Angelo Magliocco – il libro di Salvatore Bravo, «L’animalizzazione dell’essere umano nel capitalismo».

Salvatore Bravo, L'animalizzazione dell'essere umano nel capiralismo recensione Angelo Magliocco

Angelo Magliocco

Recensione di “L’animalizzazione dell’essere umano nel capitalismo” di S.A. Bravo

***

Agli albori del pensiero ritroviamo Aristotele e la sua qualificazione sostanziale dell’uomo come animale politico – ζῷον πολιτικόν (zòon politicòn) – inteso in senso lato come cura di sé e del rapporto con gli altri uomini della πόλις (pòlis). Se tale qualificazione non rispondesse realmente alla sua natura, soggiunge Aristotele, l’uomo decadrebbe a stato di belva solitaria, esclusa dal consorzio umano, o al contrario sarebbe de facto elevato a stato di divinità che, per la sua onnipotenza e autosufficienza, non abbisogna di un consesso comune.

Ebbene, la qualificazione di πολιτικόν è la mira, a giudizio di Salvatore A. Bravo (nel seguito S.B.), autore di questo ottimo saggio, di un attacco congiunto, surrettizio nelle modalità ma fin troppo palese negli effetti, della società della tecnica e del sistema economico capitalistico. La risultante è un imprimatur tecno-capitalistico apposto su un nuovo manuale d’uso dell’uomo contemporaneo. È il tentativo di avviare lo sviluppo della storia su una direzione si direbbe “antropofuga”, e anzi “zoopeta”, che allontani dalla sostanza di tutto ciò che significa “essere umani” e avvicini alla sostanza fisico-naturalistica dell’idea di “essere vivente” tout court, che residua appunto nella nuda caratterizzazione di ζῷον.

Curiosamente la tecnica e il capitale agiscono per additionem, l’una pervadendo la società di strumenti atti a moltiplicarne le capacità espressive, almeno in teoria, l’altro a moltiplicarne le effettive possibilità di porle in atto tramite la ricchezza, ma il risultato complessivo è un uomo diminuito, deumanizzato, un mero ζῷον, un uomo scalato per subtractionem del proprio vero potenziale. Ogni incremento tecnico e capitalistico, in un curioso vortice dialettico, va non ad aumentare ma a detrarre dall’uomo ciò che di più umano c’è nella sua espressione. In questo, S.B. cita giustamente Hegel:

Quantità, dice Hegel, significa qualità tolta, ovvero indica l’essere reso indifferente alle sue determinazioni”.

Da questo punto di vista, il saggio di S.B. è una panoramica ad ampio raggio sulle svariate qualità tolte dall’espressione umana, ovvero di caratteri che hanno subito, e continuano a subire, una detrazione in termini di umanità vera.

Partiamo proprio dal vivere sociale, che ad es. la nostra stessa Costituzione (art. 3 comma 2) lega allo sviluppo della persona umana e all’effettiva partecipazione alla società, e quindi intende non già nel senso di un Ego solipsistico, bensì comunitario, ovvero come relazione di quell’Ego all’interno di un contesto relazionale. La matrice trasformativa in cui l’Ego è immerso, in un sistema tecno-capitalismo, è invece esiziale per quello stesso Ego, in quanto riducendolo a monade “senza finestre”, ne abbatte la stessa capacità espressiva in tutto ciò cui tale Ego tiene realmente:

L’essere umano è tale, se si riconosce nell’identità personale e comunitaria. L’identità si genera nelle relazioni comunitarie senza le quali “il riconoscimento di sé” e “dell’altro” è impossibile. In questo intreccio si struttura la personalità che, benché dinamica, ha la sua essenza, si modifica, ma all’interno di un percorso evolutivo tracciato. Gli accidenti del percorso possono essere estemporanei, ma l’identità con il suo nucleo vitale e dinamico non è contrattabile, non può essere sostituito. L’identità è resistenza al potere, è il limite che il soggetto disegna al potere. L’animalizzazione è, invece, l’organizzazione totalitaria del capitalismo assoluto, essa deve privare i soggetti dell’identità stabile inneggiando al mito della flessibilità, delle identità fluide, della sessualità polimorfa. L’identità non è più legata ad una storia, alla ricerca di sé, ma è figlia dell’attimo, della voglia del momento. Senza identità, l’io non è che il contenitore senza fondo degli stimoli del mercato.

E ancora, sull’empatia, non possiamo che concordare con S.B.:

Affinché il sistema possa proliferare e regnare è necessario diseducare all’empatia positiva, alla capacità empatica e duale per sostituirla con l’empatia negativa. Quest’ultima si caratterizza per il corazzamento emotivo, ci si ritira dal flusso empatico positivo per rendersi atomi individuali slegati da ogni vincolo di appartenenza. L’empatia positiva educa alla trascendenza, nel volto dell’altro si legge la traccia dell’infinito e del limite.

S.B. prosegue con un’analisi di stampo più teoretico di questi esiti, introducendo ad esempio la c.d. “perversione di Spinoza”, ovvero il pervertimento degli attributi, le qualità fondamentali della sostanza umana, che virano verso un’uniformità artificiale, atta a garantire unicamente uno scivolamento perpetuo di merci e capitali senza attrito alcuno, perdendo in ciò la loro stessa prerogativa primigenia.

Gli infiniti attributi spinoziani non sono che gli esseri umani, i quali divengono l’epifenomeno dell’unica sostanza spazio-materia. Solo corpi che consumano, sola estensione, solo enti liberi di veleggiare per il pianeta per godere la liturgia del nulla. Godere è rendere l’altro strumento, spazio che divora ed assimila altro spazio. Il turista che girovaga nel mondo, cosa fa se non consumare veloci visioni di paesaggi e monumenti per poi dilettarsi con i cibi del luogo. In media al ritorno è simile al momento del viaggio, poiché il fine era il divertimento, “il divertere-cambiare strada”. Strati su strati di divertissement non costruiscono solo l’economia della dispersione e della gettatezza, ma specialmente formano ed orientano alla fuga dall’impegno, dalla politica.

Invero, cosa c’è di più distruttivo dell’effetto di questo contesto sulle nuove generazioni, sulla loro formazione. Arduo obiettare che il mondo, così come filtrato da una Weltanschauung tecno-capitalista, non sia soggetto per loro a una continua riconfigurazione gestaltica verso il piatto e via dalla complessità, una Gestalt senza figure riconoscibili, dotata unicamente di linee rette infinite e parallele, che non si incontrano mai se non all’infinito (direbbe Euclide), ma in un infinito non in un senso metafisico, quanto piuttosto nel senso di una trabordante ed essudante quantità.

Con il pedagogismo gli esperti della tecnocrazia didattica riducono la formazione a costola del mercato, tra l’istituzione formativa ed il mercato non vi è differenza, non vi sono salti quantici a garantire la formazione dall’asservimento incorporante. Costanzo Preve connota questa fase del capitalismo come assoluto e ne evidenzia l’incorporamento, mediante il quale si costituisce il regno dell’irrilevanza, ovvero ogni valore, ogni differenza tra l’umano ed il non umano salta per portare il tutto sulla linea dell’irrilevanza. Non vi è alto, né basso, non vi sono gerarchizzazione assiologiche, ma solo l’irrilevanza del nichilismo. Capitalismo della sorveglianza è la definizione di Shoshana Zuboff, con cui si palesa il carattere dell’incorporamento della vita mediante le banche dati con le quali allevare un nuovo tipo di essere umano.

Il saggio di S.B. è estremamente interessante per la visione a volo d’angelo di un territorio antropico via via eroso e desertificato, decompresso della sua pienezza umana e fluido come olio motore, lubrificato come un ingranaggio ma sterilizzato e prono a guasti. È un territorio dell’uguale e del conforme, del normale statistico e non emotivo, della confluenza e non dell’unione, della giustapposizione e non dell’incontro.

Egli riesce a individuare e a descrivere con dovizia di particolari e abili agganci teoretici i gesti, le idolatrie e gli idealtipi della società contemporanea: vedansi, ad esempio, il preside manager, lo studente coder già alle elementari, il poliglotta sagace, il politico sinistrorso ma aperto al globale, il professore con picchi di performance, la scuola azienda, il pensiero dell’esatto e non del vero, il politicamente sottratto (o, come pretendono dire, corretto), la burocrazia automatica che si infiltra nei gangli delle relazioni umane. Questo testo costituisce pertanto una visione originale del rapporto tra capitalismo, tecnica e società, nelle sue ricadute culturali e sociali.

Salvatore Bravo
L’animalizzazione dell’essere umano nel capitalismo

ISBN 978-88-7588-274-7, 2020, pp. 192, Euro 20

indicepresentazioneautoresintesi

«Ora, una volta liberato dalle sue catene, il gigante infuria, abbattendo tutto ciò che si oppone alla sua corsa. Cosa ci riserverà il futuro? Chi ritiene che il gigante chiamato “capitalismo” distrugga la natura e gli uomini, spera di poter un giorno incatenarlo e ricondurlo nuovamente là da dove esso è fuggito. Ma la sua furia durerà in eterno? Non si esaurirà nella sua corsa? Io credo di sì. Ritengo infatti che, nella stessa natura dello spirito capitalistico, risieda una tendenza che lo corrode dall’interno e lo ucciderà. […] Una volta divenuto cieco, forse il gigante sarà condannato a tirare il carro della civiltà democratica. Forse assisteremo al crepuscolo degli dei. E l’oro sarà restituito al Reno. Chi può saperlo?».

Werner Sombart, 1913

 

 

Disumanizzare è il nuovo imperativo categorico che imperversa nell’Occidente globale. I processi di disumanizzazione si concretizzano con la stabilizzazione del nichilismo economicistico. Il regno dell’ultimo uomo descritto da Nietzsche è ora la realtà vivente dell’Occidente. La disumanizzazione procede e si struttura secondo modalità assolutamente inedite nella storia dell’umanità: biopotere e tecnocrazia sono i mezzi con cui l’economicismo pone in atto la sua rivoluzione antropologica. La sovrastruttura culturale cela la verità del sistema: deve agire per disorientare, per rappresentare il nuovo regno edenico dell’abbondanza come l’unico possibile ed il più inclusivo. L’ideologia imperante dell’inclusione è lo spot orwelliano del neoliberismo. Essa catalizza il consenso, in quanto “sembra dire” che il sistema “non abbandona persona o gruppo alcuno”. L’inclusione è il mezzo con cui la necessità sostituisce i bisogni. La necessità è esterna e meccanica, e pone le condizioni per la dipendenza del soggetto e delle comunità. Il bisogno è sorgente e vita interiore, è il vivente nella pienezza della relazione duale. Il bisogno è autonomia, non crea dipendenze, ma libertà senza solitudine, perché i bisogni interiori sono luci che appaiono nella relazione e si trasformano in una inesauribile prassi. La differenza tra bisogno e necessità è stata già descritta da Aristotele.1 Una civiltà dimentica di tale differenza è preda del caos: organizza scientemente la disintegrazione umana. La necessità implica la dipendenza dall’esterno, il bisogno è spazio vitale interiore, che rompe le barriere della necessità per affermare l’autonomia del soggetto.
Umanizzare significa sostenere la crescita del bisogno primario dell’essere umano: pensare. Senza il logos si è consegnati alla necessità, al caos dell’efficienza che calcola senza porre domande. La religione dell’antico Egitto rappresentava il caos con Apopi,2 il serpente che tutto includeva nel caos. Non possiamo limitarci come gli Egizi a pregare per la sconfitta di Apopi, dobbiamo coniugare teoria e prassi. L’inclusione è la caverna ideologica del neoliberismo. Nel campo pedagogico-educativo, come nel campo del diritto si procede all’inclusione, per cui ogni frizione ed opposizione dialettica è “condannata” alla marginalità. L’inclusione ha l’ambizione di possedere il tempo, di distribuirlo negli spazi, di controllarne e curvarne le parole.
La chiacchiera (Gerede) mediatica ha il fine di tacitare, di silenziare il concetto: essa prolifera non solo in funzione mercantile, ma deve disumanizzare riducendo il tempo della coscienza a presenza confermativa. È l’ininterrotto “Yawl”3 che circola, assimila, omogeneizza nel regno animale dello Spirito (Gesellschaft). L’inclusione, dunque, è una forma di organizzazione assoluta, è la verità evi­dente ed edulcorata del capitalismo donante: includere perché viva il mercato, per animalizzare e derealizzare (Massimo Bontempelli) per lasciare spazio alla sola certezza sensibile (G.W.F. Hegel).
La nuova fase imperiale del capitalismo passa per la porta dei diritti individuali: ogni differenza a cui è concessa la visibilità e la garanzia dell’inclusione è espressione dell’avanzata dell’impero del capitale. Ad esse non si chiede di “render conto” mediante il concetto di se stesse; non si domanda l’emancipazione (autonomia di giudizio e scelta), ma semplicemente si prestabilisce che debbono essere accolte, purché consumino e divengano veicolo di affermazione e diffusione del capitale.

Ogni resistenza dev’essere abbattuta in nome dell’inclusione senza emancipazione. Il capitalismo donante e flessibile si autocelebra come liberatore dai vincoli etici per condurre gradualmente “i liberati” nella gabbia della certezza sensibile. Perché il plusvalore possa essere accolto religiosamente, quale dogma anonimo ed indiscutibile, è necessario derealizzare, per cui si deve rieducare il pensiero all’esodo dalla cultura classica, dalla concretezza filosofica verso la sudditanza al dato immediato.
Il capitale – araldo della liberazione – concede i diritti individuali, purché sottragga il pensiero (Denken), purché il Geist (lo Spirito del mondo-storia) si congeli nella derealizzazione massificante. La disumanizzazione ambisce a necrotizzare la prassi storica per sostituirla con la flessibilità e la dinamicità spaziale. La disumanizzazione si materializza nel nichilismo passivo, il quale è costituito da due movimenti: la superficie è increspata continuamente dal movimento, sotto la superficie non vi è profondità, ma solo irrigidimento anti creativo. Il nuovo nichilismo passivo disumanizza, poiché attrae, come il paese dei balocchi, incanta con i suoi miti, con le sue aspettative, ma non mantiene le promesse.
L’umanità esige profondità, pone gerarchie onto-assiologiche per significare il mondo (Welt), altrimenti l’essere umano diviene parte dell’ambiente (Umwelt). La disumanizzazione ha lo scopo di rendere l’essere umano interno all’ambiente-economia di cui è organico partecipante.
Il presente lavoro ha l’intento di operare un cambio di prospettive, in modo che si possa scorgere e pensare dietro la cortina dell’inclusione la disumanizzazione dei processi in corso. A tal fine bisogna trascendere il linguaggio orwelliano per seguirlo nelle sue tracce – nessun delitto è perfetto –, per far emergere la derealizzazione a cui è associata la disumanizzazione. Si proclama l’inclusione scolastica, ma in realtà si omologano intelligenza ed indole degli alunni; si afferma la liberazione della donna, ma si persegue la riduzione delle donne ad una tragica copia del maschio liberista; si inneggia alle identità per tradurle in prodotti per il libero mercato.
Rispetto all’ultimo uomo descritto da Nietzsche siamo in un orizzonte che il filosofo non aveva immaginato. L’ultimo uomo nietzscheano digrigna i denti, perché non vuole creare, ma solo conservare; l’ultimo uomo del neo-liberismo, non conserva, non ha memoria, è il ricettacolo di appetiti senza memoria. La liberazione dell’ultimo uomo liberista è nella pratica della dimenticanza di sé, della comunità, del mondo.
Alain Badiou ha definito la disumanizzazione «materialismo democratico»; ovvero, le differenze sono tollerate fin quando accettano l’uguaglianza giuridica: nessuna gerarchizzazione etica e nessuna nostalgia per l’universale. Se le differenze appaiono nel gioco dell’irrilevanza sono esaltate, quale successo della democrazia sui totalitarismi, ma se osano porre la ricerca della profondità e dell’eterno sono espulse dal gioco democratico:

«Esso è, inoltre, essenzialmente un materialismo democratico, dal momento che il consenso contemporaneo, riconoscendo la pluralità dei linguaggi, ne presuppone l’uguaglianza giuridica. Ragion per cui, alla riduzione dell’umanità all’animalità si aggiunge l’identificazione dell’animale umano con la diversità delle sue sottospecie e con i diritti democratici inerenti a questa diversità. Il suo rovescio progressista questa volta prende in prestito il suo nome da Deleuze: “minoritarismo”. Comunità e culture, colori e pigmenti, religioni e sacerdozi, usi e costumi, sessualità disparate, intimità pubbliche e pubblicità dell’intimo. Tutto, tutte, tutti meritano di essere riconosciuti protetti dalla legge. Tuttavia, il materialismo democratico ammette un punto di arresto globale alla sua multiforme tolleran­za. Un linguaggio che non riconosca l’universale uguaglianza giuridica e normativa dei linguaggi non merita di beneficiare di tale uguaglianza. Un linguaggio che pretenda di normare tutti gli altri e di governare tutti i corpi, lo si dirà dittatoriale e totalitario. Ciò che si riscontra non è, allora, la tolleranza, ma un “dovere d’ingerenza”, sul piano legale, internazionale, finanche militare, qualora si renda necessario: si faranno pagare ai corpi i loro eccessi di linguaggio».4

Il materialismo democratico è la pratica della disumanizzazione, la sua trasformazione in dispositivo permanente. La conservazione, con “annesso ritiro dell’essere umano” dalla storia, ha il volto del relativismo e della società liquida. La tolleranza è ammessa fin quando la religione dell’economia nella forma della glebalizzazione planetaria non è mediata da processi di emancipazione. L’effetto sdoppiamento, la deviazione dalla condizione attuale, dev’essere rimossa dall’immaginario teoretico del singolo e collettivo.

Il divertissement relativistico diviene la struttura e la verità della Weltanscauung capitale. Il materialismo democratico tollera le differenze solo se sono gra­dualità della res extensa: ogni differenza è eguagliata alle altre nella riduzione a pura estensione consumante. Le differenze devono essere solo di ordine quatitativo:

«Quantità, dice Hegel, significa qualità tolta, ovvero indica l’essere reso indifferente alle sue determinazioni. Grandezza significa quantità limitata dal limite qualitativamente indifferente, ripetizione identica di una medesima identità astratta. La matematica è la conoscenza delle relazioni necessarie della grandezza, secondo una necessità puramente tautologica nei suoi gradi più elementari, e secondo la necessità della mediazione sintetica costruita tra diversi elementi di un oggetto quantitativo nei suoi gradi superiori. Essa ha dunque una base obiettiva universale nella logica della quantità, mediante la quale elabora le sue costruzioni. Le scoperte matematiche sono indipendenti dalle contingenze storiche semplicemente perché l’oggetto del lavoro matematico è dato da entità astratte da ogni qualità contingente. La matematica è dunque una scienza. Ma la quantità, nella cui logica essa ha la sua base ontologica, è soltanto una delle sfere logico-ontologiche che il pensiero possiede nella sua interna strutturazione. Essa non può quindi avere in se stessa la misura della propria verità, perché la verità della quantità si compie soltanto nella sua connessione dialettica con tutte le altre sfere della realtà. L’isolamento della sfera logico ontologica della quantità è la ragione per cui la matematica non può fondare se stessa. Negli spazi vuoti delle pure grandezze quantitative tace, scrive Hegel, ogni esigenza che possa ricollegarsi all’individualità vivente: qui sta la mancanza di verità della matematica».5

Il desiderio di segnare una traccia nella storia e nella memoria, al punto da mettere in pericolo la propria vita, è sostituito con l’immediatezza delle pul sioni libere di godere in modo polimorfo. L’animalizzazione è la trasformazione delle differenze a semplice pulsione senza progettualità ed autocoscienza. L’eliminazione dell’autocoscienza, della relazione comunitaria è l’ideale nichilistico del capitalismo assoluto.

Ogni comunità dev’essere sostituita dall’individualismo, dal calcolo soggettivo finalizzato al godimento immediato. Le differenze sono così normalizzate, disciplinate sotto il regno del capitale. Mancando l’autocoscienza e la trascendenza l’essere umano è privato del suo carattere dialettico senza il quale non resta che la sostanza-estensione consumante.

Il capitalismo assoluto ha svelato la verità che la ragione liberale portava in grembo, siamo al punto apicale del nichilismo, e non giunge a noi improvviso, perché è nel fondamento della ragione liberale. Bernard de Mandeville descrive la verità della ragione liberale, essa non ha etica e limite, vive e si espande sull’emulazione dei consumi, non conosce altra legge che il consumo:

«A questa emulazione e a questo continuo sforzo di superarsi a vicenda si deve se dopo tanti cambiamenti di moda, che ne hanno fatte affermare di nuove e riproposte di vecchie, vi è sempre un plus ultra per i più ingegnosi. È questo, o almeno la conseguenza di questo, a dare lavoro ai poveri, a spronare l’industria e a incoraggiare il bravo artigiano a cercare nuovi progressi».6

 

In Mandeville l’eccesso dei consumi aumenta il benessere generale. Il lusso come motore di benessere, oggi, non ha ragion d’essere. Le tecnologie producono e divorano lavoro, il consumo crolla su se stesso, è introvabile una giustificazione razionale del consumo illimitato come fonte di benessere generalizzato. Non si vuol prendere atto che la ragione liberale, per sopravvivere, ora, non può che essere difesa dai gendarmi mediatici e dal totalitarismo del consumo al punto da minacciare la vita nella sua totalità, pur di far sopravvivere il neo-liberismo.
La ragione liberale, con l’economia finanziaria, ha consumato le sue possibilità di espansione. Per sopravvivere deve trasformare la libertà in sregolatezza, deve annientare ogni vincolo etico. È l’anno zero della civiltà. Dopo ogni diluvio si deve rifondare la civiltà ed i suoi fondamenti ontologici senza i quali si vive come fiere nella giungla del mercato globale:

«Ma delle Nazioni di tutto il restante Mondo altrimente dovette andar la bisogna; perocché le razze di Cam, e Giafet dovettero disperdersi per la gran Selva di questa Terra con un’error ferino di dugento anni, e così raminghi e soli dovettero produrre i figliuoli con una ferina educazione nudi d’ogni umano costume, e privi d’ogni umana favella, e sì in uno stato di bruti animali: e tanto tempo appunto vi bisognò correre, che la Terra disseccata dall’umidore dell’Universale diluvio potesse mandar in aria delle esalazioni secche a potervisi ingenerare de’ fulmini, da’ quali gli Uomini storditi, e spaventati si abbandonassero alle false religioni di tanti Giovi, che Varrone giunse a noverarne quaranta, e gli Egizj dicevano il loro Giove Ammone essere lo più antico di tutti; e si diedero ad una spezie di Divinazione d’indovinar l’avvenire da’ tuoni, e da’ fulmini, e da’ voli dell’ aquile, che credevano essere uccelli di Giove».7

 

1 Aristotele, Protreptico. Esortazione alla filosofia, Utet, Torino 2008, p. 27.

2 Incarnazione della tenebra, del male e del Caos (Isfet, Asfet nella lingua egizia) e antitesi della dea Maat, che rappresentava l’ordine e la verità.

3 Acronimo di Yet Another Workflow Language: è un linguaggio per il workflow management.

4 A. Badiou, Logiche dei mondi. Vol. II, L’essere e l’evento, Mimesis, Milano 2019, p. 56.

5 M. Bontempelli, Il pregiudizio antimetafisico della scienza contemporanea, Petite Plaisance, Pistoia 2006, pp. 5-6.

6 B. de Mandeville, La favola delle api, Laterza, Bari 1987, p. 84.

7 G. Vico, La scienza Nova, Edizione Centro di Umanistica Digitale dell’ISPF-CNR, progetto ISPF “Biblioteca vichiana”, 2007, p. 44.

 


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – L’animalizzazione dell’essere umano nel capitalismo.

Salvatore Bravo, L'animalizzazione dell'essere umano nel capiralismo
Salvatore Bravo
L’animalizzazione dell’essere umano nel capitalismo

ISBN 978-88-7588-274-7, 2020, pp. 192, Euro 20

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«Ora, una volta liberato dalle sue catene, il gigante infuria, abbattendo tutto ciò che si oppone alla sua corsa. Cosa ci riserverà il futuro? Chi ritiene che il gigante chiamato “capitalismo” distrugga la natura e gli uomini, spera di poter un giorno incatenarlo e ricondurlo nuovamente là da dove esso è fuggito. Ma la sua furia durerà in eterno? Non si esaurirà nella sua corsa? Io credo di sì. Ritengo infatti che, nella stessa natura dello spirito capitalistico, risieda una tendenza che lo corrode dall’interno e lo ucciderà. […] Una volta divenuto cieco, forse il gigante sarà condannato a tirare il carro della civiltà democratica. Forse assisteremo al crepuscolo degli dei. E l’oro sarà restituito al Reno. Chi può saperlo?».

Werner Sombart, 1913

 

 

Disumanizzare è il nuovo imperativo categorico che imperversa nell’Occidente globale. I processi di disumanizzazione si concretizzano con la stabilizzazione del nichilismo economicistico. Il regno dell’ultimo uomo descritto da Nietzsche è ora la realtà vivente dell’Occidente. La disumanizzazione procede e si struttura secondo modalità assolutamente inedite nella storia dell’umanità: biopotere e tecnocrazia sono i mezzi con cui l’economicismo pone in atto la sua rivoluzione antropologica. La sovrastruttura culturale cela la verità del sistema: deve agire per disorientare, per rappresentare il nuovo regno edenico dell’abbondanza come l’unico possibile ed il più inclusivo. L’ideologia imperante dell’inclusione è lo spot orwelliano del neoliberismo. Essa catalizza il consenso, in quanto “sembra dire” che il sistema “non abbandona persona o gruppo alcuno”. L’inclusione è il mezzo con cui la necessità sostituisce i bisogni. La necessità è esterna e meccanica, e pone le condizioni per la dipendenza del soggetto e delle comunità. Il bisogno è sorgente e vita interiore, è il vivente nella pienezza della relazione duale. Il bisogno è autonomia, non crea dipendenze, ma libertà senza solitudine, perché i bisogni interiori sono luci che appaiono nella relazione e si trasformano in una inesauribile prassi. La differenza tra bisogno e necessità è stata già descritta da Aristotele.1 Una civiltà dimentica di tale differenza è preda del caos: organizza scientemente la disintegrazione umana. La necessità implica la dipendenza dall’esterno, il bisogno è spazio vitale interiore, che rompe le barriere della necessità per affermare l’autonomia del soggetto.
Umanizzare significa sostenere la crescita del bisogno primario dell’essere umano: pensare. Senza il logos si è consegnati alla necessità, al caos dell’efficienza che calcola senza porre domande. La religione dell’antico Egitto rappresentava il caos con Apopi,2 il serpente che tutto includeva nel caos. Non possiamo limitarci come gli Egizi a pregare per la sconfitta di Apopi, dobbiamo coniugare teoria e prassi. L’inclusione è la caverna ideologica del neoliberismo. Nel campo pedagogico-educativo, come nel campo del diritto si procede all’inclusione, per cui ogni frizione ed opposizione dialettica è “condannata” alla marginalità. L’inclusione ha l’ambizione di possedere il tempo, di distribuirlo negli spazi, di controllarne e curvarne le parole.
La chiacchiera (Gerede) mediatica ha il fine di tacitare, di silenziare il concetto: essa prolifera non solo in funzione mercantile, ma deve disumanizzare riducendo il tempo della coscienza a presenza confermativa. È l’ininterrotto “Yawl”3 che circola, assimila, omogeneizza nel regno animale dello Spirito (Gesellschaft). L’inclusione, dunque, è una forma di organizzazione assoluta, è la verità evi­dente ed edulcorata del capitalismo donante: includere perché viva il mercato, per animalizzare e derealizzare (Massimo Bontempelli) per lasciare spazio alla sola certezza sensibile (G.W.F. Hegel).
La nuova fase imperiale del capitalismo passa per la porta dei diritti individuali: ogni differenza a cui è concessa la visibilità e la garanzia dell’inclusione è espressione dell’avanzata dell’impero del capitale. Ad esse non si chiede di “render conto” mediante il concetto di se stesse; non si domanda l’emancipazione (autonomia di giudizio e scelta), ma semplicemente si prestabilisce che debbono essere accolte, purché consumino e divengano veicolo di affermazione e diffusione del capitale.

Ogni resistenza dev’essere abbattuta in nome dell’inclusione senza emancipazione. Il capitalismo donante e flessibile si autocelebra come liberatore dai vincoli etici per condurre gradualmente “i liberati” nella gabbia della certezza sensibile. Perché il plusvalore possa essere accolto religiosamente, quale dogma anonimo ed indiscutibile, è necessario derealizzare, per cui si deve rieducare il pensiero all’esodo dalla cultura classica, dalla concretezza filosofica verso la sudditanza al dato immediato.
Il capitale – araldo della liberazione – concede i diritti individuali, purché sottragga il pensiero (Denken), purché il Geist (lo Spirito del mondo-storia) si congeli nella derealizzazione massificante. La disumanizzazione ambisce a necrotizzare la prassi storica per sostituirla con la flessibilità e la dinamicità spaziale. La disumanizzazione si materializza nel nichilismo passivo, il quale è costituito da due movimenti: la superficie è increspata continuamente dal movimento, sotto la superficie non vi è profondità, ma solo irrigidimento anti creativo. Il nuovo nichilismo passivo disumanizza, poiché attrae, come il paese dei balocchi, incanta con i suoi miti, con le sue aspettative, ma non mantiene le promesse.
L’umanità esige profondità, pone gerarchie onto-assiologiche per significare il mondo (Welt), altrimenti l’essere umano diviene parte dell’ambiente (Umwelt). La disumanizzazione ha lo scopo di rendere l’essere umano interno all’ambiente-economia di cui è organico partecipante.
Il presente lavoro ha l’intento di operare un cambio di prospettive, in modo che si possa scorgere e pensare dietro la cortina dell’inclusione la disumanizzazione dei processi in corso. A tal fine bisogna trascendere il linguaggio orwelliano per seguirlo nelle sue tracce – nessun delitto è perfetto –, per far emergere la derealizzazione a cui è associata la disumanizzazione. Si proclama l’inclusione scolastica, ma in realtà si omologano intelligenza ed indole degli alunni; si afferma la liberazione della donna, ma si persegue la riduzione delle donne ad una tragica copia del maschio liberista; si inneggia alle identità per tradurle in prodotti per il libero mercato.
Rispetto all’ultimo uomo descritto da Nietzsche siamo in un orizzonte che il filosofo non aveva immaginato. L’ultimo uomo nietzscheano digrigna i denti, perché non vuole creare, ma solo conservare; l’ultimo uomo del neo-liberismo, non conserva, non ha memoria, è il ricettacolo di appetiti senza memoria. La liberazione dell’ultimo uomo liberista è nella pratica della dimenticanza di sé, della comunità, del mondo.
Alain Badiou ha definito la disumanizzazione «materialismo democratico»; ovvero, le differenze sono tollerate fin quando accettano l’uguaglianza giuridica: nessuna gerarchizzazione etica e nessuna nostalgia per l’universale. Se le differenze appaiono nel gioco dell’irrilevanza sono esaltate, quale successo della democrazia sui totalitarismi, ma se osano porre la ricerca della profondità e dell’eterno sono espulse dal gioco democratico:

«Esso è, inoltre, essenzialmente un materialismo democratico, dal momento che il consenso contemporaneo, riconoscendo la pluralità dei linguaggi, ne presuppone l’uguaglianza giuridica. Ragion per cui, alla riduzione dell’umanità all’animalità si aggiunge l’identificazione dell’animale umano con la diversità delle sue sottospecie e con i diritti democratici inerenti a questa diversità. Il suo rovescio progressista questa volta prende in prestito il suo nome da Deleuze: “minoritarismo”. Comunità e culture, colori e pigmenti, religioni e sacerdozi, usi e costumi, sessualità disparate, intimità pubbliche e pubblicità dell’intimo. Tutto, tutte, tutti meritano di essere riconosciuti protetti dalla legge. Tuttavia, il materialismo democratico ammette un punto di arresto globale alla sua multiforme tolleran­za. Un linguaggio che non riconosca l’universale uguaglianza giuridica e normativa dei linguaggi non merita di beneficiare di tale uguaglianza. Un linguaggio che pretenda di normare tutti gli altri e di governare tutti i corpi, lo si dirà dittatoriale e totalitario. Ciò che si riscontra non è, allora, la tolleranza, ma un “dovere d’ingerenza”, sul piano legale, internazionale, finanche militare, qualora si renda necessario: si faranno pagare ai corpi i loro eccessi di linguaggio».4

Il materialismo democratico è la pratica della disumanizzazione, la sua trasformazione in dispositivo permanente. La conservazione, con “annesso ritiro dell’essere umano” dalla storia, ha il volto del relativismo e della società liquida. La tolleranza è ammessa fin quando la religione dell’economia nella forma della glebalizzazione planetaria non è mediata da processi di emancipazione. L’effetto sdoppiamento, la deviazione dalla condizione attuale, dev’essere rimossa dall’immaginario teoretico del singolo e collettivo.

Il divertissement relativistico diviene la struttura e la verità della Weltanscauung capitale. Il materialismo democratico tollera le differenze solo se sono gra­dualità della res extensa: ogni differenza è eguagliata alle altre nella riduzione a pura estensione consumante. Le differenze devono essere solo di ordine quatitativo:

«Quantità, dice Hegel, significa qualità tolta, ovvero indica l’essere reso indifferente alle sue determinazioni. Grandezza significa quantità limitata dal limite qualitativamente indifferente, ripetizione identica di una medesima identità astratta. La matematica è la conoscenza delle relazioni necessarie della grandezza, secondo una necessità puramente tautologica nei suoi gradi più elementari, e secondo la necessità della mediazione sintetica costruita tra diversi elementi di un oggetto quantitativo nei suoi gradi superiori. Essa ha dunque una base obiettiva universale nella logica della quantità, mediante la quale elabora le sue costruzioni. Le scoperte matematiche sono indipendenti dalle contingenze storiche semplicemente perché l’oggetto del lavoro matematico è dato da entità astratte da ogni qualità contingente. La matematica è dunque una scienza. Ma la quantità, nella cui logica essa ha la sua base ontologica, è soltanto una delle sfere logico-ontologiche che il pensiero possiede nella sua interna strutturazione. Essa non può quindi avere in se stessa la misura della propria verità, perché la verità della quantità si compie soltanto nella sua connessione dialettica con tutte le altre sfere della realtà. L’isolamento della sfera logico ontologica della quantità è la ragione per cui la matematica non può fondare se stessa. Negli spazi vuoti delle pure grandezze quantitative tace, scrive Hegel, ogni esigenza che possa ricollegarsi all’individualità vivente: qui sta la mancanza di verità della matematica».5

Il desiderio di segnare una traccia nella storia e nella memoria, al punto da mettere in pericolo la propria vita, è sostituito con l’immediatezza delle pul sioni libere di godere in modo polimorfo. L’animalizzazione è la trasformazione delle differenze a semplice pulsione senza progettualità ed autocoscienza. L’eliminazione dell’autocoscienza, della relazione comunitaria è l’ideale nichilistico del capitalismo assoluto.

Ogni comunità dev’essere sostituita dall’individualismo, dal calcolo soggettivo finalizzato al godimento immediato. Le differenze sono così normalizzate, disciplinate sotto il regno del capitale. Mancando l’autocoscienza e la trascendenza l’essere umano è privato del suo carattere dialettico senza il quale non resta che la sostanza-estensione consumante.

Il capitalismo assoluto ha svelato la verità che la ragione liberale portava in grembo, siamo al punto apicale del nichilismo, e non giunge a noi improvviso, perché è nel fondamento della ragione liberale. Bernard de Mandeville descrive la verità della ragione liberale, essa non ha etica e limite, vive e si espande sull’emulazione dei consumi, non conosce altra legge che il consumo:

«A questa emulazione e a questo continuo sforzo di superarsi a vicenda si deve se dopo tanti cambiamenti di moda, che ne hanno fatte affermare di nuove e riproposte di vecchie, vi è sempre un plus ultra per i più ingegnosi. È questo, o almeno la conseguenza di questo, a dare lavoro ai poveri, a spronare l’industria e a incoraggiare il bravo artigiano a cercare nuovi progressi».6

 

In Mandeville l’eccesso dei consumi aumenta il benessere generale. Il lusso come motore di benessere, oggi, non ha ragion d’essere. Le tecnologie producono e divorano lavoro, il consumo crolla su se stesso, è introvabile una giustificazione razionale del consumo illimitato come fonte di benessere generalizzato. Non si vuol prendere atto che la ragione liberale, per sopravvivere, ora, non può che essere difesa dai gendarmi mediatici e dal totalitarismo del consumo al punto da minacciare la vita nella sua totalità, pur di far sopravvivere il neo-liberismo.
La ragione liberale, con l’economia finanziaria, ha consumato le sue possibilità di espansione. Per sopravvivere deve trasformare la libertà in sregolatezza, deve annientare ogni vincolo etico. È l’anno zero della civiltà. Dopo ogni diluvio si deve rifondare la civiltà ed i suoi fondamenti ontologici senza i quali si vive come fiere nella giungla del mercato globale:

«Ma delle Nazioni di tutto il restante Mondo altrimente dovette andar la bisogna; perocché le razze di Cam, e Giafet dovettero disperdersi per la gran Selva di questa Terra con un’error ferino di dugento anni, e così raminghi e soli dovettero produrre i figliuoli con una ferina educazione nudi d’ogni umano costume, e privi d’ogni umana favella, e sì in uno stato di bruti animali: e tanto tempo appunto vi bisognò correre, che la Terra disseccata dall’umidore dell’Universale diluvio potesse mandar in aria delle esalazioni secche a potervisi ingenerare de’ fulmini, da’ quali gli Uomini storditi, e spaventati si abbandonassero alle false religioni di tanti Giovi, che Varrone giunse a noverarne quaranta, e gli Egizj dicevano il loro Giove Ammone essere lo più antico di tutti; e si diedero ad una spezie di Divinazione d’indovinar l’avvenire da’ tuoni, e da’ fulmini, e da’ voli dell’ aquile, che credevano essere uccelli di Giove».7

 

1 Aristotele, Protreptico. Esortazione alla filosofia, Utet, Torino 2008, p. 27.

2 Incarnazione della tenebra, del male e del Caos (Isfet, Asfet nella lingua egizia) e antitesi della dea Maat, che rappresentava l’ordine e la verità.

3 Acronimo di Yet Another Workflow Language: è un linguaggio per il workflow management.

4 A. Badiou, Logiche dei mondi. Vol. II, L’essere e l’evento, Mimesis, Milano 2019, p. 56.

5 M. Bontempelli, Il pregiudizio antimetafisico della scienza contemporanea, Petite Plaisance, Pistoia 2006, pp. 5-6.

6 B. de Mandeville, La favola delle api, Laterza, Bari 1987, p. 84.

7 G. Vico, La scienza Nova, Edizione Centro di Umanistica Digitale dell’ISPF-CNR, progetto ISPF “Biblioteca vichiana”, 2007, p. 44.

 


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – Una lettura critica del libro di Antonio Damasio, «Alla ricerca di Spinoza, Emozioni sentimenti e cervello».

Antonio Damasio - Spinoza - Neuroscienze

Salvatore Bravo

Una lettura critica del libro di Antonio Damasio

Alla ricerca di Spinoza, Emozioni sentimenti e cervello

 

L’atomocrazia liberista
L’antiumanesimo è la cifra del tempo moderno. Ogni ideologia ha i suoi trombettieri dell’Apocalisse. Le neuroscienze dichiarano la morte dell’uomo, al suo posto vi sarebbe un automa, un immenso meccanismo che risponde alle leggi dello stimolo e della risposta: l’atomocrazia liberista ha trovato, così, una scienza a sua misura ed immagine.
Le scienze, rappresentate come oggettive, sono la nuova testa d’ariete dell’ideologia del capitale. Si autorappresentano come verità libere, perché oggettive, ma in realtà – come la statua di Glauco descritta da Platone nel X libro della Repubblica – sono incrostate di condizionamenti e sedimenti ideologici. Il monismo delle neuroscienze si limita a descrivere i circuiti neuronali, espelle con la dialettica l’esperienza storica e relazionale, dalla genesi del pensiero. Ed esclude l’atto creativo. Si descrive una nuova normalità prodotta in laboratorio, curvata sul fisiologico e quindi trasformabile in dispositivo medico con cui sussumere la popolazione.
L’essere umano – per queste scienze – è abitato soltanto da sostanze chimiche che con le loro leggi ne determinano sentimenti, prassi e motivazioni. L’essere umano è un ente tra gli enti governato da leggi di cui sono depositari scienziati e tecnocrati. Ancora una volta si vuole convincere l’umanità che il pensiero è un atto chimicamente spiegabile, e dunque le scelte politiche ed etiche sono private di ogni valore. La scienza dell’ultimo uomo (der Letzte Mensch) nietzscheano insegna che l’umanità è “natura naturata” senza speranza e libertà. Il pensiero cosciente non risponde agli stessi meccanismi. Pertanto l’essere umano è fatto oggetto – in “qualsiasi stato” si trovi – al fato della biochimica. Ogni mediazione tra lo stimolo e risposta è negata, in modo da ridurre la persona ad un flusso di ormoni e reazioni chimiche ingovernabili dal soggetto, ma molto “governabili” dagli agenti esterni che ne diventano i signori e i padroni. In tale contesto l’umanità perde ogni specificità, ogni grandezza e miseria per diventare ente da gestire sotto l’influsso semi-magico di esperti e professionisti che riducono la mente al solo cervello da manipolare:

«Anche quando la reazione emozionale ha luogo senza una conoscenza consapevole dello stimolo, ciò nondimeno l’emozione esprime il risultato della valutazione della situazione da parte dell’organismo. Non ha importanza che quella stima non sia chiaramente notificata al sé. In qualche modo, il concetto di stima è stato interpretato troppo letteralmente come valutazione cosciente, quasi che la straordinaria impresa di valutare una situazione e reagire a essa automaticamente fosse una conquista biologica di minor rilievo. Uno dei principali aspetti della storia dello sviluppo umano riguarda il modo in cui moltissimi oggetti che costituiscono l’ambiente del nostro cervello hanno acquisito la capacità di innescare, consapevolmente o meno, varie forme di emozione – debole o intensa, positiva o negativa. Alcuni di questi fattori scatenanti sono stabiliti dall’evoluzione, mentre altri hanno finito con l’essere associati dal cervello a stimoli emozionalmente adeguati grazie alle nostre esperienze individuali. Pensate a quella casa dove una volta, da bambini, viveste un’intensa esperienza di paura. Quando vi tornate, può darsi che vi sentiate a disagio; e quel disagio non ha altra causa se non il fatto che molto tempo fa, in quello stesso ambiente, provaste una potente emozione negativa. Potrebbe addirittura accadervi, in un’altra casa per certi versi simile a quella, di provare lo stesso disagio, sebbene stavolta senza ragione alcuna, se si esclude il fatto che in quel luogo rilevate la registrazione cerebrale di un oggetto e di una situazione paragonabili».[1]

 

L’essere umano è dunque – nella prospettiva delle neuroscienze – un animale semplice con reazioni ipoteticamente prevedibili. Il pensiero – con la sua capacità critica ed etica – è ridotto ad una interazione chimica. La storia, in tale ottica, è solo un percorso ormonale ed evolutivo di ordine biologico. Ogni resistenza ed avanzamento etico è solo attività elettrica determinata da specifici stimoli. La capacità di pensare le emozioni, di concettualizzare i sentimenti, di trarre dalla profondità interiore di ciascuno un nuovo mondo è rimossa in nome delle semplici reazioni meccaniche.

 

Cervello astratto
Il pensiero come i sentimenti sono spiegati attraverso le funzioni del cervello e la loro azione organica. Si tende ad eliminare la relazione, la mediazione dialettica che per attivarsi necessita del cervello, ma che non può essere ridotta a tali reazioni. Il cervello, per potersi attivare nelle sue reazioni, deve relazionarsi con il mondo esterno. Reca con sé una verità invisibile che si cela alle analisi di laboratorio, ovvero l’intera attività cerebrale non sarebbe possibile senza l’apertura al mondo. Tale attività relazionale sposta il cervello fuori della sua sede anatomica, o meglio il cervello è nella sua sede anatomica, ma la mente – in quanto cervello vivo – diventa altro dal cervello, è disposta all’esterno, all’incontro che retroagisce sul cervello mediante una lunga serie di passaggi dialettici, che finiscono per istituire una interazione tra mente e cervello. Si è dinanzi ad una realtà-verità plastica, in cui l’anatomia non spiega se stessa, ma ha bisogno di altre categorie e paradigmi per poter decodificare la complessità del rapporto mente cervello. Una forma di dualismo diventa, così, imprescindibile per poter riportare la complessità alla sua razionalità. Le sofferenze dell’individuo non sono semplici impressioni neuronali, ma hanno la loro dinamica nelle relazioni che sono non spiegabili totalmente col cervello. Benché la vitalità delle esperienze critiche segnino il cervello ed il corpo vissuto, le neuroscienze semplicizzano e rassicurano, per cui le idee come i sentimenti sono riportati all’’omeostasi:

«I sentimenti, nell’accezione adottata in questo libro, non insorgono solo dalle emozioni vere e proprie, ma da qualsiasi insieme di reazioni omeostatiche, e traducono nel linguaggio della mente lo stato vitale in cui versa l’organismo. Qui, io suggerisco che esistano «modalità corporee» distinte risultanti da diverse reazioni omeostatiche, dalle più semplici alle più complesse. Esistono anche oggetti induttori distinti, e altrettanto distinti pensieri conseguenti alla reazione, e modalità di pensiero corrispondenti. La tristezza, per esempio, si accompagna a una minor produzione di immagini alle quali viene tuttavia prestata maggiore attenzione: una situazione opposta al rapido susseguirsi di immagini – che peraltro ricevono un’attenzione brevissima – tipico della felicità. I sentimenti sono percezioni, e io propongo che la loro percezione trovi il necessario supporto nelle mappe cerebrali del corpo. Una certa variazione del piacere o del dolore è un contenuto costante di quella percezione che chiamiamo sentimento. Accanto alla percezione del corpo c’è sia quella di pensieri con temi consoni all’emozione, sia quella di una certa modalità di pensiero – uno stile di elaborazione mentale. Come avviene tale percezione? Essa deriva dalla costruzione di meta-rappresentazioni dei processi mentali, un’operazione di livello superiore in cui una parte della mente ne rappresenta un’altra. Questo ci permette di registrare un rallentamento o un’accelerazione dei nostri pensieri, a seconda che prestiamo loro maggiore o minore attenzione o che i pensieri raffigurino oggetti o eventi cogliendoli, a seconda dei casi, da vicino o da lontano. La mia ipotesi, allora, presentata sotto forma di definizione provvisoria, è che un sentimento sia la percezione di un certo stato del corpo, unita alla percezione di una particolare modalità di pensiero nonché di pensieri con particolari contenuti. I sentimenti emergono quando il semplice accumulo dei dettagli registrati nelle mappe raggiunge un certo stadio».[2]

Nuovo realismo
Le neuroscienze negano “la rivoluzione copernicana”: sono interne al realismo che esige un atteggiamento adattivo. Le immagini degli oggetti sono riprodotte sulla retina. Anche in questo caso è esclusa ogni attività intenzionale, creativa e libera del soggetto che riproduce l’oggetto nell’immagine. L’attività intenzionale non è registrabile, poiché è la disposizione del corpo vissuto ad orientarsi verso l’alterità significandola. Le neuroscienze non valutano la concretezza del sistema percettivo, esso avviene in un contesto di senso, il quale contribuisce alla formazione dell’immagine mediante l’attività del soggetto che nell’attribuire significati, nel cogliere aspetti di particolare rilievo per la cultura e la formazione del soggetto percipiente, contribuisce attivamente alla formazione dell’immagine e trascende la semplice risposta sensoriale. La soggettività è sostituita da procedure anatomiche eguali in ogni essere umano:

«Le immagini che abbiamo nella nostra mente, allora, sono il risultato di interazioni che hanno luogo fra ciascuno di noi e gli oggetti che impegnano il nostro organismo, interazioni che vengono riprodotte in configurazioni neurali costruite in base all’architettura dell’organismo. Va sottolineato che questo non nega la realtà dell’oggetto. Gli oggetti sono reali. Né si nega, qui, la realtà delle interazioni fra oggetto e organismo. Inoltre, com’ è ovvio, anche le immagini sono reali. Ciò nondimeno, le immagini che noi sperimentiamo sono costruzioni cerebrali indotte da un oggetto, e non riflessi speculari dell’oggetto stesso. Non c’è un’immagine dell’oggetto che venga trasferita otticamente dalla retina alla corteccia visiva. L’ottica si ferma a livello della retina. Al di là di essa troviamo trasformazioni di natura fisica che hanno luogo in continuità, dalla retina alla corteccia cerebrale. Allo stesso modo, i suoni che sentiamo non sono strombazzati con una sorta di megafono dalla coclea fino alla corteccia uditiva, sebbene, in senso metaforico, fra le due strutture anatomiche abbia effettivamente luogo un passaggio di trasformazioni fisiche. Esiste una serie di corrispondenze, affermatasi nella lunga storia dell’evoluzione, fra le caratteristiche fisiche di oggetti indipendenti da noi, e il menu delle possibili risposte dell’organismo. (La relazione fra le caratteristiche fisiche dell’oggetto esterno e le componenti preesistenti selezionate dal cervello per costruire una rappresentazione è un tema importante, che andrà esplorato in futuro). La configurazione neurale attribuita a un determinato oggetto viene costruita in base al menu di corrispondenze, scegliendo e combinando i simboli appropriati. D’altra parte, noi esseri umani siamo talmente simili dal punto di vista biologico che, riferendoci allo stesso oggetto, finiamo per costruire configurazioni neurali simili. Non dovrebbe sorprendere, se da quelle configurazioni neurali simili emergono poi immagini anch’esse simili. E per questo che possiamo accettare, senza proteste, l’idea convenzionale secondo la quale ciascuno di noi formerebbe nella propria mente l’immagine riflessa di un particolare oggetto».[3]

 

Relazioni tra ordini diversi
In tale riduzionismo, si evita volutamente di porre il problema del “perché” i soggetti provino particolari sentimenti di avversione verso ingiustizie sociali o atti cruenti. Dalla profondità dell’anatomia appare la ragione etica che, sicuramente, necessita delle funzioni del cervello, ma il motivo che spinge taluni ad impegnarsi per la comunità o a disimpegnarsi resta tra i segreti non svelati delle neuroscienze. La mente sfugge all’indagine sul cervello, poiché è di altra natura, o di un altro piano:

«La nostra ipotesi è che qualsiasi cosa noi sentiamo debba basarsi sulla forma dell’attività delle regioni cerebrali somato-sensitive. Se esse non fossero disponibili, noi non sentiremmo nulla, proprio come non vedremmo nulla se fossimo privati delle fondamentali aree visive del nostro cervello. Noi sperimentiamo dunque i sentimenti per gentile concessione delle regioni somato-sensitive. Può darsi che questo suoni un po’ ovvio, ma devo ricordare che, fino a pochissimo tempo fa, la scienza evitava accuratamente di assegnare i sentimenti a qualsiasi sistema cerebrale; si limitava a collocarli in qualche luogo evanescente nel cervello – o attorno a esso. Ed ecco una possibile obiezione, che è ragionevole e pertanto meritevole di attenzione, ma che in realtà è infondata. In generale, le regioni somato-sensitive producono una mappa precisa di quanto ha luogo nel corpo in quel momento; in alcuni casi, tuttavia, non è così, per la semplice ragione che l’attività delle regioni impegnate nella produzione della mappa, o i segnali afferenti a esse, possono essere stati in qualche maniera modificati».[4]

Le neuroscienze devono essere comprese all’interno della storia dell’attuale fase del capitalismo. Esse sono l’espressione più avanzata della rappresentazione dell’essere umano come mappa neuronale su cui si può agire per determinare scelte e sentimenti, e nel contempo hanno l’ambizioso progetto di eliminare la variabile coscienza, e l’annessa libertà. Divengono lo strumento ideologico per educare l’umanità ad un modello pedagogico fortemente “adattivo”. La filosofia ha il compito di smascherare tali derive riportando la concretezza critica dove regna l’incanto distopico del semplicismo ideologico.

 

Segnali emozionali
Le scienze – al pari di ogni altra attività umana – “avvengono” nella storia e senza una riflessione sulla propria “azione storica” tendono a trasformarsi nell’onnipotenza astratta del nuovo capitalismo che le finanzia al fine di governare sui popoli da trasformare in greggi di automi che sperano nella magia delle sostanze chimiche per risolvere i loro problemi. Esse sono parte del dispositivo di passività generale. Il logos ed il linguaggio diventano secondari rispetto ai segnali emozionali che stabiliscono finalità da raggiungere:

«Il segnale emozionale non è un sostituto del ragionamento vero e proprio, ma ha semplicemente un ruolo ausiliario, giacché ne aumenta l’efficienza e lo velocizza. In qualche caso, può renderlo quasi superfluo, come accade, per esempio, quando respingiamo immediatamente un’opzione che condurrebbe a un disastro sicuro o, viceversa, cogliamo al volo una buona opportunità in base alla sua elevata probabilità di successo. In alcuni casi il segnale emozionale può essere molto forte, e condurre alla parziale riattivazione di emozioni come la paura o la felicità, seguite dal sentimento cosciente appropriato di quella particolare emozione. E questo il presunto meccanismo della percezione viscerale, che utilizza quello che ho definito circuito corporeo. D’altra parte, i segnali emozionali possono funzionare anche in modo più sottile, e presumibilmente, nella maggior parte dei casi, è così che svolgono la loro funzione. In primo luogo è possibile produrre percezioni viscerali senza usare davvero il corpo, ma attingendo dal circuito «come se» discusso nel capitolo precedente. In secondo luogo, poi, c’è un fatto più importante, e cioè che il segnale emozionale può operare interamente al riparo dal radar della coscienza».[5]

 

Spinoza, immunologo delle passioni
Per salvare il logos e la progettualità politica bisogna mettere al riparo l’umanità da derive irrazionaliste che la schiacciano sulle sole azioni-reazioni neuronali senza linguaggio e capacità di meta-riflessione. Nella lettura di Antonio Damasio (Lisbona, 25 febbraio 1944) Spinoza è «un immunologo delle cattive passioni»:

«La soluzione di Spinoza richiede anche che l’individuo tenti di interrompere il processo che porta dagli stimoli emozionalmente adeguati potenziali induttori di emozioni negative – passioni come la paura, la rabbia, la gelosia, la tristezza – ai meccanismi che le eseguono. L’individuo dovrebbe invece sostituirli con altri stimoli, in grado di indurre emozioni positive, dalle quali trarre forza e nutrimento. Per facilitare questo obiettivo Spinoza raccomanda di tornare più volte a contemplare mentalmente gli stimoli negativi così da sviluppare una qualche tolleranza nei confronti delle emozioni negative e da acquisire gradualmente una certa dimestichezza nel generare quelle positive. Questo Spinoza è, a tutti gli effetti, un immunologo della mente che sta sviluppando un vaccino per creare anticorpi contro le passioni».[6]

 

Spinoza è un pensatore che difende “le buone pratiche comunitarie” e che persegue l’universale concreto in una società democratica rispettosa delle individualità con l’obiettivo politico di favorire la letizia comunitaria contro la tristezza del potere e della marginalità sociale. Spinoza non è un individualista, ma il suo senso sociale lo porta a progettare una comunità di individui che coltivano le passioni positive per poter ben vivere nella comunità che come «la visione intellettuale di dio» è un’unità in cui le parti si integrano, creando pratiche politiche rispettose della dignità umana. Il conatus sese conservandi non ha come fine la conservazione individuale, ma la liberazione dalle tristezze che condizionano le vite dei singoli, le quali sono in perenne tensione dialettica e politica.

Salvatore Bravo

***

[1] Antonio Damasio, Alla ricerca di Spinoza, Emozioni sentimenti e cervello, Adelphi, Milano 2007, pag. 58.

[2] Ibidem, pag. 85.

[3] Ibidem, pp. 175 176.

[4] Ibidem, pag. 106.

[5] Ibidem, pag. 134.

[6] Ibidem, pag. 235.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore A. Bravo – Pilocchio. Storia di un Pinocchio dei nostri giorni. Pinocchio, sintomo di un mondo disumanizzato, è la vitalità di chi cerca la guarigione, perché l’avventura della vita esige partecipazione, e la salvezza è sempre possibile, se si rinuncia ad un individualismo senza storia e bellezza.

Pinocchio - Collodi

Salvatore A. Bravo

Pilocchio. Storia di un Pinocchio dei nostri giorni

ISBN 978-88-7588-294-5, 2021, pp. 128, Euro 15

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Quarta di copertina

Rileggere Pinocchio è come trovarsi palesate, senza per questo cadere nella disperazione e nel pessimismo, le armi più efficaci che il potere usa per dominare. Le avventure di Pinocchio sono le nostre avventure, sono l’inquietudine che non si rassegna ad una vita anonima, sono l’incessante tensione per uscire dalla “caverna platonica degli inganni”. Pinocchio, sintomo di un mondo disumanizzato, è altresì la vitalità di colui che cerca la guarigione. I processi di identificazione con il burattino favoriscono il riattivarsi di energie critiche, per cui rileggere Pinocchio può significare l’inizio di un processo di emancipazione dalla “banalità del male” in cui siamo immersi, e che spesso rimuoviamo per cedere agli automatismi senza concetto. Il testo di Collodi ci invoca al dialogo, ci sollecita ad affinare lo sguardo nella profondità del buio delle “caverne in cui siamo inconsapevoli prigionieri”. All’antiumanesimo del pessimismo è necessario contrapporre la forza storica della vita, la quale non si lascia prosciugare dal sole nero del potere, ma sa leggere il presente utilizzando le categorie del pensiero, generatrici di possibilità. Solo la parola libera: ne è testimonianza la storia di Pinocchio. Il burattino insegna a bambini e adulti che l’avventura della vita esige partecipazione, che la salvezza è sempre possibile, se si rinuncia ad un individualismo senza storia e bellezza. La maieutica filosofica necessita di simboli che favoriscano il logos. L’opera di Collodi, quindi, si presta ad esse­re un insospettato veicolo di consapevolezza comunitaria.


A mo’ di introduzione

Perché rileggere Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino?
La risposta è nello sguardo che scruta il presente e guarda il futuro, un futuro in cui si addensano ombre che necessitano di essere pensate. Nel testo di Collodi sono presenti i pericoli della modernità.
L’obnubilamento della ragione oggettiva impedisce la razionalità critica, e senza razionalità oggettiva si è incapaci di dare una direttiva politica ed etica al vivere comunitario. Prodigiose scoperte si susseguono, ma le «passioni tristi» sono le protagoniste dell’Occidente globalizzato. La razionalità soggettiva che persegue fini puramente individualistici nel disprezzo di ogni vincolo comunitario ed etico è la norma dello stato presente. La solitudine dell’uomo globale è la verità perennemente occultata dalla pubblica ragione pervertita ed addomesticata in chiacchiera senza concetto. La scienza e l’economia – nella loro tragica alleanza – sono mezzi e strumenti per trasformare ogni ente, ogni vita, ogni contingenza in plusvalore. Tutto è possibile: anche convertire Pinocchio in asino da spettacolo, fino ad usare la pelle dell’asino Pinocchio per produrre un tamburo.
Pinocchio ci racconta della minaccia che incombe ad opera della tecnocrazia. Il Prometeo scatenato è tra di noi, ogni «euristica della paura» è dimenticata nel sonno della razionalità e cade nel nichilismo. H. Jonas, con l’euristica della paura, ci ha donato non solo un criterio etico per l’azione, ma anche ci ha invitati a pensare le prodigiose forze distruttive di cui disponiamo. Se un’azione comporta la possibilità di effetti incontrollabili e distruttivi bisogna, pertanto, astenersi dal compierla. Responsabilità ed etica sono un binomio non scindibile. Pinocchio è il racconto di un tortuoso cammino verso la responsabilità, la quale dev’essere responsabilità verso se stessi e verso la comunità nella quale si vive.
Senza tali fondamenti concreti ogni appello alla responsabilità è solo propaganda mediatica senza risultato. Dinanzi all’abisso si diseduca all’impegno civile, e si spingono popoli e nazioni ad abbandonarsi al consumo. Pinocchio è il segno di un pericolo che è tra di noi. Singoli, popoli e nazioni vivono l’esperienza di una regressione generale verso forme di immaturità collettiva social­mente indotta. Un mondo di omuncoli, “Pinocchi”, che vivono tra la menzogna e la bugia non può che generare dei mostri nella generale infelicità.
Pinocchio per diventare “persona” ha avuto un punto di riferi­mento costante: “Geppetto” che cerca e attende. L’attualità – senza riferimenti umani ed ideologici – rischia di abbandonare le nuove generazioni ad una deriva regressiva senza scampo e salvezza.
Ogni realtà – per il capitalismo – dev’essere tradotta in economia, in salto verso il PIL, unica divinità sopravvissuta nel crepuscolo del sacro e della razionalità oggettiva. Il contesto descritto da Collodi è governato dal profitto e dall’utile. Pinocchio, d’altra parte, è il sintomo della malattia della modernità, vuole «solo correre dietro le farfalle», rifiuta il suo radicamento nella storia con l’impegno necessario. È la divina indifferenza, l’individualismo che esige il mondo a sua misura. È una figura della crisi, e specialmente la soluzione non può che avvenire attraverso il «travaglio del negativo».
Collodi è ottimista, in quanto Pinocchio vivrà il male per uscirne “persona” che ha visto l’abisso in cui è possibile perdersi; e dunque ha trasceso il male: la tragedia di cui è stato protagonista non ha preso il sopravvento. Il mondo di Pinocchio è un’età senza pensiero, dove si calcola, ma non si pensa.
Il potere si mostra nella sua crudezza sugli ultimi, e specialmente vive e si consolida nella testa dei dominati (Maestro Ciliegia). Geppetto è l’antitesi di un mondo che sa solo calcolare, è il padre amorevole che ha rinunciato all’utile per creare.
Geppetto è trasgressivo, è l’antitesi dell’homo oeconomicus, è l’umanità che resiste, malgrado la povertà materiale, è la fonte sempre viva dell’universale che non può essere completamente negato, pur in una realtà senza cuore e senza scampo. Geppetto è la paternità assediata che si rigenera in solitudine.
Geppetto non ha mai rinunciato alla speranza di generare la vita. È il padre che deve donare il principio di realtà al figlio che antepone il principio di piacere al principio di realtà.
Le disavventure di Pinocchio sono acuite dal contesto che nega ogni vera formazione per corrompere ed usare, per deviare dal tempo profondo del progetto e sospingere verso il tempo frammentato, negli attimi che si susseguono sotto l’egida dell’eccesso, dell’Eden pronto a ribaltarsi in incubo ed a svelare la sua verità. Pinocchio vive gli anni della sua formazione in un mondo dominato dalla disuguaglianza e dall’arbitrio. Pinocchio deve ricreare “il mondo” per poter sfuggire alla distopia del quotidiano.

La storia di Pinocchio è comparabile alla Fenomenologia dello Spirito di Hegel, in cui l’autocoscienza diviene consapevole di sé con l’errare dialettico, con la riflessione sull’esperienza che eleva dal particolare all’universale. Senza l’attraversamento delle contraddizioni e delle resistenze è impossibile attuare le potenzialità che ogni persona reca e serba nel suo scrigno. Tutto “lavora”, affinché la paideia di Pinocchio non si concretizzi e resti burattino tra le mani di un potere invisibile ed onnipresente.

Pinocchio è la tragedia nell’etico, è l’attraversamento delle caverne e delle false verità, in cui si inciampa nel cammino per diventare esseri umani. Pinocchio scende nella profondità di se stesso per ritrovarsi essere umano. La profondità di Pinocchio non è kantianamente astratta, ma concreta, poiché incontra nel suo “io” la collettività di cui è parte integrante. La parte e il tutto dapprima confliggono per poi ritrovarsi in una unità rispettosa delle differenze. Nella discesa conosce e riconosce il proprio creatore, Geppetto, è il figlio che cerca il padre per un nuovo incipit.
Creatore e creatura nel mondo della vita sono figure che albergano in ogni relazione umana. È il figlio che non si confonde con il padre, ma desidera averlo accanto, riconosce l’autorevolezza e l’autorità amorevole del padre in un mondo che già si delinea senza padri. Il riconoscimento dell’archetipo paterno non significa che il figlio non possa assumere comportamenti “paterni” verso il suo creatore. Prima di iniziare vorrei soffermarmi su una parola che ricorre spesso nel racconto: povertà.
Il racconto di Collodi è una denuncia della povertà, ma errano, credo, coloro che si limitano a dare a tale parola – nell’equilibrio del racconto – una valenza riferita alla sola povertà materiale. Pinocchio è divorato più volte dalla fame, al punto da mangiare ciò di cui mai avrebbe pensato di potersi nutrire. Denuncia delle condizioni delle classi subalterne nell’Italia di fine Ottocento.
Accanto a questo livello d’analisi, nello scorrere del testo si incontrano molte forme di povertà: l’animalità avida, del Gatto e della Volpe; la corruzione del potere del Giudice scimmia, fino al divertimento senza limite del paese dei balocchi. Le povertà sono il pericolo eterno dell’umanità. Il racconto, apparentemente per bambini, in realtà è capace di visualizzare – in una serie di immagini – l’eterno che accompagna ogni vita durante la sua formazione. L’eterno è simbolizzato, ma anche storicizzato, in quanto vi è la descrizione di un mondo nelle grinfie del guadagno.
Collodi denuncia le pratiche economiche finalizzate all’accumulo e scorge gli effetti futuri di una realtà senza fondamenti etici, che ha venduto l’anima per soddisfare i suoi desideri. Pinocchio e Geppetto sono due resistenti, non venderanno l’anima per i loro desideri inautentici, perché alla fine vivranno della comune radice che li unisce, senza la quale non vi è umanità, non vi è progetto, ma solo vita biologica senza senso. Alla fine del racconto Pinocchio sostiene passo passo Geppetto, incontrano il Gatto e la Volpe, ma Pinocchio non cade più nella trappola delle loro parole, perché «le povertà sono state sconfitte».
Le povertà sono il velo di Maya che occulta allo sguardo la sua profondità. Alla fine del racconto il velo di Maya cade e Pinocchio riconosce in Geppetto una parte di sé da amare e sostenere nella cura costante dell’amore vicendevole. Il velo di Maya che cade è la luce della ragione che si ritrova con l’emotività positiva, e ciò consente a Pinocchio di riconoscere la verità del Gatto e della Volpe e di soppesarne correttamente le parole. Imparare ad essere umani significa saper ascoltare le parole come parte di una totalità concreta che viene a noi e ci invoca ad una complessa ermeneutica. Pinocchio è la vita nella sua ricca potenzialità che si confronta con le povertà che ne minacciano lo splendore.
Pinocchio e Geppetto sono nella bocca del pescecane fin dall’inizio del racconto, sono all’interno di una realtà storica, in cui la sussunzione è un destino che divora gli ultimi ed i piccoli. L’incontro con il pescecane è l’incontro-scontro con “l’apparir del vero” senza il quale ogni inizio ed emancipazione sono impossibili.

S. Bravo


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Fallimenti e ricostruzioni teoriche. Note su Gianfranco La Grassa.

Gianfranco La Grassa 01

Salvatore Bravo

Fallimenti e ricostruzioni teoriche

Note su Gianfranco La Grassa

Gianfranco La Grassa (Conegliano, 19 gennaio 1935) è un post-marxista, definizione generica e nel contempo embrionale, perché la galassia del post-marxismo è abitata da un mondo plurale, in cui convivono una molteplicità di posizioni e tendenze, ma non è ancora chiaro quale prevalga. È un pensatore che segna il passaggio dal crollo del marxismo a una nuova postura di sinistra ancora incerta, quindi, dai tratti indefiniti, benché usi le categorie marxiane per leggere il presente. Il punto di partenza di La Grassa è constatare il sostanziale fallimento del comunismo reale, poiché la classe operaia non è stata capace di gestire l’apparato industriale. Di fondo vi è un limite teorico di Marx e del marxismo che ha “ridotto” la contrapposizione tra capitale e salario a semplice opposizione giuridica tra proprietari e non proprietari. La realtà storica effettiva, invece, non è semplice antitesi giuridica, ma opposizione tra capacità di gestione manageriale della proprietà (dominanti) e sulla sponda opposta l’incapacità decisionale dei subalterni (dominati), i quali sono subalterni non solo per la condizione economica, ma specialmente perché sono esclusi dai circuiti decisionali delle imprese e del capitale. Il comunismo reale ha palesato tale “privazione culturale” con l’effetto che la rivoluzione è ricaduta su se stessa, si è burocratizzata, ha nuovamente escluso gli operai ed i contadini dalla gestione del potere. Il lavoratore collettivo produttivo ipotizzato da Marx, quale punto nodale per la messa in atto del comunismo non si è materializzato, poiché si è riformata una nuova classe di gestori del potere economico di cui la classe operaia è stata suddita. Nella visione di Marx il capitalismo si sarebbe trasformato in capitalismo finanziario (III Libro del Capitale), per cui i padroni avrebbero lasciato la gestione delle fabbriche agli ingegneri e ai tecnici, i quali si sarebbero dovuti alleare con gli operai, al fine di controllare collettivamente le fabbriche, ribaltando il potere, e liberando operai e classe media. I padroni, ormai “aristocrazia della finanza”, si sarebbero dedicati a “produrre” plusvalore in borsa, il parassitismo finanziario con la loro autoesclusione dalla diretta gestione della produzione sarebbe stato l’inizio della rivoluzione.
La classe operaia idealizzata da Marx quale motore universale della storia, non aveva e non ha le competenze per una simile operazione politica e strutturale, essa è stata un mito catalizzatore che ha mostrato “nella storia” la sua verità. Il comunismo non ha mantenuto le sue promesse, il disincanto per le condizioni dei subalterni si è congiunto con il fallimento predittivo di Marx. La successione stadiale ipotizzata da Marx è stata cancellata dalla storia effettiva. I due elementi hanno prodotto il collasso del comunismo, la sua effettiva scomparsa e il disincanto generalizzato.
La Grassa non si definisce marxista, sperimenta una nuova identità partendo dall’analisi delle condizioni presenti del capitalismo. La verità nuda e cruda del comunismo è davanti a noi, distogliere lo sguardo significa solo rimandare il problema senza risolverlo:

“Perché l’elemento decisivo di tale teoria consisteva nella supposta oggettiva funzioni emancipatrice universale della classe operaia considerata nella sua (quasi) totalità ( le “masse proletarie”) oppure con più specifico riferimento alla sua presunta avanguardia che ne rappresentava la coscienza – il manifestarsi dell’incapacità rivoluzionaria di detta classe, che non si volle mai riconoscere formulando una sequela di ipotesi ad hoc sempre più inconsistenti, condusse infine al ripiegamento su una costruzione socialistica da parte dello Stato. In definitiva, ebbe la sua rivincita il socialismo di Stato Lassalle, aspramente criticamente e sbeffeggiato da Marx[1]”.

L’incapacità operaia di gestire la produzione con la classe media si è confermata non solo ad Est, ma anche ad Ovest. Dinanzi ad una simile verità storica non resta che prendere atto dell’incapacità della classe operaia di essere la protagonista del movimento rivoluzionario, per cui bisogna congedarsi dai miti marxisti e marxiani per un sano principio di realtà da cui riteorizzare ex novo l’alternativa:

“Il passaggio dalla proprietà al potere di disporre fu per l’epoca – in cui la lotta dei comunisti rivoluzionari (che si consideravano neoleninisti) e dei marxisti rinnovatori mirava a sconfiggere dall’interno il presunto neorevisionismo delle dirigenze PCUS e di praticamente tutti i partiti comunisti, salvo per un breve periodo (fino alla morte di Mao nel 1976) quello cinese – un evento liberatorio, di cui è oggi estremamente difficile rendersi conto. Tale passaggio manteneva ferma la convinzione della centralità rivoluzionaria della classe operaia, non riprendendo quindi il concetto di lavoratore collettivo cooperativo, poiché era fin troppo evidente, anche in seguito all’esperienza accumulata nell’ambito del capitalismo occidentale, che le potenze mentali e le funzioni direttive della produzione (in realtà dei processi di lavoro) dimostravano di non essere per nulla in grado, malgrado alcune speranze sollevate dal movimento del 1968, di staccarsi dal potere delle classi proprietarie e di criticare queste ultime in funzione di una – in realtà mai innescata, né all’ovest né all’est – riappropriazione reale dei mezzi di produzione (capacità di utilizzarli per i propri fini, ecc.) da parte dell’intero corpo lavorativo[2]”.

 

Capitalismo e razionalità strategica
L’analisi “oggettiva” di La Grassa per teorizzare il movimento anticapitalistico parte dall’errore teorico di fondo dei marxisti, i quali hanno effettuato un riduzionismo puramente giuridico ed economicistico, per cui bisogna “ripartire” da un macroelemento economico, tecnico e sociale, ovvero più che la lotta tra capitale e lavoro salariato, è la lotta strategica tra gli imprenditori ad essere la forza sostanziale e dinamica del capitalismo che ha raggiunto la sua espressione evidente nella contemporaneità. Tale lotta non può che avvenire in presenza di altissime competenze manageriali che si traducono in strategie per conquistare i mercati e per conquistare le strutture statali al fine di affermare la supremazia dei gruppi in lotta tra di loro. La razionalità strategica diviene il perno operativo dei gruppi imprenditoriali-manageriali in lotta che per conquistare mercati, politica e Stato con forme concorrenziali aggressive che La Grassa denomina “conflitti strategici” con cui appropriarsi di quote di mercato e con esso “zone d’influenza” sociale, culturale e politica. Il denaro è per i “dominanti” un mezzo per conquistare un potere sempre più vasto, per penetrare in aree sempre più vaste della politica come della produzione culturale. In questo contesto “i dominanti” non sono assimilabili alle classi agiate, perché per essi il denaro è solo uno strumento per ritagliare porzioni sempre più larghe di potere, e lo stesso Stato è interno a questa strategia, esso non è caratterizzato da omogeneità strutturale, ma dietro la parvenza dell’unità è mosso dalle forze strategiche in campo:

“Concentrare l’attenzione teorica e analitica solo sull’oligopolio e/o la concorrenza, in quanto forme diverse di mercato, è appunto conseguenza di quella impostazione che pone al centro i problemi della proprietà o meno dei mezzi di produzione e che considera l’impresa solo come unità produttiva. Se teoria e analisi vengono fondate sul concetto di conflitto strategico, la lotte per le quote di mercato, e le varie forme di quest’ultimo, vengono ricomprese nel più vasto orizzonte dello scontro interdominanti per le zone d’influenza, sia con riguardo alle diverse sfere sociali (economica come politica e culturale) sia riferendosi, in senso geopolitico, alle diverse aree della formazione capitalistica mondiale[3]”.

La lotta strategica produce nuovi bisogni, per vendere nuovi prodotti. L’agire strategico si rafforza mediante la cultura del consumo, con l’omogeneizzazione delle scelte dei consumatori/dominati orchestrata dai gruppi manageriali. La razionalità strategica non agisce semplicemente incrementando la produzione, ma “studia” strategie di condizionamento sociale per cambiare modi di vita, tradizioni e morali, per cui il “nuovo prodotto” non è solo un elemento materiale che produce plusvalore, ma è veicolo di nuovi modelli culturali che calano dall’alto delle strategie manageriali e che colgono i consumatori nel ruolo dei “dominati” nel lavoro come fuori di esso:

“L’anello di congiunzione tra esterno e interno dell’impresa capitalistica, tra i ruoli della strategia di conflitto interimprenditoriale e quelli di coordinamento interno orientato al minimax, è rappresentato dalle innovazioni di prodotto[4]”.

 

Crisi e opportunità
Il conflitto strategico interimprenditoriale è il tallone di Achille del capitalismo, poiché le lotte per la conquista imperiale di quote di mercato e potere sempre più ampie a livello globale, e le tensioni interne per controllare gli apparati statali da usare per favorire i gruppi in ascesa espone il capitalismo a crisi, le quali possono essere un’opportunità per il suo ribaltamento. Non vi sono le fasi stadiali marxiste a profetizzare il cambiamento, pertanto la crisi è una partita aperta, in cui si muovono sia movimenti anticapitalistici, sia movimenti ed ideologie di diverso genere. La crisi è un momento fluido come il potere del capitale, è un’improvvisa fessurazione del potere all’interno del quale possono agire forze dinamiche di opposizione. Non vi è nulla che assicuri il risultato, ma nelle crisi ci si gioca una possibilità di cambiamento verso destra o verso sinistra non realizzabile nei momenti di “solidità fluida” del capitalismo:

“E’ in una situazione di simile complicatezza – per nulla affatto caratterizzata da un’omogenea massa di dominati in movimento in movimento contro la minoranza dei dominanti – che deve destreggiarsi l’eventuale gruppo di azione strategica per la trasformazione anticapitalistica. La tensione morale, di cui ho detto, è condizione necessaria ma non sufficiente; ad essa deve aggiungersi la capacità di analisi delle condizioni di possibilità che la crisi, con la lotta acuta scoppiata tra i dominanti per il rivoluzionamento delle posizioni di supremazia precedenti la crisi stessa, apre alla trasformazione anticapitalistica. Non c’è nulla di precostituito, nessuna ricetta di carattere generale in grado di indicare le modalità, storicamente specifiche, delle azioni strategiche che i gruppi mossi da intenti trasformativi della formazione sociale esistente debbono compiere per ottenere successo; mai immancabile, più spesso contrarie[5]”.

Gianfranco La Grassa ha sicuramente posto in essere problematiche rimosse dal marxismo ufficiale. Non si può per le sue posizioni teoriche definirlo un comunista, diventa difficile collocarlo all’interno di una categoria ben determinata, ciò non necessariamente è negativo, benché senza un’appartenenza esplicita il quadro teorico rischia di desertificarsi in assenza di tensione dialettica. Nella teoria del filosofo di Conegliano non vi è un fondamento metafisico, pertanto non è chiaro il percorso che “le forze morali anticapitalistiche dovrebbero percorrere”. Le crisi possono essere momenti congiunturali di grandi opportunità, ma in assenza di un fondamento metafisico è facile che l’opposizione anticapitalistica si sciolga in una pletora di posizioni, poiché il semplice “anticapitalismo”, non può tenere assieme movimenti e partiti che si connotano sempre più per la loro pluralità frammentata, mentre i fondamenti metafisici comuni permettono con più facilità di trovare compromessi e progettualità chiare da perseguire. Il soggetto che dovrebbe in situazione di crisi operare la svolta, non è in alcun modo esplicitato. Si può dubitare della formazione improvvisa in una situazione emergenziale di un soggetto rivoluzionario, credo che esso debba configurarsi nei periodi di apparente quiete del sistema, giacché il capitalismo non è solo conflittuale a livello globale, ma anche al suo interno agisce secondo modalità “distribuitive” che creano squilibri economici e di potere e specialmente produce una “qualità di vita” non rispondente ai bisogni umani. Il tema dell’alienazione è aggirato e la “normale violenza” che scorre nel sistema può, invece, diventare il nucleo concettuale trasversale per aggregazioni progettuali condivise. La Grassa ci offre strumenti per decodificare il presente, ma non ci aiuta ad orientarci verso il futuro che, in tale contesto, risulta nebuloso e distante, e ciò può demotivare la ricerca di un’alternativa al capitalismo come “stile di vita”. I gruppi che tumultuosamente si muovono nella crisi, in assenza di fondamenti metafisici e preparazione dialettica, possono sviluppare tendenze distruttive quanto il capitalismo:

“Nella crisi dunque – ma è solo in essa che si muovono in senso proprio, e tumultuosamente, le masse – i gruppi strategici trasformativi debbono attuare la guerra di movimento, e puntare piuttosto direttamente al controllo degli apparati del potere statale[6]”.

 

Ricominciare da Marx?
L’incapacità manageriale degli operai evidenziata da La Grassa ha un senso all’interno del capitale, ma rovesciato il capitalismo la gestione delle imprese e delle fabbriche dovrebbe essere non certo fondata sul paradigma manageriale che risponde alla logica della razionalità strategica e competitiva, ma sul servizio e sulla soddisfazione dei bisogni delle comunità. Non sono pochi gli esempi, anche se isolati, di operai che gestiscono direttamente imprese con un’organizzazione solidale. Il fallimento del comunismo e la momentanea vittoria del liberismo rischiano di oscurare la complessità dei fenomeni storici, i quali se sono letti sotto il “solo” cono d’ombra dell’evidente sconfitta storica, rischiano di eternizzare il liberismo. La storia non è prevedibile, pertanto si può ipotizzare che sia possibile ripensare il comunismo su nuova fondamenta e concettualizzando la sconfitta storica. Se si rinuncia a tale progetto si diventa complici della trasformazione della società in un “eterno mercato”. Un punto teorico da cui ricominciare, lo esplicita lo stesso La Grassa, il comunismo teorizzato da Marx esaltava l’individualità comunitaria, mentre il comunismo reale ha appiattito le individualità come la partecipazione:

“Sono tuttavia convinto che secondo Marx e il migliore marxismo – non certo quello, ad es., dei “sessantottini”; né quello sindacale, ecc. – il comunismo volesse e dovesse esaltare l’individualità, non avvilirla né soffocarla. Non si predicava un egualitarismo grigio, conformistico, piatto, buono per portare in primo piano i mediocri, privi di ogni idea propria, annientando invece le qualità di spicco, come purtroppo accadde nel “socialismo reale” (e in molti partiti comunisti). A ciascuno secondo il suo lavoro non significava, per Marx, far soltanto riferimento alla quantità, al tempo di lavoro, ma anche alla sua creatività e originalità. Altrimenti non nasce mai il nuovo, tutto continua in una routine mortificante che, alla fine, provocherà la rivolta contro “l’uomo medio”, quello di cui vorrei ci si ricordasse sempre la definizione datane da Pasolini, tramite il personaggio del regista interpretato da Orson Welles, nel suo forse più bel gioiello cinematografico: La ricotta da Rogopag. Nemmeno però si può accettare il tipo di competitività che regna nella nostra società, nel capitalismo borghese e ancor più in quello dei funzionari del capitale: una lotta fondata sulla sopraffazione, la coercizione, l’inganno, la menzogna, l’ipocrisia, il raggiro, e chi più ne ha più ne metta; e molto spesso, ovviamente, sull’uccisione (di massa), le guerre e distruzioni immani, le torture, ecc[7]”.

Si potrebbe ricominciare da Marx per ricostruire il comunismo, malgrado gli errori teorici e storici senza abiurarlo: non si deve buttare il bambino con l’acqua sporca. Marx non è rimasto sepolto solo sotto il crollo del muro di Berlino, ma specialmente è stato ideologizzato dal comunismo reale fino a renderlo prigioniero delle nomenclature che lo hanno congelato in un lungo e sterile inverno. Prima di abbandonare Marx e il comunismo si potrebbe riprendere la lettura di Marx per trarne le potenzialità irrigidite dalla corrente fredda della storia, e per “esplorare” le potenzialità sistemiche non ancora esplicitate. Il comunismo ha una storia breve, pertanto come tutti i movimenti di grande respiro non possono essere giudicati e congedati per i risultati ottenuti in un tempo relativamente breve. Si “obliano”, pertanto, nella veloce liquidazione le conquiste che il comunismo ha favorito in Occidente come in Oriente. Se si afferma che la vittoria del capitalismo è “totale[8]”, l’effetto inibente diventa drammatico, ed è facile perdere con la speranza, la creatività e la lucidità storica. La vittoria del capitalismo, può essere l’inizio della sua fine, perché è fondato sull’illimitato, e dunque, perso ogni limite ed opposizione è possibile che mostri la sua verità, maciullando Stati e persone, con l’effetto di svelare la sua “intima” verità spaventevole. La verità è tutto, affermava Hegel, per cui il giudizio dev’essere sulla totalità aperta al futuro dell’esperienza trascorsa, e non certo finalizzata solo a conteggiare gli errori. La posizione di Costanzo Preve verso il marxismo reale è indubitabilmente più complessa, rileva i limiti teorici di Marx, evidenzia le tragedie storiche del comunismo reale e le sue conquiste, il confronto dialettico con “il tutto” lo porta al comunitarismo quale forma di comunismo democratico con fondamenta metafisiche:

“Nell’ultimo saggio di La Grassa, insieme a una certa interpretazione di Marx che paradossalmente io stesso condivido in buona parte (ma per un settario se non la condividi tutta sei un analfabeta ignorante), ci sono due affermazioni: comunismo e marxismo sono morti, la prima; e la storia non è storia delle lotte di classe fra dominanti e dominati, la seconda. E’ possibile commentarle senza essere investiti di pittoreschi insulti e di accuse di non conoscere Marx, oppure no? Tutti capiscono che non appena alcune tesi vengono affidate alla carta stampata diventano “pubbliche”, ed esiste ancora il kantiano “uso pubblico della ragione”. Esiste per tutti, salvo che per La Grassa. Ripeto quello che per me è il punto essenziale: chi si mette sul terreno della falsificazione epistemologica del marxismo e del comunismo sceglie di interpretare Marx come il portatore di una semplice scienza previsionale non filosofica, che come tutte le scienze previsionali non filosofiche cade sotto il criterio popperiano della falsificazione[9]”.

Il crollo del comunismo teorico e storico lascia uno spazio aperto di potenzialità, si può uscire dal comunismo, ma questa è una possibilità, non è una necessità determinata da “ragioni superiori”, si può scegliere anche di proseguire il cammino di emancipazione all’interno della storia comunista senza dogmatismi, e trasformando i fallimenti in spessore teorico da cui riprendere l’iter della storia emancipativa.

Salvatore Bravo

***

[1] Gianfranco La Grassa, Il capitalismo oggi dalla proprietà al conflitto strategico Per una teoria del capitalismo, Petite Plaisance Pistoia 2004, pag. 15.

[2] Ibidem, pag. 24.

[3] Ibidem, pag. 89.

[4] Ibidem, pag. 81.

[5] Ibidem, pp. 180-181.

[6] Ibidem, pag. 183.

[7] Gianfranco La Grassa, Nel tempo della globalizzazione non si può invocare una rinascita di Karl Marx, occorre un ripensamento ‘globale’ dell’intera sua prospettiva storica.

[8] Costanzo Preve – Gianfranco La Grassa, Oltre la gabbia d’acciaio, Vangelista, 1994, pag. 15.

[9] Costanzo Preve, Note su Gianfranco La Grassa, 24/10/2011, in pauper class.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Copertine e schede editoriali (231-240) – Maura Del Serra, Lorenzo Dorato, Marco Penzo, Camilla Migliori, Margherita Guidacci, Moreno Fabbri, Luca Grecchi, Carmine Fiorillo, Salvatore A. Bravo.

231-240

231
Lorenzo Dorato, Relativismo e universalismo astratto. Le due facce speculari del nichilismo. Bene e Verità come concetti “rivoluzionari” alla base di un universalismo sostanziale e di una critica radicale del capitalismo. ISBN 978-88-7588-134-4, 2015, pp. 80, formato 140×210 mm., Euro 8 – Collana “Il giogo” [63]. In copertina: Annibale Carracci, Allegoria della Verità e del Tempo, 1584 – 1585, Royal Collection, Hampton Court.

232
Marco Penzo, La nostra libertà. ISBN 978-88-7588-137-5, 2015, pp. 64, formato 130×200 mm., Euro 7. In copertina: Giulio Biondi, La Staccionata, 2014.

233
Camilla Migliori, La carriera di Edipo. Prefazione di Daniele Orlandi. ISBN 978-88-7588-140-5, 2015, pp. 96, formato 130×200 mm., Euro 10, Collana di teatro Antigone [13]. In copertina: Edipo e i responsi dell’oracolo, collage di Camilla Migliori.

234
Margherita Guidacci, Il pregiudizio lirico. Consigli a un giovane poeta. ISBN 978-88-7588-143-6, 2015, pp. 48, formato 130×200 mm., Euro 3. In copertina: Federico Garcia Lorca, Amore, 1919.

235
Moreno Fabbri, Per una solidarietà globale. Insostenibilità e antispecismo: sarà l’etica a darci un futuro? ISBN 978-88-7588-128-3, 2015, pp. 48, formato 130×200 mm., Euro 4. In copertina: Gustav Klimt, L’albero della vita (1905-1909), particolare.

236
Giorgio Penzo, Orson Welles fra “Quarto Potere” e “Il Processo”. ISBN 978-88-7588-130-6, 2015, pp. 128, formato 140×210 mm., Euro 12. In copertina: Orson Welles e due fotogrammi da Quarto Potere e Il Processo.

237
Luca Grecchi – Carmine Fiorillo, «Euro sì, Euro no». Oltre la dimensione afasica della “gabbia d’acciaio” capitalistica.  ISBN 978-88-7588-136-8, 2015, pp. 20, formato 130×200 mm., Euro 2. In copertina: René Magritte, La sera che cade, 1964.

238
Salvatore Antonio Bravo, Potere e alienazione in Foucault ISBN 978-88-7588-142-9, 2015, pp. 48, formato 130×200 mm., Euro 4. In copertina: E. Munch, Sera sul viale Karl Johan, 1892, Commune Rasmus Meters Collection.

239
Carmine Fiorillo, Maschere di tecnodemocrazia. Simulacri della derealizzazione ISBN 978-88-7588-144-3, 2015, pp. 64, formato 130×200 mm., Euro 5. In copertina: E. René Magritte, The lowers.

240
Maura Del Serra, Teatro. Prefazione di Antonio Calenda. ISBN 978-88-7588-138-2, 2015, pp. 864, formato 130×200 mm., Euro 35. Collana “Antigone” [15]. In copertina: Beato di Liébana. Miniatura del Beato de Fernando I y Sancha (Codice B.N. Madrid Vit. 14 -2).



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Copertine e schede editoriali (241-250) – Sante Notarnicola, Daniele Orlandi, Andrea Bulgarelli, Costanzo Preve, Luca Grecchi, Mauro Magini, Valentino Bellucci, Beniamino Biondi, Chiara Guarducci, Gabriella Putignano, Salvatore A. Bravo, Raoul Vaneigem.

241-250

241
Sante Notarnicola, La farfalla. Versi rubati, a cura di Daniele Orlandi. ISBN 978-88-7588-151-1, 2015, pp. 64, formato 130×200 mm., Euro 5. In copertina: Marco Perroni, Prison, 2015.

242
Andrea Bulgarelli – Costanzo Preve, Collisioni. Dialogo su scienza, religione e filosofiaISBN 978-88-7588-153-5, 2015, pp. 96, formato 140×210 mm., Euro 10 – Collana “Il giogo” [64]. In copertina: Juan Gris, Libro, 1913.

243
Luca Grecchi, Discorsi sulla morte.  ISBN 978-88-7588-155-9, 2015, pp. 64, formato 140×210 mm., Euro 7 – Collana “Il giogo” [65]. In copertina: La ginestra sul Vesuvio.

244
David Ciolli, Infinito semplice. le storie del piccolo maestro wu daoISBN 978-88-7588-157-3, 2015, pp. 80, 105×155 mm., Euro 7 – Collana “lo spazio della vita” [3]. In copertina: David Ciolli, Il Maestro, disegno, 2015.

245
Mauro Magini, Il mio amico Platone. Riflessioni su società, religione, vita.  ISBN 978-88-7588-159-7, 2015, pp. 128, formato 140×210 mm., Euro 13. In copertina: Henri Matisse, Tempere ritagliate per la Cappella di Saint-Marie du Rosaire a Vence.

246
Valentino Bellucci, Da Pitagora a “Guerre Stellari”. Il sapere esoterico dei veri illuminati. ISBN 978-88-7588-161-0, 2016, pp. 98, formato 140×210 mm., Euro 15. In copertina: Leonardo da Vinci, Autoritratto, disegno a sanguigna su carta, 1515. Biblioteca Reale, Torino.

247
Beniamino Biondi, La disciplina giuridica del settore cinematografico in Italia. ISBN 978-88-7588-163-4, 2016, pp. 112, formato 140×210 mm., Euro 13. In copertina: Insegna e vecchio cinema comunale di Crespino (RO), Agosto 2005. Foto di Enrico Andreotti. L’insegna è caduta nel 2006.

248
Chiara Guarducci, Bye Baby Suite. Con uno scritto di Francesco Vasarri. ISBN 978-88-7588-165-8, 2016, pp. 64, 105×155 mm., Euro 8 – Collana “Antigone”. In copertina: ‘Mari Line’, di Laura Cioni.

249
Gabriella Putignano, Quel che resta di Raoul Vaneigem. ISBN 978-88-7588-167-2, 2016, pp. 64, 105×155 mm., Euro 8. In copertina: Dino Di Bonito, Singapore.

250
Salvatore Antonio Bravo, Foucault e la razionalità debole. ISBN 978-88-7588-171-9, 2016, pp. 80, 130×200 mm., Euro 8. In copertina: R. Magritte, Il volto del genio, 1926.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Copertine e schede editoriali (251-260) – Giovanni Stelli, Margherita Guidacci, Margherita Pieracci Harvell, Alessandro Monchietto, Domenico Segna, Piotr Zygulski, Salvatore A. Bravo, Elena Irrera, Armando Marozzi, Claudia Baracchi, Enrico Berti, Barbara Botter, Matteo Cosci, Silvia Fazzo, Arianna Fermani, Giovanna R. Giardina, Carmelo Vigna, Marcello Zanatta, Luca Grecchi, Franco Toscani, Diego Fusaro, Diego Melegari.

251-260

251
Giovanni Stelli, Tre lezioni sulla politica di Aristotele. ISBN 978-88-7588-169-6, 2016, pp. 112, 140×210 mm., Euro 13, Collana “il giogo” [66]. In copertina: Processione panatenaica, blocco VI, rilievo del fregio est del Partenone (Museo dell’Acropoli di Atene) – Fidia (bottega) – 442-438 a.C.

 252
Margherita Guidacci Margherita Pieracci Harvell, Specularmente. Lettere, studi, recensioni. A cura di Ilaria Rabatti. ISBN 978-88-7588-173-3, 2016, pp. 144, 140×210 mm., Euro 15, Collana “Egeria” [18]. In copertina: Lucio Fontana, Concetto Spaziale, Le Chiese di Venezia, 1961.

253
Irene Ginanni Edi NataliDiego PancaldoAntonella Spitaleri Fausto Tardelli, Ordo Amoris. ISBN 978-88-7588-150-4, 2016, pp. 128, 140×210 mm., Euro 13. In copertina: Auguste Rodin, L’eterna primavera, ca. 1884.

254
Alessandro Monchietto (a cura di), Invito allo straniamento. II. Costanzo Preve marxiano. Contributi di: Andrea Bulgarelli, Oliviero Calcagno, Diego Fusaro, Luca Grecchi, Gianfranco La Grassa, Diego Melegari, Rodolfo Monacelli, Giacomo Pezzano, Francesco Ravelli, Franco Toscani. ISBN 978-88-7588-152-8, 2016, pp. 176 formato 140×210 mm., Euro 15 – Numero speciale di Koinè – Collana “Il giogo” [67]. In copertina: Costanzo Preve. In quarta di copertina: Dziga Vertov in una sovrimpressione sulla sua telecamera; Erwin Piscator entra nel Teatro Nollendorf, Berlino, 1929.

255
Domenico Segna, Un caso di coscienza. Giuseppe Gangale e “La Rivoluzione protestante”. ISBN 978-88-7588-154-2, 2016, pp. 128, 140×210 mm., Euro 15. In copertina: Busti di Giovanni Calvino nel Museo della Riforma a Ginevra.

256
Piotr Zygulski, Il meccanico del marxismo. Introduzione critica al pensiero di Gianfranco La Grassa. Postfazione di Augusto Illuminati. ISBN 978-88-7588-158-0, 2016, pp. 112, formato 140×210 mm., Euro 13 – Collana “Divergenze” [51]. In copertina: Saverio Mazzeo, Gianfranco La Grassa, meccanico del marxismo, 2016. Acrilico su tela.

257
Salvatore Antonio Bravo, L’ultimo uomo. ISBN 978-88-7588-160-3, 2016, pp. 80, 130×200 mm., Euro 8.
In copertina: Claude Lorrain, Veduta di Delfi con una processione sacrificale, part., 1650. Roma, Galleria Dodia Pamphilj.

258
Elena Irrera, Figure del bello nella filosofia di Aristotele ISBN 978-88-7588-162-7, 2016, pp. 64, formato 140×210 mm., Euro 7– Collana “Il giogo” [68]. In copertina: Immagine tratta da un video realizzato da Philip Scott Johnson. In alto, a sinistra: Scultura greca del periodo classico, part.

259
Armando Marozzi, Il ritorno del represso. Verso una nuova teoria dell’emancipazione.
ISBN 978-88-7588-161-1, 2016, pp. 416, formato 140×210 mm., Euro 25 – Collana “Divergenze” [52]. In copertina: Francisco Goya, Los fusilamientos del tres de mayo, Museo del Prado, Madrid.

260
Claudia Baracchi, Enrico Berti, Barbara Botter, Matteo Cosci, Silvia Fazzo, Arianna Fermani, Giovanna R. Giardina, Carmelo Vigna, Marcello Zanatta, Sistema e sistematicità in Aristotele, a cura di Luca Grecchi.

ISBN 978-88-7588-202-0, 2016, pp. 256, formato 140×210 mm., Euro 25– Collana “Il giogo” [69]. In copertina: Raffaello Sanzio, Scuola di Atene: Aristotele, Musei Vaticani, part.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Copertine e schede editoriali (271-280) – Salvatore A. Bravo, Marco Penzo, Claudio Lucchini, Massimo Mungai, Gabriella Putignano, Giacomo Degli Esposti, Matteo Caffiero, Luca Grecchi, Alessandro Monchietto, Giacomo Pezzano, Lorenzo Dorato, Antonio Fiocco, Alessandro Monchietto, Staffan Nihlén, Gabriella Putignano.

271-280

271
Salvatore Antonio Bravo, L’epoca del PILinguaggio. ISBN 978-88-7588-191-7, 2017, pp. 96, formato 130×200 mm., Euro 12 – Collana “Divergenze” [59]. In copertina: Kumi Yamashita, Light and Shadow.

272
Marco Penzo, Attimi. ISBN 978-88-7588-189-4, 2017, pp. 80, formato 130×200 mm., Euro 10. In copertina: Marco Sallese, Venature, foto a Bagno Vignoni (Siena), 2016.

273
AA. VV., Quale progettualità. L’uomo è un essere progettuale. Grecchi, Sulla progettualità – A. Monchietto, Quale progettualità? A partire da alcune considerazioni di L. Grecchi – C. Lucchini, La progettualità comunista tra utopia concreta e necessità di funzionamento quotidiano – A. Fiocco, Difendere in tutti i modi la progettualità – A. Pallassini, Note marginali per la progettazione di un comunismo della finitezza a partire da Spinoza – L. Grecchi, Perché la progettualità – C. Lucchini, Annotazioni sulla progettabilità del bene etico-sociale e sulla determinatezza materiale-naturale dell’uomo – L. Dorato, La progettualità come necessaria riflessione sui destini collettivi e sociali – G. Pezzano, Commento all’articolo di L. Grecchi “Sulla progettualità” e Commento all’articolo di L. Grecchi “Perché la progettualità?” – L. Grecchi, Nel merito dei commenti di Giacomo Pezzano – G. Pezzano, Il vero punto filosofico da scavare è che cosa si voglia intendere con “progettualità” – L. Grecchi, Una prima conclusione sulla progettualità. ISBN 978-88-7588-187-0, 2017, pp. 176, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [74]. In copertina: Wassily Kandinsky, Shallow-Deep, 1930.

274
Claudio Lucchini, L’etica umana tra natura e storia. Sulla possibilità di un universalismo radicalmente democratizzante.
ISBN 978-88-7588-185-6, 2017, pp. 96, formato 140×210 mm., Euro 13 – Collana “Il giogo” [75]. In copertina: Vincent van Gogh, I mangiatori di patate, 1885. Museo Van Gogh di Amsterdam.

275
Staffan Nihlén, La prudenza del segno. ISBN 978-88-7588-183-2, 2017, pp. 40, formato 163×223 mm., Euro 5, Collana “Egeria [19]. In copertina: Staffan Nihlén, Senza titolo, 2016.

276
Massimo Mungai, Ombreggiature. Poesie. Racconti brevi. ISBN 978-88-7588-181-8, 2017, pp. 64, formato 140×210 mm., Euro 10. In copertina: Christian Rohlfs, Conversazione tra clown, 1912.

277
Giorgio Penzo – Marco Penzo, Stanley Kubrick. ISBN 978-88-7588-179-5, 2017, pp. 96 formato 140×210 mm., Euro 13.
In copertina: Stanley Kubrick

278

Gabriella Putignano (a cura di), Cantautorato & Filosofia. Un (In)Canto possibile. Contributi di: Stefano Daniele, Corrado De Benedittis, Gianluca Gatti, Federico Limongelli, Francesco Malizia, Raffaele Pellegrino, Giacomo Pisani, Gabriella Putignano. ISBN 978-88-7588-175-7, 2017, pp. 160, formato 140×210 mm., Euro 12 – Collana “Il giogo” [77].

279
Alessandro Pallassini, Finitezza e Sostanza. Sulla fondazione della libertà politica nella metafisica di Spinoza.
ISBN 978-88-7588-172-6, 2017, pp. 288, formato 140×210 mm., Euro 25 – Collana “Il giogo” [78]. In copertina: Sigillo di Baruch Spinoza, che riporta come emblema, oltre alle sue iniziali, una rosa selvatica e il motto in latino “caute”.

280
Gian Giacomo Degli Esposti, Matteo Caffiero (a cura di), Passeggiando per Pistoia. L’essenziale è invisibile agli occhi. Postfazione di Cristiano Vannucchi. ISBN 978-88-7588-168-9, 2017, pp. 136, formato 170×240 mm., Euro 12.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – Si devono riaprire «i chiostri de la verità» come diceva Giordano Bruno, abbandonando la «zona grigia» dei sopravvissuti in cui vorrebbero chiuderci i catalizzatori del consenso quando accettiamo la “menzogna conosciuta” come verità.

Giordano Bruno Verità
Gustav Klimt, Nuda Veritas, particolare.
Salvator Rosa (1615-1673), Allegoria della menzogna.

Salvatore Bravo

Si devono riaprire «i chiostri de la verità» come diceva Giordano Bruno,
abbandonando la «zona grigia» dei sopravvissuti in cui vorrebbero chiuderci
i catalizzatori del consenso quando accettiamo la “menzogna conosciuta” come verità.

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La pratica della menzogna conosciuta
In questi decenni difficili l’inaudito e l’osceno spesso sono il pane quotidiano, ma nulla accade, niente sembra portare effetti sostanziali nella prassi politica e comunitaria. La meraviglia panica innanzi a tale realtà-verità dovrebbe essere oggetto di una riflessione profonda da parte di uomini e donne di buona volontà che vivono la difficile pratica della verità. In un quadro storico apparentemente razionale, ma in realtà irrazionale, servile e malinconico, tutto sembra accadere, ma nulla cambia, non vi è prassi, ma solo abitudine ed indifferenza. L’informazione – con la sua abbondanza di fonti – rende possibile constatare che la verità degli accadimenti – narrati secondo la liturgia ufficiale – non è tale. Rppure sembra che la verità non emerga. Se si pone ascolto alle conversazioni comuni è palese che, in media, non si ha fiducia alcuna nella narrazione mediatica, eppure si finge di credere, e passivamente si torna alle attività quotidiane. La verità non è seppellita da sovrastrutture complesse, ma è dinanzi a noi. Anche quando si ha il sospetto che il racconto ufficiale non corrisponda al vero, nulla si fa per approfondirlo: lo si accetta per sopravvivere quietamente. In tale contesto raccontare la verità dei fatti di cronaca non sortisce risultato alcuno, difficilmente si ottiene il passaggio all’autocoscienza individuale e collettiva. I processi di riconfigurazione del reale storico non sembrano effettuarsi, si vive in una dimensione forse “assolutamente nuova”, in un limbo tra verità e “menzogna conosciuta”: si intravede forse la verità, ma si pratica la menzogna. Tale comportamento è divenuto ora di massa: i popoli si nutrono di questo nuovo veleno che penetra nel corpo delle istituzioni come nelle relazioni interpersonali, nelle parole e negli sguardi, creando una sostanziale sfiducia nella prassi. Si vive nella caverna platonica, pare volutamente. La verità e la “menzogna conosciuta” convivono senza procurare conflitti etici o lacerazioni interiori. La vita si riduce all’attimo presente. Si strappa l’attimo senza contestualizzarlo. Ci si accontenta di ritagliarsi attimi di vita (lasciando sullo sfondo l’ombra della verità) e si accetta la pratica della “menzogna conosciuta” o anche soltanto sospettata. Regna la divina indifferenza. Pertanto, ogni evento di cronaca – con le sue liturgie – resta confinato in un spazio e in un tempo sospeso, la vita continua senza che nulla accada. I recenti fatti di cronaca, la complessità pandemica, l’uccisione dell’ambasciatore in Congo sono eventi che vengono accettati secondo le liturgie ufficiali, pur sapendo che il vero non è detto. Eppure ciò non muove a ricercare, non attiva una azione autonoma di indagine alla ricerca della verità. Si assiste semplicemente all’ennesimo spettacolo in scena fingendo di credere allo spettacolo della menzogna.

Scenografia della menzogna
Primo Levi ci ha insegnato – in I sommersi e i salvati – la tragedia della contemporaneità, ci ha indicato una verità evidente che non possiamo ignorare e che può servirci come categoria per capire il nostro difficile presente: normalmente si sceglie di essere parte della zona grigia, ovvero la verità evidente è saputa, ma non ci si schiera, ci si limita a sperare di non cadere vittime della macchina della menzogna che uccide la verità come gli esseri umani. La zona grigia si globalizza. Sappiamo tutti che la finanza governa, che la politica è al servizio degli interessi superiori della finanza, che la democrazia – dapprima ridotta a semplice procedura senza sostanza – ora è sospesa anche nella sua pratica procedurale. Sappiamo che in Africa non muoiono martiri e santi, ma uomini e donne, che l’aziendalizzazione delle istituzioni privilegia i possidenti ed esclude dai servizi il popolo. I servizi sociali senza i quali i popoli sono plebi, sono “offerti” secondo una qualità associata al reddito, eppure nulla accade, benché l’ingiustizia sia evidente. La menzogna è trasmessa, secondo formule linguistiche, che ammiccano alla verità, e la trasformano in menzogna. Il linguaggio da casa dell’essere-verità è divenuto la casa della menzogna conosciuta. Si sopravvive in questa palude grigia, in cui gradualmente si diffonde un razzismo che classifica le genti secondo il censo, eppure si plaude al multiculturalismo, ai diritti individuali, ci si scandalizza dei feminicidi, la ritualizzazione è ascoltata, come se ci si credesse, sapendo che sono solo scenografie della menzogna. Mettere in atto processi genealogici di ricategorizzazione del reale significherebbe “responsabilità e coinvolgimento personale”. Si preferisce fingere di acconsentire alle versioni ufficiali, pur sapendo che mentono. Il potere crea catalizzatori di consenso, a cui si aderisce nominalmente, ma si ha il sentore che la ricostruzione è troppo semplice, troppo ripetitiva e che i fatti non possono essere spiegati con semplice logica manichea. Si finge di credere sperando di scampare al pericolo ed alla responsabilità personale: si sopravvive, perché la zona grigia è fatta di sopravvissuti.

Nichilismo passivo
Cercare la ragione profonda del successo della zona grigia è arduo, e ci si può spostare da cause storiche contingenti: la caduta del comunismo novecentesco, la lotta per la sopravvivenza nella globalizzazione liberista sfibra le energie, in quanto si deve lottare per difendere ciò che domani nella competizione potrebbe essere tolto, per cui l’atomocrazia – col suo carico di solitudine – diviene la normalità quotidiana. Vi è una realtà più profonda, forse, che rafforza l’indifferenza davanti alla verità sospettata e conosciuta ed alla pratica della menzogna, ed essa è che l’Occidente ha sostituito la verità con l’esattezza, per cui verità e menzogna sono equiparate, sono niente, perché l’esattezza numerica e scientifica ha divorato la verità, è stata la “cattiva maestra” dell’Occidente. L’esattezza è entrata nel cuore e nell’anima dell’Occidente, si è sviluppata una monomania collettiva: tutto è riportato alla sola quantità, pertanto non vi sono altre categorie razionali con cui disporsi e sentire gli accadimenti. Solo l’esattezza parla e muove all’agire. L’educazione all’imprenditorialità generalizzata ha tale fine ultimo, per cui se si uccide un intero continente per i suoi minerali che servono per l’informatica e l’energia pulita ciò è coerente con l’esattezza, e la realtà dello sfruttamento e della violenza non provocano scandalo. La verità è complessità logica, dialettica ed etica, per cui il potere domina perché la zona grigia è complice e vittima di questa diseducazione globale alla verità. L’aziendalizzazione delle istituzioni e della vita non provocano azioni e reazioni, perché l’esattezza esige che la vita sia normalmente mercificata, e le parole della mercificazione sono l’unico linguaggio dell’Occidente: la zona grigia sa che tale prassi è la verità, ma accetta l’esattezza come fosse l’unica strada percorribile, pur sapendo ed intuendo che tale modalità di vivere non rientra nel “bene”.

Ogni agire politico deve confrontarsi con il rischio di infrangersi contro l’esattezza, contro l’abitudine ad agire solo perseguendo interessi personali legati all’utile. Si può ipotizzare che quando gli ultimi residui di resistenza saranno trascesi, non si avranno più paradigmi per discernere e sospettare che le versioni ufficiali sono ideologiche. Si deve, affinché ciò non accada, lavorare per la verità, per riportare in luce la differenza tra verità e menzogna. Ancora una volta è la filosofia che può riportare la verità al centro del suo discorso gnoseologico ed ontologico, in modo che la democrazia divenga pratica e ricerca della verità, e non un ideale ideologico da usare per far accettare i “bombardamenti etici”, l’irrilevanza e l’omogeneità culturale come mezzo per privare persone e popoli della loro identità. Spetta a coloro che ascoltano la tragedia etica del presente riprendere il cammino verso la verità sapendo che non vi è certezza del risultato. Si devono riaprire «i chiostri de la verità»[1] come diceva Giordano Bruno nella Cena de le ceneri. Ognuno può dare il proprio contributo a tale operazione filosofica, nessuno è escluso. Siamo all’anno zero, pertanto bisogna cominciare da tale verità per capire il presente.

 

Salvatore Bravo

[1] Giordano Bruno, La cena de le ceneri, Einaudi Torino, 1995 p. 20.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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