il pane quotidiano, ma nulla accade, niente sembra portare effetti sostanziali nella prassi politica e comunitaria. La meraviglia panica innanzi a tale realtà-verità dovrebbe essere oggetto di una riflessione profonda da parte di uomini e donne di buona volontà che vivono la difficile pratica della verità. In un quadro storico apparentemente razionale, ma in realtà irrazionale, servile e malinconico, tutto sembra accadere, ma nulla cambia, non vi è prassi, ma solo abitudine ed indifferenza. L’informazione – con la sua abbondanza di fonti – rende possibile constatare che la verità degli accadimenti – narrati secondo la liturgia ufficiale – non è tale. Rppure sembra che la verità non emerga. Se si pone ascolto alle conversazioni comuni è palese che, in media, non si ha fiducia alcuna nella narrazione mediatica, eppure si finge di credere, e passivamente si torna alle attività quotidiane. La verità non è seppellita da sovrastrutture complesse, ma è dinanzi a noi. Anche quando si ha il sospetto che il racconto ufficiale non corrisponda al vero, nulla si fa per approfondirlo: lo si accetta per sopravvivere quietamente. In tale contesto raccontare la verità dei fatti di cronaca non sortisce risultato alcuno, difficilmente si ottiene il passaggio all’autocoscienza individuale e collettiva. I processi di riconfigurazione del reale storico non sembrano effettuarsi, si vive in una dimensione forse “assolutamente nuova”, in un limbo tra verità e “menzogna conosciuta”: si intravede forse la verità, ma si pratica la menzogna. Tale comportamento è divenuto ora di massa: i popoli si nutrono di questo nuovo veleno che penetra nel corpo delle istituzioni come nelle relazioni interpersonali, nelle parole e negli sguardi, creando una sostanziale sfiducia nella prassi. Si vive nella caverna platonica, pare volutamente. La verità e la “menzogna conosciuta” convivono senza procurare conflitti etici o lacerazioni interiori. La vita si riduce all’attimo presente. Si strappa l’attimo senza contestualizzarlo. Ci si accontenta di ritagliarsi attimi di vita (lasciando sullo sfondo l’ombra della verità) e si accetta la pratica della “menzogna conosciuta” o anche soltanto sospettata. Regna la divina indifferenza. Pertanto, ogni evento di cronaca – con le sue liturgie – resta confinato in un spazio e in un tempo sospeso, la vita continua senza che nulla accada. I recenti fatti di cronaca, la complessità pandemica, l’uccisione dell’ambasciatore in Congo sono eventi che vengono accettati secondo le liturgie ufficiali, pur sapendo che il vero non è detto. Eppure ciò non muove a ricercare, non attiva una azione autonoma di indagine alla ricerca della verità. Si assiste semplicemente all’ennesimo spettacolo in scena fingendo di credere allo spettacolo della menzogna.

Scenografia della menzogna
Primo Levi ci ha insegnato – in I sommersi e i salvati – la tragedia della contemporaneità, ci ha indicato una verità evidente che non possiamo ignorare e che può servirci come categoria per capire il nostro difficile presente: normalmente si sceglie di essere parte della zona grigia, ovvero la verità evidente è saputa, ma non ci si schiera, ci si limita a sperare di non cadere vittime della macchina della menzogna che uccide la verità come gli esseri umani. La zona grigia si globalizza. Sappiamo tutti che la finanza governa, che la politica è al servizio degli interessi superiori della finanza, che la democrazia – dapprima ridotta a semplice procedura senza sostanza – ora è sospesa anche nella sua pratica procedurale. Sappiamo che in Africa non muoiono martiri e santi, ma uomini e donne, che l’aziendalizzazione delle istituzioni privilegia i possidenti ed esclude dai servizi il popolo. I servizi sociali senza i quali i popoli sono plebi, sono “offerti” secondo una qualità associata al reddito, eppure nulla accade, benché l’ingiustizia sia evidente. La menzogna è trasmessa, secondo formule linguistiche, che ammiccano alla verità, e la trasformano in menzogna. Il linguaggio da casa dell’essere-verità è divenuto la casa della menzogna conosciuta. Si sopravvive in questa palude grigia, in cui gradualmente si diffonde un razzismo che classifica le genti secondo il censo, eppure si plaude al multiculturalismo, ai diritti individuali, ci si scandalizza dei feminicidi, la ritualizzazione è ascoltata, come se ci si credesse, sapendo che sono solo scenografie della menzogna. Mettere in atto processi genealogici di ricategorizzazione del reale significherebbe “responsabilità e coinvolgimento personale”. Si preferisce fingere di acconsentire alle versioni ufficiali, pur sapendo che mentono. Il potere crea catalizzatori di consenso, a cui si aderisce nominalmente, ma si ha il sentore che la ricostruzione è troppo semplice, troppo ripetitiva e che i fatti non possono essere spiegati con semplice logica manichea. Si finge di credere sperando di scampare al pericolo ed alla responsabilità personale: si sopravvive, perché la zona grigia è fatta di sopravvissuti.

Nichilismo passivo
Cercare la ragione profonda del successo della zona grigia è arduo, e ci si può spostare da cause storiche contingenti: la caduta del comunismo novecentesco, la lotta per la sopravvivenza nella globalizzazione liberista sfibra le energie, in quanto si deve lottare per difendere ciò che domani nella competizione potrebbe essere tolto, per cui l’atomocrazia – col suo carico di solitudine – diviene la normalità quotidiana. Vi è una realtà più profonda, forse, che rafforza l’indifferenza davanti alla verità sospettata e conosciuta ed alla pratica della menzogna, ed essa è che l’Occidente ha sostituito la verità con l’esattezza, per cui verità e menzogna sono equiparate, sono niente, perché l’esattezza numerica e scientifica ha divorato la verità, è stata la “cattiva maestra” dell’Occidente. L’esattezza è entrata nel cuore e nell’anima dell’Occidente, si è sviluppata una monomania collettiva: tutto è riportato alla sola quantità, pertanto non vi sono altre categorie razionali con cui disporsi e sentire gli accadimenti. Solo l’esattezza parla e muove all’agire. L’educazione all’imprenditorialità generalizzata ha tale fine ultimo, per cui se si uccide un intero continente per i suoi minerali che servono per l’informatica e l’energia pulita ciò è coerente con l’esattezza, e la realtà dello sfruttamento e della violenza non provocano scandalo. La verità è complessità logica, dialettica ed etica, per cui il potere domina perché la zona grigia è complice e vittima di questa diseducazione globale alla verità. L’aziendalizzazione delle istituzioni e della vita non provocano azioni e reazioni, perché l’esattezza esige che la vita sia normalmente mercificata, e le parole della mercificazione sono l’unico linguaggio dell’Occidente: la zona grigia sa che tale prassi è la verità, ma accetta l’esattezza come fosse l’unica strada percorribile, pur sapendo ed intuendo che tale modalità di vivere non rientra nel “bene”.

Ogni agire politico deve confrontarsi con il rischio di infrangersi contro l’esattezza, contro l’abitudine ad agire solo perseguendo interessi personali legati all’utile. Si può ipotizzare che quando gli ultimi residui di resistenza saranno trascesi, non si avranno più paradigmi per discernere e sospettare che le versioni ufficiali sono ideologiche. Si deve, affinché ciò non accada, lavorare per la verità, per riportare in luce la differenza tra verità e menzogna. Ancora una volta è la filosofia che può riportare la verità al centro del suo discorso gnoseologico ed ontologico, in modo che la democrazia divenga pratica e ricerca della verità, e non un ideale ideologico da usare per far accettare i “bombardamenti etici”, l’irrilevanza e l’omogeneità culturale come mezzo per privare persone e popoli della loro identità. Spetta a coloro che ascoltano la tragedia etica del presente riprendere il cammino verso la verità sapendo che non vi è certezza del risultato. Si devono riaprire «i chiostri de la verità»[1] come diceva Giordano Bruno nella Cena de le ceneri. Ognuno può dare il proprio contributo a tale operazione filosofica, nessuno è escluso. Siamo all’anno zero, pertanto bisogna cominciare da tale verità per capire il presente.

 

Salvatore Bravo

[1] Giordano Bruno, La cena de le ceneri, Einaudi Torino, 1995 p. 20.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Mario Lavaggetto (1939-2020) – C’è una coscienza di lettore, una coscienza ermeneutica che si misura con un’altra coscienza, «con la coscienza di un testo», e la tensione tra queste due coscienze porta inevitabilmente a disegnare un modello irriducibile al cerchio, ma che fa piuttosto pensare a un’ellisse.

Mario Lavaggetto 01

È indubbio che ogni epoca finisce per esercitare, se non una censura basata su codici tassativi e più o meno espliciti, almeno una deformazione congiunturale del testo. Un tempo si era soliti dire che il primo passo per una lettura adeguata di un’opera consisteva nel definirne il circolo ermeneutico: compito di un critico o di un lettore (suggeriva Leo Spitzer)[1] era quello di partire dalla periferia e di compiere in senso inverso, risalendo verso il centro, il percorso che era stato originariamente compiuto dal creatore. Una volta raggiunto il centro, si poteva ragionevolmente pensare di avere conquistato la verità dell’opera perché quella «verità», certa e rassicurante, esisteva e perché si riteneva che una strategia adeguata avrebbe permesso di conquistarne la chiave.

La fragilità del modello è risultata evidente appena si è messo in dubbio il postulato che l’opera in sé possedesse un significato unico, accertabile e metastorico, definito una volta per tutte dal suo creatore. Ci si è accorti allora che, nel corso della loro vita secolare, i testi sono stati sottoposti a una serie di deformazioni talvolta volontarie (come nel caso della censura), ma molto più spesso preterintenzionali e in nessun modo imputabili alla responsabilità del lettore. Il quale, anche quando si muove secondo i dettami della più rigorosa filologia, e – alle prese con un testo antico – utilizza con la massima attenzione e precisione il codice linguistico del tempo, non può elidersi, non può fare in modo che quel codice abolisca il suo codice. Ci sarà sempre, come ha detto Bachtin,[2] un inevitabile scarto linguistico che finirà col produrre deformazioni. C’è una coscienza di lettore, una coscienza ermeneutica che si misura con un’altra coscienza, «con la coscienza di un testo», e la tensione tra queste due coscienze porta inevitabilmente a disegnare un modello irriducibile al cerchio, ma che fa piuttosto pensare a un’ellisse.[3]

Mario Lavaggetto, Oltre le usate leggi. Una lettura del Decameron, Einaudi, Torino 2019, p. 26.

***

[1] L. Spitzer, Critica linguistica e storia del linguaggio, Laterza, Bari 1954, pp. 12 ss.

[2] M. Bachtin, Il problema del testo nella linguistica, nella filologia e nelle altre scienze umane, in Id., L’autore e l’eroe, Einaudi, Torino 1988, pp. 291 ss.

[3] M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Einaudi, Torino 1979, p. 24.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Arianna Fermani – La virtù rende buona la nostra vita e, insieme, la salva. Una vita felice, è, dunque, una vita che prospera, ma che pro­spera soprattutto grazie alla virtù, che sa produrre la bellezza e l’armonia. La virtù, in questo quadro, è e deve essere non solo qualcosa di teorizzato, ma qualcosa di “praticato”.

Arianna Fermani - Virtù


«[…] la virtù rende buona la nostra vita e, insieme, la salva, la sottrae alla distruzione e alla dismisura, le impedisce di cadere nell’eccesso, di dirigersi pericolosamente verso quegli estremi che, insieme, la rendono viziosa e la annientano.

Dare misura al proprio agire: è questo il compito impegnativo che si richiede a chi vuole agire virtuosamente. Ma in questa virtù come capacità di “dar misura” a se stessi e al proprio agire riemerge quel significato di virtù come forza che abbiamo ricordato precedentemente. Perché, per “darsi misura” occorre essere forti, nel duplice senso del “farsi forza” (per intraprendere il duro cammino in direzione del giusto mezzo) e dello “sforzarsi” (per contenere quella parte di sé che ci allontana da questo obiettivo). Come è stato detto «abbiamo bisogno della massima forza morale per combattere i nostri cattivi impulsi e tutte le nostre virtù in realtà consistono nell’evitare il vizio».[1] Talvolta, afferma lo stesso Aristotele, si tratta di forzare la propria natura. Esattamente come fa chi deve raddrizzare un legno storto:[2] lo spinge fortemente nella direzione contraria a quella che, a causa di un difetto, ha assunto, allo scopo di farlo diventare diritto. Così è per l’essere umano, naturalmente portato in una direzione piuttosto che in un’altra, incline per natura a compiere certe cose piuttosto che altre. E di questa inclinazione bisogna tenere conto, senza sottovalutare l’estrema difficoltà dell’impresa e senza irrigidirsi in schemi preconfezionati, limitandosi a scegliere, quando la situazione lo richiede, perfino il minore dei mali.[3]
Allora chi è virtuoso è retto e la sua rettitudine si manifesterà in ogni scelta, in ogni azione, in ogni modo di rapportarsi alle proprie passioni. In tale corretta amministrazione del pathos risiede, pertanto, il fondamento di una vita buona e bella, a livello individuale e anche a livello collettivo, in quanto la virtù rappresenta l’anello di congiunzione – di una congiunzione sana e feconda – tra l’individuo e il mondo: «l’ἀρετή umana è un’abi(tua)lità acquisita e perfezionata che ha origine e causa nel proponimento […], a sua volta tensionalità desiderante che proviene da bouleusis, una catena i cui anelli connettono, senza interruzioni, interiorità e relazionalità dell’essere umano, il quale è dalla nascita dotato di logos e propenso alla vita di comunità»[4] (pp. 43-44.).

«La virtù, insomma, ci rende armonici e rende bella, armonica ed equilibrata la nostra esistenza, dato che, come si ricorda nel Carmide: “una vita condotta con temperanza deve essere anche bella”.[5] È per questo che una vita senza virtù non può che essere costitutivamente eccessiva, sgraziata, brutta (pp. 47-48.).

«Una vita felice, è, dunque, una vita che prospera, ma che pro­spera soprattutto grazie alla virtù, che sa produrre la bellezza e l’armonia. Felice, infatti, può essere detta una vita armonica, una sinfonia ben eseguita, uno spartito ben suonato. Certo, però, che un modello di questo tipo si rivelerebbe niente più che un quadretto stucchevole se non tenesse conto di un fatto che, nella sua assoluta ordinarietà, risulta addirittura banale: la felicità si realizza nella vita umana e quindi è costretta a misurarsi, quotidianamente, con mille elementi disarmonizzanti. Primo fra tutti il dolore, la dissonanza esistenziale per eccellenza, e, con il dolore, tutta quella sterminata gamma di piccole e grandi disarmonie che ogni giorno abbruttiscono il quadro, guastano la melodia» (p. 52).

«La virtù, in questo quadro, è e deve essere non solo qualcosa di teorizzato, ma qualcosa di “praticato”, è e deve essere la cosa più importante, la cosa di maggior valore, ciò da cui ogni esistenza può essere resa bella e degna di ammirazione e senza cui, al contrario, tutto va in malora, la mescolanza si distrugge, in preda all’eccesso, alla dismisura, all’assenza di limiti» (p. 54).

Arianna Fermani, Virtù, Unicopli, Milano 2021

***

[1] J. N. Shklar, Ordinary Vices, Harvard University Press, 1984; trad. it. S. Sabattini: Vizi comuni, il Mulino, Bologna 1986, p. 276.

[2] «Instaurare nell’anima la medietà è un compito difficile, poiché comporta un vero e proprio “raddrizzamento” di quelle tendenze naturali. All’inclinazione verso il piacere occorre contrapporre una spinta di segno contrario, uno sforzo che viene paragonato a coloro che tentano di far diventare diritti i legni sorti» (Silvia Gastaldi, Le immagini della virtù. Le strategie metaforiche nelle Etiche di Aristotele, Edizioni dell’Orso, Alessandria 1994, p. 89).

[3] «Infatti uno degli estremi è più sbagliato, mentre l’altro lo è meno; e dal momento che è arduo cogliere perfettamente il centro, con una seconda navigazione, come dicono, si devono scegliere i mali minori; e questo potrà avvenire soprattutto nel modo che diciamo. E quindi si deve esaminare quali sono le cose per cui siamo portati. Infatti persone diverse sono portate, per natura, a cose diverse. Questo, d’altra parte, risulterà chiaro dal piacere e dal dolore che nascono in noi. Dobbiamo dunque spingerci nella direzione opposta; infatti allontanandoci molto dall’errore arriveremo al giusto mezzo, come fanno coloro che raddrizzano i legni storti… Certo, è difficile, e lo è soprattutto nei casi particolari; infatti non è facile stabilire come, con chi, per quali motivi e per quanto tempo arrabbiarsi; infatti anche noi, talvolta, lodiamo coloro che lo fanno troppo poco, e li chiamiamo miti, a volte, invece, lodiamo coloro che hanno un carattere duro e li chiamiamo virili. Ma mentre non è biasimato chi si allontana solo in piccola misura dal bene, né se devia verso il difetto né se lo fa verso l’eccesso, il contrario accade per chi si allontana in misura maggiore; infatti costui non passa inosservato. Non è facile stabilire col ragionamento fino a che punto e in che misura è degno di biasimo; infatti non lo è neppure nessun’altra delle cose sensibili; esse, infatti, rientrano nei casi singoli e il giudizio su di esse spetta alla sensazione. Tutto ciò mostra, quindi, che lo stato abituale intermedio è lodevole in tutti i casi, ma che a volte si deve tendere maggiormente verso l’eccesso e a volte verso il difetto; in questo modo, infatti, conseguiremo nel modo più facile il giusto mezzo e il bene» (Aristotele, Etica Nicomachea, II, 9, 1109 a 33-1109 b 26).

[4] F.C. Papparo, in G. Alicandro, Atletismo della virtù. Sulla φιλα in Aristotele, Edizioni ETS, Pisa 2018, pp. 24-25.

[5] Platone, Carmide, 160 B 9-10.


Sommario



Quarta di copertina

L’αρετή di un individuo, come pure quella di un animale o di una realtà inanimata, è per un greco la sua migliore realizzazione, la perfetta esecuzione del proprio compito; la virtù di un qualsiasi essere è ciò per cui ne va del suo valore, ciò che realizza quel determinato essere proprio perché lo fa essere “ciò che è”. Il volume attraversa le ricchissime nozioni di αρετή e di virtus, nel lungo e stratificato arco storico che va da Omero a Proclo, intrecciandole a questioni, altrettanto complesse e appassionanti, quali quelle di responsabilità dell’agire, vizio, piacere e dolore, vita felice e così via. In un serrato “corpo a corpo” con i testi e con le riflessioni degli antichi – che oltre che a parlare a noi, su queste tematiche, più che mai, parlano di noi – il testo è impreziosito da due strumenti utili ad orientarsi nei diversi profili, storici e concettuali, del tema d’indagine: Lessico delle virtù e Glossario delle virtù.




Arianna Fermani è Professoressa Associata in Storia della Filosofia Antica all’Università di Macerata. Le sue ricerche vertono principalmente sull’etica antica e, più in particolare, aristotelica, e su alcuni snodi del pensiero politico e antropologico di Platone e di Aristotele. È Membro dell’Associazione Internazionale “Collegium Politicum” e dell’ “International Plato Society”. È membro del Consiglio Direttivo Nazionale della SISFA (Società Italiana di Storia della Filosofia Antica), e Direttrice della Scuola Invernale di Filosofia Roccella Scholé: Scuola di Alta Formazione in Filosofia “Mario Alcaro”. È Presidente della Sezione di Macerata della Società Filosofica Italiana.

Ecco, cliccando qui, l’elenco delle sue pubblicazioni.


e, tra le molte pubblicazioni di Arianna Fermani:

Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele

Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele

Editore: eum, 2006

Il saggio si propone di riflettere sul modello classico del bios teleios, cioè della felicità della vita nella sua totalità, cercando di mostrare come il dialogo con gli antichi fornisca ancora “utili” schemi concettuali. Più in particolare si cerca di mostrare come il confronto con le riflessioni etiche di Platone e Aristotele permetta di dipanare i numerosi fili che costituiscono la trama di ogni esistenza umana (come i dolori, i piaceri, l’ampia gamma di beni e di risorse che la costituiscono), e di individuare alcuni rilevanti nodi concettuali (tra cui, ad esempio, quello di “misura”) che costituiscono la semantica della nozione di eudaimonia. Il modello antico di eudaimonia come eu prattein, inoltre, cioè come capacità strategica di “giocar bene”, sembra risultare particolarmente fecondo, invitando ad interrogarsi sulle modalità di attuazione della vita felice e sulla gestione di tutto ciò che ad ogni esistenza si offre per una “prassi di felicità”.

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L'etica di Aristotele

L’etica di Aristotele: il mondo della vita umana

Editore:Morcelliana, 2012

Utilizzando tutte e tre le Etiche aristoteliche, Arianna Fermani, con questo volume, offre un’ulteriore prova dell’attualità e utilità dell’etica dello Stagirita e di un pensiero che, esplicitamente e costitutivamente, mostra che ogni realtà “si dice in molti modi”. Gli schemi che l’intelligenza umana elabora devono essere molteplici e vanno tenuti, per quanto possibile, “aperti”. Questo determina la presenza di “figure” concettuali estremamente mobili e intrinsecamente polimorfe, figure che il Filosofo attraversa lasciando che i loro profili, pur nella loro diversità e, talvolta, persino nella loro incompatibilità, convivano.
La verifica di questa metodologia passa attraverso l’approfondimento di alcune nozioni-chiave, dando vita ad un percorso che, con proposte innovative e valorizzazioni di elementi finora sottovalutati dagli studiosi, si snoda lungo tre linee direttrici fondamentali: quelle di vizio e virtù, quella di passione e, infine, quella di vita buona.

Sommario

Ringraziamenti
Premessa
I “Pensiero occidentale” vs “pensiero orientale”: alcune precisazioni
II “Essere” e “dirsi in molti modi”
Introduzione
I. Per un “approccio unitario” ad Aristotele
II. Autenticità delle tre Etiche
III. Obiettivi e struttura del lavoro

PRIMA PARTE Percorsi di attraversamento delle figure di vizio e virtù
Capitolo primo: Giustizia e giustizie
Capitolo secondo: La fierezza
Capitolo terzo: Sui molti modi di dire “amicizia
Capitolo quarto: Lungo i sentieri della continenza e dell’incontinenza
Capitolo quinto: La philautia: tra “egoismo” e “amor proprio”
Capitolo sesto: Modulazioni della nozione di vizio

SECONDA PARTE: Percorsi di attraversamento della nozione di passione
Capitolo primo: La passione come nozione “in molti modi polivoca”
Capitolo secondo: Le metamorfosi del piacere
Capitolo terzo: Articolazioni della nozione di pudore

TERZA PARTE: Percorsi di attraversamento della nozione di vita buona
Capitolo primo: Dio, il divino e l’essere umano: sui molti modi di essere virtuosi e felici
Capitolo secondo: La questione dell’autosufficienza
Capitolo terzo: Natura/nature, virtù, felicità
Capitolo quarto: Verso la felicitàlungo le molteplici rotte della phronesis
Capitolo quinto: La felicità si dice in molti modi
Conclusioni
Bibliografia
Indice dei nomi

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Le tre etiche

Le tre etiche. Testo greco a fronte

Editore:Bompiani, 2008

In un unico volume e con testo greco a fronte le tre grandi opere morali di Aristotele: l’”Etica niconomachea”, l”Etica eudemia” e la “Grande etica”. Questi tre scritti rappresentano tutta la riflessione etica dell’Occidente, e il punto di partenza di ogni discorso filosofico sul fine della vita umana e sui mezzi per raggiungerlo, sul bene e sul male, sulla libertà e sulla scelta morale, sul significato di virtù e di vizio. La raccolta costituisce un unicum, poichè contiene la prima traduzione in italiano moderno del trattato “Sulle virtù e sui vizi”. Un ampio indice ragionato dei concetti permette di individuare le articolazioni fondamentali delle nozioni e degli snodi più significativi della riflessione etica artistotelica. Tramite la presentazione, contenuta nel seggio introduttivo, dei principali problemi storico-ermeneutici legati alla composizione e alla trasmissione delle quattro opere, e di un quadro sinottico dei contenuti delle opere stesse, è possibile visualizzare la struttura complessiva degli scritti e le loro reciproche connessioni.

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Platone e Aristotele

Platone e Aristotele. Dialettica e logica

Curatori: M. Migliori, A. Fermani

Editore:Morcelliana, 2008

Il confronto tra Platone ed Aristotele è stato interpretato, per lo più, come una opposizione tra modelli conoscitivi: da un lato la dialettica, intesa come il culmine del sapere, dall’altro la logica, intesa come l’insieme delle tecniche per ben argomentare, al di là delle pretese platoniche di una supremazia della dialettica. Ma ha ancora un fondamento filologico e storico questa contrapposizione? Un interrogativo che – nei saggi qui raccolti di alcuni dei più autorevoli interpreti del pensiero antico – mette capo a una pluralità di scavi, storiografici e teoretici. Scavi che invitano a una lettura dei testi platonici ed aristotelici nella loro complessità: emergono inaspettati intrecci e molteplici significati dei termini stessi di dialettica e logica in entrambi i pensatori. Non solo la dialettica platonica ha un suo rigore, ma la stessa logica aristotelica ha affinità, pur nelle differenze, con le procedure argomentative della dialettica. Una prospettiva ermeneutica che interessa non solo lo storico della filosofia antica, ma chiunque abbia a cuore le radici greche delle nostra immagine di ragione.

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Interiorità e animae

Interiorità e anima: la psychè in Platone

Maurizio Migliori, Linda M. Napolitano Valditara, Arianna Fermani

Vita e Pensiero, 2007

Il concetto di anima, una delle più grandi “invenzioni” del mondo greco, figura teorica che ha attraversato e segnato la storia dell’intero Occidente, trova in Platone il primo fondamentale inquadramento filosofico. Non si tratta solo di una tematica dal significato metafisico e religioso: nell’approfondire i molteplici temi che questo concetto attiva emergono naturalmente, già nel filosofo ateniese, tutte le questioni connesse alla spiritualità e allo psichismo umano, con le loro conseguenze etiche. In questo senso l’”anima” apre la strada a un infinito processo di approfondimento e di scoperta dell’interiorità del soggetto. Non a caso questo tema compare in molti testi platonici, in particolare nei dialoghi. Da questa prima elaborazione scaturirono luci e ombre, soluzioni di antichi problemi e nuove domande, di non meno difficile soluzione, anzi tanto complesse da essere ancora oggi messe a tema. Sui molteplici aspetti di queste tematiche filosofiche alcuni tra i maggiori studiosi di Platone si confrontano nel presente volume, avanzando proposte spesso assolutamente innovative, anche per quanto riguarda l’utilizzo di testi sottovalutati, o addirittura quasi ignorati dagli studi precedenti, con una dialettica che dà modo al lettore sia di verificare la capacità ermeneutica delle diverse impostazioni, sia di riscoprire la ricchezza del contributo platonico rispetto a problemi con cui lo stesso pensiero contemporaneo torna positivamente a misurarsi.

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Humanitas

Humanitas (2016). Vol. 1: L’inquietante verità nel pensiero antico.

Curatore: A. Fermani, M. Migliori

Editore: Morcelliana, 2016

Editoriale: I. BertolettI, “Humanitas” 1946-2016. Identità e trasformazioni di un’idea l’inquietante verità. La riflessione anticaa cura di Arianna Fermani e Maurizio Migliori M. Migliori, Presentazione F. Eustacchi, Vero-falso in Protagora e Gorgia. Una posizione aporetica ma non relativista M. Migliori, Platone e la dimensione umana del verol. Palpacelli, Vero e falso si apprendono insieme. Il vero e il falso filosofo nell’Eutidemo di Platonea. Fermani, Aristotele e le verità dell’etica G.A. Lucchetta, Dire il falso per conoscere il vero. Aristotele, Fisica ii 1, 193a7) F. Mié, Truth, Facts, and Demonstration in Aristotle. Revisiting Dialectical Art and Methoda. longo, I paradossi nell’Ippia minore di Platone. La critica di Aristotele, Alessandro di Afrodisia e Asclepioe. Spinelli, Sesto Empirico contro alcuni strumenti dogmatici del vero. Note e rassegne F. De Giorgi, Il dialogo nel pontificato di Paolo VI G. Cittadini, Filippo Neri. Una spiritualità per il nostro tempo.

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Il Simposio di Platone

Il ‘simposio’ di Platone

J. Rowe, Arianna Fermani

Academia Verlag, 1998

Cinque lezioni sul dialogo con un ulteriore contributo sul ‘Fedone’ e una breve discussione con Maurizio Migliori e Arianna Fermani; 27-29 marzo 1996, Università di Macerata, Dipartimento di filosofia e scienze umane, in collaborazione con l’Istituto Italiano per gli studi filosofici.

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Arianna Fermani, “Brividi di bellezza” e desiderio di verità

Arianna Fermani, “Brividi di bellezza” e desiderio di verità

“Brividi di bellezza” e desiderio di verità in Bellezza e Verità;
Brescia, Morcelliana, 2017; pp. 195 – 203

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rivista di

ARISTOTELE E I PROFILI DEL PUDORE

Arianna Fermani

Vita e Pensiero

Rivista di Filosofia Neo-Scolastica

Vol. 100, No. 2/3 (Aprile-Settembre 2008), pp. 183-202

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Studi su ellenismo e filosofia romana

Studi su ellenismo e filosofia romana

Curatori: F. Alesse, A. Fermani, S. Maso

Editore: Storia e Letteratura, 2017

In questo volume vengono raccolti cinque saggi sul pensiero filosofico greco nell’età romana. Le linee di ricerca qui proposte toccano nello specifico questioni attinenti alla filosofia stoica, a quella epicurea, a quella cinico-sofistica e all’aristotelismo di epoca imperiale.

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Thaumazein cop

Arianna Fermani,
Essere “divorati dal pentimento”.
Sguardi sulla nozione di metameleia in Aristotele

in THAUMÀZEIN; n. 2 (2014); Verona, pp. 225-246

Arianna Fermani,
Essere “divorati dal pentimento”. Sguardi sulla nozione di metameleia in Aristotele


Arianna Fermani – L’educazione come cura e come piena fioritura dell’essere umano. Riflessioni sulla Paideia in Aristotele
Arianna Fermani – La nostra vita prende forma mediante il processo educativo, con una paideia profondamente attenta alla formazione armonica dell’intera personalità umana per renderla libera e felice.
Arianna Fermani – L’armonia è il punto in cui si incontra e si realizza la meraviglia. Da sempre armonia e bellezza vanno insieme.
Arianna Fermani – VITA FELICE UMANA. In dialogo con Platone e Aristotele. il confronto con le riflessioni etiche di Platone e Aristotele permette di dipanare i numerosi fili che costituiscono la trama di ogni esistenza umana
Arianna Fermani – Divorati dal pentimento. Sguardi sulla nozione di metameleia in Aristotele
Arianna Fermani – Mino Ianne, Quando il vino e l’olio erano doni degli dèi. La filosofia della natura nel mondo antico
Arianna Fermani – Nel coraggio, nella capacità di vincere o di contenere il proprio dolore, l’uomo riacquisisce tutta la propria potenza, la propria forza, la propria dignità di uomo. Senza coraggio l’uomo non può salvarsi, non può garantirsi un’autentica salus.
Arianna Fermani – Fare di se stessi la propria opera significa realizzarsi, dar forma a ciò che si è solo in potenza. attraverso l’energeia, e nell’energeia, l’essere umano si realizza come ergon, si fa opera. Chi ama, nutrendosi di quell’energeia incessante che è l’amore, scrive la sua storia d’amore, realizza il suo ergon, la sua opera. È solo amando che un amore può essere realizzato, esattamente come è solo vivendo bene che la vita buona prende forma
Arianna Fermani – Recensione al volume di Enrico Berti, «Nuovi studi aristotelici. III – Filosofia pratica».
Arianna Fermani – «Vita felice umana. In dialogo con Platone e Aristotele». Si è felici perché la vita ha acquisito un orientamento, si è affrancata dalla sua nudità, dalla sua esposizione alla morte, dalla semplice sussistenza. Una vita dotata di senso. Felicità come pienezza, come attingimento pieno del ‘telos’ lungo tutto il tragitto della vita.
Arianna Fermani – «Senza la speranza è impossibile trovare l’insperato». La speranza “antica”, tra páthos e areté.
Arianna Fermani – Aristotele e l’infinità del male. Patimenti, vizi e debolezze degli esseri umani
Arianna Fermani – Quando il rischio è bello. Strategie operative, gestione della complessità e “decision making” in dialogo con Aristotele. L’assunzione del rischio e la sua adeguata collocazione all’interno di una vita “riuscita” implica la continua individuazione di priorità in vista della costituzione il più possibile armonica dell’esistenza.
Arianna Fermani – «Il concetto di limite nella filosofia antica». L’uomo non è dio, ma la sua vita può essere divina. Divina è ogni vita buona, ogni vita che sia stata ben condotta. Ogni vita umana si costruisce entro lo scenario del quotidiano, è fatta delle piccole cose di ogni giorno e di questa quotidianità si nutre.
Maurizio Migliori e Arianna Fermani – «Filosofia antica. Una prospettyiva multifocale». Questo volume aiuta a tornare, con stupore e gratitudine, alle feconde origini del pensiero occidentale, per guardare finalmente, con occhi nuovi, il mondo e noi stessi.
Arianna Fermani – Il messaggio di Socrate è di una attualità straordinaria. La filosofia, con Socrate, si incarna in uno stile esistenziale, e si esplica in quella insaziabile – e, insieme, appagante – fame di vita e ricerca di senso, che accompagnano il filosofo fino all’ultimo istante dell’esistenza
Arianna Fermani, Giovanni Foresta – «Dalle sopracciglia folte al percorso inarcato dalla rotta superiore dello sguardo, il tempo esprime monumento del vissuto tingendolo di bianco». È un mirare avanti, un protendersi anima e corpo verso il futuro. Questo perché la vera vecchiaia, lungi dall’essere l’età anagrafica, è la mancanza di entusiasmo, è lo spegnersi dei sogni e dei desideri.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Copertine e schede editoriali (281-290) – Valeria Biagi, Giampaolo Abbate, Claudia Baracchi, Enrico Berti, Barbara Botter, Matteo Cosci, Annabella D’Atri, Andrea Falcon, Arianna Fermani, Luca Grecchi, Alberto Jori, Diana Quarantotto, Monica Ugaglia, Carmelo Vigna, Marcello Zanatta, Luigi Ruggiu, Massimo Bontempelli, Marco Vannini, Maura Del Serra, Daniele Orlandi, José Jorge Letria, Mario Vegetti, Lapo Ferrarese.

281
Valeria Biagi, La Valle Bianca. Appunti per una rilettura del romanzo di Sirio Giannini. ISBN 978-88-7588-194-8, 2017, pp. 64, formato 130×200 mm., Euro 8. In copertina: Cava, foto di Antonio Silenzi.

282
Giampaolo Abbate, Claudia Baracchi, Enrico Berti, Barbara Botter, Matteo Cosci, Annabella D’Atri, Andrea Falcon, Arianna Fermani, Luca Grecchi, Alberto Jori, Diana Quarantotto, Monica Ugaglia, Carmelo Vigna, Marcello Zanatta, a cura di Luca Grecchi, Immanenza e trascendenza in Aristotele.
ISBN 978-88-7588-190-0, 2017, pp. 384, formato 140×210 mm., Euro 25 – Collana “Il giogo” [79]. In copertina: Statua in bronzo di Aristotele collocata nel cuore di Piazza Aristotele nella città di Salonicco in Grecia.

283
Luigi Ruggiu, Tempo Coscienza e Essere nella filosofia di Aristotele. Saggio sulle origini del nichilismo. Prefazione di Emanuele Severino.
ISBN 978-88-7588-186-3, 2017, pp. 496, formato 170×240 mm., Euro 35 – Collana “Il giogo” [80]. In copertina: Mosaico dello zodiaco e delle Quattro Stagioni. Ostia Antica, Magazzini. Dalla Necropoli di Porto all’Isola Sacra, Tomba 101.

284
Massimo Bontempelli, Gesù di Nazareth. Uomo nella storia. Dio nel pensiero. Prefazione di Marco Vannini. Postfazione di Giancarlo Paciello. ISBN 978-88-7588-188-7, 2017, pp. 160, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [81]. In copertina: Henri Matisse, Icaro, tavola a pochoir, pubblicata nel 1947 sulla rivista Jazz.

285
Maura Del Serra, L’albero delle parole. Con uno scritto di Domenico Segna: Lettera ad una professoressa delle scuole medie. ISBN 978-88-7588-184-9, 2017, pp. 64, formato 130×200 mm., Euro 10. In copertina: Elaborazione grafica del fotogramma di Andreas Kassel, 3XTonino, dedicato a Tonino Guerra.

286
Daniele Orlandi, T. Lettera ad una madre sul primo amore. Disegni di Sara Prebottoni.
ISBN 978-88-7588-180-1, 2017, pp. 432, formato 140×210 mm., Euro 20. In copertina: Sara Prebottoni, Afonie emotive. Disegno e composizione fotografica, 2017. Elaborazione grafica di Sara Bolletta.

287
Giorgio Mazzanti, Edi Natali, Diego Pancaldo, Roberto Presilla, Francesco Ricci, Antonella Spitaleri, Fausto Tardelli, La città tra idealità e realtà. A cura di Edi Natali.
ISBN 978-88-7588-182-5, 2017, pp. 160, formato 140×210 mm., Euro 15. In copertina: Allegoria ed Effetti del Buono e del Cattivo Governo, ciclo di affreschi di Ambrogio Lorenzetti (1338-1339), Palazzo Pubblico di Siena.

288
José Jorge Letria, Il deserto innominabile. Poesie. Testo portoghese a fronte. Cura e traduzione di Simonetta Masin.
ISBN 978-88-7588-192-4, 2017, pp. 96, formato 130×200 mm., Euro 10. In copertina: Salin de Giraud, Camargue. Fotografia di Simonetta Masin.

289
Mario Vegetti, Il coltello e lo stilo. Animali, schiavi, barbari e donne alle origini della razionalità scientifica. ISBN 978-88-7588-228-0, 2018, pp. 192, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “Il giogo” [82]. In copertina: Affresco raffigurante gli Istrumenta sciptoria. In quarta: bassorilievo del tempio di Esculapio di Atene.

 290
Lapo Ferrarese, Progresso scientifico e naturalismo nella concezione di Larry Laudan.
ISBN 978-88-7588-226-6, 2018, pp. 208, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “Il giogo” [83]. In copertina: Disegno di Leonardo da Vinci.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Marguerite Yourcenar (1903-1987) – «Moneta del sogno». I due principali elementi del libro, il sogno e la realtà, cessano di essere due entità distinte, pressoché inconciliabili, per fondersi maggiormente in quel tutto che è la vita.

Yourcenar Marguerite 029

Tanti incontri della nostra vita, tanti rapporti umani sono basati semplicemente sul fatto che si dà una moneta o una banconota a qualcuno in cambio di un francobollo o di un giornale, sanza sapere niente di quella persona.

Marguerite YourcenarAd occhi aperti.

Avevo subodorato l’atmosfera di viltà, compromesso o di prudenti silenzi da una parte, di rudi abusi di forza, di una smania di arrivismo, di quella piatta demagogia accostata alle realtà dell’arbitrario dall’altra, che è, o finisce per essere, l’aria irrespirabile di tutte le dittature»

Marguerite YourcenarAd occhi aperti.


Postfazione

di Marguerite Yourcenar

Una prima versione di Moneta del sogno, appena più breve, è apparsa nel 1934. L’opera attuale è ben più di una semplice ristampa o anche di una seconda edizione rivista e ampliata con brani inediti. Alcuni capitoli sono stati quasi interamente riscritti e a volte notevolmente sviluppati; in certi punti, i ritocchi, i tagli, le trasposizioni non hanno risparmiato quasi nessuna riga del vecchio libro; in altri, al contrario, grandi blocchi della versione del 1934 sono rimasti invariati. Per come si presenta oggi, il romanzo è quasi per metà una ricostruzione degli anni 1958-1959, ma una ricostruzione in cui il nuovo e il vecchio s’intrecciano a tal punto che è pressoché impossibile, persino per l’autore, distinguere in quale momento cominci l’uno e finisca l’altro.

Non solo i personaggi, i loro nomi, i loro caratteri, i rapporti reciproci, e lo sfondo in cui agiscono sono gli stessi, ma anche i temi principali e secondari del libro, la struttura, il punto di partenza degli episodi e il più delle volte il loro punto d’arrivo permangono immutati. Al centro del romanzo vi è sempre il racconto, per metà realistico, per metà simbolico, di un attentato antifascista a Roma nell’anno XI della dittatura. Come in precedenza, alcune figure tragicomiche più o meno legate al dramma o a volte affatto estranee a esso, ma quasi tutte più o meno consapevolmente in balia dei conflitti e degli slogan dell’epoca, si concentrano attorno a tre o quattro personaggi dell’episodio centrale. Al primo Moneta del sogno apparteneva anche l’intento di scegliere dei personaggi che a prima vista potrebbero sembrare sfuggiti da una Commedia, o meglio, da una Tragedia dell’Arte moderna, ciò al solo fine di porre subito in evidenza quanto ognuno di essi ha di più specifico, di più irriducibilmente singolare, e di lasciare quindi intuire quel quid divinum più essenziale della loro stessa persona. Lo slittamento verso il mito o l’allegoria era pressoché simile nelle due versioni, e ambiva ugualmente a confondere in un tutto unico la Roma dell’anno XI dalla nascita del fascismo e la Città in cui s’intreccia e si disfa in eterno l’avventura umana. Infine, la scelta di un mezzo volutamente stereotipato, quello della moneta che passa di mano in mano, per collegare tra loro episodi già imparentati dalla riapparizione degli stessi personaggi e dei medesimi temi, o dall’introduzione di temi complementari, esisteva già nella prima versione del libro, e la moneta da dieci lire rappresentava come qui il simbolo del contatto tra esseri umani sprofondati, ognuno alla propria maniera, nelle passioni e nella propria intrinseca solitudine. Quasi sempre, riscrivendo in parte Moneta del sogno, mi è capitato di dire, in termini a volte molto diversi, quasi esattamente la stessa cosa.

Ma, se è così, perché imporsi una ricostruzione tanto considerevole? La risposta è molto semplice. Nel corso della rilettura, alcuni brani mi erano parsi troppo deliberatamente ellittici, troppo vaghi, a volte troppo ornati, troppo contratti o troppo diluiti o anche, a volte, soltanto mal riusciti. Gli interventi che rendono il libro del 1959 un’opera diversa da quella del 1934 tendono tutti alla presentazione più completa, e dunque più minuziosa, di alcuni episodi, allo sviluppo psicologico più accentuato, a semplificare e a chiarire certi aspetti e, per quanto possibile, ad approfondirne e ad arricchirne altri. In diversi punti ho cercato di rafforzare la componente realistica, in altri quella poetica, il che alla fine è o dovrebbe essere la stessa cosa. I passaggi da un piano all’altro, le brusche transizioni dal dramma alla commedia o alla satira, frequenti nella prima versione, oggi lo sono ancora di più. Ai procedimenti già impiegati, narrazione diretta e indiretta, dialogo drammatico, e persino aria lirica, è andato ad aggiungersi in rarissime occasioni un monologo interiore che, lungi dal voler mostrare, come quasi sempre avviene nel romanzo contemporaneo, un cervello-specchio che riflette passivamente il flusso delle immagini e delle impressioni che scorrono, qui si riduce ai soli elementi basilari della persona, e pressoché alla semplice alternanza del sì e del no.

Potrei moltiplicare questi esempi, destinati a interessare chi scrive romanzi più di chi li legge. Mi sia almeno consentito di smentire l’opinione corrente secondo la quale riprendere in mano una vecchia opera, ritoccarla, a maggior ragione riscriverla in parte, è un’impresa inutile se non nefasta, inevitabilmente priva di slancio e di ardore. Al contrario, ho goduto dell’esperienza diretta e del privilegio di vedere questa sostanza fissata in una forma da così tanto tempo ridiventare duttile, di rivivere un’avventura da me immaginata in circostanze che neanche ricordo più, infine di ritrovarmi in presenza di certe vicende romanzesche come dinanzi a situazioni vissute in passato che, per quanto si possano esplorare ulteriormente, interpretare meglio o spiegare più diffusamente, non ci è più consentito cambiare. La possibilità di apportare all’espressione di idee o di emozioni che non hanno mai smesso di abitarci il beneficio di una più lunga esperienza umana, e soprattutto artigianale, mi è parsa un’occasione troppo preziosa per non essere accolta con gioia, e anche con una sorta di umiltà.

È soprattutto l’atmosfera politica del libro a non variare da una versione all’altra e così doveva essere, affinché questo romanzo ambientato nella Roma dell’anno XI restasse esattamente datato. Quei pochi fatti immaginari, la deportazione e la morte di Carlo Stevo, l’attentato di Marcella Ardeati, si collocano nel 1933, vale a dire in un’epoca in cui le leggi speciali contro i nemici del regime infierivano da alcuni anni, e molti attentati dello stesso genere contro il dittatore erano già avvenuti. Tutto ciò, d’altra parte, accade prima della spedizione in Etiopia, prima della partecipazione del regime alla guerra civile spagnola, prima dell’avvicinamento e del repentino asservimento a Hitler, prima della promulgazione delle leggi razziali e, beninteso, prima degli anni di confusione, di disastri, ma anche di eroica resistenza partigiana della seconda grande guerra del secolo. Era dunque importante non mescolare all’immagine del 1933 quella, ancora più cupa, degli anni che videro il compimento di ciò che il decennio 1922-1933 conteneva già in embrione. Conveniva lasciare al gesto di Marcella il suo aspetto di protesta pressoché individuale, tragicamente isolata, e alla sua ideologia quella traccia dell’influenza di dottrine anarchiche che, sino a tempi ancora recenti, hanno così profondamente segnato la dissidenza italiana; bisognava lasciare a Carlo Stevo il suo idealismo politico in apparenza superato e in apparenza futile, e al regime stesso quel presunto aspetto positivo e trionfante che a lungo ha costituito l’illusione non tanto, forse, del popolo italiano quanto dell’opinione pubblica straniera. Una delle ragioni per le quali Moneta del sogno è parso degno di una nuova edizione è che fu a suo tempo uno dei primi romanzi francesi (il primo, forse) a guardare in faccia la vacua realtà che si celava dietro la tronfia apparenza del fascismo nel preciso momento in cui tanti scrittori in visita nella penisola si compiacevano nell’incantarsi ancora una volta dinanzi al tradizionale pittoresco italiano o nel guardare ammirati ai treni che partivano in orario (almeno in teoria), senza degnarsi di conoscerne la destinazione.

Come tutti gli altri temi del libro, e forse anche di più, il tema politico si ritrova rafforzato e sviluppato nella versione attuale. L’avventura di Carlo Stevo occupa un maggior numero di pagine, ma tutte le circostanze indicate sono quelle che figuravano già brevemente o implicitamente nella prima edizione. Le ripercussioni del dramma politico sui personaggi secondari sono più marcate: l’attentato e la morte di Marcella sono commentati en passant (cosa che non accadeva in precedenza) non solo da Dida, la vecchia fioraia del quartiere, e da Clément Roux, il viaggiatore straniero, ma anche dalle due sole nuove comparse introdotte nell’economia del libro: la proprietaria del caffè e il dittatore stesso, che qui d’altronde permane essenzialmente qual era nel vecchio romanzo, un’ombra enorme proiettata sul contesto; ora la politica inebria l’alcolista Marinunzi quasi quanto la bottiglia. Infine, Alessandro e Massimo, ognuno alla propria maniera, si sono rinsaldati nella loro veste di testimoni.

Forse nessuno si stupirà che nella versione attuale la nozione del male politico giochi un ruolo più considerevole rispetto alla precedente, né che Moneta del sogno del 1959 sia più amaro o più ironico di quello del 1934, che già lo era. Ma, nel rileggere le nuove parti del libro come se si trattasse dell’opera di un altro, mi colpisce particolarmente che il contenuto attuale sia al tempo stesso un po’ più aspro e un po’ meno cupo, che alcuni giudizi sul destino umano siano forse un po’ meno categorici e tuttavia più definiti, e che i due principali elementi del libro, il sogno e la realtà, cessino di essere due entità distinte, pressoché inconciliabili, per fondersi maggiormente in quel tutto che è la vita. Le correzioni di pura forma non esistono. La sensazione che l’avventura umana sia ancora più tragica, se mai è possibile, di quanto già sospettassimo venticinque anni or sono, ma anche più complessa, più ricca, a volte più semplice, e soprattutto più strana di quanto avessi già tentato di dipingerla un quarto di secolo prima, è stata forse la ragione che più di ogni altra mi ha indotta a riscrivere questo libro.

Mount Desert Island, 1959

 

Marguerite Yourcenar, Moneta del sogno, Bompiani, 2017, pp. 191-196.


Quarta di copertina

Roma, 1933. Il romanzo italiano di una grande scrittrice

Considerato il romanzo italiano di Marguerite Yourcenar, “Moneta del sogno” è il racconto, in parte realistico e in parte simbolico, di un attentato antifascista nella Roma dell’anno XI della dittatura, in una giornata di primavera. Scritto nel 1933 e rielaborato interamente nel 1959, il romanzo si snoda in nove episodi intrecciati l’uno all’altro da una moneta d’argento da dieci lire che passa di mano in mano da un personaggio all’altro come in una messinscena teatrale o cinematografica. Iniziato durante una visita in Italia, durante la quale l’autrice fu spettatrice della Marcia su Roma e delle tensioni che seguirono il delitto Matteotti, “Moneta del sogno” si distinse fra tutte le opere letterarie dell’epoca per la forte presa di posizione contro l’immagine che la propaganda ufficiale dava del nostro paese e per l’intuizione dei fatti gravi e irrimediabili che incombevano sull’Europa. Un romanzo importante da un punto di vista letterario e politico, da scoprire o riscoprire oggi in una nuova traduzione che ne restituisce per intero tutta la potenza.


Marguerite Yourcenar (1903-1987) – Leggere la vita
Marguerite Yourcenar (1903-1987) – Costruire, significa collaborare con la terra. Ricostruire significa collaborare con il tempo.
Marguerite Yourcenar (1903-1987) – Ho sempre avuto fortissimo l’orrore del possesso, l’orrore dell’acquisizione, dell’avidità, della logica per cui la riuscita consiste nell’accumulare denaro.
Marguerite Yourcenar (1903-1987) – Aver ragione troppo presto equivale ad aver torto. Il vero luogo natio è quello dove per la prima volta si è posato uno sguardo consapevole su se stessi: la mia prima patria sono stati i libri.
Marguerite Yourcenar (1903-1987) – Il Tempo grande scultore. Dal giorno in cui una statua è terminata, comincia, in un certo senso, la sua vita.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Friedrich Hölderlin (1770-1843) – Vieni a placarmi questo caos del tempo come allora, delizia della musa, tu che concilî gli elementi tutti! Torna, viva bellezza, ai miseri cuori, alle mense inospiti, ai templi negletti, torna!

Friedrich Hölderlin07
Vieni a placarmi questo caos del tempo
come allora, delizia della musa, tu che concilî
gli elementi tutti! Dammi la pace con i tranquilli
accordi celesti, e unisci quel ch’è diviso,
finché la placida natura antica, fuori
dai fermenti del tempo, possente e serena
si levi. Torna, viva bellezza, ai miseri cuori,
alle mense inospiti, ai templi negletti, torna!
 
Friedrich Hölderlin, Diotima, vv. 1-8, 1797-1799

Friedrich Hölderlin, Diotima e Hölderlin, a cura di Enzo Mandruzzato, Adelphi, Milano 1995, vv. 1-8, 1797-1799.


Friedrich Hölderlin (1770-1843) – L’uomo che pensa deve agire, deve dispiegarsi. Egli può molto, stupenda è la sua parola che strasforma il mondo. Un potente anelito, con radici profonde, lo spinge verso l’alto.
Friedrich Hölderlin (1770-1843)– Dall’intelletto soltanto non può scaturire la filosofia, perché la filosofia è più della conoscenza limitata di ciò che esiste. Dalla ragione soltanto non può scaturire la filosofia, perché la filosofia è più della cieca pretesa di un progresso senza fine. Senza la bellezza dello spirito e del cuore, la ragione è soltanto come un supervisore.
Friedrich Hölderlin (1770-1843) – Quando un popolo ama il bello l’egoismo si scioglie. Se così non è, sempre più aridi e più desolati divengono gli uomini, cresce la sottomissione e con essa l’arroganza, l’opulenza cresce insieme alla fame e all’ansia per il cibo. Così il mondo intorno a noi diviene un deserto e il passato si sfigura in un cattivo auspicio per un futuro senza speranza.
Friedrich Hölderlin (1770-1843) – Dobbiamo uscire dalla pigra rassegnazione, dove non si vuole nulla, non ci sicura di nulla. L’originalità è intensità, profondità del cuore e dello spirito.
Friedrich Hölderlin (1770-1843) – Che cosa sono i secoli di fronte all’istante in cui due esseri si presagiscono e si accostano? Ancor prima che uno sapesse dell’altra, noi ci appartenevamo
Friedrich Hölderlin (1770-1843) – Il nobile porta i segni del destino sotto cui è sorto. Il bello assume di necessità una certa forma. Nessun uomo nella sua vita esteriore può essere ogni cosa nello stesso tempo. Per avere un’esistenza e una coscienza nel mondo è necessario determinarsi per qualche cosa.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Laura Venturi – Recensione per un evento che non ha avuto luogo

Teatri chiusi per covid

Laura Venturi

Recensione per un evento che non ha avuto luogo


La serata è più silenziosa del solito, mi preparo con la radio spenta e la fantasia accesa. Prendo un vestito sobrio e particolare al tempo stesso, mi immagino indossarlo bevendo un prosecco al bar del teatro. Che anche questo fa parte della serata in fondo, penso, quasi a giustificare questa immagine. Un prosecco, il bar, le persone … stasera stranamente mi soffermo su questo tipo di dettagli, quando penso alle ore che mi aspettano. Ho un tuffo al cuore e mi manca quasi il respiro quando immagino la fila all’ingresso, quel cauto camminare cercando di controllare la voglia di entrare nella hall calda e liberarsi del peso della giacca, quel cercare di mantenere un’elegante distanza dall’ospite che ci precede, pur riuscendo ad annusare distintamente il profumo emanato dalla sua sciarpa.


Il saluto alla maschera che controlla i biglietti: gli chiederò da che parte debba dirigermi per trovare il mio posto, anche se lo so benissimo, tanta è la voglia di parlare. Di vedere mani che indicano, gesticolano, che prendono il mio biglietto tra le dita e me lo restituiscono e per spiegare ancora una cosa me lo sottraggono nuovamente per poi consegnarmelo un’ultima volta, sfiorandomi perfino il dorso della mano. Immagino poi la fila al bar, immagino di guardare con benevolenza il cameriere mentre tocca i contanti e poi tocca la mia brezel e poi di nuovo le banconote e poi ancora il cibo altrui, senza guanti e senza rimedio, con allegria e noncuranza. Qualcuno mi pesta un piede per sbaglio, tanto ci tiene al vassoio con le quattro birre che deve ritirare, si gira e si scusa, con una risata di cui sento il vento sulla guancia. Gli sorrido, inalando il suo buonumore.


Quando trovo il mio posto le luci della sala sono ancora accese. Dopo pochi secondi che mi sono seduta arrivano quattro persone che desiderano raggiungere le loro poltrone più avanti nella stessa fila. Mi sorridono, come si sorride a teatro quando si desidera raggiungere una poltrona più avanti nella stessa fila. Sorrido anche io e mi alzo, mi schiaccio contro la mia poltrona chiusa, loro si schiacciano contro la fila davanti, ma il loro fondoschiena struscia contro le mie cosce e il mio addome. Questa stessa scena avrà luogo ancora quattro, cinque volte. Poi potrò stare seduta un po’ più a lungo, prima di dovermi alzare l’ultima volta per far passare la signora che siede alla mia destra. Quella davanti a me indossa un vestito azzurro spento con uno scollo sulla schiena. Il collier argento e i capelli biondi raccolti si gonfiano e sgonfiano con ogni suo respiro, la pelle è dorata e mi sembra di percepirne la tiepida aura profumata.


Poi le luci si spegneranno, e succede che si sentono più forti i respiri, le parole, le risate, quando è buio e sta per cominciare la magia. Si sente la vicinanza, si sente l’energia della folla pronta al miracolo, si sente la sintonia dell’attesa.

Ma intanto attendo, attendo che il tassista raggiunga il teatro. Gli biascico qualche battuta ma non mi sente, la mia voce non riesce a superare la barriera di plexiglass posta tra i sedili posteriori e quelli anteriori. Allora mi ricordo di quell’altra sera, che forse dovrei chiamare mattina, erano le 4 circa, dopo la serata di tango. Salgo sul taxi e il tassista turco mi fa mille domande sulla serata, ha sentito parlare della folle milonga berlinese di Kreuzberg e vuole sentire che ne penso. Gli piace la danza, ma se ne occupa indirettamente dice lui, lui suona il saz e gli altri ballano. Se suona bene, ballano di gusto. Tu hai ballato di gusto, osserva, chiudendo il finestrino “perché sennò ti ammali, sei tutta bagnata”. E sì, ero tutta bagnata, del mio sudore e di quello delle decine e decine di persone che avevano ballato dentro l’aria tropicale della stanza dal pavimento rosso. Abbiamo riso, con quel tassista, mi ha concesso di fumare nella sua macchina, mi ha offerto una birra, ne aveva diverse lì, gli ho detto va bene, ma accosta che ce la fumiamo insieme questa sigaretta, in onore della musica e del ballo.


Contatto, promiscuità dell’anima, Berlino è la città perfetta, anche per quella del corpo, ma quella sera è stata così, ore di danze sfrenate, una sigaretta col tassista, poi ancora quattro chiacchiere con una che, povera anima, anche lei con il cane che doveva pisciare alle 5 del mattino. Il tassista frena e accosta, siamo arrivati davanti al teatro. Sono contenta, pago e scendo, lui riparte.


La piazza è deserta, il teatro è chiuso. Ci sono dei cartelli davanti, non descrivono la prossima produzione, bensì il funzionamento dei tamponi. Il teatro è diventato un grande mercato di tamponi rapidi. Ma a quest’ora no purtroppo, quasi penso che sarei entrata comunque, pur di entrare.


Mi sento chiusa fuori dal calore che ho immaginato. Penso alle persone che non vedrò, penso all’arte di cui non farò esperienza. Sono impalata davanti al portone chiuso, quando avverto come un alito di vento alle mie spalle. Non oso girarmi. Lo sento di nuovo, e insieme individuo come un sussurrio. Le voci si fanno gradualmente più forti. Declamano, piangono, ridono, urlano, sussurrano, scherzano. Virtuosamente modulano toni e modi dei mille personaggi che sono rimasti chiusi fuori dal teatro. Anche il vento è aumentato nel frattempo, e nella piazza deserta distinguo il frullio di piroette, salti, attese e rincorse. Alzo gli occhi e davanti dietro e intorno al teatro scopro centinaia di frammenti di scenografia, tele e pezzi dei panorami più esotici che camuffano l’edificio dentro al quale dorme il palcoscenico.

Laura Venturi


Laura Venturi – Gentian Doda in «Was bleibt». Sei solo, ma non puoi ignorare ciò che ti circonda.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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