Salvatore Bravo – Ad un popolo impaurito si può far accettare ogni provvedimento: Recovery fund e il MES.

Recovery fund e MES

Salvatore Bravo

Ad un popolo impaurito
si può far accettare ogni provvedimento: Recovery fund e il MES

Ad un popolo impaurito si può far accettare ogni provvedimento. Se il popolo è costituito da individui senza identità, se è una somma di elementi senza unità alcuna: non ha lingua, non ha cultura, non ha tradizioni popolari, non ha religione non è più un popolo, ma solo massa omogenea plasmata dalla finanza. Il popolo non è più popolo da decenni, al suo posto vi è una massa informe che vive di desideri indotti e disperazioni contingenti. A questo popolo diseducato dal capitale ad essere soggetto attivo, a sentire il suono della propria lingua, a vivere l’ambiente e la storia in cui è immerso, che non guarda, perché ha smesso di vedere in modo empatico per calcolare l’immediato. Ad un popolo tradito e vilipeso si può far accettare il Recovery fund e ora, probabilmente, anche il MES. Si consegna il destino di un popolo, ormai plebe in attesa di “soli ristori “, alla finanza internazionale. La sovranità perduta da decenni, è ora palese, ma specialmente il destino è segnato. Nei prossimi decenni l’agenda politica sarà dettata dalla finanza internazionale, la quale concederà i prestiti solo se il governo servitore attuerà “le riforme”: tagli ai diritti sociali, taglio alle pensioni, invasione violenta dei privati nella scuola, la quale non deve formare alla cittadinanza politica, ma ai bisogni del mercato, digitalizzazione per astrarre informazioni da vendere al mercato. La TV di Stato, mentre avviene l’ultimo tradimento, trasmette finanziata dai suoi cittadini-sudditi la disinformazione nella forma dello spettacolo leggero e volgare a reti unificate. La condizione italiana è estrema, non vi è politica, non vi è partito in cui poter essere sicuri che non sia venduto alla finanza. La democrazia del popolo è sostituita dall’oligarchia della finanza.

Covid 19 e finanza
Il Covid 19 è una ghiotta possibilità per la finanza e le multinazionali, in primis il popolo è stato addestrato alla separazione ad essere oggetto di provvedimenti senza che siano stati criticamente letti, nella divisione si amplifica la paura e, dunque, il popolo diventa come il topo davanti al gatto che gioca. Dove vige la separazione regna la paura e l’angoscia. Un popolo angosciato ed impaurito da tutto ed intimorito da un futuro minaccioso non può che accettare l’ancora di salvataggio della finanza che lo porterà a fondo. Decenni di attacchi alla formazione ed ai diritti sociali hanno portato via con la formazione il senso critico per sostituirlo con il consumo, con la pornografia del mercato che addestra all’impotenza collettiva ed alla guerra orizzontale dei sudditi. La paura nella forma della separazione è il grande successo della finanza, essa la usa per spingere governanti senza capacità politica e pronti a difendere i soli interessi personali ad accogliere l’indebitamento patrio come una risorsa per la salvezza delle loro carriere: sono separati dal popolo, ma dipendenti dalla finanza. In una nazione che ha un’evasione fiscale incalcolabile per recuperare denaro da utilizzare nella crisi sarebbe logico lottare contro la grande evasione, invece si punta alla svendita della nazione per non dispiacere coloro che sono stati la causa del problema con il loro individualismo asociale e feudale: gli evasori fiscali. La decadenza della nazione è palese: si continua a cementificare paesaggio e storia con il ricatto del lavoro. Si ruba non solo il futuro, ma anche il passato, in tal modo non vi è presente, non vi sono bussole etiche e valoriali su cui costruire un futuro comune. Stanno portando via tutto per sostituirlo con il nuovo regno in l’imperatore è io mercato. L’azione e l’attacco della finanza internazionale è plurima: indebitamento con taglio diritto sociali e feudalizzazione della società, smantellamento della formazione, eliminazione dalla visuale percettiva della possibilità di pensare la storia e costruire un futuro condiviso. La lingua con cui un popolo pensa è sostituita dall’angloitaliano con la quale destrutturare il pensiero e per comunicare un assoluto e quotidiano disprezzo verso la nazione. Se si è costretti a parlare l’inglese dei mercati ed assimilare la lingua nazionale nell’inglese mercantile il messaggio che arriva alle nuove generazioni è che l’identità nazionale è nulla e le culture locali meritano disprezzo. L’astratto divora il concreto per fondare una bieca rivoluzione antropologica il cui fine è il solo mercato europeo nella quale la religione della finanza regna e consuma ogni risorsa per il trionfo di pochi. La lotta di classe e delle comunità nazionali deve partire dalla possibilità di guardare negli occhi la medusa senza lasciarsi pietrificare. Siamo soli, e nessun Dio verrà a salvarci, da questa verità è necessario riprendere il cammino. “Lì dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva” (Friedrich Hölderlin ), risuonano i versi del poeta, ma dal pericolo estremo ci si salva con la prassi, con la riorganizzazione dal basso, altrimenti il pericolo divorerà il futuro, per ora si assiste al teatro delle parti, in cui tutti mentono, in quanto le decisioni sono stare già prese fuori dal parlamento, nei salotti buoni della “cattiva finanza”.

Salvatore Bravo

Salvatore Bravo – All’attesa heideggeriana bisogna opporre lo sguardo profondo della civetta filosofica per responsabilizzarsi nella prassi. La critica che si limita ad attendere la svolta, “l’evento”, diventa complice dello stato presente.

La brocca di Heidegger

Perchè il nulla dilaga?
– Perché la gente ha rinunciato a sperare e dimentica i propri sogni. Così il nulla dilaga.
– Che cos’è questo nulla?
– È il vuoto che ci circonda, è la disperazione che distrugge il mondo, e io ho fatto in modo di aiutarlo.
– Ma perché?
Perché è più facile dominare chi non crede in niente, e questo è il modo più sicuro di conquistare il potere.

Il terrifico
Il terrificante è tra di noi e con noi, l’ipertecnologia con le sue promesse edoniche si è ribaltata nel “terrificante”, si è immersi in esso, si è diventati parte di un sistema che nega la natura umana nella sua capacità di cogliere e vivere la percezione olistica del vivere dalla quale trarre il senso profondo dell’esserci. La distanza è la cifra del terrifico, le tecnologie sono l’espressione compiuta della rappresentazione fisica dell’oggetto, che cade nella “distanza” della rappresentazione. L’oggetto è ridotto a poche variabili “esclusivamente quantitative”, è solo ciò che “ci sta innanzi”, pronto all’uso. La vicinanza finalizzata al solo uso è attività di negazione, in quanto l’oggetto non è vissuto, non è colto nei suoi rimandi vitali e di senso, ma è soltanto immediatezza a disposizione. La distanza è divenuta “non distanza”, poiché la “distanza” implica la “vicinanza”, mentre la contemporaneità nega la “vicinanza” per cui “la distanza” non è colta nella sua verità, dato che solo la relazione distanza-vicinanza dà significato ad entrambe. Il pensiero unico annichilisce ogni comprensione che collassa sotto il giogo dell’omologazione. Il terrifico è l’astratto, nega ogni relazione logica, etica ed ontologica. L’astrazione irrompe nel quotidiano, portando il terrifico che l’accompagna. La rappresentazione dell’oggetto è il luogo astratto su cui si agisce per manovrarlo, in questo modo vi è la totale sostituzione dell’atto percettivo vitale con la rete simbolica che matematizza e smaterializza la vita, la riduce a simboli su cui praticare la delirante onnipotenza globale. Il terrificante è il gelo della corrente fredda che pervade ogni relazione con gli oggetti, con l’ambiente fino ad investire le relazioni umane. Queste ultime sono nel segno del calcolo, l’altro come le istituzioni sono mezzo, sono oggetto della razionalità organica al plusvalore nelle sue forme plurali: dal guadagno all’estorsione delle informazioni fino al narcisismo patologico, per cui, mentre aumentano le informazioni analitiche il mondo scompare falcidiato dalla violenza non riconosciuta. Il progresso nella versione liberista è un calcolo terrifico, si determinano i tempi di vita e di morte di ogni ente, si concede la vita fin quando il calcolo ne svela le potenzialità d’uso e di guadagno, esaurite tali potenzialità lo si lascia cadere nella morte. In realtà già nell’uso vi è una dichiarazione di morte, perché la “distanza” è estraneità, solitudine elevata a sistema nel silenzio del linguaggio e della relazione:

«Il terrificante è quello che pone fuori dalla sua essenza precedente tutto ciò che è. Che cos’è questo terrificante? Esso si mostra e si cela nel modo in cui ogni cosa è presente, nel fatto cioè che, malgrado ogni superamento delle distanze, la vicinanza di ciò che è assente».[1]

 

Distanze senza volto
Il terrificante è l’ovvio della contemporaneità illuministica. Hegel ha insegnato che la filosofia è pensare il proprio tempo, per cui il terrifico, è parte integrante del vissuto quotidiano e come tale non è colto. La filosofia, invece, deve pensare ciò che non è concettualizzato, per cui il mondo necessita dello sguardo e della lingua filosofica. Il terrifico è nella propaganda dei circoli mediatici esposto con indifferenza, in quanto l’unico fondamento del liberismo è il nulla. L’assurdo si coniuga con il nichilismo. La normalità del terrifico emerge nelle cronache ed è accolta con “distanza”. Nelle ultime settimane vi è la proposta, già approvata in Olanda e in alcuni paesi anglosassoni, di liquefare i cadaveri, in quanto smaltimento più efficiente e green. Il corpo del caro estinto è portato in acqua e liscivia a centossessanta gradi, la pressione elevata lo scompone nei suoi elementi chimici, l’acqua è smaltita nelle fogne. Il corpo che è stato abitato dalla vita ed ha una sua storia è ridotto ad ente tra gli enti senza significato. La persona sarà associata alla scomposizione chimica da liberare nelle pubbliche fogne. La morte con i suoi significati, con la pietà che si deve alla cura del corpo è sostituita con lo smaltimento veloce, con un’operazione chimica di nessun significato etico-religioso, per essere solo azione orientata all’efficienza che non riconosce le differenze tra l’umano e il non umano. Il disumano è in questa cecità emotiva e razionale divenuta la regola del vivere nel tempo del capitalismo integrale. La “distanza” non riconosciuta è il pericolo che logora la contemporaneità senza volto:

«Il terrificante si manifesta e si cela nel modo in cui nell’ovvio che giace vicino (das Naheliegende) la vicinanza rimane assente. Che cosa significa ciò? Significa che la cosa non coseggia; la cosa non è presente in quanto cosa. Il mondo non mondeggia».[2]

 

Silenzio ed irrilevanza
Il nulla è il silenzio del riduzionismo quantitativo. Il nulla ci parla, pertanto il mondo si oblia in un silenzio mortale. L’ipertrofia della razionalità scientifica è incapace di dare un significato al mondo, che quindi tramonta travolto da numeri e cifre. Il soggetto che li utilizza non è capace di significarli nell’ascolto, ma semplicemente costruisce la distanza dal mondo, regredisce allo stato di animale razionale e calcolante. L’irrilevanza diviene la regola del suddito globale: ogni ente è categorizzato in parametri sempre eguali e semplici. La rete simbolico-matematica che determina la “distanza”, mentre offre immense possibilità di uso e di accumulo di cui non è chiaro il fine, pone ogni agire come ogni esistente sul piano dell’irrilevanza, per cui si può scomporre un cadavere per smaltirlo nelle fogne come fosse un rifiuto. Si rimuove l’abisso inquietante della contemporaneità con le giornate in ricordo dell’olocausto per occultare che esso è tra di noi, abbiamo smesso di riconoscerlo e pensarlo. L’irrilevanza è il concetto non pensato e perennemente irriso dal circo mediatico con il suo servidorame:

«Ogni cosa acquista il tratto fondamentale dell’equi-valente (das Gleiche – Gultige), per quanto varie cose possano di quando in quando starci ancora a cuore come frammenti perduti. Il riguardo dell’equivalente è lo strappo in avanti (Fortriβ) nell’indifferente che non va e non sta e non cade né vicino né lontano».[3]

 

La brocca
Heidegger per pensare la contemporaneità riporta l’esempio della brocca che ha smesso di “coseggiare”. La brocca nella rappresentazione fisico-matematica è solo un oggetto che accoglie il liquido, il quale sostituisce l’aria. La brocca non è vissuta, ma usata come mezzo, definita nei parametri della fisica, si nullifica tra le mani di chi la usa, non ha provenienza, è solo presenza che si dà per essere manipolata, usata e gettata, è la metafora di un mondo disumano senza centro ontologico ed assiologico:

«Non appena però acconsentiamo a indagare scientificamente la brocca reale guardando alla sua realtà, emerge uno stato di cose diverso. Quando versiamo il vino nella brocca, l’aria che già la riempie è solamente scacciata e sostituita da un liquido. Dal punto di vista scientifico, riempire la brocca significa rimpiazzare un contenuto con un altro.
Queste indicazioni della fisica sono corrette. Con esse la scienza rappresenta qualcosa di reale a cui si conforma in termini obiettivi. Ma questo qualcosa di reale è davvero la brocca?».[4]

Heidegger mostra che l’irrilevanza è una forma di annientamento dell’altro. La “distanza” divenuta il principio fondamentale del “vivere sociale” dell’Occidente è una forma non mediata dialetticamente di nullificazione. Prima ancora dell’atomica l’alterità è nullificata dall’utile scientifico, l’atomica è il punto d’arrivo di un processo di smaterializzazione dell’altro in funzione del dominio. L’atomica diviene punto d’arrivo e nuovo snodo per un salto di qualità terrifico con cui si minaccia la vita nella sua totalità e si educa alla morte-distanza. La DAD è il compimento dell’immenso ingranaggio della nullificazione, la sua normalizzazione, un esperimento per saggiare reazioni e specialmente per comprendere se i tempi sono maturi per l’irrilevanza totale: l’altro è solo un’immagine da accendere e spegnere, la relazione è solo un involucro al cui interno vi è il nulla. Solo la macchina è protagonista:

«Il sapere della scienza, cogente nel suo ambito – quello degli oggetti –, ha annientato le cose in quanto cose ben prima che esplodesse la bomba atomica, la cui deflagrazione è solo la più rozza di tutte le rozze conferme di un annientamento della cosa già accaduto da molto tempo, la conferma cioè che la cosa in quanto cosa rimane nulla (nichtig)».[5]

 

Passività e verità
Per Heidegger il trionfo dell’ontico sull’ontologico è il destino dell’Occidente, e ora che il pericolo è totale, ora che la verità della tecnica è svelata è possibile che giunga a noi la fine della metafisica e l’inizio di una nuova era in cui l’essere umano sia il ritrovato pastore dell’essere. L’analisi di Heidegger è votata alla passività, all’attesa della metamorfosi che pensi e viva i rimandi, per i quali la brocca smette di essere un recipiente oggetto di leggi fisiche per diventare parte del mormorio della vita: 

«La riunione del duplice accogliere nell’atto di versare, che solo in quanto insieme costituisce la piena essenza del donare, la chiamiamo “dono” (das Geschenk). Il carattere di brocca della brocca è essenzialmente nel dono di ciò che è versato. Anche la brocca ottiene la sua essenza dal dono, sebbene una brocca vuota non consenta un versare fuori. Questo non consentire, tuttavia, è proprio della brocca e solo della brocca, mentre una falce o un martello sono incapaci di non consentire tale versare. Il dono di ciò che è versato può essere una bevanda.
Vi sono acqua e vino da bere.
Nell’acqua del dono permane la sorgente. Nella sorgente permangono la roccia e ogni oscuro sapore della terra che assorbe la pioggia e la rugiada del cielo. Nell’acqua del cielo permane lo sposalizio di cielo e terra».[6]

 

La critica che si limita ad attendere la svolta, “l’evento”, rischia di essere complice dello stato presente. Le categorie marxiane possono essere di ausilio per ridefinire nel segno della prassi le critiche heideggeriane nelle quali non è difficile cogliere l’eco di Marx. L’attesa del dono, dell’ascolto, del trascendere la patologia dell’entificazione totale già in Marx assurge ad elemento sostanziale riportato al modo di produzione ed alla storia. L’astoricismo heideggeriano, invece, rischia di essere complice del terrifico, poiché la cultura del dono e dell’emancipazione dal produttivismo è solo attesa, i soggetti devono ridisporsi all’ascolto. Passività ed elezione divengono un connubio che consolida il “terrifico”, mentre il dono rischia di essere esperienza che si svela solo a taluni, un’illuminazione improvvisa che allontana il pericolo senza risolverlo:

 

«Nel dono di ciò che è versato, che è un bevanda, permangono a modo loro i mortali. Nel dono di ciò che è versato, che è una bevanda, permangono a modo loro i divini, che ricevono il dono del mescere come dono dell’offerta. Nel dono di ciò che è versato permangono in modo ogni volta diverso i mortali e i divini. Nel dono di ciò che è versato permangono la terra e il cielo».[7]

 

All’attesa heideggeriana bisogna opporre lo sguardo profondo della civetta filosofica che con il suo volo deve pensare per responsabilizzarsi nella prassi, altrimenti il “terrifico” diverrà la “liquidazione” della storia e dell’umano.

Salvatore Bravo

 

[1] Martin Heidegger, Conferenze di Brema e Friburgo, Adelphi, Milano 2002, pag. 20.
[2] Ibidem, pag. 42.
[3] Ibidem, pag. 47.
[4] Ibidem, pag. 25.
[5] Ibidem, pag. 26.
[6] Ibidem, pag. 28.
[7] Ibidem, pag. 29.

Paul Gauguin, Brocca a forma di testa. Autoritratto, 1889
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – La filosofia è cura di sé e della comunità. Dove trionfa l’utile individuale vige il regno del silenzio, mentre l’essere umano è fatto per la parola significante. Senza la libera ricerca l’umanità resterebbe estranea all’infinito che reca dentro di sé. Socrate è l’esempio vissuto del limite che si coniuga con la grandezza della verità.

Mauro Bonazz, Processo a Socratei 001

Salvatore Bravo

La filosofia è cura di sé e della comunità.
Dove trionfa l’utile individuale vige il regno del silenzio,
mentre l’essere umano è fatto per la parola significante.
Senza la libera ricerca l’umanità resterebbe estranea all’infinito che reca dentro di sé.
Socrate è l’esempio vissuto del limite che si coniuga con la grandezza della verità.

Socrate e la meraviglia
Socrate è l’archetipo della filosofia, è la personificazione dell’eterna ricerca, sempre sulla soglia delle istituzioni, perché il filosofo serve la comunità, ma non le appartiene completamente. La filosofia vive nelle istituzioni, senza esserne organica, per cui è sempre sul limitare; l’attività critica esige l’autonomia senza solitudine. Dove vi è umanità, vi è filosofia, perché l’essere umano cerca la verità. In quanto dotato di logos, nell’atto della ricerca mette in atto processi di riorientamento, si oggettivizza, analizza se stesso per trascendersi: senza tali atti speculativi non è che individualità acefala, e pertanto senza fondamento.
La ricerca lo scopre creatura altra rispetto agli animali non umani. La meraviglia[1] non è nella verità, ma nel tendere verso di essa: l’atto dialettico consente di cogliere, di comprendere, il sublime che alberga nell’umanità. Lo sgomento – dinanzi all’anima umana e al logos – è nello scoprire l’infinito nel finito: mentre si vive la finitezza dello spazio-tempo si svela – in un lungo processo – la verità e, quindi, l’universale. Tale meraviglia è il fondamento –silenzioso e vivo – di ogni civiltà. Senza la libera ricerca l’umanità resterebbe estranea all’infinito che reca dentro di sé. Socrate è l’esempio vissuto del limite che si coniuga con la grandezza della verità limitrofa alla doxa, della razionalità critica sempre sul limite dell’abisso. Ma senza il pericoloso sentiero non vi è umanità, bensì solo addomesticamento del gregge al consenso. La ricerca è “meraviglia panica”, perché ci si può perdere nei suoi sentieri.
I sentieri della filosofia non portano fuori della comunità, ma conducono al suo cuore pulsante senza il quale non vi che l’atomismo delle solitudini. La filosofia insegna a non fuggire dalle istituzioni, ma a conservare la distanza critica che impedisce il consenso automatico ad esse.
Socrate è l’esempio archetipico del dialogo con se stesso e con l’alterità, è l’immagine della sospensione dell’azione in funzione della sua comprensione e della conseguente valutazione etica. Il bene, in Socrate, non è mai definito in un contenuto determinato, in quanto è il processo del pensiero ad essere “il bene”. Il pensiero interrogante inibisce il male, limita gli effetti non voluti dell’agire, poiché non si consegna all’immediatezza dell’azione, ma la media con i processi logici ed argomentativi, i quali non sono solitari, ma si rafforzano nell’intreccio nella parola, nell’incontro con il proprio “io” e con l’alterità.
Il capitale ha timore del logos socratico/filosofico, in quanto la legge, il nomos[2] è sempre mediato dalla ragione comunitaria. Tra la natura e il logos vi è l’attività pensante umana che intenziona la natura, la legge e la tradizione. Il dubbio non è semplice postura, il dubbio è pensiero in atto che cerca la chiarezza di sé, che si sottrae al gioco delle forze naturali, politiche e delle tradizioni per non subirle, ma per rimapparle. In tal modo l’essere umano diviene soggetto e si sottrae alla fatalità che incombe sul suo destino:

«Fondamentale, nella prima accusa, è l’impiego del verbo nomizein. Derivato dal termine nomos, che indica sia l’abitudine sia, più specificatamente, la legge, esso può essere inteso in due modi differenti: può indicare il rifiuto di rispettare le pratiche culturali della città oppure, più rapidamente, la negazione dell’esistenza degli dèi. Nel primo caso la traduzione corretta sarebbe “non rispetta gli dèi”, nel secondo “non crede agli dèi”. Nell’Apologia platonica il significato del verbo sembra essere il secondo, intendendo la frase in senso radicale: se Socrate può irridere il suo accusatore, è perché l’accusa è di non credere agli dei in assoluto (e non soltanto agli “dei che la città riconosce”). Una volta che Meleto ha concesso questo punto, Socrate ha buon punto nel confutarlo, sfruttando il secondo capo d’imputazione: se introduce nuovi daimonia. Esseri demoniaci o divini, è evidente che non può negare le divinità».[3]

 

Processo a Socrate
Socrate ed il suo processo (399 a.C.) simboleggiano l’eterna tensione tra la filosofia e le istituzioni. Queste ultime vorrebbero tacitare il potenziale eversivo della filosofia “accademizzandola”, rendendola un eunuco, pronta a consegnarsi al silenzio dell’impotenza. Il pensiero, invece, è duale, nasce dialettico e comunitario, poiché la dualità interiore è già comunità inscritta nel pensiero, nella sua attività che prende forma con la dualità significante. Socrate ascolta la sua voce divina, la quale è il segno del logos, della profondità senza confini che abita il corpo vissuto. Socrate è stato processato perché insegnava l’ascolto di essa, formava invitando a mettersi in contatto con l’io interiore, a dis-alienarsi dal taglio della cieca obbedienza al potere. Dove vi sono relazioni di dominio si cerca di silenziare la voce del logos e dell’autocoscienza. Il potere in ogni epoca cerca di ridurre la vita umana a poche variabili controllabili; affinché ciò possa avvenire, è necessario sviluppare l’abitudine all’obbedienza ed ipostatizzare leggi e tradizioni.
La filosofia disincrosta i pregiudizi, libera la mente dai ceppi invisibili delle ossificazioni indotte. In Platone l’immagine di Glauco marino, incrostato dai sedimenti del tempo, è la metafora che esprime il lavoro filosofico, il suo liberare l’anima dalle prigioni delle sovrastrutture. Socrate fa e farà sempre paura, perché personifica il bisogno di autenticità e pratica la filosofia per fendere la caverna con le sue stratificazioni ideologiche:

«Per cominciare, andrebbe osservato un elemento linguistico. Troppo raramente si è prestata la dovuta attenzione al fatto che nell’accusa il termine impiegato è l’aggettivo daimonion e non il sostantivo daimon. Come ha opportunamente osservato Louis-André Dorion, nel linguaggio del V secolo daimonion, usato spesso come sostantivo con l’aggiunta dell’articolo to, vale a dire un sinonimo di theos o theion; esso indica la “divinità” o, più genericamente “il divino”. Niente a che vedere, dunque, con il celebre “demone” (daimon) di Socrate, che è in realtà un’invenzione dei platonici della prima età imperiale: in Platone e in Senofonte non si fa mai menzione di un “demone”, ma sempre qualcosa di “demoniaco”. Quando parlava di questa “voce” o di questo “segno”, Socrate non faceva altro che rivendicare un rapporto privilegiato che avrebbe avuto con il mondo della divinità: ciò serve a delineare, una volta di più, che Socrate non era ateo, ma non giustifica la tesi secondo cui Socrate opporrebbe il suo demone (tanto più che nell’accusa si allude a ta daimonia, al plurale) agli dèi tradizionali».[4]

 

Filosofia ed oligarchia
Socrate dimostra l’assurdo che si cela dietro norme apparentemente razionali. La filosofia ha il compito di discernere tra la razionalità critica e la razionalità ideologica. La democrazia ateniese si fonda sulla costrizione alla partecipazione e sull’estrazione degli incarichi. La democrazia non può essere partecipazione “su pressione pubblica”, né distribuzione degli incarichi pubblici con criteri non razionali. Il potere si consolida con il falso egualitarismo. Socrate è avverso alla democrazia che si auto-fonda sull’irrilevanza, in tal modo la democrazia non è che la maschera dell’oligarchia. Solo la competenza e la consapevolezza del bene pubblico permettono la vera partecipazione. L’oligarchia paludata da democrazia distribuisce gli incarichi su paradigmi egualitaristici, in modo da poter condizionare l’attività dell’inesperto di turno. Gli incarichi sono “servizio” alla comunità, per cui rivestire un ruolo sociale deve implicare motivazione e perizia. Socrate svela che la democrazia di Atene è una plutocrazia senza futuro:

«L’apragmosyne è l’opposto esatto della partecipazione, che Pericle celebra come la virtù principale del buon cittadino democratico nell’epitaffio tucidideo. A questo proposito è interessante ricordare la già menzionata descrizione tucididea di Antifonte (VIII 68, 1), che si era sempre tenuto in disparte dalla vita politica di Atene: nel caso il significato antidemocratico della scelta era evidente. Anche se non può essere ricondotto solo a questo, il contesto politico potrebbe aver giocato un ruolo importante pure nel caso di Socrate. Nella stessa direzione vanno anche le perplessità che riguardano alcune pratiche fondamentali della democrazia ateniese. Pur nelle loro divergenze, le fonti antiche ci restituiscono compatte l’immagine di un Socrate decisamente avverso alla pratica del sorteggio».[5]

 

Filosofia è cura di sé e della comunità
Socrate, in piena sofistica e crematistica è uno scandalo, in quanto si occupa in modo disinteressato della cura dei suoi cittadini ed in particolare delle nuove generazioni. Il potere non può tollerare che si dimostri con l’esempio vissuto che è possibile un altro modo di vivere che metta in discussione l’individualismo trasformato in sistema e visione antropologica. Socrate vuole insegnare il bene, non come formula, ma come processo in cui la soggettività ritrova la comunità, e non il collettivismo dogmatico. La scelta di accettare il percorso maieutico è individuale, ma la pratica è comunitaria, la libertà è nell’universale concreto, nel quale la soggettività è in tensione con l’universale:

«Sono solo alcuni esempi, che confermano nella relazione specifica con Alcibiade quello che Socrate è stato per Atene: l’unico che si è preoccupato del bene dei suoi cittadini; più precisamente: del bene della loro anima, e in particolare dei giovani. Parlare dell’amore è servito a chiarire il senso del suo insegnamento: una lezione che ha riguardato la vita prima ancora delle nozioni grammaticali o delle tecniche argomentative».[6] 

La filosofia è cura di sé e della comunità, l’una è speculare l’altra, non vi può essere benessere individuale senza il bene pubblico. Socrate ha testimoniato che nessuno si salva da solo, che ogni comunità è sana solo se smaschera le oligarchie travestite da democrazie, ed i lupi camuffati da cani, come dirà il suo discepolo Platone. Socrate ci parla, oggi, più di prima, in quanto l’economicismo abietto votato all’illimitatezza ci mostra una società senza comunità, in cui è plurale solo l’infelicità. Ciascuno è infelice a proprio modo, dato che ogni legame con la verità e la dialettica sono stati recisi in nome dell’utile immediato e della mutilazione razionale ed emotiva di ciascuno. Dove trionfa l’utile individuale vige il regno del silenzio, mentre l’essere umano è fatto per la parola significante.

Salvatore Bravo

[1] Meraviglia da thaûma (sgomento).

[2] Nomos dal greco Νόμος: legge, tradizione.

[3] Mauro Bonazzi, Processo a Socrate, Laterza Bari, 2020, pp. 73-74.

[4] Ibidem, pag. 79.

[5] Ibidem, pag. 51.

[6] Ibidem, pag. 119.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Costanzo Preve ha analizzato la totalità sociale con gli occhi dell’intelligenza filosofica praticando la libertà dalle strutture di potere. Chiede di essere giudicato non sulla base di illusorie appartenenze di gruppo, ma sulla base esclusiva delle sue acquisizioni teoriche.

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pp. 64, , Euro 7 – Collana “Divergenze”

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Salvatore Bravo
Costanzo Preve ha analizzato la totalità sociale con gli occhi dell’intelligenza filosofica
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Chiede di essere giudicato non sulla base di illusorie appartenenze di gruppo,
ma sulla base esclusiva delle sue acquisizioni teoriche

 

Intellettuali ed alienazione simbolica

La crisi della funzione dell’intellettuale è speculare alla crisi che coinvolge ogni settore della vita sociale ed economica. La totalità del sistema sociale in cui viviamo è falsa. È l’assurda “verità” della condizione contemporanea con l’aggravante che il falso non provoca scandalo. Non vi sono alzate di scudi contro la società dello spettacolo-mercato. Anzi, è osannata e portata religiosamente sugli altari per essere adorata. Ogni manifestazione della vita relazionale è segnata dall’assenza di verità, ogni azione reca in sé finalità acquisitive. Per raggiungere tale obiettivo si recita il falso: lo si insegna con linguaggio orwelliano, si chiama «educazione all’impresa». Si deve imparare a conoscere l’altro, a comprenderne i gusti e le fragilità per poterlo attrarre ed eventualmente saccheggiare. Il falso – in una perversa conversione del bene in male – è la legge che regna, è la finalità di ogni “educazione”. Nessuna educazione sentimentale, ma soltanto educazione al calcolo ed al cinismo. Nella vendita globale, nell’entificazione di tutti e di tutto, ciascuno vende ciò che può: c’è chi vende la propria immagine, perché sul mercato non ha altro da offrire. La svalorizzazione dell’essere umano è la legge del totalitarismo del mercato. Gli ultimi tra i sussunti sono costretti a vendere il proprio corpo che diviene un feticcio da adorare in una sorta di pubblica regressione pagana. I dominati spesso sono i complici inconsapevoli del sistema, non hanno conosciuto altro che la totalità come falsità. Dopo la caduta del muro nel 1989 il modello unico della ragion liberale – ormai senza katechon (limite) alcuno – governa. Nella società che si dichiara la più pluralista della storia, governa il modello unico del mercato, il quale è entrato nelle relazioni, nell’ordine dei concetti, nel corpo vissuto (Gestell): fuori dal mercato non vi è nulla. Un perverso essere parmenideo è planato tra di noi, assimila tutto, non ammette contrapposizioni dialettiche. L’asservimento alla nuova divinità totalitaria non potrebbe essere più completa, l’alienazione è diventata la legge della nuova libertà senza trasgressione, perché tutto è permesso, purché non si pensi. Il mercato come modello di vita non ha nessun livello assiologico, vive dell’irrilevanza. In questo contesto l’intellettuale, come gruppo sociale, è parte della totalità del falso. È il gruppo sussunto dai dominatori della finanza, il gruppo che si fa mediatore simbolico del falso.

Il potere dispone non solo dei corpi e dei comportamenti, ma specialmente delle parole. Gli “intellettuali” – che dovrebbero liberare mediante la parola – hanno invece impoverito il lessico, eliminato il congiuntivo, modo della possibilità, per il solo indicativo, modo della certezza, inaugurando l’alienazione del linguaggio.[1] Il linguaggio scurrile, che ammicca al linguaggio del popolo, è il modo più immediato per ottenere il consenso e condizionare i subalterni per spingerli nella gabbia del mercato. Il linguaggio non è più simbolo[2] che unisce, ma strumento perverso di inclusione. Gli “intellettuali” sono un gruppo divisorio, il loro intento è sussumere ed atomizzare, in quanto prezzolati dal potere. Giornalisti ed accademici divengono parte della struttura di potere, la clonano, la riproducono. Il simbolo, nel suo significato profondo, è unione, è parte dell’essenza della comunicazione, mette in comune per completare una prospettiva, per unire informazioni e giungere al concetto. Gli “intellettuali” invece lavorano, affinché questo non avvenga, al concetto hanno sostituito la chiacchiera (Gerede) con cui estraniare ciascuno da se stesso e dal mondo storico. L’alienazione linguistica è derealizzazione organizzata, un crimine contro l’umanità su cui regna il silenzio.

 

Costanzo Preve “intellettuale anomalo”

I “no” sono stati detti, sono rari, e per questo immensamente preziosi. Costanzo Preve ne è un esempio. Si è congedato dall’intellettuale “impegnato”, in quanto onnipresente, e limitrofo alla cultura del fare e dell’apparire. L’intellettuale impegnato rischia di essere parte del narcisismo socialmente integrato. L’impegno declinato in presenza dei media rischia di trasformarsi in attivismo narcisistico. Inoltre, la presenza ipertrofica dell’immagine comporta che l’intellettuale diventi parte del circo mediatico, perché per utilizzarlo deve pagare il pedaggio dell’onnipresenza visiva con la propria onestà intellettuale. L’alternativa all’intellettuale impegnato è stata l’intellettuale organico, il quale inevitabilmente diviene parte di un meccanismo: il partito e il movimento. Se si è parte di un sistema è inevitabile il compromesso, lo schierarsi parziale ed ideologico:

 

«Nel mio caso la prima decisione esistenziale (fine anni Cinquanta – inizio anni Sessanta) fu quella di non accettare l’insieme di valori adattativi al capitalismo della visione del mondo piccolo-borghese dell’Italia dell’epoca e di “contestarli”, ed in qual periodo storico il cosiddetto “marxismo” costituiva il principale modo di farlo (non l’unico, ce ne erano anche altri, il neofascismo, l’anarchismo, gli stili di vita detti “alternativi”, eccetera). Il “marxismo” era così assai spesso scelto esistenzialmente senza neppure conoscerne gli elementi minimi filosofici, sociologici ed economici, conoscenza che veniva dopo. Non si diventava “comunisti” dopo aver studiato il marxismo, ma si diventava “marxisti” dopo essersi autoproclamati esistenzialmente comunisti. In questo, niente di nuovo. La storia ci offre molti esempi di questo tipo. E tuttavia la prima “eresia” che caratterizzò la mia iniziazione al marxismo stava in ciò, che nell’ambiente che mi era più vicino (la piccola borghesia di Torino di “sinistra”) le due modalità ideologiche dominanti erano quelle dell’antifascismo azionista e dell’operaismo sociologico di identificazione. Entrambe mi erano profondamente estranee, esistenzialmente e culturalmente (inutile qui scendere in dettagli), per cui il mio “tradimento” del profilo identitario piccolo-borghese di integrazione subalterna nel capitalismo non mi portò ad un approdo collettivo nuovo in cui riconoscermi, ma da un’inedita solitudine. Dato il mio sostanziale disinteresse sia per l’antifascismo azionista (Bobbio, Antonicelli, eccetera) sia per l’identificazione operaistica (Panzieri, estremisti gruppettari successivi), il mio approdo al marxismo fu un approdo al marxismo “in solitudine”. Questo non significa affatto – ovviamente – non avere contatti permanenti, amici, compagni, ed anche estimatori. Significa però relazionarsi con i gruppi “militanti” organizzati come ci si relaziona con un autobus di linea. Lo si prende, ma si sale e si scende alla fermata che ci sembra più opportuna. Dato il clima intellettuale del periodo storico (1956-1991), che poi in una mia opera ho connotato come “tardomarxismo”, non potevo che essere attratto dalla figura dell’ “intellettuale”, nella doppia versione dell’intellettuale impegnato (Sartre) e dell’’intellettuale organico (Gramsci). Oggi sono lontanissimo da questi due profili, e non mi considero più nemmeno un “intellettuale”. So bene che all’interno della divisione del lavoro fra lavoro intellettuale e lavoro manuale ed all’interno di una gerarchia differenziale di conoscenze e di competenze specifiche di fatto si è spesso “intellettuali”, lo si voglia o non lo si voglia, in quanto produttori di profili ideologici articolati e sistematizzati che hanno poi una “ricaduta” ed un utilizzo manipolato da parte di ceti politici specializzati (intellettuali di “sinistra”) o da parte di apparati oligarchici di potere economico con il loro accompagnamento corale giornalistico (“opinione pubblica”, eccetera). E tuttavia gli intellettuali, a partire da fine Ottocento, sono un gruppo sociale specifico che non deve essere assolutamente confuso con gli studiosi, gli specialisti, gli artisti, gli scienziati, i filosofi, eccetera. Tutti costoro possono anche essere “intellettuali”, così come un medico può anche essere velista ed un avvocato può essere anche cacciatore. E tuttavia, gli intellettuali in quanto tali sono soprattutto produttori specializzati di profili ideologici articolati, arricchiti e sistematizzati. Nel mondo di “sinistra” della seconda metà del Novecento i due profili principali di intellettuale erano le figure convergenti e largamente complementari di intellettuale “impegnato” (Jean-Paul Sartre) e di intellettuale “organico” (Antonio Gramsci). Io ho cercato sinceramente di essere entrambi, ma ora ho cambiato idea. Vale la pena dire – sia pure brevemente – il perché. L’intellettuale impegnato (engagé) è quello che si impegna per le cause giuste contro quelle ingiuste (popoli del terzo mondo, classe operaia, sfruttati, eccetera). Tutto questo è molto nobile, corretto e non mi sogno certamente di criticarlo. E tuttavia non possiamo non riflettere sulla sua evoluzione. Oggi chi si impegnava per i popoli rivoluzionari si impegna per l’esportazione imperialista armata dei cosiddetti “diritti umani”, oscena protesi ideologica dell’impero americano distruttore della legalità internazionale. Se infatti il criterio fondamentale non è quello della comprensione del mondo ma è quello dell’ “impegno”, si passa la vita in una frenetica staffetta da un impegno ad un altro, con esiti inevitabilmente narcisistici ed autoreferenziali. Inoltre, con esiti soggettivistici. Ad esempio, Sartre si “impegnava” per l’Algeria, ma per la Palestina no (probabilmente per il timore di essere considerato “antisemita”). Ma gli oppressi si difendono da soli, ed hanno bisogno prima di tutto che si comprenda e si rispetti la loro causa, senza bisogno di grilli parlanti o di “funzionari dell’umanità”. L’intellettuale organico è l’intellettuale che, sulla base dell’interpretazione dicotomica del capitalismo come modo di produzione permanentemente scisso in polo borghese e polo proletario, si schiera contro la Classe Borghese per la Classe Proletaria. Ma dal momento che la classe in sé e per sé è una pura astrazione nella sua immediatezza diretta di fabbrica (a meno che si sia anarcosindacalisti e/o “operaisti”, ma è lo stesso), di fatto essere “organici” significa scegliere l’organicità ad un determinato partito o gruppo politico. Ma questa organicità non è che una forma di subalternità introiettata, che mette al servizio di gruppi specializzati di politici la funzione intellettuale di comprensione della società. Il fallimento è assicurato, ed il Novecento ne è stato uno scenario teatrale gigantesco. Con tutti i miei difetti soggettivi, psicologici e caratteriali, e con tutte le mie insufficienze oggettive, scientifiche e filosofiche, rivendico però a mio onore l’avere capito fino in fondo che l’autoidentificazione illusoria e fantasmatica con il gruppo sociale degli “intellettuali”, impegnati e/o organici che siano, non poteva che svilupparsi dialetticamente verso la rovina e l’autodissoluzione, che sono comunque sotto i nostri occhi (Veltroni, Sarkozy, eccetera). Gli intellettuali sono una forma moderna e postmoderna di clero, sia pure un clero non tenuto al celibato ma anzi invitato alla libera scopata postfamiliare. Eretico o ortodosso, giornalistico o universitario, celibe o scopatore, un clero rimane clero. Non dico che un clero non sia talvolta necessario. A volte lo è. Ma oggi il problema non è quello di aggregarsi per produrre collettivamente (inesistenti) profili ideologici articolati e sistematizzati per uso politico, ma di differenziarsi dai greggi esistenti per tentare di avanzare ipotesi teoriche radicalmente nuove. Questo è impossibile se si intende compatibilizzare l’avanzamento di questa ipotesi con l’appartenenza a gruppi intellettuali oggi esistenti, il cui conservatorismo è tale da produrre automaticamente l’esclusione del reo. Termino allora qui questa modesta autocertificazione. Il signor Costanzo Preve è stato a lungo un “intellettuale”, sia pure di seconda fila e non di prima. Ma oggi non lo è più, e chiede di essere giudicato non più sulla base di illusorie appartenenze di gruppo, ma sulla base esclusiva delle sue acquisizioni teoriche. E di queste cominceremo finalmente a parlare».[3]

 

Costanzo Preve non si giudicava un “intellettuale”, sottolineava la sua distanza dal circo mediatico, dal clero degli oratores, il nuovo clero dedito al meritricio della parola e non solo… Si giudicava un pensatore divergente. Divideva i pensatori in due classi: i convergenti ed i divergenti. I primi convergono verso percorsi sicuri ed accademici, i secondi sfuggono dal branco e dalle convenzioni, per divergere verso orizzonti che nessuno ha calpestato. Possono anche perdersi e sbagliare percorso, ma l’spetto più importante del pensatore è rischiare il nuovo, aprendo una breccia nella cappa plumbea del “politicamente corretto”. Il prezzo della libertà può essere la marginalità – spesso non priva di sofferenze – dai circuiti del potere costituito, ma non vi è altro modo se si vuole creare e comunicare un messaggio emancipativo. Socrate è il modello di Costanzo Preve: in un momento in cui la verità pare essere la vergogna da cui fuggire, il dialogo, il logos divengono la trasgressione massima. Soprattutto non l’immagine deve parlare, ma la parola, perché il logos si approssima all’universale con la parola significante, il resto è secondario.

Abbiamo necessità di parole e non di immagini, per questo necessitiamo di modelli che ci ricordano che un altro modo di vivere è possibile. La missione dell’intellettuale che vive e cerca in spirito di verità è quella di testimoniare che dalle lusinghe del falso e del potere ci si può congedare e che l’atteggiamento adattivo ed inclusivo è una delle possibilità del vivere, ma non l’unica, e non certo la migliore. L’intellettuale dev’essere intelligente. Questa affermazione sembra una banalità, ma non lo è. La parola intelligenza deriva da intus legere, leggere dentro. La persona intelligente deve insegnare ad andare oltre l’immediatezza e la riproduzione del falso, per essere veicolo di verità.

Per poter guardare la totalità presente con gli occhi dell’intelligenza bisogna praticare la libertà dalle strutture di potere, con annessi stereotipi. Significa impegno, ma non accettando l’asservimento ideologico all’istituzione che lo vuole ai ceppi.

 

Salvatore Bravo

***

[1] Costanzo Preve, Storia critica del marxismo, La Città del Sole, Napoli 2007, pag. 112.

[2] Il termine “simbolo” deriva dall’unione del prefisso σύμ– (sym-), “insieme” con il verbo greco βάλλω “getto”, letteralmente significa quindi “mettere insieme”.

[3] Costanzo Preve, Autopresentazione di Costanzo Preve [Scritta da lui medesimo].

 
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – La trasformazione dell’essere umano in solo corpo pulsionale è, in assoluto, la violenza massima che si possa immaginare.

L'omicidio di Willy

Salvatore Bravo

La trasformazione dell’essere umano in solo corpo pulsionale è,
in assoluto, la violenza massima che si possa immaginare

 

 

Gewalt

La Gewalt (violenza) è la legge del capitalismo nella fase neoliberista. La violenza è infinita, al punto che la trasformazione dell’essere umano in solo corpo pulsionale è, in assoluto, la violenza massima che si possa immaginare. L’essere umano è ontologicamente fondato sul dualismo: res cogitans/res extensa. Il capitalismo opera per ridurlo a sola res extensa.
Corpo-vetrina in vendita, merce tra le merci, ha un unico attributo che lo distingue dalle altre merci: gli appetiti che servono per sostenere il sistema in perenne crisi. La sovrapproduzione, ormai strutturale, è risolta con la riduzione dell’essere umano a sola res extensa dagli infiniti appetiti indotti. Il circolo della violenza è scientemente organizzato mediante strategie orchestrate dal mondo mediatico e digitale. Tutto è merce, nessuno sfugge al ruolo di consumatore e merce nel contempo. La sovrastruttura – con i suoi servi – opera esaltando il diritto individuale alla mercificazione: nessun limite dev’essere dato al diritto di consumare ed alle voglie. La nuova religione del capitale trasforma le voglie in sacri diritti a cui non ci si può sottrarre. Si mette in atto la “libertà negativa” descritta da Hobbes nel Leviatano: ogni desiderio è lecito, per cui ogni impedimento umano o non umano va abbattuto. Libertà solitaria ed atomistica, in cui l’altro è solo piacere da consumare in vista delle nuove voglie. Tra i piaceri non vi sono gerarchie etiche, ma sono tutti leciti ed egualmente ammessi. È in questo contesto che vanno inseriti i fatti di Colleferro: le responsabilità sono individuali e sociali. Il noto è sconosciuto, come affermava Hegel. In questo caso l’evidenza delle responsabilità sociali, di cui si tace, sono lapalissiane. I protagonisti sono solo corpo esposto in vetrina alla ricerca di conferme pulsionali e narcisistiche. Sono figli di facebook e della cattiva maestra televisione (Popper). I mezzi mediatici-digitali sono il veicolo del valore di scambio di merci e di corpi. Se si osa criticare l’eguaglianza merce-corpo, se si osa proporre limiti, si è tacciati di moralismo, di essere retrogradi e violenti. Il capitale si è impossessato delle parole, è l’unico deputato a parlare. Gli araldi del libero scambismo sono uomini e specialmente donne. Giornaliste ammiccanti e seduttive condannano la violenza, ma difendono la libertà di essere solo corpo esposto; la libertà narcisistica in nome della quale sedurre e strappare l’oggetto del desiderio con ogni mezzo. I corpi sono rifatti, il potere è parte di loro, è collassato nel corpo vissuto, per cui tuonano contro la violenza che le ha fagocitate. Tra le parole delle nuove trombettiere del potere, non vi è critica alcuna al sistema che produce mostri, ma semplice condanna ad eventi di cronaca la cui genetica non è spiegata. La si occulta, perché si devono rimuovere le complicità con la violenza dell’ignoranza e della disinformazione. Si giunge ad atti estremi passando gradualmente per un processo che innesca la violenza a partire dalle parole prive di concetto, ma che orientano l’attenzione sulla forza: vincenti, perdenti, competizione, carriera sono parole del dire quotidiano che costruiscono un mondo darwiniano. Le donne ultime arrivate nel nuovo Eden del capitale non contestano, non proteggono i loro figli, hanno abdicato alla funzione umana di trasmettere valori e mediare la rigidità delle regole. Non proteggono dallo sguardo predatorio le proprie figlie ed i propri figli, anzi li incoraggiano, perché il mondo è da mordere, da conquistare, che ciascuno porti a casa il proprio trofeo piccolo o grande che sia. I padri si sono liquefatti, rincorrono comportamenti adolescenziali, in tale vuoto, abita la violenza, alligna e prolifera ovunque. Nessuna voce si alza per condannare le brutalità quotidiane come parte organica del sistema, come la verità che si rende palese dinanzi a noi, e che invoca la responsabilità civile, etica e filosofica. I corpi medi (partiti-sindacati) essenza della democrazia non intervengono, sono ormai integrati nel sistema.

Si finge scandalo, perché il sistema deve continuare a vivere, perché non si vuole rinunciare alla violenza, dalla normalità della violenza non ci si vuole congedare. Vi è una dipendenza dalla svalorizzazione dell’essere umano, perché essere solo corpo pulsionale è più semplice, vivere nell’immediatezza senza concetto libera dalla responsabilità di essere persone. Il sistema prolifera ed esalta le trombettiere della libertà negativa, le quali denunciano ogni limite, ogni libertà costruita sul riconoscimento relazionale del limite e specialmente sulla fatica del cercare il senso nella realtà. Il silenzio e le rimozioni sono miccia per la coazione a ripetere delle violenze, tutto accade, ma le responsabilità sono solo individuali, per cui, che le violenze continuino pure, in nome della libertà regressiva e narcisistica.

 

Diritto e razionalità

Nella teogonia greca Giove, il potere, è sostenuto nel suo esercizio da Dike (la giustizia) e da Temi (diritto naturale-Terra). Senza giustizia e diritto, il potere è solo violenza, irrazionale, e dunque, minaccia di far cadere il mondo nel caos. Dike indica i valori da realizzare con il sostegno di Temi sua madre. Giove (padre) e Temi (madre) nel loro agire ordinato attuano la giustizia, ovvero Dike, figlia di Giove e Temi. La violenza, l’ingiustizia brutale prolifera nel vuoto delle madri e dei padri, le prime in carriera, i secondi perennemente bambini.

Oggi il potere non ha giustizia e non conosce diritto, ma ha imposto la violenza quale struttura del vivere, in tal modo, siamo tutti complici. Su questo dovremmo farci delle domande, ne siamo tutti coinvolti. Il potere senza razionalità è la gabbia d’acciaio nella quale le contraddizioni continuano a creare tensioni incontrollabili; nella gabbia d’acciaio non si è al sicuro, e tutto può accadere. Si noti la violenza del linguaggio, anche in coloro che vorrebbero porsi dialetticamente rispetto ad esso. Per uscire dalla violenza bisogna rimettere in discussione il sistema in toto, guardare la violenza che scorre nelle nostre vite, nelle nostre parole, ciò è necessario per capire la gravità del problema. Nella violenza siamo tutti implicati con responsabilità e ruoli diversi, non vi sono anime belle, da questo bisogna iniziare per capire l’abisso del neoliberismo.

Salvatore Bravo

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Salvatore Bravo – Sei ancora capace di scandalizzarti come K. Marx ? La «pietra d’inciampo» («scandalum») è anche qualcosa che rende presente il tuo cammino. Pensa allora allo scandalo del denaro e del possesso, pensa alla tua e altrui libertà interiore .

Karl Marx - Pietra d'inciampo – scandalo

Se vuoi godere dell’arte, devi essere un uomo artisticamente educato; se vuoi esercitare qualche influsso sugli altri uomini, devi essere un uomo che agisce sugli altri uomini stimolandoli e sollecitandoli realmente. Ognuno dei tuoi rapporti con l’uomo, e con la natura, dev’essere una manifestazione determinata e corrispondente all’oggetto della tua volontà, della tua vita individuale nella sua realtà. Se tu ami senza suscitare una amorosa corrispondenza, cioè se il tuo amore come amore non produce una corrispondenza d’amore, se nella tua manifestazione vitale di uomo amante non fai di te stesso un uomo amato, il tuo amore è impotente, è un’infelicità.

Karl Marx

Lo scandalo del denaro

I Manoscritti economico-filosofici del 1844 di Marx e pubblicati nel 1932, sono giudicati un’opera “giovanile”. In realtà i manoscritti sono fondamentali per riscontrare – in un periodo di passaggio tra le opere giovanili e le opere della maturità – il nucleo profondamente umanistico del pensiero marxiano. Per umanistico si intende la centralità dell’essere umano nella storia e nel sistema sociale e politico, che può essere giudicato positivamente, se risponde all’essenza generica e sociale dell’essere umano.
L’umanesimo marxiano pone al centro della storia l’essere umano. Non si tratta di un essere umano astratto ed idealizzato, ma colto nella concretezza della sua realtà materiale. L’umanesimo marxiano riporta il male ed il dolore alle condizioni storiche che ne determinano la genesi, per trascenderlo. Il male non ha realtà ontologica, ma alligna nei rapporti sociali ed economici. Marx è nello stesso solco di autori come Spinoza e Rousseau, i quali hanno smascherato il male metafisico per riportarlo a quella che è realmente la sua dimensione all’interno delle relazioni sociali. Il male è l’epifenomeno dei sistemi che negano la natura sociale dell’essere umano. L’essere umano che soffre è spesso il portatore infetto di relazioni sociali sbagliate, innaturali.
Marx ha la capacità di scandalizzarsi dinanzi al male, non indietreggia, ma lo attraversa. Il negativo, ove necessario, va vissuto e compreso per poter riportare l’ordine razionale dove vige e regna il male. Scandalo[1] in greco significa “inciampo”, per cui bisogna inciampare in esso, per potersi cognitivamente rialzare e ritrovare la dignità dell’essere umano. Essa vive nell’autonomia del giudizio che si coniuga con la prassi storica: teoria e prassi sono tra di loro in una tensione feconda e sono capaci di riorientare l’umanità. Il male non è un destino, ma una condizione socialmente fondata dalla struttura economica e dalla sovrastruttura.
Lo scandalo primo è il denaro. Sembra dotato di poteri taumaturgici, visto che è adorato come divinità, al punto da far apparire ciò che non è per ciò che è: il denaro ha il potere di ridurre la persona a sola quantità. È il possesso a determinare il valore della persona, al punto che il possessore di denaro è giudicato eccezionale, ogni virtù gli appartiene miracolosamente: la persona autentica scompare per lasciare spazioin verità ai processi di derealizzazione dell’essere umano; ci si “dis-orienta” dinanzi alla nuova divinità, al feticcio che tutto converte in oro – come Re Mida – fino a morirne.

 

«Ciò che mediante il denaro è a mia disposizione, ciò che io posso pagare, ciò che il denaro può comprare, quello sono io stesso, il possessore del denaro medesimo. Quanto grande è il potere del denaro, tanto grande è il mio potere. Le caratteristiche del denaro sono le mie stesse caratteristiche e le mie forze essenziali, cioè sono le caratteristiche e le forze essenziali del suo possessore. Ciò che io sono e posso, non è quindi affatto determinato dalla mia individualità. Io sono brutto, ma posso comprarmi la più bella tra le donne».[2]

 

Il male alberga nel possesso, nella nuda quantità, tanto che se il possessore di denaro è osannato, colui che ne è privo è giudicato un reietto, una non persona, il paria a cui tutto si può chiedere e niente donare. L’antiumanesimo, già si svela nell’analisi del denaro, poiché in realtà colui che possiede il denaro e colui che non ne ha sono egualmente oggetto dello stesso paradigma: il possesso. Il valore delle persone è transeunte: dipende dal denaro; mentre quest’ultimo è ipostatizzato dà il valore. Il denaro imprime il valore, si rende autonomo, non è più mezzo, ma fine, feticcio dinanzi al quale ci si inginocchia:

 

«S’intende da sé che l’economia politica considera il proletario, cioè colui che senza capitale e senza rendita fondiaria vive unicamente del lavoro, di un lavoro unilaterale ed astratto, soltanto come lavoratore. Essa può quindi sostenere il principio che egli, al pari di un cavallo, deve guadagnare tanto che gli basti per poter lavorare. Essa non lo considera come uomo nelle ore non dedicate al lavoro, ma affida questa considerazione alla giustizia criminale, ai medici, alla religione, alle tabelle statistiche, alla politica e alla polizia».[3]

 

Economia classica e critica dell’economia
L’economia classica occulta la verità che si cela nella genetica della proprietà privata; essa non è semplicemente l’effetto del lavoro. La proprietà privata ha nel suo grembo la violenza del sistema. La proprietà ha la sua ragion d’essere nell’alienazione, non nel semplice sfruttamento, ma nella riduzione graduale della persona in cosa (Ding), l’alienazione (Entfremdung) è dunque male non ontologico, ma sociale. La persona diviene straniera (Fremd) a se stessa, è sciolta da ogni relazione con se stessa e con gli altri, è solo nuda vita. La persona – divenuta oggetto – è negata nella sua natura sociale e generica (Gattungswesen) per diventare strumento di una struttura sociale nichilista, perché idolatra il possesso per negare l’essere umano. Il soggetto che pone la storia diviene oggetto della realtà economica che si rende autonoma. L’alienazione riguarda anche il possessore, ma nell’operaio, nel lavoratore dipendente si rivela la violenza (Gewalt) di un sistema inemendabile:

 

«L’economia politica nasconde l’estraniazione insita nell’essenza stessa del lavoro per il fatto che non considera il rapporto immediato esistente tra l’operaio (il lavoro) e la produzione. Certamente, il lavoro produce per i ricchi cose meravigliose; ma per gli operai produce soltanto privazioni. Produce palazzi, ma per l’operaio spelonche. Produce bellezza, ma per l’operaio deformità. Sostituisce il lavoro con macchine, ma ricaccia una parte degli operai in un lavoro barbarico e trasforma l’altra parte in macchina. Produce cose dello spirito, ma per l’operaio idiotaggine e cretinismo».[4]

 

Prassi e comunità
L’essere umano è nella natura, ma se ne differenzia in quanto non è semplice presenza, non si limita a rispecchiare la realtà (Obiectum), ma la trasforma (Gegenstand) in modo consapevole. L’essere umano trasforma la natura, l’economia, i valori ed in tal modo pone il suo mondo (Welt), il quale non è semplice ambiente (Umwelt). L’animale riproduce il suo ambiente, le sue attività sono complesse, ma istintive e ripetitive. L’essere umano crea mondi, è capace di immaginare il futuro, e di cogliere nel presente non solo le contraddizioni, ma anche le potenzialità da mettere in atto. L’essenza generica dell’essere umano è generatrice di mondi, e ciò non si concretizza in solitudine, ma in modo comunitario. Nell’azione comunitaria vi è la rinuncia al titanismo romantico, all’eroe che fa di se stesso il trasformatore dei mondi. Solo la comunità può operare un’autentica prassi, e quest’ultima è responsabilità etica verso la storia e verso la comunità. La partecipazione collettiva è attività che esige l’impegno etico di tutti, perché la storia non è proprietà esclusiva di taluni o proprietà esclusiva di classe: la storia è il luogo topico dell’umanità, è la casa dell’essere umano:

 

«L’universalità dell’uomo appare praticamente proprio in quella universalità, che fa della intera natura il corpo inorganico dell’uomo, sia perché essa 1) è un mezzo immediato di sussistenza, sia perché 2) è la materia, l’oggetto e lo strumento della sua attività vitale. La natura è il corpo inorganico dell’uomo, precisamente la natura in quanto non è essa stessa corpo umano. Che l’uomo viva della natura vuol dire che la natura è il suo corpo, con cui deve stare in costante rapporto per non morire. Che la vita fisica e spirituale dell’uomo sia congiunta con la natura, non significa altro che la natura è congiunta con se stessa, perché l’uomo è una parte della natura.
Poiché il lavoro estraniato rende estranea all’uomo 1) la natura e 2) l’uomo stesso, la sua propria funzione attiva, la sua attività vitale, rende estranea all’uomo la specie; fa della vita della specie un mezzo della vita individuale. In primo luogo il lavoro rende estranea la vita della specie e la vita individuale, in secondo luogo fa di quest’ultima nella sua astrazione uno scopo della prima, ugualmente nella sua forma astratta ed estraniata. Infatti il lavoro, l’attività vitale, la vita produttiva stessa appaiono all’uomo in primo luogo soltanto come un mezzo per la soddisfazione di un bisogno, del bisogno di conservare l’esistenza fisica. Ma la vita produttiva è la vita della specie. E la vita che produce la vita. In una determinata attività vitale sta interamente il carattere di una “species”, sta il suo carattere specifico; e l’attività libera e cosciente è il carattere dell’uomo. La vita stessa appare soltanto come mezzo di vita.
L’animale è immediatamente una cosa sola con la sua attività vitale. Non si distingue da essa. E quella stessa. L’uomo fa della sua attività vitale l’oggetto stesso della sua volontà e della sua coscienza. Ha un’attività vitale cosciente. Non c’è una sfera determinata in cui l’uomo immediatamente si confonda. L’attività vitale cosciente dell’uomo distingue l’uomo immediatamente dall’attività vitale dell’animale. Proprio soltanto per questo egli è un essere appartenente ad una specie. O meglio egli è un essere cosciente, cioè la sua propria vita è un suo oggetto, proprio soltanto perché egli è un essere appartenente ad una specie».[5]

 

Comunismo
Nei Manoscritti Marx indica gli elementi essenziali del comunismo, il paradigma a cui deve rispondere. La storia non si può prevedere, pertanto si limita a descrivere i fondamenti del comunismo. Il comunismo è la fine dell’autoestranazione: l’essere umano nel comunismo metterà in atto un sistema sociale che favorisce lo sviluppo e l’affinamento della natura dell’essere umano. Si tratta dell’umanesimo integrale, in quanto la persona deve poter sviluppare le sue potenzialità, dev’essere il fine che guida il sistema socio-economico e non certo esserne l’oggetto. Comunismo, dunque, come inizio della storia e fine della lotta darwiniana che ha reso l’essere umano simile agli animali non umani, come movimento dialettico che trascende le scissioni alienanti che hanno attraversato la storia:

 

«3) Il comunismo come soppressione positiva della proprietà privata intesa come autoestraniazione dell’uomo, e quindi come reale appropriazione dell’essenza dell’uomo mediante l’uomo e per l’uomo; perciò come ritorno dell’uomo per sé, dell’uomo come essere sociale, cioè umano, ritorno completo, fatto cosciente, maturato entro tutta la ricchezza dello svolgimento storico sino ad oggi. Questo comunismo s’identifica, in quanto naturalismo giunto al proprio compimento, con l’umanismo, in quanto umanismo giunto al proprio compimento, col naturalismo; è la vera risoluzione dell’antagonismo tra la natura e l’uomo, tra l’uomo e l’uomo, la vera risoluzione della contesa tra l’esistenza e l’essenza, tra l’oggettivazione e l’autoaffermazione, tra la libertà e la necessità, tra l’individuo e la specie. È la soluzione dell’enigma della storia, ed è consapevole di essere questa soluzione».[6]

 

Anno zero
Si può ricominciare da Marx per comprendere il presente e per immaginare il futuro. Ma se non vi è il senso etico dello scandalo ogni inizio è improbabile, non bastano le condizioni socio-economiche per guidare la prassi, è necessario ascoltare la profondità etica che ciascuno reca con sé per riprendere il cammino storico. La grande operazione attuale del capitalismo assoluto è l’addomesticamento del senso etico: la nuova disciplina del potere “educa” all’indifferenza ed all’utile personale, in modo che l’ingiustizia possa essere normalizzata e diventare la seconda natura dell’essere umano.
Resistere significa donarsi, trasgredire il comandamento dell’utile, e testimoniare che la violenza (Gewalt) è un accidente storico e non la verità dell’essere umano. La nostra è un’epoca che necessita di testimonianza attiva per smentire gli imperativi del turbocapitalismo. I principi di ogni civiltà sono negati in nome della finanza: è l’anno zero della civiltà, è l’epoca della grande dispersione, dopo il diluvio della finanza. Vico ha descritto il diluvio e la regressione umana conseguente, ma ne ha evidenziato anche la devastazione ambientale, in quanto l’abbandono della civiltà riguarda l’umanità e l’ambiente in cui concretamente si vive. Dinanzi al diluvio della storia si ha il dovere di attraversare il negativo per ritrovare il fondamento onto-assiologico senza il quale non vi è che il male di vivere. I classici sono di ausilio per comprendere il reale storico, ci donano immagini con cui concettualizzare la storia: resistere significa, anche, centralità dei classici nelle nostre vite:

 

«Ma delle Nazioni di tutto il restante Mondo altrimenti dovette andar la bisogna; perocchè le razze di Cam, e Giafet dovettero disperdersi per la gran Selva di questa Terra con un’ error ferino di dugento anni, e così raminghi e soli dovettero produrre i figliuoli con una ferina educazione nudi d’ogni umano costume, e privi d’ogni umana favella, e sì in uno stato di bruti animali: e tanto tempo appunto vi bisognò correre, che la Terra disseccata dall’umidore dell’Universale diluvio potesse mandar’in aria delle esalazioni secche a potervisi ingenerare de’ fulmini, da’ quali gli Uomini storditi, e spaventati si abbandonassero alle false religioni di tanti Giovi, che Varrone giunse a noverarne quaranta, e gli Egizj dicevano, il loro Giove Ammone essere lo più antico di tutti; e si diedero ad una spezie di Divinazione d’indovinar l’avvenire da’ tuoni, e da’ fulmini, e da’ voli dell’ aquile, che credevano essere uccelli di Giove».[7]

Salvatore Bravo

***

[1] Scandalo, latino scandalum, a sua volta dal greco σκάνδαλον (skàndalon), ossia “inciampo”.
[2] Marx, Manoscritti economico-filosofici, Il denaro, da Archivio Marx-Engels, 2007.
[3] Ibidem.
[4] Ibidem, Il lavoro estraniato, da Archivio Marx-Engels 2007.
[5] Ibidem.
[6] Ibidem, Proprietà privata e comunismo, da Archivio Marx-Engels 2007.
[7] G. Vico, La Scienza Nova, Edizione Centro di Umanistica Digitale dell’ISPF-CNR, progetto ISPF, “Biblioteca vichiana”, 2007, pag. 44.


Romeo Castellucci – Scandalo è una parola abusata e perlopiù misconosciuta. In senso greco l’etimologia è «la pietra d’inciampo». E’ qualcosa che ti arresta, solo per un momento, ma che ti rende presente il tuo cammino. La provocazione è stupida, avvilisce l’intelligenza.


Karl Marx – Cristalli di denaro: “auri sacra fames”
Karl Marx – Il denaro è stato fatto signore del mondo
Karl Marx – Il denaro uccide l’uomo. Se presupponi l’uomo come uomo e il suo rapporto col mondo come un rapporto umano, potrai scambiare amore soltanto con amore
Karl Marx – La natura non produce denaro
Karl Marx (1818-1883) – A 17 anni, nel 1835, già ben sapeva quale sarebbe stata la carriera prescelta: agire a favore dell’umanità.
Karl Marx (1818-1883) – Il capitale, per sua natura, nega il tempo per una educazione da uomini, per lo sviluppo intellettuale, per adempiere a funzioni sociali, per le relazioni con gli altri, per il libero gioco delle forze del corpo e della mente.
Karl Marx (1818-1883) – La patologia industriale. La suddivisione del lavoro è l’assassinio di un popolo
Karl Marx (1818-1883) – Sviluppo storico del senso artistico e umanesimo comunista. La soppressione della proprietà privata è la completa emancipazione di tutti i sensi umani e di tutte le qualità umane. Il comunismo è effettiva soppressione della proprietà privata quale autoalienazione dell’uomo, è reale appropriazione dell’umana essenza da parte dell’uomo e per l’uomo
Karl Marx (1818-1883) – Il regno della libertà comincia soltanto là dove cessa il lavoro determinato dalla necessità.
Karl Marx (1818-1883) – Gli economisti assomigliano ai teologi, vogliono spacciare per naturali e quindi eterni gli attuali rapporti di produzione.
 
Karl Marx (1818-1883) – Per sopprimere il pensiero della proprietà privata basta e avanza il comunismo pensato. Per sopprimere la reale proprietà privata ci vuole una reale azione comunista.
Karl Marx (1818-1883) – Noi non siamo dei comunisti che vogliono abolire la libertà personale. In nessuna società la libertà personale può essere più grande che in quella fondata sulla comunità.
Karl Marx (1818-1883) – La sensibilità soggettiva si realizza solo attraverso la ricchezza oggettivamente dispiegata dell’essenza umana.
Karl Marx (1818-1883) – Vi sono momenti della vita, che si pongono come regioni di confine rispetto ad un tempo andato, ma nel contempo indicano con chiarezza una nuova direzione.
Karl Marx (1818-1883) – Quando il ragionamento si discosta dai binari consueti, si va sempre incontro a un iniziale “boicottaggio”
Karl Marx (1818-1883) – L’arcano della forma di merce. A prima vista, una merce sembra una cosa ovvia. Dalla sua analisi, risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici. Ecco il feticismo che s’appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci.
Karl Marx (1818-1883) – Ogni progresso compiuto dall’agricoltura capitalista equivale a un progresso non solo nell’arte di DERUBARE L’OPERAIO, ma anche in quella di SPOGLIARE LA TERRA, ogni progresso che aumenta la sua fertilità in un certo lasso di tempo equivale a un progresso nella distruzione delle fonti durevoli di tale fertilità
Karl Marx (1818-1883) – Il sistema monetario è essenzialmente cattolico, il sistema creditizio è essenzialmente protestante. La fede nel valore monetario come spirito immanente delle merci, la fede nel modo di produzione e nel suo ordine prestabilito, la fede nei singoli agenti della produzione come semplici personificazioni del capitale autovalorizzantesi.
Karl Marx (1818-1883) – L’uomo «totale», è l’uomo che si appropria del suo essere onnilaterale. L’uomo ricco è l’uomo che ha bisogno di una totalità di manifestazioni di vita umane, l’uomo in cui la propria realizzazione esiste come necessità interna, in una società in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo.
Karl Marx (1818-1883) – Non è per vergogna che si fanno le rivoluzioni. La vergogna è già una rivoluzione, è una sorta di ira che si rivolge contro se stessa. E se un’intera nazione si vergognasse realmente, diventerebbe simile a un leone, che prima di spiccare il salto si ritrae su se stesso.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – La engelsiana dialettica della storia è non solo antiumanistica, ma favorisce forme di sudditanza rafforzando comportamenti fatalistici e minando l’essenza stessa del comunismo, la quale è emancipazione comunitaria, tensione positiva tra libertà del singolo e libertà della comunità.

K. Marx- F. Engels dialettica della storia

Salvatore Bravo

La engelsiana dialettica della storia è non solo antiumanistica, ma favorisce forme di sudditanza rafforzando comportamenti fatalistici e minando l’essenza stessa del comunismo, la quale è emancipazione comunitaria, tensione positiva tra libertà del singolo e libertà della comunità.

La sinistra che non c’è lascia spazio alle sue imitazioni, ai partiti-movimenti utilizzati ad hoc dai potentati economici per le elezioni o per far accettare più docilmente dai popoli “provvedimenti e riforme” contro i popoli. La fine del comunismo reale novecentesco impone un lungo percorso di ricostruzione ideologica mediata dalla riflessione non solo sugli errori strettamente storici, ma anche di ordine ideologico.
Il comunismo è stato segnato, in tal senso, dall’interpretazione engelsiana di Marx. Non è stato sufficientemente valutato che il determinismo di Engels era parte del positivismo dell’Ottocento, un mezzo, probabilmente, per rendere il messaggio coerente alla sua epoca e per rafforzare la lotta con l’errata idea della inevitabilità della vittoria finale del proletariato. Il determinismo ha anche favorito la sconfitta della sinistra, poiché è stato utilizzato dai burocrati e dalle nomenclature per passivizzare l’attività politica della base – tanto il successo era già iscritto nella dialettica della storia, pensata come ineluttabilmente vincente –, con l’inevitabile allontanamento della base dal comunismo reale del Novecento, vissuto come estraneo ed opprimente. Non solo! Forse vi è una sostanziale relazione tra la passività con cui i popoli hanno accettato l’economicismo crematistico attuale ed il passato ideologico comunista, in quanto anche quest’ultimo era sostanzialmente una forma di economicismo che aveva esemplificato banalizzandolo il ben più profondo e radicale pensiero di marxiano. Vi è stato solo un passaggio di consegne tra forme diverse di economicismo.
Marx aveva legato in modo indissolubile l’economicismo all’alienazione: il comunismo doveva realizzare, in primis, la liberazione dall’alienazione. Nel comunismo reale del Novecento l’alienazione era invece venuta mutando ancor più come sistema, e ciò non ammette concessioni e giustificazioni anche se le circostanze storiche avverse costringevano il proletariato di tutti i paesi (socialisti e non) a vivere in perenne difesa dai disvalori dell’Occidente e non favorivano forme di democrazia e partecipazione.
Bisogna, dunque, tornare a Marx non nella forma del feticcio ideologico, ma per curvarlo al presente, per tras-formare nuclei teorici marxiani in fondamenti per il presente e per il futuro della lotta contro il nichilismo del capitalismo assoluto. In Marx, certo, vi sono contraddizioni che hanno permesso l’affermarsi dell’economicismo nella forma engelsiana. Ma la concezione dialettica della storia presente nel Marx maturo è stata trasformata da Engels nel fondamento del marxismo. La dialettica della storia è non solo antiumanistica, ma favorisce forme di sudditanza, in quanto se la storia è già iscritta nelle sue leggi non bisogna che attenderne gli inevitabili sviluppi, e ciò rafforza comportamenti fatalistici minando l’essenza stessa del comunismo, la quale è emancipazione comunitaria, tensione positiva tra libertà del singolo e libertà della comunità. Si tratta, insomma, dell’universale concreto, in cui singolare ed universale  interagiscono in modo fecondo. La storia letta come successione meccanicistica di fasi, invece, insegna l’universale astratto, affermando che le leggi della storia governano il destino degli esseri umani:

«La concezione materialistica della storia parte dal principio che la produzione e, con la produzione, lo scambio dei suoi prodotti sono la base di ogni ordinamento sociale, che, in ogni società che si presenta nella storia, la distribuzione dei prodotti, e con essa l’articolazione della società in classi o stati, si modella su ciò che si produce, sul modo come si produce e sul modo come si scambia ciò che si produce. Conseguentemente le cause ultime di ogni mutamento sociale e di ogni rivolgimento politico vanno ricercate non nella testa degli uomini, nella loro crescente conoscenza della verità eterna e dell’eterna giustizia, ma nei mutamenti del modo di produzione e di scambio; esse vanno ricercate non nella filosofia, ma nell’economia dell’epoca che si considera. Il sorgere della conoscenza che le istituzioni sociali vigenti sono irrazionali ed ingiuste, che la ragione è diventata un nonsenso, il beneficio un malanno, è solo un segno del fatto che nei metodi di produzione e nelle forme di scambio si sono inavvertitamente verificati dei mutamenti per i quali non è più adeguato quell’ordinamento sociale che si attagliava a condizioni economiche precedenti. Con ciò è detto nello stesso tempo che i mezzi per eliminare gli inconvenienti che sono stati scoperti debbono del pari esistere, più o meno sviluppati, negli stessi mutati rapporti di produzione. Questi mezzi non devono, diciamo, essere inventati dal cervello, ma essere scoperti per mezzo del cervello nei fatti materiali esistenti della produzione».[1]

La sinistra per rifondarsi deve rigettare l’economicismo che governa e determina il destino degli esseri umani per riportare al centro l’agire dei popoli. Ogni prassi avviene nella storia, deve confrontarsi con le circostanze, le deve mediare mediante processi concettuali, altrimenti non vi è libertà, ma solo obbedienza.

Libertà, esodo dall’economicismo, e congedo dall’ide errata di Engels

L’economicismo ha la sua visione e codificazione della libertà, la quale nel linguaggio engelsiano è capire la necessità ed adattarsi ad essa, darsi consapevolmente al corso della storia. Se la libertà è accettazione fatale della necessità, in tale concezione si cela il pericolo di un sostanziale dogmatismo che si unisce alla deresponsabilizzazione della comunità. Vi è non solo il rischio – perché ciò è accaduto e accade continuamente –, che l’abitudine all’obbedienza dell’economia ed alle sue leggi trasformi delle tendenze in atto, sempre trasformabili e discutibili, in leggi ferree che non lasciano scampo. L’economia condiziona le idee e la sovrastruttura, ma l’essere umano può pensare autonomamente, può deviare il corso della storia, specialmente nelle circostanze storiche attuali, in cui vi sono potenzialità di trasformazione che soltanto l’economicismo e l’abitudine alla sudditanza impediscono di concettualizzare. La nuova sinistra deve rielaborare il concetto di libertà fondato sulla partecipazione e sulla mediazione collettiva delle contingenze storiche dalle quali è possibile far emergere un mondo nuovo. Senza esodo dall’economicismo non vi potrà essere la rinascita della sinistra. In Engels la libertà è semplicemente conoscenza delle leggi della storia. Da questa concezione dobbiamo congedarci, anche se non dal pensatore, il quale è sempre motivo di confronto comparativo e critico:

 

«La libertà non consiste nel sognare l’indipendenza dalle leggi della natura, ma nella conoscenza di queste leggi e nella possibilità, legata a questa conoscenza, di farle agire secondo un piano per un fine determinato. Ciò vale in riferimento tanto alle leggi della natura esterna, quanto a quelle che regolano l’esistenza fisica e spirituale dell’uomo stesso: due classi di leggi che possiamo separare l’una dall’altra tutt’al più nell’idea, ma non nella realtà. Libertà del volere non significa altro perciò che la capacità di poter decidere con cognizione di causa. Quindi quanto più libero è il giudizio dell’uomo per quel che concerne un determinato punto controverso, tanto maggiore sarà la necessità con cui sarà determinato il contenuto di questo giudizio; mentre l’incertezza poggiante sulla mancanza di conoscenza, che tra molte possibilità di decidere, diverse e contraddittorie, sceglie in modo apparentemente arbitrario, proprio perciò mostra la sua mancanza di libertà, il suo essere determinato da quell’oggetto che precisamente essa doveva dominare. La libertà consiste dunque nel dominio di noi stessi e della natura esterna fondato sulla conoscenza delle necessità naturali: essa è perciò necessariamente un prodotto dello sviluppo storico. I primi uomini che si separarono dal regno degli animali erano tanto privi di libertà in tutto quello che è essenziale, quanto gli stessi animali, ma ogni progresso verso la civiltà era un passo verso la libertà».[2]

 

La violenza e la sterilizzazione della storia

Nella genealogia della proprietà privata Engels rileva che la genesi è solo nello sviluppo dell’economia e nel modo di produzione e distribuzione, esclude che essa possa avere come causa principale la violenza. L’economia rapace è già violenza e non semplicemente attività di produzione e distribuzione: lo constatiamo direttamente nella contemporaneità. La storia è svolta dagli uomini e dalle donne e non possiamo escludere che comportamenti non strettamente razionali possano aver determinato “un effetto sdoppiamento” ovvero un cambio di binario improvviso da processi che si ritenevano, per abitudine o condizionamento inevitabili, per cui trasformare le ipotesi storiche in leggi positive è rischioso oltre che semplicistico. Nella storia agiscono le leggi dell’economia, ma anche le passioni e le idiosincrasie degli esseri umani. La struttura economica è fondamentale, ma non si possono escludere altre variabili che possono determinare deviazioni virtuose o nefaste. La storia è il mondo degli esseri umani, riflette la complessità dinamica della psiche umana e dei suoi intrecci relazionali.

Ridurre la storia e la comprensione della stessa a poche variabili significa sterilizzarla dalla complessità della psiche-coscienza umana. Ciò la rende forse più gestibile, ma certamente meno vera. In ogni grande evento umano dobbiamo ammettere la presenza di ombre che sfuggono alla concettualizzazione e che contribuiscono alla storia. Senza tale consapevolezza, vi è il rischio di far fallire anche grandi speranze e potenzialità, poiché la soglia di controllo e mediazione razionale inevitabilmente si abbassa:

«In altri termini: anche se escludiamo la possibilità di ogni rapina, di ogni atto di violenza, di ogni imbroglio, se ammettiamo che tutta la proprietà privata originariamente poggia sul lavoro proprio del possessore, e che in tutto il processo ulteriore vengano scambiati solo valori eguali con valori eguali, tuttavia, con lo sviluppo progressivo della produzione e dello scambio, arriviamo necessariamente all’attuale modo di produzione capitalistico, alla monopolizzazione dei mezzi di produzione e di sussistenza nelle mani di una sola classe poco numerosa, alla degradazione dell’altra classe, che costituisce l’enorme maggioranza, a classe di proletari pauperizzati, arriviamo al periodico affermarsi di produzione vertiginosa e di crisi commerciale e a tutta l’odierna anarchia della produzione. Tutto il processo viene spiegato da cause puramente economiche senza che neppure una sola volta ci sia stato bisogno della rapina, della violenza, dello Stato, o di qualsiasi interferenza politica. La “proprietà fondata sulla violenza” si dimostra qui semplicemente come una frase da spaccone destinata a coprire la mancanza di intelligenza dello svolgimento reale delle cose».[3]

 

Engels risponde qui “alla spacconata” di Dühring, secondo cui è la violenza l’origine della proprietà privata, ma non possiamo escludere in linea teorica la possibilità che la proprietà privata sia l’effetto di un atto di violenza e non di leggi economiche. Il passato ci è dato nella forma di ipotesi, ed attraverso la proiezione del presente con la sua razionalità sul corso degli eventi storici.

 

Il caso Venerdì: servaggio per fini economici
Engels esclude dalla storia le componenti narcisistiche, il piacere dell’asservimento le quali sono parte della natura umana e che necessitano di essere educate e sublimate. Non tutto, insomma, è spiegabile con le leggi dell’economia:

«Inoltre, se per un istante ammettiamo che Dühring abbia ragione nel dire che tutta la storia che sinora si è svolta si possa ridurre all’asservimento dell’uomo da parte dell’uomo, con ciò siamo ancora molto lontani dall’aver toccato il fondo della cosa. Ciò che anzitutto ci si chiede è invece come Robinson sia arrivato ad asservire Venerdì. Per il semplice piacere di asservirlo? Assolutamente no! Vediamo invece che Venerdì “come schiavo o semplice strumento viene costretto a servigi economici e precisamente come strumento viene anche mantenuto”. Robinson ha asservito Venerdì solo perché Venerdì lavori a profitto di Robinson. E come può Robinson trarre un profitto per sé dal lavoro di Venerdì? Solo per il fatto che Venerdì produce col suo lavoro più mezzi di sussistenza di quanto gliene debba dare Robinson perché resti atto al lavoro. Robinson quindi, contrariamente all’esplicita prescrizione di Dühring, “non ha preso per se stesso come punto di partenza” il “raggruppamento politico” sorto con l’asservimento di Venerdì, “ma lo ha considerato esclusivamente come un mezzo che ha per fine il procacciarsi da mangiare”, ed ora veda egli stesso il modo di sbrigarsela col suo signore e padrone Dühring. L’esempio puerile che Dühring ha inventato espressamente per dimostrare che la violenza è il “fatto fondamentale della storia”, dimostra solo che la violenza è solo il mezzo e che il fine invece è il vantaggio economico. Quanto il fine è “più fondamentale” del mezzo che si impiega per raggiungerlo, tanto più fondamentale è nella storia il fatto economico del rapporto, di fronte al lato politico. L’esempio prova dunque precisamente il contrario di ciò che doveva provare. E come per Robinson e Venerdì, così è per tutti i casi di dominio e servitù che si sono avuti sinora. Il soggiogamento è stato sempre, per usare l’elegante modo di esprimersi di Dühring, un “mezzo che ha per fine il procacciarsi da mangiare” (preso questo procacciarsi da mangiare nel senso più lato), ma mai e in nessun luogo un raggruppamento politico instaurato “per amore del raggruppamento politico stesso”. Bisogna essere Dühring per poter pensare che nello stato le imposte siano solo “effetti di second’ordine” o che il raggruppamento politico odierno di borghesia dominante e proletariato dominato esiste “per amore del raggruppamento politico stesso” e non in vista del “fine di procurarsi da mangiare” della borghesia dominante, cioè in vista del profitto e dell’accumulazione del capitale».[4]

 

Il rapporto tra Robinson e Venerdì per Engels si è configurato nella forma di servaggio per fini economici; mancando questa circostanza, la sottomissione non si sarebbe realizzata: si trasforma, in tal modo, una possibilità in necessità. Venerdì e Robinson potevano anche collaborare, o lo stesso Venerdì avrebbe potuto rifiutare la condizione di servo innescando dinamiche nuove nel potenziale padrone. La soluzione più facile e semplice è il dominio, e non va resa inevitabile. La nuova sinistra dovrà porre al centro, una volta liberatasi dall’economicismo, che le circostanze storiche donano una serie di potenzialità, e spetta agli esseri umani decidere quale portare in atto. Si tratta di un’operazione sostanziale senza la quale si rischia di restare nella palude dell’economicismo nichilistico.

Salvatore Bravo

[1] F. Engels, Anti-Dühring, Terza sezione: Socialismo II. Elementi teorici da Archivio internet Marx-Engels.
[2] Ibidem, Prima sezione: Filosofia XI. Morale e diritto. Libertà e necessità.
[3] Ibidem, Seconda sezione: Economia II. Teoria della violenza.
[4] Ibidem, Seconda sezione: Economia II. Teoria della violenza.

 

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – Ne parlava anche Paul Lafargue. Cronofagia, ovvero predazione del tempo. Per porsi domande e cercare risposte necessitiamo di tempo. Sottrarre tempo alla logica del capitale è già una forma di resistenza.

Paul Lafargue - Le droit à la paresse
Paul Lafargue, Le droit a la paresse, 1883, prima edizione originale

Salvatore Bravo

Cronofagia, ovvero predazione del tempo.

Per porsi domande e cercare risposte necessitiamo di tempo.
Sottrarre tempo alla logica del capitale è già una forma di resistenza.

1Francisco Goya, Saturno che divora i suoi figli (Saturno devorando a su hijo), 1821.

Iperattivismo di regime
Il capitalismo assoluto si caratterizza per una serie di attributi che riflettono la verità della sua sostanza. Comprendere il capitalismo assoluto nella sua attuale fase è possibile mediante un’attenta osservazione delle pratiche che ha introdotto. La velocizzazione è uno degli attributi del capitalismo attuale. L’inno alla velocizzazione è corale, i canti alla divinità del capitale sono perpetui, per cui ogni suo desiderio nel clero mediatico trova la sua conferma. Si inneggia senza problematizzare le conseguenze della cronofagia, ovvero della predazione del tempo. Ci si limita ad un coro sempre affermativo, sempre servile. Lo slogan attuale è la velocizzazione nella forma digitale e dei trasporti. Informazioni e merci devono scorrere senza limiti. Il feticismo della velocizzazione implica l’adeguamento degli esseri umani ai ritmi delle potenze della velocità. Non solo servitù: si richiede di diventare simile al padrone, alla macchina che detta i tempi, per cui ogni segmento temporale vissuto nell’ottica della categoria della qualità è giudicato una pericolosa trasgressione; la condanna sociale si fa stringente, il disprezzo è pubblico. Il famoso detto nietzscheano “Pubbliche opinioni, pigrizie private” è la nuova formula a cui i popoli devono abbeverarsi. Con la velocizzazione si è chiamati a svolgere sempre più attività, a raggiungere nuovi risultati in tempi sempre più brevi: in tal modo si sottrae tempo per ogni attività politica e pensante, per cui l’attività è solo di ordine strumentale. Alla capacità di effettuare innumerevoli attività corrisponde la pigrizia del pensiero; non v’è tempo per pensare il telos (fine) dell’attività: si è parte di un automatismo che divora con la velocità il concetto. Si derealizza la vita e si conserva lo stato presente. Affinché il reale possa essere pensato – e dunque razionalizzato – necessita del tempo del pensiero. Ma la propaganda inneggiante all’attivismo scoraggia ogni scelta legata al pensiero rappresentandola come inutile ed improduttiva. All’attivismo bisogna contrapporre l’ozio, la pigrizia positiva capace di rimappare i significati, di decodificare il presente. Paul Lafargue (Santiago 1842 – Draveil 1911), genero di Marx, in un’intelligente breve testo, Inno alla pigrizia, scorge nell’attivismo industriale che si profila già nell’Ottocento una nuova patologia sociale che mette in catena i sudditi del sistema: classe operaia e classi medie si piegano alla logica dell’iperattività non comprendendone il valore ideologico ed asservente:

«Una strana follia si è impossessata delle classi operaie delle nazioni in cui domina sovrana la civiltà capitalista. Questa follia trascina con sé quella miseria individuale e sociale che da due secoli tortura la triste umanità. Questa follia è l’amore per il lavoro, la moribonda passione per il lavoro, spinta fino all’esaurimento delle forze vitali dell’individuo e della sua progenie. Invece di reagire contro questa aberrazione mentale i preti, gli economisti e i moralisti hanno reso sacro e santo il lavoro: uomini ciechi e limitati hanno voluto essere più bravi del loro Dio, uomini deboli e spregevoli hanno voluto riabilitare ciò che il loro Dio aveva maledetto. Io, che non mi professo né cristiano, né economista o moralista, contro il loro giudizio, mi appello a quello del loro Dio, mi appello alle spaventose conseguenze del lavoro nella società capitalista contro le prediche della loro morale religiosa, economica e del libero pensiero. Nella società capitalista il lavoro è la causa di ogni degenerazione intellettuale, di ogni deformazione organica».[1]

Tanto più l’attivismo ghermisce la vittima, tanto più aumenta la miseria dell’operaio. Non solo miseria materiale, ma specialmente miseria morale. Il tempo accelerato del lavoro è causa di alienazione: ci si atomizza dal mondo per diventare semplici esecutori di operazioni il cui fine è incomprensibile.

 

Mediocrità programmata
Se il mondo greco ha conosciuto la grandezza del pensiero, se la cultura greca si è eternizzata ciò è accaduto in quanto l’ozio, quale tempo liberato dal lavoro, e dedicato al logos è stato il fondamento di un’intera civiltà. L’ozio favorito dalla schiavitù in assenza delle tecnologia, non è stato per i Greci semplice astensione oziosa e festaiola dal lavoro, ma simposio del pensiero, processo di umanizzazione e conoscenza. La pratica filosofica e del logos consentiva di vivere con l’essenziale senza rinunciare alla qualità di vita. La pornocrazia industriale, invece, non conosce che la quantità, per cui accumula, aumentando le miserie dell’abbondanza oltre ogni pensabilità:

«Anche i Greci del periodo classico non provavano che disprezzo per il lavoro: solo agli schiavi era permesso lavorare, l’uomo libero non conosceva che gli esercizi fisici e i giochi di intelligenza. Era il tempo in cui un manipolo di prodi sgominava a Maratona le orde provenienti dall’Asia che Alessandro avrebbe presto conquistato. I filosofi dell’antichità insegnavano a disprezzare il lavoro, degradazione dell’uomo libero; i poeti cantavano la pigrizia, dono degli Dei: Oh Meliboee, Deus nobis hæc otia fecit».[2]

Si alleva una nuova umanità organica al potere e mediocre nei desideri mediante l’intensificazione lavorativa. La mediocrità è rassicurante, non aspira che a se stessa, non concepisce che vi siano alternative e giudica il presente come intrascendibile, resta nell’immanenza della certezza sensibile.

 

Tempo correzionario
Allungare il tempo del lavoro e del consumo è la nuova formula correzionaria del capitalismo. Il lavoro sempre più tecnologico e cinetico consente una produzione sempre più elevata, per cui il produttore deve diventare il consumatore coatto delle eccedenze. È l’allevamento in serie del nuovo lavoratore-consumatore, similmente agli allevamenti in batteria degli animali da consumo:

«Dodici ore di lavoro al giorno: ecco l’ideale dei filantropi e dei moralisti del XVIII secolo. Ma siamo riusciti a superare questo nec plus ultra! Le fabbriche moderne sono diventate case di correzione ideali dove vengono incarcerate la masse operaie, vengono condannati ai lavori forzati per dodici e quattordici ore non solo gli uomini ma anche le donne e i bambini! E dire che i figli degli eroi del Terrore si sono lasciati corrompere dalla religione del lavoro a tal punto da accettare dopo il 1848, come una conquista rivoluzionaria, la legge che limitava a dodici le ore di lavoro nelle fabbriche; essi proclamavano il diritto al Lavoro come un principio rivoluzionario. Proletariato francese, vergogna! Solo degli schiavi sarebbero stati capaci di una tale bassezza. Ci vorrebbero vent’anni di civiltà capitalista a un greco del tempo eroico per concepire un tale abbruttimento».[3]

Miseria da lavoro
Il lavoro senza limiti osannato produce miseria collettiva. La qualità della vita decade, l’accumulo di tensione diventa aggressività, la distanza spaziale e temporale dagli affetti disintegra le micro e le macro comunità. L’accumulo di lavori in taluni diventa disoccupazione per altri, i lavoratori presi dalla gabbia della competizione sono l’uno contro l’altro nello stesso luogo di lavoro come a distanze chilometriche. La solitudine del lavoratore globale affonda le sue ragioni in un attivismo che mal distribuisce impegni lavorativi come i salari. Tanto più ciò, oggi, è scandaloso, se si considera che l’automazione può sostituire in molte mansioni i lavoratori e che la iperproduzione sta alimentando dinamiche distruttive ed irreversibili a livello ambientale ed umano. Non si ha tempo per pensare, per organizzare la resistenza individuale e di classe, in quanto il paradigma dell’attivismo batte come un martello esiziale nei pensieri di ciascuno: non più esseri umani, ma consumatori e produttori. Lo spirito (Geist) della storia non governa il mondo, al suo posto vi è un immenso ingranaggio cronofago che divora con le vite il tempo del pensiero e della politica:

«Lavorate, lavorate proletari, per aumentare il patrimonio sociale e la vostra miseria individuale; lavorate, lavorate affinché, diventando più poveri, abbiate più motivi di lavorare e di essere miserabili. È questa l’inesorabile legge della produzione capitalista. Poiché, dando ascolto ai fallaci discorsi degli economisti, i proletari si sono consegnati anima e corpo al vizio del lavoro, essi fanno precipitare la società intera in quelle crisi industriali da sovrapproduzione che sconvolgono l’organismo sociale. Allora, poiché vi è sovrabbondanza di merci e penuria di acquirenti, le fabbriche chiudono e la fame flagella il popolo lavoratore con il suo frustino dalle mille corregge. I proletari, abbrutiti dal dogma del lavoro, non capiscono che il superlavoro che si sono inflitti nel periodo di presunta prosperità è la causa della loro miseria attuale; non dovrebbero correre verso i granai gridando: “Abbiamo fame e vogliamo mangiare!… È vero, non abbiamo un soldo ma, benché pezzenti, noi abbiamo mietuto il grano, noi abbiamo vendemmiato l’uva…”. Altro che assediare i magazzini di Bonnet, a Jujurieux, inventore dei conventi industriali, gridando: “Signor Bonnet, ecco le sue operaie ovaliste, torcitrici, filatrici, tessitrici. Tremano di freddo sotto le loro vesti di cotone leggero così rattoppate da far piangere un ebreo; tuttavia sono state loro a filare e tessere gli abiti di seta delle cortigiane di tutta la cristianità».[4]

Cosa resterà della nostra “civiltà”? È una domanda che dovremmo cominciare a porci nei luoghi del lavoro e nei luoghi di formazione, ma per farsi delle domande e cercare risposte necessitiamo di tempo. Rubare tempo al capitale è già una forma di resistenza a cui non ci si può sottrarre.

Salvatore Bravo

[1] Paul Lafargue, Inno alla pigrizia, Aristos, Trieste 2013, pp. 13-14.

[2] Ibidem, pp. 15-16

“Oh Meliboee, Deus nobis hæc otia fecit” ; trad.: Un dio ci ha donato questi ozi (Virgilio, Egloghe, 1, 6).

[3] Paul Lafargue, Inno alla pigrizia, op. cit., pp. 19-20.

[4] Ibidem, pag. 26.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – Per il fiorire del nostro essere umani è necessario relazionarsi con il dono delle parole. Senza parole di senso si è condannati alla condizione di un’impossibile animalizzazione

Lev Semenovich Vygotsky-Bravo

La coscienza si riflette nelle parole che pronunciamo.
La parola è il microcosmo della coscienza umana.
L. S. Vygotsky

Salvatore Bravo

Per il fiorire del nostro essere umani è necessario relazionarsi con il dono delle parole.
Senza parole di senso si è condannati alla condizione di un’impossibile animalizzazione

 

Comunità e parola
La comunità è il luogo della comunicazione, [1] ogni comunità è tale se condivide significati, se le parole sono veicolo di unità e scambio. La parola è il primo dono, la parola è il luogo dell’incontro, è la soglia sulla quale ci si conosce per non restare stranieri ed estranei. Sull’uscio delle parole per la prima volta si scopre di essere parte di un tutto e di appartenersi senza padroni. La comunità è viva sulla soglia delle parole, perché nello scambio dei significati non vi è il semplice transito di informazioni: le parole uniscono il passato con il presente per orientarsi sul futuro.
Le parole sono un dono, nessuno le possiede, esse sono la testimonianza della storia che vive nel presente. Le parole sono il guscio fonetico della storia degli uomini e delle donne. Il significato delle parole ha la sua genealogia nell’uso che uomini e donne hanno fatto di esse, nell’urto che hanno provato nel vivere i significati. La parola è il dono che ogni comunità fa ai propri membri, è un passaggio di significato che esige il rispetto del presente e del passato. Trasmettere significati non è un atto neutro o meccanico, ma un atto etico: la parola ci vincola al rispetto del significato, alla trasparenza che unisce.
La parola è comunità, in quanto è un patto: nello scambio ammettiamo non solo un legame umano, ma anche la fedeltà alla promessa. Nominare significa trascendersi, è un appello all’alterità, una promessa che non solo unisce, ma implica la cura (Sorge) dell’altro e della comunità tutta. Per avere cura della comunità e dei singoli bisogna, in primis, assumersi l’impegno silenzioso di rispettare i significati.
La parola è simbolo[2] che racchiude il significato: in quanto simbolo unisce non divide, non manipola. Senza la parola non vi è concetto. Si diventa persone con le parole con le quali si scopre la dualità insita in ogni persona; ogni “io” se non parla con se stesso, non è pienamente umano. Socrate ed il suo demone: quest’ultimo è la parola resa consapevole, è il concetto che ha pensato il mondo attraverso se stesso.

 

Ambiente e mondo
Il mondo (Welt) è possibile solo se ci sono le parole, solo se i significati divengono il materiale plastico con cui dare forma al mondo. Con le parole si rompe la fosca immanenza per pensare il mondo che verrà, per scrutare i limiti del presente. Le parole umanizzano, sono la differenza ontologica tra la persona e l’animale non umano. L’animale è il suo ambiente (Umwelt), non ha parole, non può trascenderlo e simbolizzarlo, è parte integrante di esso, non immagina una possibilità altra, è addomesticato al suo eterno presente.
Il mondo c’è dove vi è comunità. Le parole uniscono, sono il logos vivo; esse uniscono e dividono, a volte confliggono; i significati possono essere portatori di dialettiche e tensioni. Ma anche nell’unità pregna di tensione vi è comunicazione. Vi è prassi se ci si sente all’altezza delle parole. Se perdono valore e significato, se indicano la doppiezza ancipite del mondo, smettono di parlarci, e lo spirito della storia (Geist) si ritrae dal presente.

 

Tradimento
La comunità (Gemeinschaft) che non riconosce il significato delle parole è solo società dei bisogni (Gesellschaft). Il tramonto dell’Occidente è l’inabissarsi delle parole, il loro uso mercantile; tradire il significato significa iniettare nella comunità la dispersione della stessa, sentire le parole e non avere fiducia che quanto detto corrisponda all’intenzione. È il tradimento del patto primo che non può che vivere della reciproca promessa di rispettare i doni ricevuti. Vi è in tal modo un doppio tradimento: verso il presente e verso il passato.
Le parole non ci appartengono, sono doni trasmessi, per cui il loro uso manipolato o retorico provoca una cesura tra il presente ed il passato. Si diventa creature astratte che non si riconoscono nella comunità del passato come del presente. La parola orwelliana è solipsismo; al suo posto vi è la chiacchiera (Gerede): nessuno ascolta la chiacchiera, la ripensa o la rielabora per fondare mondi e concetti (Begriff). Si sente, avviene lo scambio, ma si resta fuori dalla soglia-uscio che unisce, perché si è mossi dalla sola intenzione di mettere in atto il valore di scambio.
L’altro giunge a noi con le parole.
L’esito nichilistico del capitalismo nella sua fase estrema è la deflazione della parola: non vi è un linguaggio alto o basso, ma la parola è solo un’arma per arpionare il cliente, è lo slogan che parla alla pancia dell’elettore. La parola uncinata destruttura la comunità, la quale diventa, ora, solo l’insieme dell’atomistica delle solitudini.

 

Invidiare il gregge
Se le parole sono annichilite sotto i colpi della violenza dell’economicismo, l’essere umano è condannato alla disumanità, alla nuda vita. L’impotenza è l’effetto del nichilismo delle parole; se i significati corrispondono a niente, se il parlante è altro rispetto alle parole, l’impotenza regna sovrana, il pessimismo diventa sentimento comune. Si è persone se il patto con le parole è rispettato, per cui il tradimento delle parole divenuto sistema, la doppiezza del dire, non può che provocare la fuga dal linguaggio, al punto da invidiare gli animali non umani. L’ultimo uomo non crede alle parole, in quanto sono stare vendute al mercato, per cui invidia l’animale:

 

«Considera il gregge che pascola di fronte a te: non sa che cosa sia ieri, che cosa sia domani, salta di qua e di là, mangia, riposa, digerisce, salta di nuovo, e così dalla mattina alla sera, giorno dopo giorno, poco legato al suo piacere e alla sua svogliatezza, cioè al paletto dell’istante, e perciò né malinconico né annoiato. È doloroso per l’uomo vedere questo, perché egli si pavoneggia della sua umanità di fronte all’animale e, nonostante ciò, osserva con invidia la sua felicità, perché questo solo egli desidera: vivere come l’animale né annoiato né soggetto al dolore, e lo desidera vanamente, perché non lo vuole come l’animale. L’uomo domandò una volta all’animale: “perché non parli con me della tua felicità e ti limiti a guardarmi?” Anche l’animale voleva rispondere e dire: “è che dimentico costantemente ciò che volevo dire”, ma dato che dimenticò anche questa risposta e tacque, l’uomo se ne meravigliò. Egli si meraviglia anche di se stesso, di non poter imparare a dimenticare e di rimanere attaccato al passato: per quanto possa correre lontano o velocemente, la catena corre con lui. È un miracolo: l’attimo in un batter d’occhio è qua, in un batter d’occhio è là, prima nulla, dopo nulla, torna come un fantasma e disturba la tranquillità di un attimo successivo. Di continuo si stacca un foglio dal rotolo del tempo, cade giù, svolazza, vola indietro, in grembo all’uomo. Allora l’uomo dice: “Mi ricordo” e invidia l’animale che dimentica immediatamente e che vede davvero ogni attimo morire, sprofondare nella nebbia e nella notte, estinguersi per sempre. L’animale vive così in modo non storico, poiché si muove nel presente, come un numero, senza che ne rimanga una bizzarra frazione, non sa comprendere se stesso, non nasconde nulla e appare in ogni momento totalmente ciò che è, non può essere nient’altro che sincero. L’uomo, al contrario, si oppone al pesante e sempre più pesante carico del passato: questo lo schiaccia giù o lo spinge da parte, grava sul suo passo come un carico invisibile e oscuro, che l’uomo può far finta di rinnegare una volta e che anche in compagnia dei suoi simili rinnega volentieri, per risvegliare la loro invidia. Perciò lo tocca, come se si rammentasse di un paradiso perduto, il vedere il gregge al pascolo o, in una situazione di maggiore confidenza, il bambino che non ha ancora rinnegato nulla del passato e che gioca fra gli steccati del passato e del futuro in beata cecità».[3]

 

Resistere all’inverno dello spirito deve significare riportare il logos e la parola alla sua verità. Accettare che la parola sia sostituita dalla sua imitazione nichilistica è già complicità. La fatica del concetto è il dovere primo contro la tracotanza che vuole che tutto sia, come affermava Heidegger, sottomano/allamano, ovvero manipolabile e vendibile. Contro il silenzio del turbocapitalismo bisogna rivendicare il primato della parola, la quale riporta la passione dove vige la mortificazione del silenzio. Per essere umani è necessario relazionarsi con il dono delle parole. Senza le parole di senso si è condannati alla condizione di un’impossibile animalizzazione.

Salvatore Bravo

***

[1] Comunicazione, dal lat. communicare, der. di communis «comune».
[2] Simbolo, dal latino symbolum che a sua volta si origina dal greco σύμβολον [symbolon] (“segno”) che a sua volta deriva dal tema del verbo συμβάλλω (symballo) dalle radici σύν «insieme» e βάλλω «gettare, unire ciò che è separato».
[3] F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, traduzione a cura di Monica Rimoldi, pag. 3.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Salvatore Bravo – La moltiplicazione dei bisogni indotti comporta l’inibizione dell’autentico desiderio che così diviene immediatezza, sensazione da soddisfare in tempi brevi, alienazione da se stessi e dalla comunità, luogo dove si incontrano la libertà e la solidarietà.

G.W.F. Hegel - C. Preve
Salvatore Bravo
La moltiplicazione dei bisogni indotti comporta l’inibizione dell’autentico desiderio
che così diviene immediatezza, sensazione da soddisfare in tempi brevi,
alienazione da se stessi e dalla comunità,
luogo dove si incontrano la libertà e la solidarietà.

L’animalizzazione dell’essere umano
Il Regno animale dello spirito si manifesta nella moltiplicazione dei bisogni. L’animale non umano nella sua fissità naturale sviluppa bisogni che gli consentono di sopravvivere in un determinato ambiente (Umwelt), ne diviene parte integrante ed indistinguibile. In assenza di intelletto l’animale non ha i mezzi per creare nuovi bisogni, ma deve inevitabilmente rispondere con i suoi istinti all’ambiente a cui è adattato. La natura umana, invece, è dotata di intelletto e dunque moltiplica i suoi bisogni per soddisfare aspirazioni materiali. La moltiplicazione dei bisogni in modo illimitato finisce per disorientare ed annichilire l’essere umano. Essi hanno l’effetto di animalizzarlo in modo particolare: la vita finalizzata all’utile ed ai bisogni senza limiti nega la natura dell’essere umano, la quale si realizza nella storia mediante la relazione comunitaria. L’essere umano, come definito da Marx, è ente generico (Gattungswesen), si definisce nella storia, le sue potenzialità prendono forma nel tempo storico creando mondi (Welt), poiché la temporalità progettante permette di trascendere lo stretto orizzonte dell’ambiente. Il mondo è il luogo degli esseri umani, nel quale operano mediante il lavoro ed i concetti e significano i loro gesti per trascendere la contingenza.

Il bene, ovvero l’universale concreto, procede mediante la conoscenza di sé e del mondo storico: non vi può essere universale concreto che nella feconda tensione tra particolare ed universale. Nella storia l’essere umano mette in atto le sue potenzialità, si conosce e si definisce. Se ciò non avvenisse non vi sarebbe che violenza, poiché l’universale senza particolare è solo annichilimento del concreto. L’universale d’altronde necessità di un lungo processo educativo; perché si giunga ad esso necessita della conoscenza di sé mediante il riconoscimento dell’altro e l’autoriconoscimento. Sono momenti sincretici senza i quali l’essere umano resta in bilico tra l’essere ed il nulla. Lo stare in bilico tra condizioni non definite consente al potere il dominio.

 

Bisogni inautentici e potere
Nella produzione dei bisogni non vi è solo la necessità imperiale del mercato-plusvalore, ma in essi è iscritta la violenza e la razionalità del potere. La moltiplicazione infinita dei bisogni, particolarizza, individualizza nelle intenzioni del mercato che in tal modo si autorappresenta e si legittima nella funzione di soddisfare i bisogni individuali. Già in tale scopo vi è la negazione dell’universale, il soggetto deve atomizzarsi, deve separarsi dal concreto legame con la comunità, per viversi nella sovranità individuale. Hegel evidenzia che in tale individualizzazione dei bisogni, nell’io ipertrofico, in realtà, il soggetto si perde nella moltiplicazione dei bisogni indotti e nell’agire secondo il solo utile personale. In tale attività l’essere umano disperso tra desideri inautentici è solo un vuoto vaso in cui il caos regna. Si è così preda del mondo, cadono le difese del pensiero per essere parte del sistema che si trasforma in ambiente-mercato senza mondo. Si è gettati in un ambiente che chiede l’adattamento senza concetto ed immaginazione. La memoria, non più coniugata con la razionalità, perde la sua funzione di ricordare per concettualizzare ed orientare: essa si riduce al calcolo mediato, a semplice operatività applicativa di schemi predeterminati. Hegel rileva che il soggetto, ormai oggetto dell’economicismo nella corsa alla soddisfazione degli stimoli, non sente fortemente più nulla, diviene un essere anonimo disperso in desideri immediati. Il desiderio, sostituito dalle vogliuzze una per il giorno e una per la notte, come dirà Nietzsche, perde la capacità di favorire la conoscenza di sé, le proprie passioni, per regredire in dipendenza compulsiva. Il soggetto umano, mentre insegue l’iperstimolazione, diviene oggetto del sistema, che lo astrae dalla vita. Hegel constata e profetizza “l’ultimo uomo”, il quale non è un’improvvisa apparizione della storia, ma è l’effetto della “bestia del mercato”:

 

 

«L’animale è un che di particolare, ha il suo istinto e i limitati, non oltrepassabili mezzi dell’appagamento. Ci sono insetti che sono legati ad una pianta determinata, altri animali, che hanno una cerchia più ampia, possono vivere in differenti climi; ma interviene sempre un che di limitato di fronte alla cerchia che è per l’uomo. Il bisogno dell’abitazione ed abbigliamento, la necessità di non lasciar più il cibo crudo, ma di renderlo adeguato a sé e di distruggerne l’immediatezza naturale, fa sì che l’uomo non abbia la vita comoda come l’animale e che, inteso come spirito, neanche possa averla. L’intelletto, che concepisce le distinzioni, porta moltiplicazione in questi bisogni e, dal momento che gusto e utilità divengono criteri della valutazione, anche i bisogni stessi ne sono affetti. È da ultimo non più il bisogno, bensì l’opinione che deve venir appagata, e appartiene appunto alla cultura di scomporre il concreto nei suoi elementi particolari. Nella moltiplicazione dei bisogni risiede per l’appunto una inibizione del desiderio, poiché, quando gli uomini abbisognano di molte cose, la spinta verso una, di cui avrebbero bisogno, non è così forte, e ciò è un segno che la necessità in genere non è così potente».[1]

 

L’inibizione del desiderio diviene alienazione da se stessi e dalla comunità; al suo posto non resta che un mediocre succedaneo: il desiderio diviene immediatezza, sensazione da soddisfare e godere in tempi brevi. Di sensazione in sensazione si realizza la dispersione di sé, l’esistenza è così curvata “dalle passioni tristi” che rafforzano il potere, poiché il soggetto divenuto mezzo del sistema capitale non resiste allo svuotamento dell’io, il quale paradossalmente, diviene un io pieno ed ingombro di stimolazioni ingovernabili.

 

Dialettica e comunità
Al nichilismo individualistico e predatorio Hegel contrappone l’economia fondata sui bisogni della persona e della comunità. Tale fondazione necessita della dialettica, quale modalità per trascendere la minaccia del nichilismo. Il soggetto che si radica nella famiglia e nello stato fonda la sua vita sull’etica, ovvero nel riconoscimento della presenza dell’altro, ciò comporta l’autolimitazione dei bisogni inautentici, e dunque la libertà. Quest’ultima è possibile solo se il soggetto si sottrae all’iperstimolazione perpetua: la libertà è sospensione delle sollecitazione per pensarle e razionalizzarle astraendone la verità storica. Il soggetto impara ad ascoltare se stesso, mentre razionalizza il mondo. Tali disposizioni e desideri autentici si materializzano nella comunità, la quale dà forma storica e vita all’individualità. Lo stato, in tale contesto, è il luogo in cui il soggetto si radica nella storia patria per aprirsi al mondo, per disporsi al riconoscimento ed all’ascolto dell’alterità nella quale ritrova se stesso:

 

 

«Con ciò, che l’uomo debba esser qualcosa, intendiamo che egli appartenga ad uno ‘stato’ determinato; poiché questo qualcosa vuol dire che allora egli è qualcosa di sostanziale. Un uomo senza ‘stato’ è una mera persona privata e non sta in una reale universalità. Dall’altro lato, il singolo può ritener sé nella sua particolarità per l’universale, e presumere che si abbandonerebbe ad un che di inferiore, se entrasse in uno ‘stato’. È questa la falsa rappresentazione per cui, se qualcosa guadagna un esserci che gli è necessario, con ciò si limiti e rinunci a sé».[2]

 

Utilitarismo e vita astratta
L’atomizzazione, la privatizzazione dei desideri rendono il soggetto astratto. L’utilitarismo è una forma di vita astratta, in quanto il soggetto è avulso dal contesto, e si autopercepisce come creatore di se stesso, niente lo precede, per cui il mondo è a sua disposizione, sempre pronto all’uso. Il cosmopolitismo attuale è di ordine nichilistico ed utilitarista, poiché il soggetto senza legame patrio, linguistico e culturale non ha responsabilità alcuna verso qualsiasi comunità: è solo un atomo consumante che divora il mondo.
L’atomizzazione non è un destino, l’essere umano è molto più di ciò che il sistema capitale rappresenta. Il pensiero crea concetti, porge ascolto al disagio, cerca parole per capire. La speranza non è solo potenzialità astratta, ma è racchiusa in ogni vita, in quanto il pensiero creante può essere condizionato, ma mai determinato. La sfida è fendere la caverna capitale con i suoi miti per ritrovarsi comunità. Razionalità e socialità non sono scindibili, la natura umana esige la socialità e l’umanità, senza le quali non resta che il cosmopolitismo nichilistico attuale, il quale è il regno della violenza dell’astratto contrapposto all’internazionalismo, il quale è invece, l’incontro delle patrie, il riconoscersi nella differenza. L’esodo dall’utilitarismo e dal cosmopolitismo nichilistico non può che avvenire mediante il radicamento comunitario, il quale non tribalizza, ma permette alle differenze di ritrovarsi per conoscere e conoscersi in processi storici inesauribili:

 

 

«La comunità è allora il luogo dove si incontrano la libertà e la solidarietà. Una libertà senza solidarietà è una illusione narcisistica destinata a sparire quando l’umana fragilità materiale costringe anche l’individuo più riluttante a relazionarsi con i suoi simili. Una solidarietà senza libertà è una coazione umanitaria estrinseca e di fatto ricade nella precedentemente ricordata tipologia dell’organizzazione politica dell’atomismo. Solidarietà e libertà sono entrambe necessarie. Questa è la logica conclusione di ogni elogio al comunitarismo».[3]

 

L’animalizzazione dell’essere umano si configura mediante la dispersione utilitaristica che aliena dalla profondità del logos calcolante e senziente a cui si unisce la sottrazione della memoria. Senza storia, senza riflessione sulla storia individuale e collettiva il soggetto è disintegrato in attimi senza futuro e senza passato. La resistenza civile e politica non può che fondarsi sul riappropriarsi del tempo predato dall’utile e dal consumo immediato acefalo.

 

Salvatore Bravo

***

[1] G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Bari 1999, p. 344.

[2] Ibidem, p. 346.

[3] C. Preve, Elogio del comunitarismo, Controcorrente, Napoli 2006, pp. 253-254.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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