Pier Paolo Pasolini (1922-1975) – La forma della città. Sì, ho scelto come tema la forma di una città, il profilo di una città, la massa architettonica della città che è incrinata, è rovinata, è deturpata da qualcosa di estraneo.

Pier Paolo Pasolini - La forma della città

Pierpaolo Pasolini

La forma della città

video RAI, durata 15 min., 1973
 
 
 – Io ho scelto la città, la città di Orte, cioè praticamente ho scelto come tema la forma di una città, il profilo di una città. Ecco, quello che vorrei dire è questo: io ho fatto un’inquadratura che prima faceva vedere soltanto la città di Orte nella sua perfezione stilistica, cioè come forma perfetta assoluta […]; basta che io muova questo affare qui nella macchina da presa ed ecco che la forma della città, il profilo della città, la massa architettonica della città è incrinata, è rovinata, è deturpata da qualcosa di estraneo.
– Quella casa che si vele lì a sinistra, la vedi?
[…]
Tante volte siamo andati a girare fuori dall’Italia, in Marocco, in Persia, in Eritrea, e tante volte avevo il problema di girare una scena in cui si vedesse una città nella sua completezza, nella sua interezza, e quante volte mi hai visto soffrire […] perché questo disegno, questa purezza assoluta della forma della città era rovinata da qualcosa di moderno, da qualche corpo estraneo che non c’entrava con questa forma della città, con questo profilo della città […].
 
Siamo adesso di fronte ad Orte da un altro punto di vista […]. Se la inquadro vedo un totale ancora più perfetto di quello di prima cioè la forma della città è proprio nella sua perfezione massima […] Infatti la città, da questo punto di vista all’estrema destra, finisce con uno stupendo acquedotto […] e immediatamente attaccate all’acquedotto ci sono altre case moderne dall’aspetto non dico orribile ma estremamente mediocre […] case […] che lì sono un altro elemento disturbatore della perfezione della forma della città di Orte […] Ora, che cos’è che mi dà tanto fastidio […] di quelle povere case popolari? […] è il fatto che appartengano a un altro mondo, hanno caratteri stilistici completamente
diversi da quelli dell’antica città di Orte e la mescolanza delle due cose infastidisce […] mi disturba particolarmente. […] Perché questo non è un difetto solo italiano, ma è un difetto di tutto il mondo.
[…] Il vero fascismo è allora proprio questa società dei consumi che sta distruggendo l’Italia, e questa cosa è avenuta così rapidamente in questi cinque, sei, sette, dieci anni, che non ce ne siamo resi conto […] questa specie di incubo […].
 
Pier Paolo Pasolini

Pier Paolo Pasolini – Amo la vita
Pier Paolo Pasolini (1922-1975) – Marilyn. Quella bellezza l’avevi addosso umilmente
Pier Paolo Pasolini (1922-1975) – Il potere di oggi manipola i corpi in un modo orribile. Li manipola trasformandone la coscienza, cioè nel modo peggiore, con valori alienanti e falsi, i valori del consumo, che compiono quello che Marx chiama un genocidio delle culture viventi.
Pier Paolo Pasolini (1922-1975) – Nel teatro la parola vive di una doppia gloria, mai essa è così glorificata.
Pier Paolo Pasolini (1922-1975) – La società dei consumi ha profondamente trasformato i giovani. Non si tratta più, come all’epoca mussoliniana, di una irreggimentazione scenografica, ma di una irreggimentazione reale che ha rubato e cambiato loro l’anima. Questa ‘civiltà dei consumi’ è una civiltà dittatoriale.
Pier Paolo Pasolini (1922-1975) – L’Italia sta marcendo in un benessere che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo: prestarsi in qualche modo a contribuire a questa marcescenza è, ora, il fascismo.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Ivan Illich (1926-2002) – La dipendenza dall’abbondanza castrante, una volta radicata in una cultura, genera la “povertà modernizzata”. Nella velocità, niente resta, niente è assaporato, niente è conosciuto. Velocità e calcolo sono due aspetti dello stesso silenzio infecondo che minaccia ogni vita.

Ivan Illich 005
Salvatore Bravo
Nella velocità, niente resta, niente è assaporato, niente è conosciuto.
Velocità e calcolo sono due aspetti dello stesso silenzio infecondo che minaccia ogni vita

 

 

Accelerazioni e crisi
L’accelerazione del tempo è uno degli aspetti fondanti del capitalismo assoluto. Lo spazio ed il tempo scompaiono sotto i colpi dell’accelerazione. Niente è vissuto con pienezza, ma molto è vissuto in modo epidermico. Non si tocca nessuna profondità, ma ogni realtà è consumata a ritmi sempre più esponenziali fino a ridursi a presenza nominale. Il nichilismo dello spazio e del tempo è l’effetto delle forze che esigono l’accelerazione dei tempi di spostamento come dei tempi di consumo in nome dell’economicismo. Tutto scompare nella velocità, niente resta, niente è assaporato, niente è conosciuto. L’alienazione tecnocratica è assoluta, poiché non è possibile sviluppare il senso dell’appartenenza in nessun luogo, e nello stesso tempo la precarietà frammenta l’io in innumerevoli ruoli, senza unità.
L’accelerazione ha una doppia valenza: controlla riducendo ogni realtà a numero con precisione maniacale, spinge alla produzione veloce a cui corrisponde un ritmo sempre più nichilistico di consumo. Il calcolo di precisione è la grande rete in cui ingabbiare il mondo. Velocità e calcolo sono due aspetti dello stesso silenzio infecondo che minaccia ogni vita. La struttura economica è nel segno della nullificazione, programma ogni esperienza in funzione del risultato immediato senza mediazione dialettica.
La crisi non è, in tale contesto, solo un metodo di governo, è la sua verità: la contemporaneità presa dal vortice della produzione decreta la crisi perenne quale elemento essenziale della struttura economica e culturale: la competizione globale e l’iperproduzione esigono che vengano annichilite culture, lingue e prodotti, posti sullo stesso piano, per produrre nuovi prodotti a cui è annesso un nuovo modello di vita che deve bruciare i precedenti. La modernità è in nome della distruzione, risponde ad un imperativo categorico perverso che prescrive di trasformare ogni ente in mezzo per germinare nuovi mezzi. Il regno dell’estraniazione si solidifica nella disintegrazione continua di forme:

«La crisi intesa come necessità di accelerare non solo mette più potenza a disposizione del conducente, e fa stringere ancora di più la cintura di sicurezza dei passeggeri; ma giustifica anche la rapina dello spazio, del tempo e delle risorse, a beneficio delle ruote motorizzate e a detrimento delle persone che vorrebbero servirsi delle proprie gambe. Ma “crisi” non ha necessariamente questo significato. Non comporta necessariamente una corsa precipitosa verso l’escalation del controllo. Può invece indicare l’attimo della scelta, quel momento meraviglioso in cui la gente all’improvviso si rende conto delle gabbie nelle quali si è rinchiusa e della possibilità di vivere in maniera diversa. Ed è questa la crisi, nel senso appunto di scelta, di fronte alla quale si trova oggi il mondo intero».[1]

 

Il capitalismo, mentre offre i suoi prodotti ed i suoi modelli, sottrae la possibilità di capire i fini, impedisce ai tempi del pensiero di valutare il presente ed il passato e di orientarsi verso il futuro: l’abbondanza promessa sottrae all’essere umano la sua natura comunitaria e pensante, mentre propone il suo irraggiungibile Eden.

 

Unità di misura
Il paradigma che si cela dietro la crisi e la pone è l’assimilazione di ogni realtà al solo parametro della quantità. Quest’ultima è valutata in termine positivi solo se vi è l’accrescimento, il progresso coincide con la quantità. Ciò che può essere quantificato deve rientrare tra le realtà percepibili-manipolabili, mentre ciò che sfugge al conteggio è inesistente. Le realtà socialmente valutate come positive sono quelle che possono aumentare la loro visibilità e la loro quantificazione. L’invisibile non è valutabile, si struttura l’avversione ideologica alla vita psichica e spirituale, poiché sfuggono al controllo. L’omogeneizzazione degli esseri umani è il mezzo con cui si vuole sterilizzare l’invisibile e il logos per addomesticarli. Gli appelli continui ed ossessivi al corpo – che perennemente deve consumare e godere all’infinito – rientrano in un disegno ideologico organico all’economia ed un preciso disegno riorganizzativo della società in una collettività formicaio del consumo.
La coscienza è una variabile non produttiva in tale sistema, non è visibile e non è mercificabile, è oggetto di “pubblica scomunica”. L’essenziale, ovvero la coscienza, che pone la realtà storica per progettarla secondo finalità etiche e politiche cade nel pozzo della dimenticanza. Al suo posto campeggia la violenza della merce che deve cancellare dallo sguardo con la prassi ogni manifestazione dell’umano. L’antiumanesimo è la cifra del capitalismo:

«L’attuale società industriale organizza la vita in funzione delle merci. Le nostre società ad alta intensità di mercato misurano il progresso materiale dall’aumento di volume e di varietà delle merci prodotte. E sull’esempio di questo settore, noi misuriamo il progresso sociale dal modo in cui è distribuito l’accesso a tali merci. La scienza economica è diventata un’attività propagandistica volta a favorire la supremazia delle grandi industrie produttrici di beni di consumo. Il socialismo è stato svilito a lotta contro la disparità nella distribuzione, e l’economia del benessere ha identificato il bene pubblico con l’abbondanza (l’abbondanza umiliante di cui gode il povero negli ospedali, nelle prigioni e nei manicomi degli Stati Uniti)».[2]

 

Economia della sottrazione
La società dell’abbondanza si connota come una società organizzata per sottrarre autonomia, l’abbondanza cela tra le sua pieghe la dipendenza dalla merce e dagli specialisti. L’abbondanza delle merci sottrae energia creativa, annichilisce la consapevolezza di poter produrre per il bisogno personale beni di prima necessità. Dietro le insidie del comodo approvvigionamento di ogni bene vi è lo scopo di rendere ogni cittadino suddito della distribuzione del mercato, e dunque, incapace di produrre i veri beni di cui quotidianamente necessita. La produzione autonoma di alcuni beni ha un valore economico, ma specialmente formativo e politico, poiché l’autonomia insegna ad essere parte attiva nella produzione consapevole, educa a progettare il proprio tempo liberandolo dalla tirannia del mercato e dai suoi prodotti preconfezionati. La soggettività rafforza il proprio “io” nella scelta, nella produzione concreta e nella collaborazione:

«La dipendenza dall’abbondanza castrante, una volta radicata in una cultura, genera la “povertà modernizzata”. Si tratta d’una forma di disvalore che non può non accompagnarsi alla proliferazione delle merci. Questa disutilità crescente della produzione industriale di massa è sfuggita all’attenzione degli economisti perché non è rilevabile con i loro strumenti di misura, e a quella dei servizi sociali perché non può essere oggetto di “ricerca operativa”. Gli economisti non dispongono di alcun mezzo efficace per comprendere nei loro calcoli la perdita che subisce l’intera società quando resta priva d’un tipo di soddisfazione che non ha un equivalente commerciale; sicché gli economisti si potrebbero oggi definire come i membri di una confraternita aperta soltanto a coloro che, nello svolgimento del lavoro professionale, danno prova d’una ben addestrata cecità sociale nei riguardi del più importante fenomeno di sostituzione che stia avvenendo nei sistemi contemporanei, d’Oriente come d’Occidente: il declino della capacità personale di agire e di fare, che è il prezzo pagato per ogni sovrappiù di abbondanza di prodotti».[3]

 

Non secondaria è la soddisfazione relativa ai gesti relativi alle fase della produzione. Consumare passivamente causa un’emozione fugace, mentre l’essere padroni di ogni fase consolida la gioia di esserci, ci si sente radicati in un’attività liberamente scelta e ciò non può che liberare dalla frustrazione della passività. Nei conteggi degli economisti non rientrano tali variabili, poiché sono organici al mercato, sono la voce che deve confermare le dinamiche in atto senza dare ad esse nessuna prospettiva e critica.

 

Il nuovo clero
Il mercato è sostenuto dal nuovo clero dei professionisti che attualizzano la religione del mercato. Normalizzano i dissenzienti, in particolare, lavorano per la dipendenza dal loro oracolo professionale. Il nuovo suddito del mercato è, così, dipendente dal mercato per la produzione, e dal clero annesso per la soluzione di eventuali disagi esistenziali. Il clero dei professionisti vende le proprie ricette organiche al mercato, ha lo scopo di curare i sintomi lasciando incancrenire la patologia. Personalità fragili ed aggressive divengono la norma della società di mercato: nessuno osa deviare dai dogmi prestabiliti, e ciascuno cerca di essere un clone dell’altro:

«Come un clero assicura la salvezza a chi si mette al seguito del re unto, così una professione interpreta, tutela e garantisce uno speciale interesse terreno ai seguaci dei moderni sovrani. Il potere professionale è una forma specializzata del privilegio di prescrivere ciò che è giusto per i terzi e di cui essi hanno perciò bisogno. È la fonte del prestigio e del controllo nel quadro dello Stato industriale. Ovviamente questo tipo di potere poteva nascere soltanto in società dove la stessa appartenenza all’élite è legittimata, se non acquisita, dalla condizione professionale: una società dove alle élites governanti si attribuisce un’obiettività unica nel suo genere, quella di definire il rango morale di una carenza. Esso è perfettamente congruo con un’epoca nella quale persino l’accesso al parlamento, ossia alla camera della gente comune, è riservato di fatto a coloro che possiedono un titolo di studio adeguato, ottenuto accumulando capitali di sapere in qualche istituto d’istruzione superiore. L’autonomia professionale e la licenza di stabilire i bisogni di una società sono le logiche forme che l’oligarchia assume in una cultura politica dove all’attestato di censo si sono sostituiti i certificati di patrimonio di sapere rilasciati dalle scuole. Il potere che le professioni conferiscono all’opera dei loro membri è dunque distinto sia per portata sia per origine».[4]

 

La dipendenza dai professionisti è rafforzata dalla sacra unzione dei titoli e delle scuole che riproducono l’oligarchia al potere. La scuola diviene non un luogo di libera formazione, ma di riproduzione dell’ideologia imperante. I professionisti divengono figure taumaturgiche, e come tali, indiscutibili, la loro parola è sempre più simile alla parola dell’officiante nella messe, quando parlano, vi dev’essere un religioso silenzio:

«La trasformazione di una professione liberale in professione dominante equivale all’istituzione di una chiesa ufficiale di Stato. I medici tramutati in biocrati, gli insegnanti divenuti gnoseocrati, gli impresari di pompe funebri assurti a tanocrati sono assai più simili a ordini ecclesiastici mantenuti dallo Stato che a corporazioni di mestiere. Il professionista, in quanto maestro che insegna ciò che è conforme all’ortodossia scientifica del momento, rappresenta un teologo. In quanto imprenditore morale, fa la stessa parte del prete: crea il bisogno della propria mediazione. In quanto soccorritore militante, svolge il ruolo del missionario e bracca il diseredato. In quanto inquisitore, mette fuori legge l’eretico: impone la propria soluzione al recalcitrante che non vuole ammettere di essere un problema».[5]

 

Automatismi
Il sistema diviene un corpo meccanico in cui le domande si obliano, esso funziona meccanicamente, si autoriproduce, poiché l’invisibile (la coscienza) è stata tacitata, al suo posto il funzionamento è dato a protocolli e programmi che riducono la vita a poche variabili e ciò favorisce il dogmatismo riproduttivo. Illich, per denunciare l’assurdo di tale modello, riporta l’esempio delle centrali nucleari che accumulano energia finalizzata ad una produzione che ha perso il suo senso. L’antiumanesimo diviene palese in tale cecità teleologica. La critica ad esse si sofferma solo sulla pericolosità ecologica, ma non mette in discussione il sistema, l’accumulo energetico è finalizzato, a prescindere dai mezzi di produzione, all’accrescimento del mercato, vera tragedia della contemporaneità:

«L’opposizione alle centrali nucleari, per esempio, è stata generalmente motivata col pericolo delle radiazioni o col rischio di un’eccessiva concentrazione di potere nelle mani dei tecnocrati: ma ben di rado, finora, si è osato criticarle per il loro apporto alla già eccessiva quantità di energia disponibile. Misconoscendo il fatto che tale sovrabbondanza di energia è socialmente distruttiva in quanto paralizza l’azione dell’uomo, si continua a reclamare una produzione energetica semplicemente “diversa” anziché, come si dovrebbe, “minore”. Allo stesso modo sono ancora largamente ignorati gli inesorabili limiti alla crescita che sono insiti in qualunque ente erogatore di servizi; eppure dovrebbe essere ormai evidente che l’istituzionalizzazione della cura della salute tende a trasformare le persone in marionette malate e che l’educazione a vita non può che generare una cultura buona per gente programmata. L’ecologia potrà fornire un punto di riferimento nel cammino verso una forma di modernità vivibile solo quando ci si renderà conto che un ambiente modellato dall’uomo in funzione delle merci riduce a tal punto le reattività dell’individuo che le merci stesse perdono qualsiasi valore come mezzo di soddisfazione personale. Senza questa consapevolezza, può accadere che grazie ad una tecnologia industriale più pulita e meno aggressiva si raggiungano livelli di opulenza frustrante oggi inconcepibili».[6]

 

Un nuovo umanesimo
Necessitiamo di un nuovo Umanesimo nel quale l’economia sia al servizio delle comunità e delle persone. Una nuova economia, non crematistica, per la comunità non può che ripartire dalla partecipazione e dall’autonomia di ogni cittadino, senza di esse non si può che affondare nella tragedia dell’abbondanza (non per tutti), pertanto è necessario introdurre nuovi paradigmi di valutazione che possano rendere evidenti le contraddizioni e le miserie non riconosciute del capitalismo globale. Al neopositivismo imperante bisogna opporre l’approccio olistico della cultura per comprendere che ogni aspetto del tessuto sociale ha delle conseguenze che devono essere valutate, pertanto l’economicismo dev’essere valutato nelle sue implicazioni su ogni aspetto della vita del cittadino per capirne i pericoli a cui l’umanità è esposta. La filosofia non può che essere parte fondante del neoumanesimo, in quanto ricostruisce la genetica dei processi riportandoli al fondamento veritativo che rischiara il presente ed il passato e consente di guardare il futuro. Al vedere passivo dell’antiumanesimo capitalistico, il neoumanesimo deve sostituire il guardare dal francone wardōn “stare in guardia”, bisogna custodire e difendere l’umano dai pericoli di una economia asservita al potere. Il guardare è attività, partecipazione, mentre il vedere comporta la semplice riproduzione dell’esistente senza mediazione. Se si smette di porre domande si torna passivamente ad essere omogenei alle contingenze, la filosofia è il gesto che pone a riparo dalla tempesta dell’irrilevanza:

«La coscienza filosofica risulta così una formazione storica che riconosce se stessa nella storia: ogni momento è figlio del passato e padre dell’avvenire, e la sua comprensione storica pertanto significa insieme la sua giustificazione e la coscienza del suo carattere provvisorio e insufficiente. Perciò la storia della filosofia vuol essere insieme una continua opera di giustizia verso il passato e una continua preparazione dell’avvenire per l’impostazione di problemi nuovi». [7]

 

Salvatore Bravo

[1] Ivan Illich, Disoccupazione creativa, Red edizioni, Milano 2013, pag. 19.

[2] Ibidem, pag. 23.

[3] Ibidem, pag. 29.

[4] Ibidem, pp. 48-49.

[5] Ibidem, pp. 52-53.

[6] Ibidem, pp. 67-68.

[7] Rodolfo Mondolfo, Alle origini della filosofia della cultura, Petite Plaisance, Pistoia 2020, pp. 204-205.


Ivan Illich (1926-2002) – Lo studio porti il lettore alla sapienza e non ad accumulare conoscenze al solo scopo di farne sfoggio. Il lettore è uno che si è volontariamente esiliato per concentrare tutta la propria attenzione e il proprio desiderio sulla sapienza.
Ivan Illich (1926-2002) – Eutrapelìa. Due sono le chiavi di questa virtù: il sorriso e la misura. L’austerità non significa isolamento o chiusura in se stessi. L’austerità fa parte di una virtù più fragile, che la supera e la include, ed è la gioia, l’eutrapelìa, l’amicizia.
Ivan Illich (1926-2002) – Lessico unidirezionale: «inclusione» contro «emancipazione». Un tempo il crescere non era un processo economico. Oggi gli stessi genitori sono diventati insegnanti ausiliari responsabili degli input di capitale umano, per usare il gergo degli economisti, grazie ai quali i loro rampolli otterranno la qualifica di “homo oeconomicus”.
Ivan Illich (1926-2002) – Elogio della bicicletta. La democrazia partecipativa richiede una tecnologia a basso consumo energetico, e gli uomini liberi possono percorrere la strada che conduce a relazioni sociali produttive solo alla velocità di una bicicletta.
Ivan Illich (1926-2002) – Come filosofi rivendichiamo il dovere di occuparci del suolo. Ciò era dato per scontato da parte di Platone, Aristotele e Galeno, oggi non non lo è più e proponiamo di organizzare forme di resistenza nei confronti di quegli esperti di ecologia che promuovono il disinteresse per la tradizione storica e la virtù terrestre dell’autolimitazione.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Anne Carson – Il dono intreccia trame comunitarie in un tessuto vivente di valore, è personale e reciproco, e dipende da una relazione che dura nel tempo. Il denaro è invece un’astrazione che viaggia in una sola direzione e in modo impersonale tra individui la cui relazione si esaurisce con il suo trasferimento.

Carson Anne 01
Lo scambio di doni tra Glauco e Diomede. Pelike attico a figure rosse, ca. 420 a.C., proveniente da Gela (Museo Archeologico Regionale)

Prima che esistesse il denaro, molte società complesse fondavano in misura significativa la loro vita economica sui doni e sullo scambio di doni.[1] Gli storici hanno dimostrato come un’ideologia basata sullo scambio aristocratico di doni, che permea i poemi omerici e traspare dai resti archeologici del mondo omerico, abbia contraddistinto la società greca, sia arcaica che classica, dall’ottavo al quarto secolo a.C., coesistendo tenacemente con la diffusione del denaro e dello scambio di merci.[2] Lo scambio di doni fa parte di quella che è chiamata un’«economia incorporata», ossia un sistema socioculturale in cui gli elementi della vita economica sono radicati in istituzioni non economiche, come la parentela, il matrimonio, l’ospitalità, il mecenatismo artistico e l’amicizia rituale. Queste istituzioni si sviluppano in un labirinto di interazioni sociali, religiose e simboliche al cui centro si trova lo scambio di doni.[3]
Marcel Mauss diede inizio a un’analisi dei doni e dell’economia del dono nel suo celebre studio Essai sur le don. Nel saggio Mauss descrive società in cui il donare è un meccanismo di scambio che è nel contempo materiale e morale, e che intreccia trame comunitarie in un tessuto vivente di valore. Mauss cita un proverbio della Nuova Caledonia: «Le nostre feste sono il movimento di un ago che cuce insieme le varie parti dei nostri tetti di canne, facendone un unico tetto, una sola parola».[4]
Mauss rileva come questo «unico tetto» sia completamente intessuto di tre obbligazioni interdipendenti: dare, ricevere, ripagare. Prendendo in considerazione questi tre requisiti, si può comprendere in quali forme la vita morale modellata da tali transazioni differisca da quella di un’economia monetaria.
Un dono ha natura sia economica che spirituale, è personale e reciproco, oltre a dipendere da una relazione che dura nel tempo.
Il denaro è invece un’astrazione che viaggia in una sola direzione e in modo impersonale tra individui la cui relazione si esaurisce con il trasferimento di contanti.
Per usare le parole di Marx, una merce è un oggetto alienabile scambiato tra due soggetti economici che godono di uno stato di reciproca indipendenza, mentre un dono è un oggetto inalienabile che due soggetti reciprocamente dipendenti si scambiano.[5]

Doni e merci rappresentano due diverse concezioni di valore, incarnate in due distinte categorie di relazioni sociali.

[…]

Si prenda in considerazione, per esempio, la modalità di scambio di doni che gli antichi greci chiamavano ξενία, xenia. Associata solitamente alla nozione di ospitalità, alla relazione amichevole tra ospitato e ospitante, e a quella di amicizia ritualizzata, l’istituzione della xenia pervade le interazioni socio-economiche del periodo omerico, arcaico e classico. Gabriel Herman definisce la xenia «un legame di solidarietà che scaturisce durante uno scambio di beni e servizi tra individui provenienti da differenti nuclei sociali».[6] Gli aspetti caratteristici della xenia, vale a dire il suo fondarsi sulla reciprocità e la sua ipotesi di durevolezza, sembrano aver intessuto una trama di alleanze personali che teneva unito il mondo antico.

Nello spirito, la xenia è palesemente non mercantile: i beni non sono quantificati, il profitto non è lo scopo […]. Una profonda sfiducia nei confronti del denaro, dello scambio, del profitto, del commercio e dei commercianti pervade le attitudini socio-economiche dei greci dal tempo di Omero fino ad Aristotele.

 

Anne Carson, Economia dell’imperduto, tr. di P. Ceccagnoli, con uno scritto di A. Anedda, Utopia Editore, Milano, 2020, pp. 26-29.

[1] In relazione all’area greca: M.I. Finley, Emporos, Naukleros and Kapelos, in Classical Philology, 30, 1935, pp. 320-326; C.A. Gregory, Gifts and commodities, Academic Press, Londra 1982; K. Polanyi, Primitive, arcaic and modern economies: essays of Karl Polanyi, Anchor Books, New York 1968; C.G. Starr, The economic and social growth of early Greece, 800-500 b.C., Oxford University Press, New York 1977.

[2] C.A. Gregory, Gifts and commodities, op. cit., pp. 48-50; L. Kurke, The traffic in praise: Pindar and the poetics of social economy, Cornell University Presse, Ithaca 1991, pp. 93-97; L. Kurke, Herodotus and the language of metals, in Helios, 22, 1995, pp. 36-63; C.G. Starr, Athenian coinage, Clarendon Press, Oxford 1970, pp. 58-60; V. Tumer, Dramas, fields, and metaphors: symbolic action in human society, Cornell University Press, Ithaca 1974, p. 14.

[3] M.M. Austin e P. Vidal-Naquet, Economic and social history of ancient Greece: an introduction, University of California Press, Berkeley 1977, p. 12 e pp. 177-178; P. Bourdieu, Outline of a theory of practice, tr. di R. Nice, Cambridge University press, Cambridge 1977, p. l77; L. Kurke, The traffic in praise: Pindar and the poetics of social economy, op. cit., pp. 85-107; K. Polanyi, Primitive, arcaic and modern economies: essays of Karl Polanyi, op. cit., pp. 81-82.

[4] M. Mauss, The gift: forms and functions of exchange in archaic societies, Norton, New York 1967, p. 9.

[5] K. Marx, Das Kapital, 3 v., Verlag von Otto Meisner, Amburgo 1867, v. 1, p. 178.

[6] G. Herman, Ritualized friendship and the Greek city, Cambridge Unuversity Press, Cambridge 1987, p. 10.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Fernando Ezequiel Solanas (1936-2020) – “L’Ora dei forni” è dedicato a Che Guevara e all’esperienza sociale e rivoluzionaria latino-americana in atto alla fine degli Anni Sessanta. Fu realizzato tra il 1966 e il 1968 come un atto di resistenza contro la dittatura del Generale Onganía.

Solanas Fernando Ezequiel 01

L’ora dei forni è un documentario di Octavio Getino e Fernando Solanas, uscito nel 1968, dedicato all’esperienza sociale e rivoluzionaria latino-americana in atto alla fine degli Anni Sessanta, in particolare a Che Guevara. Il lungo documentario è suddiviso in tre parti: Neocolonialismo e violenza, Atto a favore della liberazione, Violenza e liberazione

Nel marzo del 1989, gli autori ripresentarono la prima parte dell’opera (Neocolonialismo e violenza) con alcune modifiche rispetto alla versione del 1968 e con una prefazione all’inizio della nuova edizione: “L’Ora dei forni fu realizzato tra il 1966 e il 1968 come un atto di resistenza contro la dittatura di Generale Onganía – sottolinearono all’epoca i due autori del documentario – e per la sua diffusione nelle organizzazioni sociali e politiche. Le sue idee, le sue informazioni e le sue proposte corrispondono – proseguono i registi – a un periodo segnato dall’autoritarismo, dalla violenza istituzionalizzata e dal divieto dei partiti politici. Sono trascorsi più di 20 anni da allora. Le circostanze che hanno motivato il film sono cambiate, ma molti problemi che abbiamo denunciato in esso continuano o sono peggiorati. L’ora delle forni prosegue tuttora, non solo come testimonianza e documento di un’epoca, ma come riaffermazione della stessa volontà di liberazione, di democrazia e di giustizia sociale“.

Con Octavio Getino, Solanas scrisse il manifesto Verso un Terzo Cinema, un’idea di un cinema politico, “terzo” rispetto al cinema hollywoodiano (il “primo cinema”) ed a quello artistico “d’autore” europeo (il “secondo”), che sostenesse la causa dei paesi vittime del neoliberismo, piuttosto che perseguire il mero profitto economico rendendo lo spettatore un “consumatore dell’ideologia borghese”.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Massimo Bontempelli – Gesù di Nazareth, uomo nella storia, Dio nel pensiero, ci ha dato la simultanea figurazione metastorica della forza creatrice dell’amore, del valore universale dell’individualità, della priorità assiologica della giustizia, del principio della speranza, che sono, filosoficamente parlando, le dimensioni di esistenza della libertà, e le articolazioni concettuali della verità logico-ontologica.

Gesù 2020

Massimo Bontempelli

Gesù di Nazareth. Uomo nella storia. Dio nel pensiero
Prefazione di Marco Vannini. Postfazione di Giancarlo Paciello.

ISBN 978-88-7588-188-7, 2017, pp. 160, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [81].

In copertina: Henri Matisse, Icaro, tavola a pochoir, pubblicata nel 1947 sulla rivista Jazz.

indicepresentazioneautoresintesi
Gesù nella storia e oltre la storia

 

Gesù fu il regista della sua passione, con l’obiettivo di essere finalmente riconosciuto Messia, e di promuovere per questa via la realizzazione di una nuova società, chiamata regno di Dio. Tutto ciò fu espressione di un coraggio eroico. Il coraggio intellettuale di capire che la via del semplice appello predicatorio alla trasformazione non mutava le cose. Il coraggio morale di rimanere tuttavia fedele al suo ideale, in una situazione in cui chiunque altro sarebbe arretrato su posizioni conformistiche rispetto alle aspettative dell’ambiente. E, soprattutto, il coraggio spirituale e fisico di intuire e di volere il suo supplizio come unica maniera rimastagli di essere fedele a se stesso, e di poter ancora lottare per il regno di Dio. […]
Lo spirito di Gesù è bensì inizialmente risorto attraverso Maria Maddalena, ma la sua memoria e poi stata gestita non da costei, ma dalla Chiesa apostolica e da Paolo, il vero fondatore della religione cristiana. Questa gestione ha determinato una frattura storica tra la fede per cui Gesù era morto e la fede successiva nel Cristo risorto […] In tal modo il regno di Dio cessò di essere pensato come un’attualità storica, da portare a compimento con un’azione storica, e diventò l’oggetto di un’attesa miracolistica, l’attesa della cosiddetta seconda venuta del Cristo.
Lo spirito religioso cominciò di conseguenza a separarsi dalla volontà di trasformazione politico-sociale, mentre in Gesù i due momenti avevano mantenuto una stretta unità. Per Gesù credere nel regno di Dio era volere il crollo dei poteri mondani e la redistribuzione delle ricchezze, l’anno di grazia del Signore. Per Paolo è invece dovuta ubbidienza ai poteri terreni, e l’impegno religioso si riduce alla predicazione del Cristo risorto. […]
I Vangeli sono stati redatti a partire da questa nuova fede della comunità cristiana primitiva. Essi, quindi, pur essendo basati sulla storicità di una tradizione di testimonianze su Gesù, ne reinterpretano la figura in chiave miracolistica. Per questo devono essere a loro volta interpretati, e la loro storicità deve essere enucleata da un involucro leggendario che talvolta porta fuori strada.
Col trascorrere dei secoli, e il passaggio della Chiesa cristiana dalle catacombe al potere, la religione basata sulla figura teologica del Cristo diventò sideralmente lontana dalla fede proposta dal Gesù storico. All’impegno di trasformazione personale e collettiva necessario alla realizzazione delle profezie bibliche subentrò l’adesione fine a se stessa a Chiese istituzionalizzate. Al posto del regno di Dio di cui promuovere l’avvento storico sulla Terra venne messo il Paradiso ultraterreno. Tanto che oggi, quando i cristiani recitano il Padre nostro, e pronunciano la frase «venga il tuo regno», non sanno letteralmente cosa stanno dicendo, perché ignorano che il significato originario di quell’espressione era un auspicio di rovina per tutti i governi e i poteri economici della Terra.
Nulla del progetto storico di Gesù ha quindi continuato a vivere nel cristianesimo storico bimillenario, che nel suo complesso, con l’eccezione di alcune sue esperienze minoritarie di trascurabile peso storico, rappresenta anzi l’ultimo e più grosso chiodo che l’ha fissato alla croce, l’estremo oblio della sua memoria.
Diciamo allora la verità, una verità per noi tragica, quasi insopporta­bile: l’abbandono dei suoi seguaci e la vittoria dei suoi nemici hanno sconfitto Gesù non soltanto a Gerusalemme nel 36 d.C., ma anche, ed ancor più, nella storia successiva fino ad oggi. Gesù è, allora, soltanto uno dei vinti della storia, oppure la storia non esaurisce il significato e la portata della sua figura?
La sconfitta subíta da Gesù a Gerusalemme è stata il dramma del suo amore. Ci vuole un immenso amore, per se stessi, per i propri amici, e per tutti coloro che amici potrebbero esserlo, per spendere una vita intera a coltivare l’ideale di una società in cui ogni essere umano sia libero di esprimere le sue potenzialità umane. E ci vuole una immensa potenza di questo immenso amore per andare volontariamente incontro ad un supplizio atroce, quando le circostanze non lascino altra possibilità di non indebolire la testimonianza di quell’ideale. Gesù ha trovato in se stesso tutto questo amore, e ne ha avuto compiuta consapevolezza, perché ha posto l’amore al di sopra di ogni altra legge, prescrivendo come suo unico comandamento: «Questo è il mio comandamento, che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore maggiore di chi dà la vita per i suoi amici, e voi siete miei amici. Non vi dico servi perché il servo non sa cosa fa il suo signore. Vi ho invece unito come amici perché vi ho fatto conoscere tutto ciò che ho ascoltato dal Padre mio».
L’amore, d’altra parte, essendo ontologicamente radicato nel riconoscimento reciproco tra gli individui umani necessario alla costituzione della loro identità soggettiva, rappresenta una sorgente umanamente perenne di comportamenti creativi. Gesù, perciò, disegnando con i suoi atti, con il suo sacrificio finale, e con la consapevolezza del loro senso, la figura stessa dell’amore, si è collocato su un piano che è oltre la storia.

Gesù, poi, si è proposto come oggetto d’amore soltanto proponendo la sua identificazione con ogni individuo umano bisognoso d’amore. […] Attraverso questa identificazione, manifestata da tutti i suoi atti, Gesù si è identificato con un principio assiologico che trascende, in quanto fonte inesauribile di nuova storia, ogni storicità empirica: l’intrinseco valore etico dell’individualità umana, indipendentemente dalle circostanze fattuali e dai ruoli sociali in cui si presenta.
Dare a ciascuno ciò che gli spetta in nome del valore universale della sua individualità, ed eliminare gli ostacoli che impediscono il pratico riconoscimento di questo valore, è sempre e dovunque, anche se diversamente declinato e variamente sminuito nei differenti tempi e luoghi della storia, il significato della giustizia. Tale giustizia è, nelle narrazioni evangeliche, la forza motivazionale di tutti gli atti di Gesù, e il contenuto reale del suo ideale supremo, per il quale è morto. Si potrebbe infatti mostrare, storicamente e filologicamente, come l’ideale del regno di Dio altro non sia che l’ideale della giustizia sulla Terra. E si potrebbe mostrare, filosoficamente, come la giustizia, in quanto potenzialità metastorica dell’essere umano, abbia la medesima radice ontologica dell’amore.
Non è un caso, dunque, che Gesù ci abbia dato, nella sua vicenda storica, la simultanea figurazione metastorica dell’amore e della giustizia, e che, avendo raggiunto piena consapevolezza intuitiva dell’amore, sia stato compiutamente consapevole anche della giustizia. Egli ha sicuramente saputo, infatti, che la giustizia non consiste nel trattare tutti, potenti e deboli, oppressori ed oppressi, con lo stesso metro e la stessa considerazione. Ha saputo, cioè, che la violenza dell’oppressione deve essere riequilibrata da un’attenzione e da un impegno molto maggiore a favore degli oppressi, per poter eliminare gli ostacoli al pratico riconoscimento dell’universale valore di ogni individualità, di cui la giustizia consiste.
Si noti infatti come l’attività guaritrice e consolatrice di Gesù sia stata svolta a favore degli oppressi e degli umili, mai dei potenti della Terra. Egli ha saputo, inoltre, che la giustizia viene per sua natura lesa non soltanto da coloro che la offendono direttamente ed esplicitamente con i loro atti, ma anche da coloro che si limitano alla fruizione soddisfatta e senza problemi dei loro privilegi. Al punto da maledirli, preannunciando la fame a coloro che sono sazi nel privilegio, il lutto e il pianto a coloro che irresponsabilmente se la ridono in un mondo ingiusto.
La semplice, sia pur fattiva, carità verso i miserabili, alla Maria Teresa di Calcutta, è molto lontana dall’esempio dato dal Gesù storico, che non disgiunge mai la pietà verso i deboli da una volontà incrollabile di giustizia, che comporta anche l’ira verso gli oppressori. Gesù ha compreso che non si può essere giusti se non si sceglie la giustizia, quando è necessario, anche contro la pace. Il regno di Dio, nell’accezione originaria di Gesù, porta la distruzione, non la pace, ai reggitori e ai beneficiari di un ordine ingiusto.
Seguire Gesù nel suo senso inflessibile della giustizia potrebbe però portare alla disperazione, in un mondo in cui l’ingiustizia abbia sempre dalla sua parte la forza e l’apparenza della necessità. Gesù, nel suo chiamare l’umanità alla giustizia, ha posto la sua persona come realtà della speranza. Se lui non è un uomo qualsiasi, ma porta il segno di Dio, allora acquistano un preciso significato di speranza le famose beatitudini del cosiddetto discorso della montagna. […]

Gesù, pur tragicamente sconfitto a Gerusalemme nel 36 d.C., e pur tragicamente obliato persino, e talora soprattutto, da coloro che hanno fondato su di lui la loro religione, non è soltanto uno dei sia pur grandi vinti della storia, perché non esiste soltanto come figura del nostro passato, storicamente omogenea ad altre precedenti e successive, ma è la figurazione metastorica della forza creatrice dell’amore, del valore universale dell’individualità, della priorità assiologica della giustizia, del principio della speranza.
Ma la forza creatrice dell’amore, il valore universale dell’individualità, la priorità assiologica della giustizia, il principio della speranza, sono, filosoficamente parlando, le dimensioni di esistenza della libertà, e le articolazioni concettuali della verità logico-ontologica. Se non impropriamente chiamiamo Dio la natura trascendentale della verità perennemente umana, Gesù appare come una singolarità irripetibile segnata da Dio. Giustamente, quindi, egli ha detto ai suoi discepoli: «Se rimarrete nel mio logo conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi».
Non si tratta, invero, di una conoscenza razionale della verità, perché Gesù non è stato un filosofo. Egli ha piuttosto seguìto, con irripetibile coerenza, una sua intuizione essenziale, anche se naturalmente concretizzata nelle forme culturali del suo tempo e del suo ambiente, della legge divina universale, che ha tradotto in tutti i suoi atti, nella vita e nella morte. In maniera più aderente al suo genio, egli ha parlato di un «fare la verità» mediante cui si va nella direzione della luce divina.
Gesù è quindi stato un uomo nella storia, ma lo è stato in modo da collocare la sua figura oltre la storia, alle sorgenti di quella libertà morale da cui perennemente sgorga storia, e da porsi quindi come fonte di luce per ogni epoca.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Mario Vegetti (1937-2018) – Ha mostrato come fosse possibile mantenere un nitido profilo di pensiero, invariante nel suo assetto di fondo, sviluppando al tempo stesso in direzioni diverse le sue potenzialità di ricerca.

Vegetti Mario 017
«Platone ha mostrato come fosse possibile mantenere un nitido profilo di pensiero,
invariante nel suo assetto di fondo,
sviluppando al tempo stesso in direzioni diverse le sue potenzialità di ricerca».

Mario Vegetti, Il potere della verità. Saggi platonici, Carocci, Roma 2018, p. 277.


Mario Vegetti – La filosofia e la città: processi e assoluzioni .
Mario Vegetti – Il lettore viene introdotto a una sorta di visita guidata in uno dei più straordinari laboratori di pensiero politico nella storia d’Occidente.
Mario Vegetti e Francesco Ademollo – Incontro con Aristotele: la potenza del suo pensiero è ancora in grado di parlarci.
Mario Vegetti – Il coltello e lo stilo. Animali, schiavi, barbari e donne alle origini della razionalità scientifica.
Mario Vegetti (1937-2018) – «Scritti sulla medicina galenica». Il volume raccoglie i principali scritti su Galeno e sul Galenismo composti da Mario Vegetti in circa un cinquantennio di attività.
Mario Vegetti (1937-2018) – Il tempo, la storia, l’utopia. Cè il tempo dell’utopia, cioè della realizzazione della kallipolis attuata. L’avvento della kallipolis rappresenta un’esigenza necessaria come intenzione di governare il disordine, ma esso è improbabile (non però, per le stesse ragioni, impossibile).
Mario Vegetti (1937-2018) – Il sognatore che pensa,  il pensatore che sogna nel «Racconto del Saggio del Capitale».
Mario Vegetti (1937-2018) – Mario Vegetti a due anni dalla morte ci lascia alcuni messaggi. Tenere aperto lo spazio dell’incertezza. Resistere al cedimento di fronte all’omologazione del pensiero. Resistere alla rassegnazione di fronte all’estrema durezza dell’epoca. Rifiutare pentitismi compiacenti, cedimenti corrivi alle mode correnti o alle “luci della ribalta”. Restare fedeli, insomma.
Berti, L. Canfora, B. Centrone, F. Ferrari, F. Fronterotta, S. Gastaldi – «La filosofia come esercizio di comprensione. Studi in onore di Mario Vegetti». Introduzione di G. Casertano e L. Palumbo
Mario Vegetti (1937-2018) – È attraverso il linguaggio, e non attraverso i sensi, che la verità si presenta all’anima. La parte essenziale dell’uomo è l’anima. È l’anima del concreto soggetto vivente a giocare un ruolo centrale nella morale socratica.
Mario Vegetti (1937-2018) – La felicità ha bisogno di durata e di costanza ed esige una prassi tenacemente virtuosa.
Mario Vegetti (1937-2018) – Il dominio e la legge. La «Costituzione degli Ateniesi» è un testo violento, sia nel suo apparato teorico sia nel suo atteggiamento di fronte al sociale.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.) – Valore è ciò che è conforme alla natura o ciò che è degno di scelta.

Cicerone M.T., valore
«Valore è ciò che è conforme alla natura
o ciò  che è degno di scelta».

 M. T. Cicerone, De finibus bonorum et malorum, III, 6, 20.


Marco Tullio Cicerone (106 a.C.-43 a.C.) – Forse che la vecchiaia ridusse al silenzio i filosofi nel loro studio? O in tutti la pratica degli studi non durò quanto la vita? Quando i figli citano i giudizio i padri come rimbambiti.

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M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Platone (428/427-348/347 a.C.) – Chi si è impegnato nella ricerca del sapere e in pensieri veri e soprattutto questa parte di sé ha esercitato, è assolutamente necessario che, quando attinge alla verità, abbia dei pensieri immortali e divini e che, nella misura in cui alla natura umana è stato dato di partecipare all’immortalità, non ne trascuri alcuna parte e sia perciò straordinariamente felice.

Platone, Timeo 01

«Colui il quale si è impegnato nella ricerca del sapere e in pensieri veri e soprattutto questa parte di sé ha esercitato, è assolutamente necessario che, quando attinge alla verità, abbia dei pensieri immortali e divini e che, nella misura in cui alla natura umana è stato dato di partecipare all’immortalità, non ne trascuri alcuna parte e sia perciò straordinariamente felice».

Platone, Timeo, 90 b6-c6, Introduzione, traduzione e note di F. Fronterotta, BUR,  Rizzoli, Milano 2003.


Platone, «Filebo» – Senza possedere né intelletto né memoria né scienza né opinione vera, tu saresti vuoto di ogni elemento di coscienza
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Coloro che sono privi della conoscenza di ogni cosa che è, e che non hanno nell’anima alcun chiaro modello, non possono rivolgere lo sguardo verso ciò che è più vero e non possono istituire norme relative alle cose belle e giuste e buone.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Le relazioni con gli stranieri sono atti di particolare sacralità. Lo straniero si trova ad essere privo di amici e parenti, e quindi è affidato in modo particolare alla solidarietà degli dei e degli uomini. Non c’è colpa peggiore per un uomo che un torto fatto ai supplici
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Non esiste male maggiore che un uomo possa patire che prendere in odio i ragionamenti. L’odio contro i ragionamenti, e quello contro gli uomini, nascono nella stessa maniera.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – È questo il momento nella vita che più di ogni altro è degno di essere vissuto da un essere umano: quando contempla il bello in sé. La misura e la proporzione risultano essere dappertutto bellezza e virtù.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – L’educazione è l’orientamento dell’anima alla virtù. La virtù è il piacere verso ciò che bisogna amare e l’avversione verso ciò che bisogna odiare
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Non il vivere è da tenere in massimo conto, ma il vivere bene. E il vivere bene è lo stesso che vivere con virtù e con giustizia. Per nessuna ragione si deve commettere ingiustizia.
Platone & Aristotele – Il principio della filosofia non è altro che esser pieni di meraviglia, perché si comincia a filosofare a causa della meraviglia.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – È infatti la costituzione dello Stato che forma gli uomini, buoni, se essa è buona, malvagi in caso contrario.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Cosa di più bello avrei potuto fare nella mia vita se non affidare alla scrittura ciò che è di grande utilità per gli uomini e portare alla luce per tutti la vera natura delle cose?
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – La musica dà anima all’universo, ali al pensiero, slancio all’immaginazione, fascino alla tristezza, impulso alla gioia e vita a tutte le cose.  Essa è l’essenza dell’ordine, ed eleva ciò che è buono, giusto e bello, di cui è la forma invisibile ma tuttavia splendente, appassionata ed eterna.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Le forme di educazione al retto orientamento del piacere e del dolore vengono meno in gran parte agli uomini e si corrompono troppe volte nella vita. le opinioni vere e stabili è fortunato chi le possiede sulla soglia della vecchiaia.
Platone (428/427 – 348/347 a.C.) – il sogno raccomandava di creare musica, e siccome la filosofia è la musica massima, dunque io la facevo.
Platone (428/427 – 348/347 a.C.) – Non ti vergogni a darti pensiero delle ricchezze e invece della intelligenza e della verità e della tua anima non ti dai affatto né pensiero né cura? Non dalle ricchezze nasce virtù, ma dalla virtù nascono ricchezze e tutte le altre cose che sono beni per gli uomini.
Platone (428/427–348/347 a.C.) – Nell’uomo che ha imparato a contemplare l’infinito universo della bellezza, le sue parole e i suoi pensieri saranno pieni del fascino che dà l’amore per il sapere, per la filosofia.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Non dimentichiamo che l’unica moneta autentica, quella con la quale bisogna scambiare tutte le cose, non sia piuttosto la saggezza, e che solo ciò che si compera e si vende a questo prezzo sia veramente fortezza, temperanza, giustizia.
Platone (428/427 a.C. – 348/347 a.C.) – Bisogna che l’uomo comprenda ciò che si chiama Idea, passando da una molteplicità di sensazioni ad una unità organizzata dal ragionamento.
Platone (428/427– 348/347 a.C.) – Chi, pur possedendo una erudizione enciclopedica, e pur avendo particolare abilità in molte tecniche, è privo però della scienza di ciò che è meglio per l’uomo, si fa trascinare di volta in volta da ciascuna delle altre conoscenze e così finisce per trovarsi travolto dai flutti.
Platone (428/427 – 348/347 a.C.) – Tutto congiura per distogliere dalla filosofia. Pochissimi restano coloro che vi si applicano in maniera degna. Ma coloro che hanno gustato quanto sia dolce e beatifico il possesso della filosofia, vedono bene la pazzia dei più. Vedono che nessuno, per così dire, compie azioni sane nella vita politica.
Platone (428/427 – 348/347 a.C.) – – Per noi, carissimo amico, il filosofare è ben lungi dal consistere nell’erudizione.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Giovanni Casertano – Ogni singolo uomo è mortale, in suo corpo e sua anima, ma ha la possibilità, nella sua vita mortale, di attingere una forma di immortalità, che consiste precisamente nell’innalzarsi al mondo immortale della conoscenza.

Giovanni Casertano 003
«Ogni singolo uomo è mortale, in suo corpo e sua anima,
ma ha la possibilità, nella sua vita mortale,
di attingere una forma di immortalità,
che consiste precisamente nell’innalzarsi
al mondo immortale della conoscenza».

Giovanni Casertano, In cerca dell’anima nel “Simposio”, in A. Borges de Araújo – G. Cornelli (a cura di), Il “Simposio” di Platone: un banchetto di interpretazioni, Loffredo, Napoli 2012, pp. 64-65


Giovanni Casertano – Venticinque studi sui Preplatonici, veri iniziatori del nostro pensiero scientifico e filosofico.
Giovanni Casertano – La conoscenza, che è il fine più alto che un uomo possa proporsi, non è fine a se stessa, e non è limitata a pochi: ha e deve affermare una valenza etica, ed anche politica, per il concreto miglioramento della vita umana.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Panagiotis Kondylis (1943-1998) – L’antichità classica ha un suo caratteristico segno distintivo: la mancanza di escatologia e di concezioni lineari del divenire storico.

Kondylis Panagiotis 01

«Nella misura in cui comprendevo sempre di più i meccanismi di riproduzione del pensiero ideologico e del pensiero utopico, l’antichità classica mi ha fatto avvicinare ad un suo caratteristico segno distintivo: la mancanza di escatologia e di concezioni lineari del divenire storico, le quali come è noto hanno una provenienza ebraico-cristiana, e sono poi state secolarizzate sia dal marxismo socialista sia dal liberalismo capitalistico».

Panagiotis Kondylis, Marx und die griechische Antike . Heidelberg: Manutius-Verlag 1987, [Edizione greca: in Ο Μάρξ και η αρχαία Ελλάδα . Atene, Στιγμή, 1984]

Konservativismus . Geschichtlicher Gehalt und Untergang [Conservatorismo. Contenuto storico e declino]. Stoccarda. Klett-Cotta, 1986.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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