«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
Il velo dell’ignoranza sulla democrazia. Il linguaggio non è mai neutro, nel linguaggio è sedimentata la storia di un popolo
Il linguaggio non è mai neutro, nel linguaggio è sedimentata la storia di un popolo; le parole e i loro costrutti non sono forme affette da rigidità e astrattezza, ma fin quando si trasmettono e sono linguaggio vivo formano il modo di essere e di operare dei cittadini o dei sudditi. Il potere nella forma del dominio controlla l’ordine del discorso, filtra con le parole i significati in un vano tentativo di eternizzarsi. La storia ha i suoi snodi cruciali solo se l’esperienza linguistica è mediata dal logos.
L’uso delle parole comporta una visione del mondo, una modalità pratica di gestione delle relazioni. La lingua viva è il veicolo più impalpabile con cui la violenza entra nel presente dalle porte mai chiuse con il passato. Ci troviamo invischiati in un presente che ha ostracizzato molte parole, ma nel contempo sta riattivando semantiche e lessico del passato. L’esemplificazione della lingua sostenuta dalle tecnologie che “costringono” ad un linguaggio immediato e degradato è il fenomeno politico più importante degli ultimi decenni. In nome dell’utile e della velocità venerati come miti, la prassi politica si è degradata a slogan, le visioni politiche e progettuali sono state sostituite da provvedimenti d’urgenza nell’interesse del popolo e degli italiani. Nessun approfondimento, nessuna contestualizzazione o raffronto per meglio comprendere dati e riforme, solo il luccichio delle parole infilate senza spessore logico e argomentativo per ammaliare e zittire le eventuali critiche. Rendere tutto “semplice”, contrapporre gruppi umani senza ascoltarne le ragioni, anzi dipingere i dissenzienti come pubblico pericolo è l’arma con cui il dominio persegue i suoi criminali propositi con il consenso delle vittime. Abbattere la semantica e la capacità argomentativa di un popolo sono gli espedienti più efficaci con cui ammanettarlo e renderlo suddito. La distruzione della pubblica discussione è demolizione dell’abilità logica senza la quale non vi è che il velo dell’ignoranza a scendere sui cittadini per trasformarsi in ceppo. Il livello di democrazia di un popolo dipende dalle sue capacità linguistiche, non si tratta di retorica o sofistica, ma di abitudine all’uso pubblico e critico della ragione.
La sottrazione delle parole è un furto doloso ai danni della cittadinanza. Un popolo senza parole è in catene dinanzi ai padroni del discorso. La condizione attuale registra la sudditanza globale, in quanto le oligarchie transnazionali possiedono i mezzi di comunicazione e con il loro enorme reddito comprano i venditori di parole. Il circo mediatico è la breccia da fendere per arrivare a loro e smascherare i padroni dell’ordine del discorso. Il lessico del circo mediatico con i suoi giullari rivela l’intenzionalità politica degli oligarchi, il tentativo di riattivare vecchi e antichi fantasmi per conservare il dominio.
Nelle ultime settimane i giornali nostrani hanno dichiarato all’unisono «Draghi tira dritto», l’uomo della provvidenza non si fa distrarre da proteste e dubbi, ma mette in atto la ricetta preparata altrove. In una nazione con un livello medio di democrazia ciò recherebbe scandalo. Il circo mediatico, invece, sorregge l’azione dell’uomo della provvidenza senza critiche, anzi lo rappresenta come il “salvatore” del popolo dinanzi alle proteste che malgrado divieti e Daspo1 continuano nella nazione. L’uomo della provvidenza, di fascista memoria, implica la passività del popolo, che incapace attende il suo angelo custode, che nulla ha di trascendente, ma i suoi obiettivi sono bancocentrici.
“Tira dritto” è la nuova versione del me ne frego fascista coniato da Gabriele D’annunzio a Fiume (1919-1920). Ecco che riemergono atteggiamenti fascisti per conservare il dominio delle oligarchie con l’assenso del circo mediatico asservito. Se è possibile l’ostentazione del “tira dritto”, che ammicca al peggior linguaggio autoritario a cui ci stiamo abituando, lo si deve al fatto che i conti con il fascismo non sono stati fatti. L’esperienza storica fascista non è stata collettivamente pensata, sin da subito il potere si è difeso dai processi di democratizzazione lasciando decantare i miti bugiardi del fascismo da ripescare nei momenti di crisi. Queste ultime divengono occasione con cui sottrarre spazi sempre più ampi di democrazia e diritti sociali per inoculare il virus mortale del nuovo “Me ne frego” con il quale perseverare con linguaggio demagogico all’annichilimento dei diritti delle classi lavoratrici e della classe media. La responsabilità della classe accademica e del giornalismo è impressionante: sono disponibili a vendersi pur di raccogliere le copiose briciole che cadono dalle tavolate dei Grandi, resi tali dalla debolezze degli ultimi e dalla complicità del giornalismo sempre pronto ad adattarsi nelle parole e nell’interpretazione dei fatti all’ultimo dei potenti arrivati. Non resta che denunciare la violenza antidemocratica di questi anni senza opposizione e senza idee. Ai fuchi dell’intelletto insteriliti dal meritricio della parola bisogna opporre la forza dialettica della parola che riuscirà a fendere il velo di Maya che impedisce di guardare la verità storica e di agire su di essa con gli innumerevoli mezzi della democrazia. La regressione di questi anni non è la fine della lotta, ma una parentesi in attesa vigile ed operativa di quello che sarà e verrà. Ognuno può fare qualcosa, può resistere e accumulare le energie per un nuovo soggetto politico alternativo che per ora non si profila, ma è da preparare con l’impegno paziente delle parole. All’ateismo dilagante dei spregiatori della verità si può opporre l’umanesimofilosofico integrale da cui ricominciare per ricostruire una prospettiva comunitaria:
“È il marxismo un “ateismo”? A mio parere non lo è necessariamente. Il marxismo è indubbiamente un umanesimo filosofico integrale (non sono quindi d’accordo con la scuola francese di Louis Althusser). Ma l’umanesimo filosofico integrale è anche il terreno di incontro e di dialogo fra credenti e non-credenti, che spesso verificano nei fatti di pensare la stessa cosa. Nella misura in cui la prospettiva di Marx riguarda non certamente l’esistenza e la non-esistenza di Dio (non sono infatti d’accordo con chi ritiene che la critica alle ipostasi religiose sia il presupposto necessario per la critica alle ipostasi dell’economia politica – e non sono d’accordo anche se so bene che il giovane Marx pensava proprio questo), ma la teoria dei modi di produzione ed il comunismo, ritengo che l’ateismo non sia assolutamente un pezzo di motore necessario per la macchina di Marx. Non si tratta del carburatore, ma della bambolina che penzola sul cruscotto. In definitiva penso che alcuni preti cattolici “dissidenti” (Fernando Belo, Giulio Girardi ecc.) abbiano ragione nell’essenziale”.2
1D.A.SPO., acronimo di Divieto di Accedere alle manifestazioni SPOrtive.
2 Costanzo Preve, Considerazioni introduttive sugli attuali dibattiti fra laicismo, scienza, filosofia e verità, Petite Plaisance, Pistoia 2008, pag. 18.
La filosofia è una pratica ermeneutica. La ricostruzione genetica della particolare postura filosofica di Costanzo Preve è un’operazione complessa, e certamente esercizio quanto mai laborioso, a causa della copiosa produzione di scritti e dell’ordito di mezzi da lui scelti per portarla a noi. Malgrado tali difficoltà, può senz’altro affermarsi che la filosofia di Costanzo Preve è stata costantemente dialogica, aliena all’innalzamento di sterili palizzate ideologiche, poiché al contrario mirava – facendo leva sulla forza del concetto – a scanalare brecce nelle cinte fortificate di purismi e ideologie rinchiuse in se stesse. È questa una capacità che gli ha consentito di elaborare una sintesi tra tradizioni e filosofi differenti, divergenti, allo scopo di ritrovare un sentiero che conducesse fuori dalla palude del nichilismo. Tale genesi composita fa sì che l’addentrarsi nel suo pensiero sia un’esperienza di “straniamento”, perché egli sa mettere proficuamente in crisi le facili e sterili dicotomie su cui reggono quei poteri sclerotizzati nell’abitudine, assieme a quei pregiudizi ideologici che favoriscono il consolidamento dei totalitarismi ideali, siano questi confessi e riconosciuti o meno.
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In copertina: Immagine “straniante” di Erwin Piscator che entra nel Teatro Nollendorf, Berlino, 1929.Straniamento è il concetto – legato al teatro di Piscator e di Brecht – adottato da Preve come metafora dell’operazione filosofica per eccellenza e dello scopo della propria opera: mettere in moto un «riorientamento gestaltico», uno “scuotimento” associato a un mutamento radicale di prospettiva, alla trasformazione dello sguardo con cui ci si accosta al mondo, inteso innanzitutto come mondo dei rapporti sociali. Invitare a fare ingresso nel pensiero di Preve significa invitare a familiarizzare con lo straniamento, a prendere confidenza con la problematizzazione del proprio tempo.
I filosofi e l’idra del dominio
La verità si svela nel tempo, ci sono filosofi che vivono e pensano il travaglio del proprio tempo storico, hanno il coraggio di “pensare il noto del proprio tempo” e di non arretrare. Concettualizzare il proprio tempo è attività filosofica e politica, il filosofo pensa il proprio tempo per astrarne l’universale concreto, per porre in tensione universale e particolare.
Senza verità non vi è filosofia, non vi è filosofo: non resta che un accademico uso di linguaggi specialistici che non comportano effetti trasformativi della realtà sociale.
Senza verità non vi è politica, ma solo conservazione e comportamento ideologico. La filosofia è giudizio riflettente che prepara la prassi, la trasformazione di sé e del contesto sociale. La prassi necessita della teoria: si costituisce così una relazione feconda tra teoria e prassi che conduce alla responsabilità politica. La prassi filosofica è vita comunitaria che ha cura del singolo nella comunità, in modo che le soggettività possano vivere pienamente la propria indole singolare senza scindere la relazione con l’universale. L’attività filosofica è, dunque, dialettica, deve attraversare la contraddizione del proprio tempo, deve ricondurre alla pubblica ragione ciò che la pigrizia emotiva e cognitiva rimuovono in nome del quieto vivere. Il tafano con cui Socrate simbolizzava il filosofare è verità sempre attuale, in quanto è la sostanza della filosofia, la quale è dialogica, ma non conosce manierismi o recite di ruoli, ma solo interlocuzione umana a tutto raggio con cui capire il proprio tempo in vista della sua assiologica trasformazione.
Negli ultimi decenni dominati dalla filosofia analitica e dagli specialismi la filosofia è diventatasolo una presenza da salotto, da utilizzare in modo strategico nel circo mediatico per sostenere le oligarchie, è divenuta parte della sovrastruttura che sorregge e vela la struttura economica, come ci ha insegnato Marx. In un’epoca perversa la filosofia da passione per il sapere si è tramutata in uno dei tanti veli dell’ignoranza con cui il dominio perpetua se stesso fino a ridurre i popoli a plebi belanti.
Eppure, anche se la cornice socio-economica è tale, non bisogna disperare, poiché l’essere umano è certo condizionabile, ma non determinabile come un semplice oggetto. Vi sono persone che più di altre sfuggono alle maglie dei condizionamenti per pensare il proprio tempo. Il dominio vorrebbe ostracizzare i pensatori, sfiancarli con la forza degli innumerevoli tentacoli dell’idra del potere, ma i veri filosofi non cadono sotto i colpi tentacolari, e malgrado l’idra appaia invincibile la sfidano con la forza del concetto. Da tale lotta non si esce indenni, si pagano evidentemente dei prezzi, e la vittoria consiste unicamente nell’essere stati fedeli alle proprie scelte di vita e di pensiero. Siamo responsabili, pertanto, non solo della memoria del passato, ma anche dell’arduo compito di far continuare a vivere nel presente in modo plastico e creativo i filosofi che si sono lasciati attraversare dalle contraddizioni del loro tempo storico.
Costanzo Preve filosofo del nostro tempo
Il filosofo non è mai presenza atomistica, ma creatura concreta, non è l’anima bella che si ritira nella turris eburnea, ma è intessuto del mondo di relazioni con cui ha interagito. Costanzo Preve è stato non solo filosofo di calibro metafisico, ma anche politico. Potrebbe sembrare un’eccezione nel clima specialistico dei nostri tempi, in realtà ha testimoniato “la normalità della postura filosofica”, la quale è prassi che presuppone la metafisica senza la quale la politica si degrada a società dei bisogni, ad utile dell’ultimo uomo. Senza fondazione metafisica la filosofia è addomesticata, è il cucciolo ai piedi del potere pronto a ringhiare contro i dissenzienti.
La lettura degli innumerevoli testi di Costanzo Preve è esperienza di “straniamento”: il lettore deve inoltrarsi nei propri stereotipi, deve gradualmente abbandonarli per mettersi in ascolto di una visione filosofica che non conosce purismi, ma solo ricerca inesorabile e dura della verità. Nei suoi testi riecheggia la maieutica socratica, che non è un’eco lontana, ma vivida presenza sempre attuale.
Ricordare Costanzo Preve, quindi, non è un’operazione di circostanza, ma è un’assunzione di responsabilità verso il proprio tempo storico e verso la tradizione filosofica. Ci ha insegnato che non bisogna intimorirsi dinanzi ai poteri sempre più pervasivi che confinano la filosofia in un passato mitico che mai più ritornerà, perché il pensiero nella forma del logos – e non del solo calcolo quantitativo – è parte essenziale della natura umana e nessun totalitarismo riuscirà a cambiare il bisogno di pensare proprio della natura umana che si determina nella storia.
Costanzo Preve ha testimoniato fina alla fine della sua via tale verità. Filosofo della politica ha anticipato ciò che oggi è verità lapalissiana: destra e sinistra sono affette dallo stesso morbo: il nichilismo crematistico, per cui sono indistinguibili, si sorreggono l’un l’altra pur fingendo di essere diverse. Se Costanzo Preve è riuscito ad anticipare nei suoi scritti il tempo presente non è certo per suoi celati poteri paranormali, ma in quanto ha usato il metodo filosofico per capire il presente e delineare il futuro.
La filosofia è pratica olistica: pertanto, se si ha la pazienza di riportare le parti al tutto con onestà intellettuale e con capacità critica e documentata, si scorgono non solo le tendenze in atto, ma con esse si svelano i problemi e le urgenze del proprio tempo. In un periodo storico in cui regna la sola quantità, la filosofia e i filosofi sono trasgressivi, poiché sono in movimento verso la verità. Costanzo Preve ha trasgredito le leggi del politicamente corretto, ed ha mostrato che è possibile testimoniare l’esperienza filosofica anche in un’epoca assuefatta all’utile e alla prostituzione intellettuale. Ciò presuppone una profonda passione disinteressata, vera forza erotica di elevazione che può conoscere cadute, arresti improvvisi, ma è sempre orientata alla verità immanente.
Costanzo Preve è stato tutto questo.
Nel mese in cui ricorre la sua scomparsa, il modo migliore per rammentarlo è leggere i suoi scritti, avventurarsi in un’Odissea filosofica dalla quale non si tornerà eguali. Naturalmente il dissenso critico dev’essere parte imprescindibile dell’ascolto delle sue parole, non vi sono presenze totemiche in filosofia, ma autori che incarnano un’epoca e aspettano di essere superati senza essere dimenticati. Se è maturata la necessità di un riorientamento gestaltico Costanzo Preve può favorire questo ripensamento metafisico e assiologico di cui non pochi sentono il bisogno, ma non hanno punti di riferimento da cui iniziare un nuovo percorso veritativo che sembra impossibile. Per riorientarsi si dev’essere disponibili al disorientamento, a rimettere in discussione categorie sclerotizzate da automatismi sostenuti dal clero mediatico.
Non è semplice nascere a nuova vita, perché si tratta di partorire tra le doglie un nuovo esserci, ma è l’unico modo per umanizzare la propria esistenza. Leggere i testi di Costanzo Preve provoca uno stato di epochè, dal quale poter risemantizzare la propria prassi, comprendendo che fino a quel momento si è stati all’interno di un meccanismo autoreferenziale, in cui gesti e parole appartenevano al dominio.
Senza verità non vi è futuro, ma solo un lungo logorarsi nelle miserie e nelle complicità di un’abbondanza senza qualità e concetto.
Per non lasciarci cannibalizzare da un tempo così pericoloso, con le sue vuote e vane illusioni, può essere benefico ricominciare dai pensatori che hanno negato criticamente il loro tempo per affermare una nuova prospettiva politica e filosofica.
La filosofia, in quanto amore del sapere senza possesso, è comunitaria, è la disciplina per eccellenza che può guidarci fuori dalla palude in cui annaspiamo.
Costanzo Preve ha guadato la palude del nichilismo, il suo impegno attende uomini e donne disponibili a riprendere il suo cammino. Ricominciamo a riaprire la catena dei perché, come ci ha insegnato, per poter ripensare le parole e i pensieri che ci chiudono nella weberiana gabbia d’acciaio delle appartenenze senza concetto. Può essere l’incipit per una nuova e buona vita. Sta a ciascuno di noi cominciare l’esodo che non può che concretizzarsi in compagnia di pensatori fuori dal nostro tempo empirico, ma sempre presenti con la loro meditata testimonianza:
«Bisogna dunque riprovare a riaprire la catena dei perché. Questa volta, però, bisogna riaprire questa catena con un altro approccio e con altri destinatari. L’approccio dev’essere molto più radicale, e i destinatari non possono più essere i cosiddetti “militanti”, il “popolo di sinistra”, eccetera. I destinatari sono tutti coloro che vogliono riflettere e comprendere, del tutto indipendentemente da come si collocano (o non si collocano) topologicamente nel teatrino politico. Per chi scrive l’appartenenza è nulla, e la comprensione è tutto. Cerchiamo allora di riaprire la catena dei perché partendo da un anello della catena che ci permetta di stringere con sicurezza qualcosa di solido».1
Salvatore Bravo
1 C. Preve, Marx e Nietzsche, Petite Plaisance, Pistoia 2004, p. 6
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Se chiedete a un italiano, che cosa è avvenuto nel 1937 a Debra Libanos, quasi certamente non vi risponderà. Molti non saprebbero neppure dire dove si trova Debra Libanos. Il loro silenzio è il segno di come nel nostro Paese si conosca poco la storia, soprattutto quella coloniale, e di come una parte di essa (quella meno presentabile) sia stata rimossa. Debra Libanos è una delle pagine più vergognose della storia italiana. Dal 21 al 29 maggio, soldati del nostro esercito sterminarono centinaia di monaci, preti e pellegrini ortodossi (tutti ovviamente disarmati) radunati nel monastero etiope di Debra Libanos.
Debrà Libanòs è tra di noi. Il massacro perpetrato da italiani è sconosciuto alla maggioranza degli Italiani di oggi: «Italiani, brava gente?».
Parlati dalla storia Un popolo è la sua storia, il rapporto che un popolo instaura con la propria storia contribuisce largamente al suo presente ed al suo futuro, si costruisce e decostruisce la realtà effettiva per disoccultare le verità nascoste. L’identità è un’operazione di disvelamento senza la quale è esperienza di ripiegamento violento su se stessa. L’identità non è un deposito sacrale da trasmettere e riprodurre nel presente, ma la somma delle esperienze e degli errori da cui trarre la verità per un nuovo inizio. La memoria è l’esperienza che mediata dal logos collettivo germina in un nuovo inizio, ma senza memoria ogni progetto politico non può che arenarsi nel pericolo di ripetere errori e di non saperli individuare in un tempo utile per correggerli. La storia è vita collettiva senza la cui consapevolezza si procede ciecamente e biecamente nel flusso del tempo. Non è liturgia, conservazione stantia di cerimonie ed eventi per giustificare il presente, ma dialettica, con essa ci si confronta non per giudicare il passato, ma per capirlo al fine di non ripeterne le tragedie, altrimenti tutto ritorna. La dimenticanza è un boomerang i cui effetti possono essere esponenziali. La decadenza degli studi storici, la loro riduzione a biografie di grandi personaggi è in linea con il clima liberista, che riduce ogni complessità sociale a semplice omaggio alla grandezza di pochi grandi individui nel bene e nel male, i restanti sono i subalterni che si adattano agli eventi. La storia collettiva scompare sotto lo zoccolo dei grandi personaggi usati in modo ideologico per giustificare l’individualismo imperante. In tale contesto il disprezzo verso le differenze continua a circolare e specialmente, se il potere con le sue favole ideologiche è trasmesso senza mediazione del logos, inevitabilmente la logica gerarchica e aggressiva continuerà a produrre le sue conseguenze nel presente ed ad impedire un futuro non improntato a tali dinamiche. La violenza capillare che si diffonde in ogni campo, e che assume forme metamorfiche plurali non è causata solo da variabili contingenti, ma è il risultato della rimozione delle violenze del passato. Senza lo sguardo storico nella verità di ogni popolo non si vi sarà l’esodo da schemi sclerotizzati dall’abitudine: ogni grande progetto non potrà che ricadere su se stesso per il riemergere di comportamenti ed azioni sedimentati nell’inconscio collettivo. Si potrebbe dire parafrasando Heidegger che siamo parlati dalla storia, ci avvolge tanto più la ignoriamo, si insinua nelle parole e nei gesti e non li riconosciamo. Con la storia si dialoga, ci si relaziona sollevando domande che consentono di partecipare fortemente al presente, se il dialogo viene a mancare si fatalizza il proprio tempo favorendo il dominio e la subalternità generale.
Debrà Libanòs tra di noi Il massacro di Debrà Libanòs il 21-29 maggio 1937 in Etiopia si aggira tra di noi, inficia le relazioni con i paesi africani e con le persone provenienti da quei luoghi tormentati dall’Occidente. Il massacro non è stato dimenticato, perché si dimentica solo ciò che è stato conosciuto. Debrà Libanòs è, invece, sconosciuto alla maggioranza della popolazione. L’eliminazione immotivata e tragica della comunità del monastero di Debrà Libanòs è un caso unico della storia europea. La comunità del monastero era di religione copta, i rapporti tra la classe dirigente dei copti e il regime fascista che aveva invaso l’Etiopia nel 1935 e proclamo l’impero nel 1936 erano pessimi. L’Etiopia era stata invasa, ma non domata, la propaganda nascondeva la verità con un falso trionfalismo imperiale. La strage a seguito dell’attentato al viceré d’Etiopia Graziani fu occasione per liberarsi dell’opposizione etiope e rimarcare il dominio dei colonizzatori sui colonizzati. Fu eseguita dai musulmani sotto il comando italiano, li si spinse contro i cristiani usando l’odio religiosi a fini militari. Fu scelta la data di San Michele, perché in quel giorno si aveva il massimo afflusso di fedeli. Furono sterminati tutti senza constatare colpe, l’etiope era il nemico da abbattere, la selvaggina da predare. L’esecuzione ricorda i primi tentativi di sterminio degli ebrei prima della soluzione delle camere a gas: raduni e trasferimenti veloci sui luoghi dell’eliminazione con gli assassinati gettati nel dirupo. L’eccidio fu seguito dal saccheggio e dalla distruzione dell’antichissimo monastero e degli edifici limitrofi. In questi anni sono ricomparsi gli elenchi degli oggetti razziati dal fascismo, tra cui una serie di corone d’oro che si utilizzavano nelle cerimonie religiose. Gli oggetti potrebbero giacere dimenticati in qualche museo o in qualche collezione privata, sono scomparsi come le vittime. L’operazione fu genocidaria tutto doveva scomparire di quella realtà, non solo le persone, ma specialmente la cultura che si opponeva all’assimilazione[1]:
“Le vittime furono spinte giù dal camion e furono rapidamente fatte allineare, con il viso a nord e la schiena volta verso gli ascari. Furono quindi costrette a sedersi in fila lungo l’argine meridionale del fiume, che in quel periodo dell’anno era quasi completamente in secca. Gli ascari presero quindi un lungo telone, preparato appositamente per l’occasione, e lo stesero sui prigionieri come una stretta tenda formando un cappuccio sopra la testa di ognuno di loro. Si procedeva quindi alla fucilazione dei religiosi. E mentre un ufficiale italiano provvedeva a sparare il colpo di grazia alla testa, vicino all’orecchio, gli ascari toglievano il telone nero dai cadaveri per utilizzarlo per il successivo gruppo di condannati. Alle 15.30 del pomeriggio tutto era finito e Graziani poteva annunciare a Roma che «oggi, alle 13 in punto», il generale Maletti «ha destinato al plotone di esecuzione 297 monaci, incluso il vice-priore, e 23 laici sospetti di connivenza. Sono stati risparmiati i giovani diaconi, i maestri e altro personale d’ordine, che verranno tradotti e trattenuti nelle chiese di Debrà Berhàn. Il convento è stato di conseguenza chiuso definitivamente» Ma tre giorni dopo il viceré cambiava idea, sembra su istigazione di ras Hailù Tecla Haimanot, il più noto e spietato fra gli aristocratici collaborazionisti, e inviava a Maletti questa nuova direttiva: «Confermo pienamente la responsabilità del convento di Debrà Libanòs. Ordino pertanto di passare immediatamente per le armi tutti i diaconi di Debrà Libanòs. Assicuri con le parole: “Liquidazione completa”» .Il generale Maletti, con il consueto zelo, provvedeva subito a far scavare due profonde fosse in località Engecha, a pochi chilometri da Debra Berhàn, e nella mattinata del 26 maggio faceva sfilare davanti alle mitragliatrici 129 diaconi, martiri giovanetti che la cristianità non ricorda e non piange perché africani e diversi. «Per cui» concludeva Graziani «la cifra dei giustiziati saliva a 449». Ma la vera cifra degli assassinati era molto più alta, almeno tre volte superiore. Tra 1991 e 1994 i due docenti universitari già ricordati, l’inglese Ian L. Campbell e l’etiopico Degife Gabre-Tsadik, eseguivano nel territorio di Debrà Libanòs un’ampia e approfondita ricerca, interrogando monaci, cascì, civili, alcuni dei quali avevano assistito a una o più fasi del massacro. Dalle loro testimonianze emergeva che i fucilati a Laga Wolde non erano 320 ma tra 1000 e 1600. Successivamente, tra 1993 e 1998, il professor Campbell proseguiva da solo le indagini spostandosi nella regione di Debrà Berhàn per trovare informazioni sulla strage di Engecha. Egli non soltanto riusciva a localizzare le due fosse che contenevano i corpi dei 129 diaconi, ma poteva raccogliere le deposizioni di due testimoni oculari che avevano assistito alla strage dall’inizio alla fine. L’inchiesta di Campbell rivelava inoltre che Graziani, nel comunicare a Lessona l’eliminazione dei diaconi, aveva sostenuto il falso. Egli, infatti, non si era limitato a ordinare a Maletti la «liquidazione completa» dei 129 diaconi, ma gli aveva ingiunto di sopprimere altri 276 etiopici, fra insegnanti, studenti di teologia, monaci e sacerdoti che appartenevano ad altri monasteri e che nulla avevano a che fare con Debrà Libanòs. Per cui il bilancio della strage di Engecha saliva a 400 vittime e quello complessivo della rappresaglia contro la città conventuale di Debrà Libanòs si aggirava, secondo i due ricercatori, tra 1423 e 2033 morti. Mai, nella storia dell’Africa, una comunità religiosa aveva subìto uno sterminio di tali proporzioni”.
La violenza di Debrà Libanòs è giunta a noi nel silenzio e nel disprezzo con cui si inneggia alla differenza per omologarla, non si usano, in patria, gli ascari contro i diversi, ma i trombettieri del giudizio universale, il clero asservito che in nome della libertà laica ed atea inneggia all’omologazione. La differenza può sopravvivere solo come esperienza folcloristica, ma i comportamenti devono essere quelli dettati dal liberismo. Se avessimo trasformato la strage in cultura condivisa, probabilmente il “sì” automatico alle missioni di pace non sarebbe stato tanto “spontaneo”. I braccianti agricoli schiavizzati nella raccolta dei prodotti agricoli sono nella scia di quella violenza respinta nel dimenticatoio della storia. L’abitudine a rimuovere e a elaborare false immagini di sé giunge fino a noi e produce forme di sfruttamento diffuso, la tempesta della storia ci inghiotte e ci trascina verso la negazione della “buona vita”.
Senza storia non vi è umanesimo, ma solo una lenta agonia, in cui a morire è l’umanità nella sua totalità, al suo posto non resta che una temporalità circolare in cui ogni evento è destinato a ritornare nella sua tragicità inemendabile. La prassi necessita di senso storico comunitario, perché trae dagli avvenimenti della storia, la possibilità con cui riprogettare politiche sociali e visioni comunitarie. La storia ha la potenzialità di liberarci dalla condizione di subalterni, ci indica che la cultura di subalternità è la condizione per lo stragismo militare ed economico. Il subalterno rinuncia alla prassi per farsi servo e salvarsi dalle responsabilità verso la storia, verso il presente ed in passato, ma ogni subalterno compartecipa ai crimini della storia, è la mano esecutrice che si presta all’esecuzione. Emanciparsi significa liberarsi dalla subalternità. Ogni cultura e ogni politica che la inseguono è organica al dominio. Debrà Libanòsè tra di noi nella forma del fatalismo servile che ci rende corresponsabili della violenza dei nostri giorni.
[1]Angelo Del Boca,Italiani, brava gente?, capitolo dieci: Debrà Libanòs: una soluzione finale, Editore Neri Pozza, 2012.
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La musica […] dà anima all’universo, ali al pensiero, slancio all’immaginazione, fascino alla tristezza, impulso alla gioia e vita a tutte le cose. Essa è l’essenza dell’ordine, ed eleva ciò che è buono, giusto e bello, di cui è la forma invisibile ma tuttavia splendente, appassionata ed eterna. Platone
Salvatore Bravo
Il nichilismo musicale dei Måneskin con «I Wanna Be Your Slave».
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Nichilismo musicale In questi giorni nelle TV di Stato, e in quelle del “mercato libero”, si esalta il successo della musica italiana. I Måneskin con I Wanna Be Your Slave sono i primi nelle classifiche mondiali ed in particolare inglesi. Si esalta il genio canoro italiano che riesce a scalare le classifiche dei paesi anglofoni. Ancora una volta il commento dei giornalisti è rivolto in primis al risultato. Si omette che il testo è rigorosamente in inglese, e che pertanto è un successo di cantanti italiani che si adattano ai parametri della globalizzazione, che esige che i “contenuti” debbano negare le lingue nazionali e debbono essere espressi nel nuovo esperanto imposto dai poteri globali: il più forte impone con la lingua il pensiero. Il testo esalta la libertà, ma la libertà si può declinare in una pluralità di semantiche. La libertà dei Måneskin è in “armonia” con l’attuale sistema: liberi nel corpo, nessuna identità, nessun impegno per cambiare le contraddizioni sociali ed economiche della globalizzazione. Il successo arriva, se i testi sono organici al potere che esige consumatori senza volto, senza genere, senza identità. La libertà non dev’essere libertà critica e propositiva, in cui la teoria e la prassi fondano aperture per nuovi orizzonti. I testi omologati e conformisti non devono denunciare i modelli economici e culturali che logorano la comunità per trasformarla in un immenso mercato di individui che cambiano identità nella stessa maniera con cui scelgono e cambiano prodotti. La loro libertà è regressiva, ed è urlata, in un arrogante “io voglio”. L’accento è posto sull’io, sulla brama onnipotente di essere tutto e di avere diritto a ogni desiderio, per cui si può essere in un momento gangster e subito dopo un bravo ragazzo. Si può essere tutto solo se si è niente. Il gioco narcisistico e capriccioso non deve avere limite. L’altro è cancellato dalla relazione, perché l’identità personale è solo una prigione, e pertanto si fugge da essa come da un peso gravido di responsabilità. Nessuna comunicazione affettiva ed erotica è possibile tra identità pronte ad evaporare nel gioco del desiderio che diviene il nuovo “giogo” non riconosciuto. Il sistema esalta questa “canora” libertà dei Måneskin in quanto non fa paura: soggetti senza identità, soggetti “liquidi”, creature camaleontiche pronte ad inseguire il prurito di ogni smania, dominate da pulsioni libidiche, si lasciano dominare senza che il potere imponga loro il dominio. Nei Måneskin non ci sono contenuti o ideologie, sono personalità che inseguono il mondo, si adattano al mondo fino ad essere il niente, ed il nulla non fa paura, anzi è accarezzato dal potere. In un passaggio del testo si afferma di voler usare l’altro come il telecaster, una chitarra versatile: non più persona, ma ente, un oggetto multiuso. L’odio verso l’identità ed il logos non potrebbe essere più loquace. Anche gli oggetti devono essere nell’ottica della liquidità senza forma e stabilità. La relazione è sempre nell’ottica del padrone e dello schiavo, mai paritaria, e dunque in linea con il sistema attuale che divide l’umanità in schiavi e padroni. Il testo dei Måneskin, presentato come trasgressivo, è il volto, la maschera della contemporaneità, del cattivo gusto, che ammicca e rappresenta la verità del sistema: violenza e nichilismo. Il verbo volere ripetuto ossessivamente è il segno della regressione infantile. Il volere incondizionato è una forma di aggressività in cui è avviluppata la società intera. La derealizzazione ha come punto cardine il desiderio illimitato che sospinge adulti e giovani in uno stato di frustrazione e mortificazione continua, perché il principio di realtà e razionalità confligge con il desiderio assoluto di metamorfosi. La sostituzione del principio di realtà con il principio di piacere indebolisce le personalità, le rende prossime alla loro rovina. La fuga dalla realtà sociale e politica favorisce le oligarchie che usano la musica leggera e di facile consumo come strumento di colonizzazione delle menti, e nella propaganda idolatra i mediocri artisti sono servi del sistema:
Voglio essere il tuo schiavo Voglio essere il tuo padrone Voglio far battere il tuo cuore Correre come le montagne russe
Voglio essere un bravo ragazzo Voglio essere un gangster
Perché tu puoi essere la bellezza E io potrei essere il mostro Voglio renderti silenzioso Voglio renderti nervoso Voglio lasciarti libera
Ma sono troppo fottutamente geloso Voglio tirare i tuoi fili Come se tu fossi il mio telecaster E se vuoi usarmi potrei essere il tuo burattino
Perché sono il diavolo Che sta cercando la redenzione E io sono un avvocato Che sta cercando la redenzione E sono un assassino Che sta cercando la redenzione Sono un fottuto mostro Che sta cercando la redenzione
Voglio essere il tuo schiavo Voglio essere il tuo padrone”.
Musica e senso Lo sguardo filosofico dev’essere capace di concettualizzare la tragedia quotidiana, di farla emergere nei suoi aspetti più banali e veri. La filosofia è anche impegno politico, e come tale deve, senza moralismi, essere interprete del presente, in modo da permettere il passaggio dall’uso passivo dei messaggi ideologici alla fruizione attiva e critica, in modo che la cultura emancipatrice possa far scorgere la valenza ideologica dei contenuti che circolano per smascherane la complicità con il sistema. Alla musica che depotenzia le personalità facendole evaporare nelle pulsioni, favorendo i fini imposti dalla società del mercato che ordina la libertà del corpo di consumare illimitatamente, ed impedisce la pratica del pensiero critico e del conosci te stesso, si può opporre Platone con le sue osservazioni sulla musica. Quest’ultima deve metter le ali al pensiero, deve portare ad un viaggio interiore, in cui il logos fonda la verità in un “io” che incontra il “noi”, e persegue il bene come fine di ogni vita pienamente vissuta. Platone nei suoi dialoghi delinea il senso della musica:
“La Musica è una legge morale: essa dà anima all’Universo, ali al pensiero, slancio all’immaginazione, fascino alla tristezza, impulso alla gioia e vita a tutte le cose. Essa è l’essenza dell’ordine ed eleva ciò che è buono, giusto e bello, di cui è la forma invisibile, ma tuttavia splendente, appassionata ed eterna”.
Sorge la domanda se la musica che invade i nostri vissuti sia motore della dialettica dei buoni fini o neghi l’umanità nella sua capacità di elevarsi verso mete che la rendono degna di se stessa. Si assiste, invece, ad una decadenza che ha consumato il suo punto di caduta, e pertanto propina solo trasgressioni omologate e conformiste fino alla noia. Si attende la vera trasgressione la quale ha come fondamento il logos e la ricerca della verità.
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Per ricordare Massimo Bontempelli attraverso alcune parole-concetto che hanno segnato la sua elaborazione filosofica
Impegno ed esilio interiore Il 31 luglio del 2011 veniva a mancare Massimo Bontempelli[1] nella sua città d’origine: Pisa. Non è un dettaglio secondario. Massimo Bontempelli ha vissuto la sua esistenza nella sua comunità, l’ha servita da docente e da filosofo. Il filosofo è funzionario dell’umanità, ma lo può essere solo nella concretezza dell’universale, ovvero radicandosi nella comunità nella quale si è deciso di vivere per partecipare all’universale. In Bontempelli hanno convissuto due realtà parallele: l’impegno e l’esilio. La sua filosofia ha guardato la notte del nichilismo, l’ha ricostruita all’interno della storia della filosofia ed ha elaborato un percorso d’uscita. Il suo esilio interiore ed intellettuale è stato segnato dall’aver deviato dalla filosofia accademica e di sistema: filosofia nichilistica e di sostegno al capitale; ha pagato la sua scelta con la marginalità che ha trasformato in un mezzo per capire il presente. La sofferenza può diventare concetto, ma lascia sul suo fondo asprezze che faticosamente bisogna poi gestire. La vita di un filosofo è attraversata da una pluralità di tonalità emotive, la ricerca filosofica è totalità del logos, non è razionalità astratta, ma l’intera vita che si sublima in logos. Massimo Bontempelli con lo sguardo della civetta filosofica ha attraversato il buio dell’irrazionale e dell’ideologia per donare uno sguardo nuovo al mondo. Era consapevole che la critica al capitalismo rischia di essere vuota parola, se non coinvolge il problema dei fondamenti veritativi. Ogni proposta alternativa deve confrontarsi con il problema dei fondamenti, la critica dev’essere radicale, deve toccare e ripensare il problema nella sua “vastità” metafisica, altrimenti il cambiamento è solo epidermico, ed è esposto a facili regressioni. Per poter pensare il presente è necessario comprendere il passato in cui siamo situati. Siamo parlati dal passato nel presente. La filosofia deve condividere processi di consapevolezza per trascendere la trappola del contingente senza speranza. È stato un filosofo che ha cercato di riattualizzare la metafisica in un clima di avversione ideologica che tuttora persiste. Il suo esilio è stato, si può certo supporre aspro, ma proficuo. Al momento è poco conosciuto, benché abbia numerosi estimatori, e una notevole e qualitativamente valida e varia produzione filosofica. Ma il tempo è un grande scultore, ed eliminerà ciò che abbaglia, ma che non ha profondità, per lasciare emergere il valore dell’essenziale e dei pensatori che hanno saputo camminare sulla linea dell’orizzonte. Si spera, dunque, che il tempo storico possa riconoscere la profondità del suo lavoro, e che tutti possano confrontarsi con i suoi concetti. L’azione del tempo non avviene fatalmente, ma vive del contributo piccolo e grande dei cercatori della verità.
Totalitarismo della quantità Vorrei ricordarlo attraverso alcune parole concetto che hanno segnato la sua produzione. Le parole per un filosofo non sono flatus vocis, ma concetti vivi di cui bisogna esplorare la profondità. L’opera di Massimo Bontempelli ha ricostruito la genetica del nichilismo nella sua forma crematistica. Il capitalismo è trionfo dell’integralismo della quantità, è linguaggio unico e pervasivo, in cui la quantità è divenuta paradigma unico ed irrazionale. Dietro la maschera razionale della tecnocrazia vi è l’irrazionale, poiché la quantità non dà misura a se stessa, si nutre del suo accrescimento illimitato. Le risorse del pianeta sono limitate, mentre la quantità senza fondamento veritativo spinge verso l’infinita crescita. Massimo Bontempelli ha pensato il problema nella sua radicalità e nella consapevolezza che bisogna rifondare la logica con cui si ricostruiscono le esperienze storiche ed individuali nella loro fatticità complessa. Da studioso della Scienza della logica di Hegel, ha analizzato la logica hegeliana per capire la crisi in cui siamo implicati per una nuova teoretica dei fondamenti[2]:
«Quantità, dice Hegel, significa qualità tolta, ovvero indica l’essere reso indifferente alle sue determinazioni. Grandezza significa quantità limitata dal limite qualitativamente indifferente, ripetizione identica di una medesima identità astratta. La matematica è la conoscenza delle relazioni necessarie della grandezza, secondo una necessità puramente tautologica nei suoi gradi più elementari, e secondo la necessità della mediazione sintetica costruita tra diversi elementi di un oggetto quantitativo nei suoi gradi superiori. Essa ha dunque una base obiettiva universale nella logica della quantità, mediante la quale elabora le sue costruzioni. Le scoperte matematiche sono indipendenti dalle contingenze storiche semplicemente perché l’oggetto del lavoro matematico è dato da entità astratte da ogni qualità contingente. La matematica è dunque una scienza. Ma la quantità, nella cui logica essa ha la sua base ontologica, è soltanto una delle sfere logico-ontologiche che il pensiero possiede nella sua interna strutturazione. Essa non può quindi avere in se stessa la misura della propria verità, perché la verità della quantità si compie soltanto nella sua connessione dialettica con tutte le altre sfere della realtà. L’isolamento della sfera logico ontologica della quantità è la ragione per cui la matematica non può fondare se stessa. Negli spazi vuoti delle pure grandezze quantitative tace, scrive Hegel, ogni esigenza che possa ricollegarsi all’individualità vivente: qui sta la mancanza di verità della matematica».
La sola quantità non può dare misura al vivente, essa necessita della razionalità filosofica che possa tracciare il confine del limite all’interno dei fini e del bene, in modo che la quantità possa essere riportata “al servizio” della storia e dell’umanità. La sola quantità è l’astratto che fagocita il concreto con le sue risorse e specialmente nei suoi bisogni autentici. Senza il soggetto che astrae dalla contingenza la sua verità, la quantità non può che essere una tirannica presenza che minaccia la vita e la sua qualità. Da tale perverso cammino si può deviare con il soggetto che razionalizza la vita economica e sociale pensandola nella sua realtà. L’essere umano è pensante, per cui la coscienza è condizionata, ma mai determinata dalle condizioni materiali. Il totalitarismo della quantità vorrebbe sottrarre la qualità del pensiero per favorire il solo calcolo immediato. Senza pensiero teoretico e con la sola capacità calcolante l’essere umano è oggetto delle forze fatali e letali del modo di produzione capitalistico. L’umanità pone le condizioni per la trasformazione della natura, determina i modi di produzione, la coscienza si forma nell’interazione della trasformazione della natura, ma può pensare la sua attività poietica, determinandone i fini[3]:
«Il lavoro, infatti, trasforma il modo di essere di chi lo esplica, e determina, data la sua natura intrinsecamente cooperativa, i rapporti tra gli uomini. Nasce cosi il modo di produzione, cioè il modo con cui gruppi sociali si sono organizzati in funzione della produzione economica per garantire la riproduzione biologica del gruppo stesso. Essendo per sua natura sociale, il lavoro implica la comunicazione tra gli uomini, quindi il linguaggio, e perciò la coscienza: “il linguaggio, come la coscienza, sorge soltanto dal bisogno, dalla necessità di rapporti con gli altri uomini”. La coscienza, però, perviene a uno sviluppo e a un perfezionamento ulteriore in virtù dell’accresciuta produttività, dell’aumento dei bisogni e dell’aumento della popolazione».
Il regno della sola quantità è l’irrazionale che avanza, in essa la realtà è dispersa ed incompresa. La quantità è il feticcio effetto della destrutturazione della verità. L’urgenza è riportare l’essere umano al fondamento veritativo, al logos con cui stabilisce i fini buoni e mette in atto la “buona vita”. Nel regno della quantità non vi è qualità di vita, poiché gli scopi sono stabiliti dal dominio e dalle oligarchie. L’umanità è estraniata da se stessa, in modo che possa essere abilmente usata dall’ideologia dell’impero della sola quantità. Senza la cura per i buoni fini l’edonismo acquisitivo si ribalta in cultura della morte, della soggettività senza vincoli[4]:
«L’essenza del bene sta nella cura della capacità di avere scopi, cioè nella protezione dalla morte di quella vita che è più propriamente mortale, in quanto si rappresenta se stessa, e alle altre vite simile ad essa, come destinata alla scomparsa. Soltanto, quindi, attraverso la conoscenza della morte si entra nella conoscenza del bene e del male. Come infatti concepire il bene, che è la protezione degli scopi della vita dalla morte che li sovrasta, senza sapere appunto che la morte sovrasta ogni vita che tesse i suoi scopi? La cura, di cui il bene consiste, ha dunque senso solo di fronte alla morte».
Arbitrarismo – intercosalità L’arbitrarismo è la concretizzazione del nichilismo, se il soggetto non ha vincoli etici, se persegue la sola logica quantitativa ed acquisitiva rompe ogni ormeggio dalla sua umanità per essere preda del delirio acquisitivo. Ogni spazio pubblico, soglia di incontro e di manifestazione del logos, è acquisito all’uso privato. La cancellazione degli spazi pubblici coincide con la sostituzione del logos con il semplice calcolo acquisitivo. La libertà diviene aggressività mercantile legalmente riconosciuta, in cui il male (irrazionale) governa le sorti dell’umanità e del pianeta. L’analisi del traffico veicolare con l‘occupazione dello spazio pubblico offre ai lettori di Bontempelli un saggio della sua capacità di problematizzare, “il noto è sconosciuto” come affermava Hegel, per farne strumento di verità[5]:
«Basta ragionare, per capire quale sia questo presupposto: è quella forma di nichilismo che abbiamo chiamato arbitrarismo, qui espressa nella concezione secondo cui è un diritto della persona libera quello di usare a piacere lo spazio pubblico per spostarvisi con un proprio privato abitacolo semovente».
L’irrazionalità dell’arbitrarismo diviene intercosalità, neologismo di Massimo Bontempelli: le relazioni umane senza qualità e fini decadono in semplice transazione, in strumentalizzazione reciproca, ed ogni contatto comunicativo è sostituito dal plusvalore che diviene un’autentica barriera tra le persone, ne determina l’isolamento per debilitare il senso critico e la capacità progettante.
Massimo Bontempelli ha vissuto la filosofia come esperienza veritativa umanizzante. Al totalitarismo crematistico e dello spettacolo ha opposto l’esperienza filosofica quale attività di riflessione sul “bene”, perché senza fini buoni non vi è comunità umanizzante, ma il regno dell’intercosalità nel quale a nessuno è dato vivere secondo la natura comunitaria e razionale dell’umanità.
Derealizzare Lo scopo ultimo e primo del potere è derealizzare, ovvero scindere la relazione tra razionalità filosofica e realtà, in tal modo il soggetto si derealizza, si astrae dalla realtà storica. Il dominio si perpetua nella derealizzazione nella quale il soggetto è solo parte di un immenso automatismo[6]:
«Ma se non si capiscono le zone ormai ontooccultanti dell’esperienza, non si può neanche capire attraverso quali esperienze sia oggi possibile manifestare la realtà, e costruire quindi un cammino di uscita dalla derealizzazione umana del sentiero della notte».
La notte oscura in cui siamo, è la notte della realizzazione, nella quale il soggetto perde se stesso, e si disperde in un’esistenza inautentica. I processi di derealizzazione sono le punte avanzate dei processi di dominio e negazione dell’umanità. La derealizzazione inibisce la prassi per eternizzare l’attuale modo di produzione. La derealizzazione è nell’aziendalizzazione della vita, in cui il soggetto si autopercepisce come un’azienda, si sfrutta in nome di obiettivi stabiliti dalle oligarchie: si derealizza, costruisce una falsa immagine di sé e della storia. Uscire dalla derealizzazione significa ricostruire la complessa genesi in cui il soggetto è ingabbiato con il calcolo, l’arbitrarismo e l’intercosalità. Massimo Bontempelli è il filo d’Arianna che consente di uscire dalla prigione del “politicamente corretto”. Leggere e cercare le opere di Massimo Bontempelli è un gesto di consapevolezza e specialmente è un atto che ha in sé la potenza di pensare la realtà nei suoi tragici fondamenti per poter uscire dal sentiero della sola quantità.
Salvatore Bravo
[1] Massimo Bontempelli (Pisa, 26 gennaio1946– Pisa, 31 luglio 2011)
[2] Massimo Bontempelli, Il pregiudizio antimetafisico della scienza contemporanea, Petite Plaisance Pistoia, 2018, p. 15
[3] Massimo Bontempelli, introduzione a Marx (ed Engels), in Associazione Culturale Punto rosso, Libera università popolare, p. 32
[4] Massimo Bontempelli, La conoscenza del bene e del male, edizione C.R.T., Pistoia 1998, p. 26.
[5] Massimo Bontempelli, L’arbitrarismo della circolazione autoveicolare ,C.R.T., Pistoia 2001, p. 7.
6] Massimo Bontempelli, Filosofia e Realtà, Petite Plaisance. Pistoia 2020, p. 225.
Storia e coscienza storica (3 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1983.
Storia (3 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1984. [Per il triennio]
Civiltà e strutture sociali dall’antichità al medioevo (2 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1984.
Antiche civiltà e loro documenti (3 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1993.
Civiltà storiche e loro documenti (3 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1994
Storia e coscienza storica. (nuova edizione, 3 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1998. [Per il triennio]
Filosofia:
Il senso dell’essere nelle culture occidentali (3 voll.), con Fabio Bentivoglio, Milano, Trevisini, 1992.
Il tempo della filosofia (3 voll.), con Fabio Bentivoglio, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici PRESS, 2011. [riedito nel 2016 in versione aggiornata dalle edizioni Accademia Vivarium Novum]
Saggi e monografie:
Eraclito e noi, Milazzo, Spes, 1989.
Percorsi di verità della dialettica antica, con Fabio Bentivoglio, Milazzo, Spes, 1996.
Nichilismo, verità, storia, con Costanzo Preve, Pistoia, CRT, 1997.
Gesù. Uomo nella storia, Dio nel pensiero, con Costanzo Preve, Pistoia, CRT, 1997.
La conoscenza del bene e del male, Pistoia, CRT, 1998.
La disgregazione futura del capitalismo mondializzato, Pistoia, CRT, 1998.
Tempo e memoria, Pistoia, CRT, 1999.
Filosofia e realtà. Saggio sul concetto di realtà in Hegel e sul nichilismo contemporaneo, con prefazione di Costanzo Preve, Pistoia, CRT, 2000. [ristampato nel 2020 dalla casa editrice Petite Plaisance]
L’agonia della scuola italiana, Pistoia, CRT, 2000.
Per conoscere Hegel. Un sentiero attraverso la foresta del pensiero hegeliano, Pistoia, CRT, 2000.
Eraclito e noi. La modernità attraverso il prisma interpretativo eracliteo, CRT, 2000.
Diciamoci la verità, “Koiné” n.6, Pistoia, CRT, 2000.
Le sinistre nel capitalismo globalizzato, Pistoia, CRT, 2001.
Un nuovo asse culturale per la scuola italiana, CRT, Pistoia 2001.
L’arbitrarismo della circolazione autoveicolare, Pistoia, CRT, 2001.
Il sintomo e la malattia. Una riflessione sull’ambiente di Bin Laden e su quello di Bush, con Carmine Fiorillo, Pistoia, CRT, 2001 [ristampato nel 2017 dalla casa editrice Petite Plaisance]
Diciamoci la verità, CRT, Pistoia 2001.
Il respiro del Novecento. Percorso di storia del XX secolo. 1914-1945, Pistoia, CRT, 2002.
Il mistero della sinistra, con Marino Badiale, Genova, Graphos, 2005.
La Resistenza Italiana. Dall’8 settembre al 25 aprile. Storia della guerra di liberazione, Cagliari, CUEC, 2006.
La sinistra rivelata, con Marino Badiale, Bolsena, Massari, 2007.
Il Sessantotto. Un anno ancora da scoprire, Cagliari, CUEC, 2008. [ristampato nel 2018]
Civiltà occidentale, con Marino Badiale, prefazione di Franco Cardini, Genova, Il Canneto, 2010.
Marx e la decrescita, con Marino Badiale, Trieste, Abiblio, 2011.
Platone e i preplatonici. Morale e paideia in Grecia, con Fabio Bentivoglio, introduzione di Antonio Gargano, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici PRESS, 2011.
Un pensiero presente. 1999-2010: scritti di Massimo Bontempelli su Indipendenza, Roma, Indipendenza – Editore Francesco Labonia, 2014.
Capitalismo globalizzato e scuola, con Fabio Bentivoglio, Roma, Indipendenza – Editore Francesco Labonia, 2014.
La sfida politica della decrescita, con Marino Badiale, prefazione di Serge Latouche, Roma, Aracne, 2014.
Gesù di Nazareth, con prefazione di Marco Vannini, Pistoia, Petite Plaisance, 2017.
Saggi in opere collettanee:
Il respiro del Novecento, “Koiné” n. 6, Pistoia, CRT, 1999
Metamorfosi della scuola italiana, “Koiné” n. 4, Pistoia, CRT, 2000
(Visioni di scuola. Buoni e cattivi maestri, “Koiné” n. 5, Pistoia, CRT, 2000
Scienza, cultura, filosofia, “Koiné” n. 8, con Lucio Russo e Marino Badiale, Pistoia, CRT, 2002.
I cattivi maestri, in I Forchettoni Rossi, a cura di Roberto Massari, Bolsena, Massari, 2007.
Diciamoci la verità, “Koiné” n. 6, Pistoia, CRT, 2000.
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Società e spettacolo La società dello spettacolo è sempre alla ricerca di un catalizzatore sociale da usare come elemento identitario e di distrazione di massa. La morte di Raffaella Carrà è presentata come una tragedia italiana, poiché la schowgirl è parte del tessuto “sociale e culturale” della nazione. Non vi sono ideali, ideologie o religioni a tessere la koinonia sociale, il plusvalore ed il nichilismo passivo hanno reso al suolo ogni solidità umana e metafisica, non resta che produrre miti estemporanei con cui fabbricare processi di identificazione di massa. Tutto è falso nel capitalismo, per cui la fabbrica dei miti deve necessariamente osannare l’ultima diva da utilizzare per occultare il vuoto abissale di una nazione senza poeti, santi e navigatori,. Tutto è stato consumato, pertanto il nulla non può che produrre miti dai piedi d’argilla. Negli innumerevoli salotti televisivi si ripete nella più tradizionale ipocrisia italica la bravura e la completezza della schowgirl. Nessun cenno critico sulla qualità di musiche e canzoni, si esaltano i valori che la cantante ha depositato nelle sue canzoni e che giungono a noi come lascito da conservare, si è inaugurata una nuova “tradizione culturale e musicale”. Se si ascoltassero i testi con un modesto senso critico ci si renderebbe conto immediatamente della “modestia” dei contenuti e della imbarazzante semplicità delle musiche. La Carrà rivoluzionaria ha contribuito, secondo i giornalisti mainstream, a liberare i costumi e specialmente le donne. Si spingono a dichiarare che ha fatto molto di più la cantante per loro che la politica ed i sindacati. Nei testi emerge solo individualismo ed edonismo, una sessualità senza affettività e stabilità. I testi non sono certo rivoluzionari, ma organici al capitalismo nella sua fase apicale, per il quale ogni progettualità affettiva è un limite al libero sciamare edonistico. Non si tratta di moralismo, ma di un dato oggettivo. I testi della Carrà hanno garantito il diffondersi di costumi liquidi, il disimpegno è stato il grande messaggio della cantantei. La donna liberata dal dono e dalla comunità diventa il simbolo della nuova era senza cultura, senza progetti, senza profondità: la società dello spettacolo ha trovato in lei la sua icona. L’indifferenza verso la politica e le tragedie della storia l’ha portata nel 1980 in Argentina: si esibiva acclamata e difesa dalle forze dell’ordine argentine che la proteggevano dalla folla. In Argentina vi era la dittatura militare, si può ipotizzare che esibirsi in concerti, mentre i dissidenti venivano eliminati sia stata una forma di legittimazione di quel potere, o è stata usata in tal senso. Rivoluzionaria per i costumi ha avallato l’edonismo consumistico erotico, ma non ha mai preso parola contro le ingiustizie sociali che laceravano il mondo e la nazione, si è adattata al sistema, è divenuta parte del dispositivo culturale e linguistico del nuovo capitalismo assoluto.
Nuova identità Non secondario è l’uso identitario che della cantante vien fatto, dopo che la scuola, la lingua nazionale e ogni asse valoriale sono stati annichiliti, per reinventare una pubblica identità si usa una diva della società dello spettacolo che con i suoi eccessi scenografici ben si presta a catalizzare l’identità nazional popolare senza turbare con eventuali messaggi critici: Il sistema che inneggia al suo modello di libertà nichilistico mediante una sua diva. Dal vuoto dei contenuti non può venire minaccia alcuna. Ancora una volta si assiste alla decadenza che ha spinto Riccardo Muti ad affermare in una lettera al Corriere della Sera:
“La banalità della tv e della Rete, questo divertimento superficiale, la mancanza di colloquio mi preoccupano molto per la formazione dei giovani”
Muti nella lettera scrive che per lui è preferibile morire, piuttosto che assistere al salire dell’onda dell’ignoranza e dell’arroganza sociale che ha disumanizzato ogni rapporto, non si identifica con l’attuale società del consumo e della dimenticanza. Vi è da chiedersi dove fosse, mentre tutto questo accadeva. La Carrà non la si può non ricordare nei quiz in cui i telespettatori dovevano indovinare il numero dei legumi presenti nei contenitori. Il gioco dei fagioli in Pronto Raffaella? dal 1983 al 1985, non è stato un semplice quiz, ma ha contribuito a normalizzare il nichilismo sociale. Il sistema capitale ha educato generazioni intere che il caso e la fortuna valgono più dell’impegno e del merito. Si può vincere e riscuotere denaro senza merito, esattamente come si può vincere un concorso senza preparazione, la struttura del sistema ha la sua pedagogia ed i complici pedagoghi per insegnare il disprezzo verso i contenuti. La cattiva maestra televisione può diseducare a suon di banda, se è l’unico messaggio presente in essa a reti unificate pubbliche e private. L’omaggio ad ogni persona che non c’è più è vero solo se la verità si fa spazio nella solo formale ritualità funebre. Le lunghe discussioni osannanti, l’esaltazione di ogni gesto ed il silenzio sul contesto in cui ha svolto la carriera sono ormai parte della menzogna conosciuta che continua come un acido a dissolvere i frammenti di razionalità e comunità sopravvissuti alla lunga notte della società dello spettacolo. Nessun uomo è innocente, siamo tutti responsabili del disastro attuale, ciascuno nel proprio ruolo. Responsabilità sociale ed etica sono rifiutati dal sistema, perché lo spettacolo può andare avanti solo al ritmo della menzogna conosciuta, sta a noi singoli pensare le parole che il mainstream usa per poter tracciare un percorso di uscita ed esodo dalla società dello spettacolo.
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Videor ergo sum Intellettuali e necessità della verità metafisica
Derealizzazione ed impotenza La reificazione e l’atomocrazia nel capitalismo assoluto si struttura con un diffuso scollamento tra realtà storica e vita del soggetto, la condizione schizoide è la normalità dello stato presente. Tali processi sono consustanziali alla sostituzione della verità con il paradigma dell’utile. Le filosofie scettiche fungono da sovrastruttura al dominio globale del mercato. In tale contesto i soggetti “addomesticati” al solo conteggio del PIL non possono che ritirarsi dalla storia e rinunciare alla comprensione dell’orizzonte in cui sono “gettati”. La verità non è che “un mito” del passato, pertanto si rinuncia a capire “il proprio tempo nel pensiero” e la verità della natura umana, senza di essi è improbabile la partecipazione alla prassi. Il cittadino diviene suddito globale, si rifugia nella realtà virtuale (tecnologie e realtà aumentata) limitandosi all’uso delle stesse e specialmente sostituisce la verità con il calcolo dell’utile. Gradualmente la realtà diviene estranea e straniera, si vive in una contingenza a cui ci si adatta, ma non si comprende. Si precipita in un irrazionalismo insidioso, si scambia il virtuale e l’ideologia annessa per realtà, e dunque, la scissione tra pensiero e realtà consolida il capitalismo assoluto, fino a rendere gli esseri umani “accidenti” che appaiono nella storia come elementi complementari del sistema. Costanzo Preve con l’ontologia dell’essere sociale ha l’obiettivo di fondare la comunità e la politica su un principio veritativo capace di veicolare il discernimento tra vero e falso. Per uscire dalla caverna della derealizzazione Costanzo Preve utilizza l’ontologia dell’essere sociale e la deduzione sociale delle categorie, con la prima fonda la verità della natura umana nel logos, nella pratica comunitaria del pensiero, nella sua capacità di astrarre la verità storica del tempo in cui è immerso, tale operazione comporta l’uso della deduzione trascendentale delle categorie con cui discernere il contingente dall’eterno che si manifesta nella storia. Il soggetto non rispecchia la realtà storica, ma la pensa con la mediazione del logos all’interno delle istituzioni, per cui per “natura” l’essere umano è attività pensante che si materializza nella storia. L’eterno è la consapevolezza che alcune conquiste della razionalità non sono contingenti, ma appartengono all’umanità. L’ontologia dell’essere sociale si oppone allo storicismo alleato dell’economicismo, poiché insegna che tutto è storia, e dunque, non vi è verità, ma l’essere umano è solo storia. La verità è sostituita dall’utile e dalla infinita manipolazione. L’essere umano è il niente che appare nella storia, a cui “enti esterni” danno la forma:
“Il punto di vista dell’ontologia dell’essere sociale è il solo che può realmente fronteggiare le due patologie complementari dello storicismo e del sociologismo, formazioni ideologiche entrambe impotenti di fronte alle smentite storiche. E questo perché l’ontologia dell’essere sociale non nega affatto la crucialità decisiva della storia, e non nega neppure il ruolo indispensabile dei soggetti sociali organizzati, ma inserisce questi due fattori “materiali” in una “forma” senza la quale questi due fattori non possono trovare alcun fondamento[1]”
L’essere sociale esige che sia il pensiero che l’essere (sociale e comunitario) siano esaminati da un punto di vista concreto nel rispetto della natura umana, la quale è pensante e comunitaria e si manifesta nella storia, non secondo un’illimitata plasticità, ma secondo forme che rispettino il carattere del logos, il quale calcola il limite e con esso dà forma all’umanità e determina il suo “esserci”:
“Il genere stesso, inoltre, non è pura vuota potenzialità riempibile all’infinito in modo relativistico (dynamis), ma è la realizzazione in atto di questa potenzialità (energheia) in quanto la realizzazione in atto di questa potenzialità, allude ad un contenuto, il contenuto antropologico dell’uomo come animale sociale, politico e comunitario (politikòn zoon), e dell’uomo come animale dotato di ragione, linguaggio e capacità di calcolo geometrico delle proporzioni applicato alle proporzioni sociali e comunitarie (zoon logon echon)[2]”.
Il successo delle filosofie anti-ontologiche lo si può comprendere con la deduzione sociale delle categorie, esse sono organiche all’economicismo crematistico che vuole rappresentare l’essere umano come privo di fondamento veritativo per poterlo spingere verso l’illimitato consumo e l’illimitata manipolazione rendendo l’umanità fragile e disorientata. La negazione della natura umana comporta un robinsonismo generalizzato che ha l’effetto di deviare la vita dei singoli in un mondo virtuale, al quale si chiede una vita sociale e un’impossibile identità. Dietro le forme tragicomiche di narcisismo mediatico vi è una implicita speranza di vivere “una vita umana”, continuamente disattesa, la qualcosa ha l’effetto di provocare un’aggressività diffusa ed incontrollata. L’impotenza generalizzata comporta la fuga dalla comunità e dal sociale abbandonato alle fatali e letali leggi dell’economia. L’individuo è resecato dalla storia, diviene ente astratto nell’impotenza generalizzata. La persona è rappresentata come in-dividuo, ovvero come essere astratto dal suo fondamento comunitario e veritativo. La solitudine dell’individuo astratto è l’inizio dei processi di derealizzazione, in cui l’utile si sviluppa in modo parossistico, invade ogni campo del sapere e della vita comunitaria fino a fagocitarli. Il logos attraverso i processi dialettici può ricucire la scissione tra realtà e logos con l’attività razionale del soggetto. L’Idealismo hegeliano ha insegnato che la realtà diviene razionale, solo se il soggetto “pensa il reale”, per pensare si intende la capacità di coglierla olisticamente per decodificarne la verità storica, in tal modo è possibile capire il progetto, in cui si è implicati per assumere una prospettiva responsabile e progettuale. Costanzo Preve è stato libero discepolo di Hegel, Marx ed Aristotele, ne ha colto i nuclei “eterni” per capire il presente ed elaborare una teoretica della verità che affonda il suo senso nella tradizione da ripensare plasticamente. La realtà è razionale, se il soggetto la trasforma in esperienza pensata e condivisa, ma affinché ciò possa essere è necessaria la chiarezza del fondamento veritativo dell’essere umano. Verità e storia non sono antitetiche, ma la verità della natura umana si rivela nella storia. Senza verità metafisica la menzogna non è più tale, è sola una declinazione del nichilismo, l’indifferenza sostituisce ogni senso etico, se la verità è messa al bando, di conseguenza non resta che il calcolo acquisitivo e l’utile empirico a governare i destini dei popoli. Il cittadino non ha ragione di agire contro le menzogne conosciute, perché non ha paradigmi etici per comprenderle. Tutto è indifferente ed omologato, la verità vale quanto una menzogna, non resta che ritirarsi dalla storia e compensare il senso di nullità quotidiana con l’onnipotenza dell’apparire che nasconde l’impotenza di sistema. L’Umanesimo comunitario in Preve ha lo scopo di trascendere il dualismo tra verità e storia. La derealizzazione aggira il travaglio del negativo, è la grande vittoria del modo di produzione capitalistico sull’umanità. Il capitalismo assoluto, in tal maniera, non si specchia nella sua verità, produce menzognej per potersi espandere senza limiti. L’inclusione nel mercato si realizza per mezzo della derealizzazione: i soggetti sono “educati” alla sola registrazione degli eventi storici. Lo sguardo registra l’accadimento, guarda ed osserva l’evento storico come una realtà su cui non ha potere alcuno. Il pregiudizio metafisico è uno dei mezzi con cui le Accademie e il circo mediatico favoriscono i processi di derealizzazione:
“Il reale è dunque razionale solo se la sua razionalità può svilupparsi attraverso l’esperienza storica. […] Hegel non è un sostenitore del giustificazionismo storico, ed ancora una volta non lo è perché difende la realtà razionale ed ontologica di un orizzonte trascendentale di tipo logico[3]”.
La derealizzazione favorisce l’irrazionale imperio della ragione strumentale, la quale è prassismo senza fondamento, è attivismo acquisitivo, nel quale il soggetto scambia il pragmatismo utilitarista come attività e partecipazione. In realtà il soggetto è passivizzato ed atomizzato, in quanto subisce le decisioni del mercato e della “politica” senza poter orientare il senso della propria esistenza. Vive in un mondo impersonale che accetta fatalmente, poiché “così è” e non può che adattarsi. Le filosofie scettiche e il pensiero debole promuovono con la “morte di dio”, ovvero della verità, l’obiectum, anziché il Gegenstand. Il soggetto e le comunità hanno dinanzi ad essi il mercato con le sue logiche e lo percepiscono come intrascendibile, pertanto lo si accetta come un dato naturale incontestabile ed eterno. La realtà storica non è posta dal soggetto comunitario, per cui l’io comunitario non può che attraversare la storia come una comparsa, ciò comunica a tutti i membri della comunità un senso di inutilità, il quale disorienta ed annichilisce. La cultura è l’anticorpo più vigoroso contro le forme tossiche di derealizzazione, la cultura come paideia, formazione globale, consente di sviluppare l’identità della persona con le sue potenzialità, e di affinare il senso critico, ovvero di pensare “il proprio tempo” per poterlo trasformare. La storia della cultura ci consente di individuare il paradigma per distinguere la cultura dall’ideologia. La prima è cultura dell’universale, i suoi fondamenti sono universali, poiché la formazione e la lettura olistica dei fenomeni culturali e storici, già forma ad una disposizione all’universale, in cui il pensiero ritorna su se stesso per individuare parzialità e rigidità e confrontarsi con esse. L’ideologia è la rappresentazione del reale falsata dall’illusione dell’universale, ovvero si scambia la parzialità per universale, sostenuta dall’assenza della capacità e della motivazione a tornare sulla rappresentazione per liberarla dalle trappole della falsa coscienza. L’ideologia vive di ipostasi, essa necrotizza il tempo storico, divide senza mai unire, mentre la cultura distingue il temporale dall’universale. La cultura è orientamento verso la verità, è trascendere l’immediato per astrarre dalla storicità l’universale in cui ciascuno può ritrovarsi, sentirsi nella propria casa, poiché l’universale è posto in modo corale.:
“Il termine di cultura, nel significato che intendo dargli, non significa solo “alta cultura”, la cultura scritta e visiva dei grandi scrittori e dei grandi pittori, e neppure cultura in senso antropologico come insieme dell’attività lavorativa, linguistica e simbolica dell’uomo, ma significa paideia, cioè educazione globale, non solo in senso scolastico, ma nel senso di accrescimento (e di autoaccrescimento) della coscienza umana che dura tutta la vita. La cultura è dunque un termine che connota sia l’individuo, sia i gruppi ristretti, sia l’intera società[4]”.
La formazione esclusivamente “specialistica” è già pratica di derealizzazione, in quanto la complessità del reale storico e dei saperi è atomizzato in parti non riconducibili all’unità. La separazione, isola e rinchiude in nuove torri d’avorio, il mondo storico si liquefa nell’iperspecializzazione, al suo posto vi è solo il disegno egemonico-specialistico che si esplica su rappresentazioni virtuali del reale che non sono più tali, è il robinsonismo dei saperi. La razionalità strumentale si sostituisce alla razionalità oggettiva. Si è solo gli esecutori del mercato globale, che si è autofondato escludendo ogni riferimento metafisico ed umano. Il mercato è la sostanza aurea a cui ci si inginocchia, poiché nella percezione generale non dipende dalle generazioni che si susseguono nella storia, non è stato posto dal soggetto comunitario, ma si è autofondato ed autofecondato. I sudditi globali sono i tristi spettatori di tale processo, così Preve argomenta a Luigi Tedesco, in un’intervista, sul tema dell’inutilità e dei processi di derealizzazione:
“(Preve) Sono veramente felice che tu abbia scelto come concetto principale di questa nostra conversazione (destinata probabilmente a chiudere il secondo volume della raccolta delle nostre conversazioni, che risalgono alla fine del 2003) il tema della “inutilità”, per meglio dire il tema della sensazione del crescente aumento dell’ “inutilità” in tutti gli ambiti della vita culturale, politica e sociale. Sulla base degli stimoli delle tue considerazioni svolgerò alcune autonome riflessioni. In primo luogo, utilizzando la concezione hegeliana del rovesciamento dialettico di una costellazione teorico-pratica nel suo contrario complementare, possiamo ipotizzare che l’inutilità sia il coronamento temporale dello sviluppo dell’utilitarismo individualistico, messo a punto per la prima volta da Smith e Hume nella seconda meta del Settecento scozzese-inglese. Ma come è possibile che l’inutilità sia il coronamento temporale dialettico del suo contrario, e cioè dell’utilitarismo? Nulla di più semplice, se si è abituati all’applicazione del pensiero dialettico. Il cuore dell’utilitarismo è l’autofondazione del meccanismo riproduttivo globale del mercato capitalistico su se stesso, togliendo di mezzo le tre fondazioni tradizionali della filosofia politica, l’esistenza di Dio (non importa se cattolica, protestante o ortodossa variamente secolarizzata e già da tempo privata di ogni promessa messianica), il contratto sociale (non importa se nella forma di “destra” di Hobbes, di “centro” di Locke o di “sinistra” di Rousseau (mi scuso con il lettore intelligente per avere usato queste improprie categorie, da lasciare a Bersani, Casini ed Alfano), ed infine il diritto naturale, concetto che rimanda pur sempre alla natura umana comunitaria associata come principio di legittimazione filosofica di ultima istanza. Con l’utilitarismo di Hume e di Smith, curiosa ed a suo modo geniale ed originale mescolanza di empirismo e di scetticismo, il mercato capitalistico si autofonda sulla propensione allo scambio ed alla mercificazione universale. A distanza di più di due secoli, siamo in grado ormai di fare un vero bilancio storico-filosofico serio, che presuppone probabilmente il raggio temporale minimo di duecento anni, possiamo dire che il principio dell’utilità generale si è rovesciato nella sensazione diffusa ed inquietante della inutilità generale. Siamo arrivati ad avere popoli inutili, generazioni inutili, e più in generale alla sensazione che non vale neppure più la pena argomentare, svelare, dimostrare, eccetera, perchè di fronte allo spread ed al “giudizio dei mercati” ogni discorso sensato appare inutile[5]”.
La derealizzazione, la fuga dalla storia, è favorita da una temporalità senza progettualità, il soggetto “intuisce” nel quotidiano di essere soltanto funzione di un meccanismo, che non ha scelto, e specialmente, può essere sostituito, in ogni tempo: l’utile si trasforma in una spada di Damocle che minaccia potenti e deboli, poiché rende ogni essere umano sostituibile in una perversa uguaglianza che entifica l’umanità.
Videor ergo sum Il linguaggio utilitarista, apparentemente concreto, in realtà è la dose di “quotidiano avvelenamento delle speranze”. L’utilitarismo insegna che il mercato può sostituire con enorme facilità qualsiasi soggetto. L’entificazione è assoluta, pertanto, ogni soggetto senza identità e verità è solo parte dell’automatismo dell’utile. Il linguaggio contribuisce attivamente alla derealizzazione, il codice orwelliano con cui il circo mediatico rappresenta la realtà è anch’esso uno dei mezzi mediante il quale la derealizzazione diviene “normalità alienante”. Le parole non corrispondono a nessun reale storico, sono solo un trucco retorico degli intellettuali asserviti (giornalisti, professori universitari) per giustificare dinanzi al pubblico lo spettacolo dell’osceno[6]. Gli intellettuali non sono dei creatori, ma il mezzo di legittimazione e diffusione capillare dei processi di derealizzazione. Le loro competenze linguistiche sono al servizio del “padrone”. Il linguaggio orwelliano è flatus vocis, pertanto le parole non sono che mezzi per il dominio, con cui indurre alla condizione di “plebe” che dissipa il proprio tempo in attività organizzate da un potere invisibile. Tutto è reso pubblico, ogni gesto, ogni parola, ma il potere resta celato ed irraggiungibile. Se la verità è solo una chimera metafisica non resta che adattarsi, in quanto la resistenza presuppone un’alternativa fondata sulla verità e sulla razionalità oggettiva. La verità nel circo mediatico è associata alla violenza del totalitarismo, per cui si “scoraggia” ogni riflessione su di essa, in quanto foriera di violenza fascista. Le violenze del capitalismo assoluto sono rimosse mediante il velo di Maya del linguaggio mediatico[7]. L’ossimoro (bombardamento etico, missioni di pace) e la reductio ad Hitlerum (Slobodan Milošević, Saddam Hussein, Mu’ammar Gheddafi) sono gli artifici retorici con cui strappare il consenso. Le controriforme che erodono i diritti sociali sono denominate “riforme”, e sono evocate in lingua inglese (jobs act). Il consenso è ottenuto con parole che seducono, ma al cui interno vi sono provvedimenti contro i popoli. L’offuscamento semantico con la neolingua ha lo scopo di mettere in atto un delicato e progressivo lavaggio del cervello con cui trasformare il cittadino in spettatore-consumatore. La neolingua santifica l’apparire, anziché l’essere. La cultura dell’apparire, il bisogno generalizzato indotto a ritagliarsi un cono di luce per sembrare, a qualsiasi costo, connota la società attuale come pornografica. Se il soggetto è perennemente alla ricerca dei riflettori, è sotto la lente di ingrandimento dei meccanismi della società dello spettacolo, non si appartiene, non ha il tempo qualitativo per pensarsi e riflettere sul mondo che, mentre lo espone in vetrina, lo annichilisce: gli sottrae il tempo del pensiero e specialmente la derealizzazione è orchestrata dai poteri pubblici e privati che stabiliscono le leggi dell’apparire. Si coltiva un’immagine pubblica decisa da altri. Nulla è sotto il controllo del soggetto che si trasforma in oggetto del sistema, e si rifugia in un’esistenza virtuale destinata ad essere perennemente sotto scacco. Il soggetto è perennemente pro-vocato, ovvero è “chiamato fuori”, deve essere sotto l’abbaglio della stimolazione, in modo che il pensiero rallenti la sua attività e non pensi la sua condizione storica, ma la subisce, in tal modo l’io è derealizzato, è disabitato dall’io pensante per essere ad immagine e somiglianza del mercato. L’io inseguito, catturato ed umiliato, non agisce, ma reagisce rifugiandosi in un mondo delirante che scambia per realtà. L’io si derealizza, in quanto è resecato da se stesso, dalle sue potenzialità creative e dalla comunità. L’in-dividuo[8] è l’effetto del taglio, dei processi di resecazione-alienazione, pertanto è scisso dalla storia, non resta che il competitore vuoto di se stesso, ma abitato da una realtà violenta e virtuale. Non a caso l’in-dividuo coincide con l’affermarsi del privato che persegue i soli interessi personali, e ciò è un’ulteriore resecazione dalla vita comunitaria. Al termine di tali dinamiche di resecazione non resta che un atomo che ha perso il contatto con la realtà storica, fino a non riconoscerla e a disinteressarsi di essa, il soggetto si ripiega sui soli interessi privati decretando con la solitudine la sua sconfitta. L’io si indebolisce, l’identità diviene liquida fino a disperdersi nelle maschere della società del videor ergo sum:
“Viviamo in un’epoca il cui fondamento non è più il cogito ergo sum di cartesiana memoria criticato da Husserl, ma è il videor, ergo sum. Il termine latino videor è particolarmente adatto a quanto intendiamo qui dire, perché significa sia “sono visto” al passivo, sia “sembro” come verbo intransitivo. Più esattamente “sono visto” (al video) e “sembro” (attraverso il video). Sembra che la visibilità sia la condizione minima di esistenza. Se non si è visti, non si esiste. Ma questa è un’illusione[9]”.
Il linguaggio, in questo contesto, è depotenziato delle sue possibilità creative e critiche, è stereotipato e ripetitivo, in quanto la derealizzazione desertifica il pensiero, e quindi il linguaggio è solo il riflesso del circo mediatico. Senza identità veritativa e comunitaria il linguaggio diviene “chiacchiera” senza fondamento, e qualora si debba far accettare dal pubblico “l’inaudito”, si usa un linguaggio addomesticato ed evirato della sua intensità concettuale. L’eufemismo è orchestrato dai media, a seconda delle circostanze si usano parole che possano “tranquillizzare” lo spettatore. É l’artificio linguistico con cui il sistema protegge se stesso, in modo che si possa far accettare anche l’impossibile allo spettatore-consumatore. il politicamente corretto è l’architrave di un sistema che produce menzogna, edulcora il logos, in modo da trasformare i popoli in armenti belanti disponibili alla democrazia procedurale. Senza logos, verità e linguaggio non vi può che essere la derealizzazione organizzata sul mito del piacere assoluto, della regressione e fuga da ogni condizione emotiva adulta. Coloro che denunciano lo stato presente sono rappresentati come nemici della gioia di vivere e dei diritti individuali. In questo clima di violenza verbale e fattuale si vuole eliminare la speranza, poiché quest’ultima presuppone un “soggetto forte” che pone il reale storico, per cui “sperare” è dimensione della trasformazione sociale indissolubilmente legata all’agire storico del soggetto che pone la storia e ne scorge tra le pieghe le potenzialità di cambiamento. La speranza è la dimensione dell’esodo dal presente. L’inutilità strutturata si palesa con forme compensatorie dell’io, dietro cui si nasconde la perdita della speranza. L’ipertrofia dell’io narcisistico palesa la derealizzazione indotta. È vietato vietare qualsiasi comportamento o scelta tranne lottare per una società diversa:
“Non ci sono più identità, ma fantocci televisivi intercambiabili che si pronunciano nei talk-show per individui del tutto passivizzati. In questa società in cui è vietato vietare qualsiasi cosa, e la sola cosa vietata è il battersi per una società diversa, la vecchia religione invasiva dei costumi familiari e sessuali dev’essere smantellata e delegittimata […][10]”.
Il soggetto può perdersi tra realtà virtuale e pulsionale, gli è concesso ogni appetito, l’importante è che non metta in discussione il presente e che non si occupi del suo futuro. Il tempo è puntiforme, non vi è temporalità progettuale e condivisa, cade così, la motivazione a capire la realtà storica, perché è religiosamente e dogmaticamente difesa dal politicamente corretto. Non resta che ritagliarsi spazi illusori di azione, in cui dimenticare la quotidiana passività con il giogo che diventa sempre più greve fino a schiacciare i sudditi. Il calcio, la rete, la pornografia sono forme di derealizzazione, il soggetto si ritira in fantasie, in sogni puerili di dominio e piacere assoluto, per non guardare con gli occhi della mente la sua riduzione a semplice “ente” tra gli “enti”. La corporeità vissuta nella distanza con la rete, deforma la percezione del proprio corpo vissuto, l’illimitato si consolida nelle aspettative, pertanto il soggetto non regge la relazione duale e comunitaria: l’astratto sostituisce il concreto. L’illusione di essere soggetto attivo è traslata nel nuovo “oppio dei popoli: il tifo, la pornografia, l’ossessione del viaggio e dello spostamento veicolare. I media deviano l’attenzione dei cittadini dai reali problemi sociali e storici con la chiacchiera, che nega il logos ed il linguaggio con forme stereotipate ed anonime di comunicazione. La derealizzazione diviene un dispositivo di controllo sociale, dinanzi al quale il cittadino-suddito ed il popolo-plebe sono senza difese:
“24. Inizierò con alcune osservazioni di superficie su alcuni fenomeni molto noti ma anche poco compresi come il tifo sportivo, la pornografia, la circolazione autoveicolare ipertrofica ed asfissiante, ed infine la televisione e la sua centralità comunicativa, o meglio escludente. Si tratta di quattro fenomeni ben noti, ma come dice giustamente Hegel, il noto in quanto noto non è ancora conosciuto. Per poter portare la comprensione di questi quattro fenomeni sociali al livello della conoscenza teorica occorre abbandonare ogni visione moralistica, snobistica ed elitaria di questi fenomeni, per comprendere che si tratta di quattro fenomeni di individualizzazione artificiale, e pertanto di socializzazione adattativa, del suddito-consumatore di questa nuova terza età del capitalismo. Il tifo sportivo è spesso visto con disprezzo dalle cosiddette “persone colte”. Vi sono anche persone di cultura, come lo scrittore inglese Tim Parks, tifoso degli “ultra” del Verona, che invece ne rivalutano gli aspetti ludici e comunitari. Io sono totalmente privo di snobismo, la gente comune non mi fa per niente schifo, e tendo dunque a prendere sul serio Tim Parks. Ma Tim Parks, ed i molti come lui, parlano anche di calcio, non solo di calcio. C’è una sottile differenza, che non dovrebbe sfuggire neppure a Parks. Quando lo spettacolo sportivo satura ogni comunicazione mediatica, le squadre vengono quotate in borsa, l’ossessiva chiacchiera calcistica ed automobilistica sostituisce nei bar il precedente “parlare di donne” (forse a causa di una diminuzione del desiderio dovuto all’inquinamento atmosferico), ecc., non siamo più di fronte ad un fenomeno sportivo, ma ad una sostituzione della virtualità alla precedente sportività stessa. È bene ribadire che non intendo affatto sostenere che i nuovi tifosi vengono “distratti” dai loro veri interessi sociali o dalla organizzazione della prossima rivoluzione proletaria. Questo modo inattendibile di vedere le cose era tipico dell’ideologia di sinistra, per cui già nell’antica Roma i giochi dei gladiatori e più in generale i circenses avevano il compito di distrarre le masse dalla lotta contro il modo di produzione schiavistico. In realtà, come ha a suo tempo chiarito lo storico francese Paul Veyne, i circenses non avevano lo scopo di “distrarre” le masse da una improbabile rivoluzione, che in forma cristiana avvenne poi comunque, ma di affermare simbolicamente il potere senatorio o imperiale, e poi esclusivamente imperiale. Del resto questo avviene anche oggi, da Agnelli a Berlusconi. Il discorso sportivo socializza in modo artificiale, contrapponendo agonisticamente tifosi socialmente del tutto omogenei, ed in questo modo individualizza in modo adattativo queste stesse persone che vengono teatralmente fatte scannare per Totti e Ronaldo. La pornografia è anch’essa un fenomeno per molti aspetti nuovo ed inedito, e sbaglia chi parla soltanto del mestiere più antico del mondo, o fa notare che l’eccitazione erotica per gli organi sessuali fa parte del corredo biologico della riproduzione umana..[11]”.
La derealizzazione ha lo scopo di strutturare un senso di “superfluità” diffuso. Se il soggetto “sente” che la sua esistenza è inutile, ciò gli comunica un senso profondo di superfluità: non gli resta che rifugiarsi nella realtà virtuale, la quale prende prepotentemente il posto della realtà storica. Il consenso è estorto mediante una rappresentazione parziale e falsata degli accadimenti storici, non a caso “i bombardamenti etici” sono preceduti da un’esposizione morbosa e dettagliata dei crimini del dittatore di turno per strappare il consenso al bombardamento. Il concreto è sostituito dall’immagine astratta, la razionalità critica con l’emozione che sarà presto archiviata. La normalità diviene patologia non riconosciuta, al punto che gli apparati istituzionali curano i sintomi del male per evitare di incidere sul sistema.
Intellettuali e necessità della verità metafisica La verità del capitalismo assoluto va resa “nota”, va tradotta in un linguaggio che rompe la continuità tra struttura e sovrastruttura. Gli intellettuali possono e devono defatalizzare la condizione presente riportando la parola al centro, parola di senso, parola progettante e politica. Il capitalismo assoluto può essere avviato al suo trascendimento con la teoria e la prassi, le quali necessitano di categorie di significato collettive senza la quali la passività dei popoli è il volto concreto della feticizzazione della storia. L’intellettuale è ad un bivio: può contribuire, affinché il sistema possa perpetuare se stesso o devertere dal suo esiziale cammino. L’intellettuale deve riportare la prassi mediante la teoretica del rovesciamento dell’in sé col per sé nelle condizioni storiche date, solo in tal modo il misticismo economico che ci minaccia e reifica può deviare dal cammino nichilistico, dal silenzio della parola e della politica mediando l’immediato con la ragione dialettica. Gli intellettuali devono vivere la doppia temporalità della critica al capitalismo nel presente con lo sguardo rivolto verso la passione per la verità che riconcilia le temporalità storiche in un nuovo ordine. Il ruolo degli intellettuali ed il loro destino sono indissolubilmente legati alla democrazia, nella fase attuale del capitalismo assoluto la palese decadenza degli intellettuali, ormai organici alla società dello spettacolo, coincide con la fase regressiva ed autoritaria della “democrazia della finanza”. La democrazia nel suo significato ideale è attività decisionale e consapevole dei popoli, è pensiero condiviso, attività creatrice e dialettica mediante la quale i popoli si riconoscono ed autoriconoscono nelle reciproche differenze rispettose dei comuni principi: comunità, giustizia sociale, consapevole limitazione dei processi crematistici, riconoscimento delle differenze all’interno di una cornice assiologica comune. La democrazia è misura e senso del limite senza i quali non è che la parodia di se stessa, dove vige la dismisura, la cattiva distribuzione delle ricchezze e dei poteri non vi è che la sudditanza della politica all’economia. È evidente che la democrazia dei nostri giorni agonizza sotto i colpi del liberismo, delle conseguenti mercificazioni e della derealizzazione. La fase imperiale del capitalismo nella sua furiosa volontà di potenza, conquista e vendita omologa le parole, le svuota del loro significato per renderle frecce uncinate per la perenne televendita. La decadenza delle parole, il loro essere organiche alla lingua del capitale è forse il risultato più alto che il capitalismo assoluto ha potuto ottenere. Il pensiero è costituito di parole, la loro funzionalizzazione alla sola vendita ha reso possibile l’attacco alle coscienze; la penetrazione violenta nella mente dei popoli è un’operazione imperiale nuova ed inaudita: i popoli senza lingua e linguaggi indotti a parlare la lingua unica del mercato, possibilmente l’inglese commerciale, vivono la profondità della loro crisi politica nella forma dell’attività-passiva, ovvero apparentemente si fa appello ai popoli ed ai singoli, li si spinge verso un attivismo perpetuo nel campo della produzione, dei desideri e del consumo, ma nel contempo si organizza la loro passività. L’attività perenne senza spazi temporali e fisici per poter dialettizzare il tempo immediato dell’economicismo favorisce la passività, si è presi all’interno di una spirale che invita alla ripetizione del medesimo senza sosta, senza possibilità di far emergere nell’incontro con sé e la comunità la parola che ridisegna l’ordito dei giorni. Il capitale ha reso le parole vuoti ronzii con l’effetto che ogni attività intellettuale legata alla parola è stata anestetizzata. Se il linguaggio è stato divorato dalla struttura economica, le nuove forme espressive e spettacolarizzate divenendo la normalità dello stato presente hanno reso la scissione tra intellettuale e popolo profondissima, la faglia sembra incolmabile, poiché si uccide la parola-pensiero sul nascere con l’effetto di un’assoluta estraneità tra intellettuali e popoli. La decadenza dell’intellettuale è espressione di questi processi in atto, non a caso è concesso all’intellettuale di presenziare nei dibattiti mediatici solo se le sue parole o anche le sue critiche fatalmente confermano il sistema. Vi sono intellettuali che incarnano la cultura dell’eccesso, del narcisismo logorroico fine a se stesso, ed intellettuali che in quanto “pessimisti tragici” descrivono l’apocalisse presente ed insegnano agli ignari ascoltatori che ogni speranza non è che illusione, mentre la prassi è solo un residuo di epoche storiche tramontate. Non resta che adeguarsi al mondo, inseguirlo per imitarlo ed avanzare celati dietro maschere di vuote parole “larvatus prodeo”. Essere spettatori è una condizione, ma non un destino, la condizione attuale non è senza uscita, solo con l’uscita dal ruolo di spettatore e del consumo è possibile ridare senso e consistenza qualitativa alle istituzioni che come gusci vuoti sopravvivono alla società dello spettacolo. Resistere significa donarsi, trasgredire il comandamento dell’utile, e testimoniare che la violenza (Gewalt) è un accidente storico e non la verità dell’essere umano. La quarta guerra mondiale in atto, è una nuova forma di totalitarismo, una nuova forma di violenza che fa convivere “bombardieri e menzogna palese”. Si tratta di svelare non solo la relazione tra i due elementi del binomio, ma specialmente di dimostrare che una simile realtà è “innaturale”, perché non corrisponde alla verità umana. Si instaura una società ideologica, che nega l’ideologia imperante, dichiarando la fine di tutte le ideologie per entrare nel regno irenico della pace a suon di cannonate e menzogne. Costanzo Preve lontano dal circo mediatico e dagli “eunuchi” del potere, ha riportato al centro la verità metafisica. Solo ripartendo dal sentiero interrotto della verità sarà possibile, non solo svelare la menzogna palese nella sua realtà, ma specialmente solo la fede argomentata e dialettica nella verità può riportare la comunità con i suoi individui al centro della storia, perché capaci di pensare la verità e di agire in nome della verità:
“La menzogna palese rappresenta a mio avviso un grado superiore, darwinianamente parlando, della precedente menzogna occulta. La menzogna occulta dava infatti luogo a strategie di smascheramento o di “demistificazione” (come si diceva negli anni Sessanta) e queste strategie nutrivano gruppi appositi di intellettuali che si qualificavano come smascheratori e demistificatori, secondo il modello di quelli che il filosofo francese Ricoeur aveva chiamati “maestri del sospetto” (Marx, Nietzsche, Freud). La menzogna palese svuota completamente questa funzione critica e si pone come strumento bellico diretto. La menzogna palese, lungi dall’essere “sciocca”, riflette, invece la dura realtà dei rapporti di forza[12]”.
La sola critica non è sufficiente, è necessaria la fondazione metafisica della verità. I rapporti di forza sono senza equilibrio, per cui i dominatori possono rappresentare come verità ciò che i deboli sanno essere menzogna. L’insostenibile causa la fuga nel virtuale come nella malattia mentale. La società attraversata da rapporti di forza insostenibili si disintegra nella derealizzazione: i sudditi nella loro impotenza “fingono di credere alle menzogne”, si ritraggono dall’ostilità nella storia stordendosi in mondi immaginari, in speranze illusorie, in forme di rimozione collettiva delle violenze subite. La nostra è un’epoca che necessita di testimonianza attiva per smentire gli imperativi del turbocapitalismo. I principi di ogni civiltà sono negati in nome della finanza: è l’anno zero della civiltà, è l’epoca della grande dispersione, dopo il diluvio della società dello spettacolo. Dinanzi al diluvio della storia si ha il dovere di attraversare il negativo per ritrovare il fondamento onto-assiologico senza il quale non vi è che il male di vivere. Costanzo Preve ha testimoniato la sua lotta contro i processi di derealizzazione con la sua testimonianza e la sua vita. Riappropriarsi del reale storico è possibile con la fondazione metafisica della verità, poiché essa motiva alla lotta ed induce a pensare: le rivoluzioni e le riforme sono possibili solo nella verità, l’alternativa è una lunga agonia a cui non ci si può opporre. Costanzo Preve ha avuto il coraggio di deviare dal nichilismo per la fondazione metafisica della verità senza la quale non vi è futuro, ma solo il lento consumarsi dei giorni. Per poter riconnettersi con la realtà storica e concettualizzarla è necessario “dire addio” alle appartenenze che sono forme sofisticate di derealizzazione. L’appartenere ad un gruppo, ad un partito, ad un movimento rischia di trasformarsi in difesa ideologica dell’appartenenza e dunque, in allontanamento dalla verità e dall’impegno etico.. Costanzo Preve non si considerava un intellettuale, poiché ne constatava la normale pratica di difesa delle lobby di appartenenza, pertanto è stato fedele al suo destino, è stato filosofo che ha pensato il reale storico senza asservimento derealizzante:
“Con tutti i miei difetti soggettivi, psicologici e caratteriali, e con tutte le mie insufficienze oggettive, scientifiche e filosofiche, rivendico però a mio onore l’avere capito fino in fondo che l’autoidentificazione illusoria e fantasmatica con il gruppo sociale degli “intellettuali”, impegnati e/o organici che siano, non poteva che svilupparsi dialetticamente verso la rovina e l’autodissoluzione, che sono comunque sotto i nostri occhi (Veltroni, Sarkozy, eccetera). Gli intellettuali sono una forma moderna e postmoderna di clero, sia pure un clero non tenuto al celibato ma anzi invitato alla libera scopata postfamiliare. Eretico o ortodosso, giornalistico o universitario, celibe o scopatore, un clero rimane clero. Non dico che un clero non sia talvolta necessario. A volte lo è. Ma oggi il problema non è quello di aggregarsi per produrre collettivamente (inesistenti) profili ideologici articolati e sistematizzati per uso politico, ma di differenziarsi dai greggi esistenti per tentare di avanzare ipotesi teoriche radicalmente nuove. Questo è impossibile se si intende compatibilizzare l’avanzamento di questa ipotesi con l’appartenenza a gruppi intellettuali oggi esistenti, il cui conservatorismo è tale da produrre automaticamente l’esclusione del reo. Termino allora qui questa modesta autocertificazione. Il signor Costanzo Preve è stato a lungo un “intellettuale”, sia pure di seconda fila e non di prima. Ma oggi non lo è più, e chiede di essere giudicato non più sulla base di illusorie appartenenze di gruppo, ma sulla base esclusiva delle sue acquisizioni teoriche. E di queste cominceremo finalmente a parlare[13]”.
Per trascendere i processi di derealizzazione necessitiamo di strumenti cognitivi per capire il presente, ma specialmente, necessitiamo non di una Filosofia da “Accademia”, in cui si dibatte sulla “definizione” della stessa, ma della testimonianza di una vita filosofica che mostra e dimostra la possibilità di vivere pienamente la propria umanità nella verità. La testimonianza di Costanzo Preve dev’essere associata a Massimo Bontempelli con cui ha collaborato e che nel testo “Filosofia e Realtà” ha attraversato “il negativo” del sentiero della notte (derealizzazione), mediante la logica hegeliana:
“D’altra parte, per concepire un’uscita dal sentiero della notte, ovvero per individuare un varco nell’attuale orizzonte storico nichilistico, è assolutamente indispensabile identificare la storia che ha materializzato quel sentiero, che ha chiuso il nostro orizzonte. Senza andare con il pensiero a questa radice, infatti, non è possibile capire quali settori ed ambiti dell’attuale esperienza umana ne siano i germogli, e siano intrinsecamente ontooccultanti. Ma se non si capiscono le zone ormai ontooccultanti dell’esperienza, non si può neanche capire attraverso quali esperienze sia oggi possibile manifestare la realtà, e costruire quindi un cammino di uscita dalla derealizzazione umana del sentiero della notte[14]”.
La derealizzazione conduce, secondo l’efficace espressione di Massimo Bontempelli “all’intercosalità”. Se il logos non comprende il proprio tempo, se i soggetti sono reificati non resta che un mondo senza umanità, in cui l’unico legame è lo scambio di “merci”, fino al punto di non riconoscersi ed autoriconoscersi come persone, ma come “merci” da esporre nel mercato delle transazioni. L’intercosalità è il punto apicale dell’alienazione, in cui non si riconosce più la propria umanità.
Ricostruzione genetica, fondazione veritativa, prassi sociale e testimonianza vissuta sono il quadrifarmaco contro il sentiero della notte. L’essere umano è un essere pensante, per cui tutti siamo chiamati a dare nel rispetto delle differenze il nostro contributo testimoniale contro il sonno della razionalità oggettiva e l’incubo della sola razionalità strumentale.
Salvatore Bravo
[1] Costanzo Preve, Una nuova storia alternativa della filosofia, Petite Plaisance, Pistoia, 2013, 18.
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“Se esiste chi ti dà la libertà, quella non è libertà. Perché sia libertà, nessuno te la può dare: devi prenderla tu, tu solo!“
José Dolores (Evaristo Marquez, nel film di Gillo Pontecorvo, «Queimada» [1969])
Si può ascoltare l’intero dialogo nelle sequenze del film Queimada, che mostrano la cattura del combattente rivoluzionario José Dolores da parte dell’imperialismo inglese impersonato da William Walker (Marlon Brando), cliccando qui:
L’integralismo aziendale ha il volto del diversity management. Vera libertà è emancipazione dall’utile iscritto nel recinto dell’aziendalizzazione, è autonomia nella comunità liberata dai postulati del plusvalore
Diversity Management Il dispositivo di inclusione agisce ad ogni livello. Proliferano figure professionali che operano capillarmente nella pancia del sistema. Il controllo è mascherato con la menzogna conosciuta. Si invoca l’inclusione, si applaude all’assimilazione per neutralizzare la possibilità di percorsi alternativi. L’inclusione riporta ogni gruppo umano all’interno del sistema per normalizzarlo ed evirarlo del potenziale rivoluzionario ed emancipativo. Si invoca la democrazia, in realtà si organizzano pratiche di gerarchizzazione verticistica. Il diversity management (gestore delle differenze) è la nuova figura professionale addetta all’inclusione; le aziende private possono usufruire del manager delle differenze al fine di aumentare la produttività. Il gestore delle differenze nelle aziende ha il compito di favorire l’integrazione: è il manager-tutor, la cui presenza denuncia un pregiudizio atavico, ovvero i diversi non hanno capacità decisionali e relazionali autonome, ma – da figli di un dio minore – devono essere accompagnati nell’integrazione aziendale. Il manager deve agire allo scopo di includere per curvare la creatività dei diversi verso la produzione. I “creativi-diversi” devono avere nel manager un punto di riferimento che interviene per evitare conflitti e contradizioni che possano minacciare la capacità competitiva dell’azienda. Il fine è la governance dell’azienda, la produzione rallenta qualora vi siano ostilità striscianti e non. Invece, puntando sulla valorizzazione inclusiva, si incentiva la capacità di competere dell’azienda e il suo successo sul mercato. I diversi sono “notoriamente dei creativi”: anche questo è un pregiudizio, non li si riconosce come “persone”, ma come “creature speciali e divergenti” da usare all’occorenza. La frontiera dello sfruttamento ha trovato una nuova miniera da cui attingere risorse a basso costo. Soggetti fragili e disponibili alla gratitudine verso coloro che “li accettano e accolgono” facilmente si lasciano usare dal sistema, in quanto non discernono nell’abbaglio di una normalità agognata e mai conosciuta l’uso strumentale che, ancora una volta, si fa di essi. La trappola è palese: usare le differenze per farne la pattuglia di difesa dell’azienda, e spingere l’incluso a dipendere dalla famiglia-azienda fino a richiedere che lavori creativamente, spontaneamente e volontariamente al massimo delle sue possibilità. Il dispositivo di inclusione sterilizza la prospettiva critica di coloro che spinti ai margini con maggiore chiarezza possono elaborare percorsi emancipativi di uscita dal sistema.
Collaborazione produttiva La relazione comunitaria nella quale i soggetti si confrontano e affrontano per creare il mondo con il logos e con la potenza della parola è sostituita con collaborazione produttiva. Le differenze si trascendono nel comune obiettivo della squadra aziendale: vincere e competere. Sono private della forza plastica creativa per essere orientate verso l’utile. L’inclusione diviene un meccanismo di depauperamento della dialettica dell’esodo dal sistema. Al suo posto vige l’azienda con il diversity management che omogeneizza i comportamenti e gli obiettivi. In tal modo elimina le differenze, le rende secondarie: alla fine della rieducazione i lavoratori sono posti sulla stessa linea di intenzioni e valori. Alla conclusione del percorso non deve restare che l’asservimento al mercato. Le donne, le persone omosessuali, i disabili sono, ancora una volta, umiliati e offesi perché usati dal sistema che ne negava le identità, e che ora, con una torsione ideologica, li utilizza come alfieri nella difesa del mercato che li accoglie, ma chiede loro di rinunciare alle loro identità, di assottigliarle fino a farle vaporare. Le differenze divengono flatus vocis, propaganda neoliberale alla ricerca di consensi e di servi fedeli dinanzi alle sempre più palesi contraddizioni del sistema capitale. Sono oggetto di una gestione psicologica e burocratica, e in tale gestione dall’alto l’autonomia è ceduta all’azienda che con il suo apparato stabilisce strategie, linguaggi e tattiche mediante le quali trasformare i creativi in un’occasione di espansione e consolidamento nel mercato. La valorizzazione delle competenze e delle abilità porta al potenziamento dell’organizzazione, la quale gradualmente diventa un corpo unico in posizione d’attacco. Il diversity management deve valorizzare (e agire su) una serie di differenze classificate in diversità primarie e secondarie, le prime sono:
cultural diversity
gender diversity
ageing diversity
disability diversity
Anche le diversità secondarie devono essere valorizzate: il background educativo, l’età, l’esperienza lavorativa, la situazione famigliare. La diversità secondaria è acquisita con l’esperienza esistenziale. Il diversity management è in realtà un supervisore che deve trasformare ogni potenzialità in investimento che produce plusvalore per l’azienda.
Integralismo aziendale L’integralismo aziendale ha il volto del diversity management il quale ha il compito di sfruttare tutte le componenti dell’azienda e di rappresentare la strategia come “inclusiva” e “positiva”. Deve pubblicizzare la politica di accoglienza aziendale in modo da ottenere consenso sul mercato e vendere il prodotto inclusione come qualsiasi merce, lo scopo è aumentare la produttività del 20 % o 30%. Le persone dal sistema azienda non sono valutate per il loro valore irrepetibile, ma per il successo lavorativo, pertanto possiamo facilmente dedurre che nel caso i creativi non producano secondo le aspettative saranno ricondotti alla loro marginalità. Le aziende, inoltre, con l’inclusione manipolano l’opinione pubblica, si autorappresentano come i trombettieri delle differenze con il sostegno dei media che creano un frame della libertà e dell’inclusione finalizzato a consolidare il neoliberismo e a rimuovere le critiche e le verità che mettono in dubbio la gabbia d’acciaio dell’aziendalismo. Le aziende – per acquisire consensi sul mercato – pubblicizzano l’integrazione, che diviene pubblicità a buon mercato. La precarietà, i morti sul lavoro, l’ineguaglianza sociale e i diritti sociali sono rimossi dall’orizzonte cognitivo della collettività che si limita a ripetere le formule verbali del sistema. L’azienda si fa artefice del rispetto verso i diversi e nel contempo è complice dello sfruttamento delle nazioni in perenne sviluppo economico costretti all’emigrazione. Gli emigrati rientrano nell’operazione di inclusione del diversity management, per cui il mercato neoliberale costruisce una cornice positiva di se stesso da vendere e ciò gli consente di sfruttare e saccheggiare le nazioni che accettano gli investimenti e di precarizzare in patria ogni componente lavorativa. Le differenze sono in questo contesto “risorse umane”, materia prima da convertire in artiglieria nella competizione per l’assalto al mercato. Le diversità vengono annichilite nel loro valore identitario per essere addomesticate nel sistema della produzione e del consumo infinito. Il capitalismo vincerà sempre sin quando il frame di sistema non sarà oggetto di critica e prassi. Per rompere la cornice della propaganda sono indispensabili le domande e la problematizzazione delle parole. Il diversity management è il gestore delle differenze e ciò presuppone un concetto di normalità quale paradigma con cui valutare e definire le alterità; in questo caso la normalità è la forma mentis aziendale, per cui si mette in atto un nuovo tipo di internamento celato da inclusione. Le forme dell’internamento variano nel tempo, ma hanno sempre il compito di dominare per consolidare il presente. Le differenze producono saperi divergenti che vengono assoggettati e normalizzati con l’inclusione. Il dispositivo di normalizzazione mette in atto nuove strategie di internamento difficili da riconoscere, agisce sul linguaggio in modo che le parole non corrispondono all’azione. È necessario che tra le parole e l’esperienza vi sia l’attività di mediazione del logos con il quale smascherare l’inganno del politicamente corretto. Il primo gesto-parola di un resistente è riaprire la catena dei perché con la quale riportare le parole nella concretezza materiale dei processi produttivi e di dominio:
“Bisogna dunque riprovare a riaprire la catena dei perché. Questa volta, però, bisogna riaprire questa catena con un altro approccio e con altri destinatari. L’approccio dev’essere molto più radicale, e i destinatari non possono più essere i cosiddetti “militanti”, il “popolo di sinistra”, eccetera. I destinatari sono tutti coloro che vogliono riflettere e comprendere, del tutto indipendentemente da come si collocano (o non si collocano) topologicamente nel teatrino politico. Per chi scrive l’appartenenza è nulla, e la comprensione tutto. Cerchiamo allora di riaprire la catena dei perché partendo da un anello della catena che ci permetta di stringere con sicurezza qualcosa di solido[1]”.
Il primo “perché” da riattivare è il domandarsi il motivo per il quale “i diversi” e “i normali” non possono liberamente ed autonomamente riconfigurare le loro relazioni, ma devono subire la gestione di una figura esterna che deve stabilire i confini e le finalità dell’integrazione. Il potere nella forma dl dominio deve neutralizzare ogni spazio di libertà per riportarlo all’interno della cornice della produttività. L’autonomia può disegnare scenari alternativi, e specialmente, può svelare che “i normali” come “i diversi” sono nel giogo del potere, e quindi per rompere potenziali solidarietà si interviene con figure professionali che posseggono le parole, sono i padroni di saperi aziendali con cui tacitare ogni processo comunitario di consapevolezza. Il secondo “perché” è l’uso della lingua inglese per indicare la professione di “gestore delle differenze”. La lingua non è uno strumento neutro, e l’uso della lingua anglosassone è un atto di vassallaggio verso il capitalismo americano, un atto di sudditanza e di resa senza condizioni che non ha eguali nella storia. La catena dei “perché” potrebbe proseguire assieme alle contraddizioni di un sistema “sensibile verso i diversi”, ma che ha abbassato il livello di sicurezza nell’attività lavorativa in modo speculare alle retribuzioni: la morte sul lavoro è entrata tra le banalità del quotidiano. Si svela con il diversity management la verità che si nasconde dietro il palcoscenico della “sensibilità” verso le differenze: una realtà razzista, classista e cinica che usa ogni mezzo per produrre plusvalore. La gestione delle differenze non è inclusione, ma funzionalizzazione delle stesse, una nuova forma di razzismo, in cui se non si produce secondo gli obbiettivi della dirigenza si è fuori del sistema, e ciò riguarda tutti. In assenza di dialettica ogni “inserimento” è incorporamento coatto imbellettato da lotta contro le disuguaglianze e le discriminazioni.
La libertà è l’emancipazione dall’utile iscritto nel recinto dell’aziendalizzazione, è autonomia identitaria nella comunità liberata dai postulati del plusvalore. Bisogna alzare gli scudi del concetto e della prassi contro i processi di normalizzazione in atto.
Salvatore Bravo
[1] Costanzo Preve, Marx e Nietzsche, Petite Plaisance Pistoia, 2004, pag. 6.
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:
La teoretica di E. Severino rimane in una condizione di indeterminatezza che rende la sua metafisica avulsa da ogni dinamico radicamento storico. Non resta che filtrare dal pensatore de La Struttura originaria gli elementi di inquietudine concettuale che possono esserci di ausilio per decodificare il presente
Severino nel regno dell’impotenza La metafisica di Emanuele Severino[1] è stata spesso tacciata di essere astratta ed avulsa dal contesto storico. La curvatura analitica della filosofia degli ultimi decenni impedisce, in realtà, di coglierne lo spessore critico implicito verso la fase avanzata del capitalismo. Emanuele Severino ha problematizzato la volontà di potenza del capitalismo assoluto, ne ha analizzato il fondamento che ne spiega gli automatismi sociali, psicologici ed economici. La hýbris è la verità tragica e terribile dell’onnipotenza della tecnica alleata del capitale. Il capitalismo assoluto è mosso dalla volontà di potenza e di annientamento della vita, in quanto ha assunto “il divenire” nelle sue forme polisemantiche quale dogma indiscutibile. Il divenire palesa la fragilità dell’essere umano esposto alla morte ed al pericolo della nullificazione. La paura di essere “niente”, di venire dal nulla e di ritornarne al nulla comporta il potenziamento della tecnica con la quale si cerca di neutralizzare il pericolo. In tale contesto il fine arretra fino a scomparire per lasciare il posto all’idolatria della tecnica e dei mezzi. Volontà, tecnica e capitalismo sono un corpo unico che si autoalimentano; la volontà di potenza è tecnica che diviene accumulo di capitale e vuole solo se stessa in un crescendo antisociale segnato dal tremendum. La società della paura partorisce mostri. Pertanto lo strumentalismo tecnico è la risposta all’ontologica paura che accompagna la vita umana. La paura in un crescendo senza limiti si trasforma in terrore. La tecnica con il suo potere è la risposta all’accelerazione della storia che liquida il passato senza prospettare il futuro. Si resta, in tal maniera, in un presente sospeso e, dunque, ci si consegna alla tecnica che assume una prospettiva soteriologica. Il regno dell’impotenza rafforza l’uso e l’abuso della tecnica in una spirale muscolare che cela l’impotenza dinanzi al divenire. La grande paura del divenire è da smascherare come “semplice apparenza destinale”, nel cui abbaglio si consolida la spirale di violenza, la filosofia ha il compito di liberare dalla paura, di rispecchiare il disvelamento destinale dell’essere negli essenti:
“Evitare che il fine ostacoli e indebolisca il mezzo significa assumere il mezzo come scopo primario, cioè subordinare ad esso ciò che inizialmente ci si proponeva come scopo. Le grandi forze della tradizione occidentale si illudono dunque di servirsi della tecnica per realizzare i loro scopi: la potenza della tecnica è diventata in effetti, o ha già incominciato a diventare, il loro scopo fondamentale e primario. E tale potenza – che è lo scopo che la tecnica possiede per se stessa, indipendentemente da quelli che le si vorrebbero far assumere dall’esterno – non è qualcosa di statico, ma è indefinito potenziamento, incremento indefinito della capacita di realizzare scopi. Questo infinito incremento è ormai, o ha già incominciato ad essere, il supremo scopo planetario[2]”.
Divenire e principio di non contraddizione La filosofia di Severino è, dunque, la risposta alla grande paura mediante la metafisica dell’essere. Per neutralizzare il “male” nei suoi fondamenti pone in discussione il principio su cui si fonda il divenire: il principio di contraddizione. Esso si nega nel suo porsi, poiché implica e giustifica l’assurda opposizione tra essere e nulla su cui si fonda il divenire. Il principio di non contraddizione, invece, deve indicare l’opposizione della parte con il tutto, o l’opposizione tra gli essenti nel loro apparire. Il divenire dev’essere sostituito con l’apparire e lo scomparire degli essenti, questi ultimi sono eterni: ogni attimo, ogni gesto è eterno, poiché ciò che c’è non può diventare nulla, in quanto è iscritto nell’essere degli essenti la loro eternità. L’iperparmenideo Severino dimostra che l’essente non può diventare nulla, perché è. Se ogni ente è già nell’essere, non può tornare nel nulla. L’essente appare e scompare dall’orizzonte di visibilità della coscienza, ma prima e dopo il suo apparire non era nulla, bensì semplicemente era in un altro apparire. Il concetto di essere ha nel suo grembo, quindi, la negazione del nulla: logicamente ed ontologicamente ciò che è non può che essere eterno (gli eterni):
“L’aporia dell’essere del nulla è risolta col rilevare che il principio di non contraddizione non afferma la non esistenza del significato autocontraddittorio [ossia la contraddizione in cui consiste il significato nulla] ma afferma che «nulla» non significa «essere» […]. Il non essere, che nella formulazione del principio di non contraddizione compare come negazione dell’essere, è appunto il non essere che vale come momento del non essere, inteso come significato autocontraddittorio. [Dunque], certamente il nulla è; ma non nel senso che «nulla» significhi «essere»: in questo senso, il nulla non è, e l’essere è – ed è questo non essere del nulla ed essere dell’essere, che viene affermato dal principio di non contraddizione[3]”.
Il principio di non contraddizione in Aristotele è l’espressione più vera del destino dell’Occidente planetario: è il regno del “niente” e del “nichilismo”, poiché il divenire con il terrore che esso comporta ha colonizzato l’intero pianeta. La tecnica da salvezza utopica è diventata distopia distruttrice che annichilisce e nientifica. Ciò che avrebbe dovuto scongiurare è di conseguenza pienamente realizzato. La globalizzazione della tecnica alleata con l’economicismo ha moltiplicato il terrore con i suoi effetti, la sopravvivenza del pianeta è minacciata, per cui la cura si è mostrata peggiore del male che avrebbe dovuto curare:
“L’Occidente è la civiltà che cresce all’interno dell’orizzonte aperto dal senso che il pensiero greco assegna l’essere-cosa delle cose. Questo senso unifica progressivamente, e ormai interamente la molteplicità sterminata degli eventi che chiamiamo «storia dell’Occidente», e domina ormai su tutta la terra: l’intera storia dell’Oriente è così diventata anch’essa preistoria dell’Occidente. Da tempo i miei scritti indicano il senso occidentale – e ormai planetario – della cosa: la cosa (una cosa, ogni cosa) è, in quanto cosa, niente; il non-niente (un, ogni non-niente) è, in quanto non-niente, niente. La persuasione che l’ente sia niente è il nichilismo. In tal senso abissalmente diverso da quello d Nietzsche e Heidegger, il nichilismo è l’essenza dell’Occidente[4]”.
La paura è il sentimento analizzato da Heidegger in Essere e tempo, in Severino come in Heidegger la paura (Furcht) e l’angoscia (Angst) divengono condizione ontologica ed esistenziale, sono astratti dalla condizione materiale storica con l’effetto di non essere spiegati nella loro genealogia immanente legata ai processi produttivi.
Limiti della metafisica in Severino Severino indica il problema, ma non lo traduce in conflittualità sociale. Addita nella tecnica, similmente ad Heidegger, un destino da trascendere mediante la ridefinizione ineluttabile dei fondamenti della civiltà. L’essere umano è il custode del destino della metafisica, ma si limita a rispecchiare l’apparire dell’essere, a costatare il destinale apparire degli essenti, anziché la propria e la loro nullificazione. Il fondamento veritativo (l’essere degli essenti) è sfuggente ed indefinibile, in quanto Severino esclude che sia Dio, ma non lo configura in senso positivo. Il presunto fondamento si presta ad un prospettivismo interpretativo che ripropone il nulla in modo altro. I grandi passaggi della storia sono segnati dallo svelarsi dell’essere, l’esser umano deve solo “rispecchiare” l’accadere
“Gli eventi improvvisi non hanno radici e quindi scompaiono altrettanto rapidamente di come sono venuti. Ma gli eventi improvvisi, proprio perché tali, sono i più percepibili. Di essi chiunque può dire, e a buon diritto, che “assiste” alla loro comparsa e alla loro scomparsa. I grandi eventi, preparati da lungo tempo e non improvvisi, sono quindi i meno percepibili. Gli spettatori che assistono al loro farsi avanti sono quindi molto pochi. Chi direbbe, guardando il sole nelle prime ore del pomeriggio, che il suo declino ver.so occidente e già incominciato? Ben pochi. ma senz’altro l’astronomo. Lui sì sta “assistendo” all’inizio del tramonto. L’astronomo parla così in relazione auna certa struttura concettuale notevolmente complessa. Anche nel mio libro, a sua volta, si parla di declino del capitalismo in relazione a una certa struttura concettuale notevolmente complessa (che però ed era prevedibile – nulla ha a che vedere con il pensiero di Marx)[5]”.
La metafora astronomica utilizzata da Emanuele Severino non è casuale, ma svela la passività con cui l’essere umano deve attendere ed adeguarsi alla manifestazione dell’essere. L’emancipazione è privata del fondamento umano e storico e proiettata nel destino dell’essere che diviene il vero protagonista della storia. L’essere coniuga essenza ed esistenza nella totalità degli essenti, è nella storia e ne determina gli eventi. La libertà è sostituita da una rassicurante necessità. Si opera una scissione tra teoria e prassi con esiti che favoriscono il consolidamento dell’economicismo scientista. Il pericolo dell’astratto è insito nel rifiuto di analizzare le responsabilità politiche, sociali e materiali della condizione attuale. La filosofia di Severino è per tutti e per nessuno, non vi è un soggetto materiale e concreto a cui si rivolge, pertanto la prassi è sostituita dal destino. Il capitalismo cadrà a causa del potenziamento automatico della potenza tecnica, la quale dissolverà la scarsità che spinge alla produzione. Le macchine, nel loro vorticoso affinamento tecnico, produrranno un’infinita quantità di merci che risolveranno la scarsità. Le responsabilità umane si obliano dietro le ferree leggi sovraumane, si proietta nell’alto dei cieli il positivismo tecnocratico che si critica in terra: il determinismo regna sovrano. Non sono indicati i soggetti che dovrebbero operare per trasformare il divenire in apparire. Pertanto ricade in una forma di impotenza teoretica senza prassi e progetto. Il logos in Severino deve appurare l’apparire e lo scomparire degli essenti. Cade la sua funzione principale, ovvero la capacità di misurare e di porre fini oggettivi. L’emancipazione consiste nel liberarsi del Dio tradizionale che stabilisce l’essere e il nulla degli essenti, mentre per Severino tutti gli esenti sono eterni, non vi è un essente privilegiato in cui essenza ed esistenza coincidono:
“Ogni ente è eterno. Quindi è eterno anche quell’ente che è lo stesso accadere dell’ente […]. L’ente che accade […] e il suo accadimento è un eterno; quindi è necessario che l’ente accada. Nemmeno la sintesi tra l’ente che accade e il suo accadere può non essere (ossia esser niente)[6]”.
Si potrebbe intravedere nell’eternità di tutti gli essenti un principio di uguaglianza da tradurre in equa distribuzione dei beni materiali ed immateriali e superamento delle logiche padronali con il ritrarsi del Dio signore e padrone, ma Severino non conduce il suo sistema metafisico verso la prassi. La filosofia e la politica, la teoria e la prassi sono rescisse, si ricade nella filosofia dell’impotenza, in un “nichilismo onto-metafisico”.
Filosofia e prassi Riportare la Filosofia alla sua verità significa sottrarsi alla frammentazione specialistica per ridisporsi verso la verità:
“la filosofia da città è diventata radura, e le vie che la collegano alle circostanti regioni sono ormai autostrade[7]”.
La filosofia, prima che si disperdesse in innumerevoli specializzazioni, era attività politica. Non è un caso che nel testo riportato Severino la paragoni ad una città; essa ha avuto origine nella polis, dove la parola dialogante fondava la politica sull’universale condiviso, sulla verità che, in tal modo, fondava la politica comunitaria in un orizzonte di senso mediante il “katà métron”. Severino rifiuta la tradizione metafisica greca e cristiana, in quanto si fondano sul principio di non contraddizione e nel divenire, e di fatto recide il legame con la tradizione filosofica. La teoretica di Severino resta in una condizione di indeterminatezza che rende la sua metafisica avulsa da ogni dinamico radicamento storico e dunque rischia un asfittico isolamento intellettuale indebolendone, come rileva Luca Grecchi, il piano ontologico:
“L’assenza di una precisa statuizione del fondamento ha condotto anche il pensiero di Severino ad una certa indeterminatezza, nonché all’assenza di un conseguente piano assiologico. Il nostro autore ha infatti dichiarato false tutte le strutture morali derivate dalla grande metafisica greca e cristiana, poiché la stessa metafisica è da lui considerata falsa, «identificando l’essere al niente». Il piano assiologico – umanistico e pertanto non vero – è dunque escluso dall’analisi di Severino[8].
Non resta che filtrare dal pensatore de LaStruttura originaria (1958) gli elementi di inquietudine concettuale che possono esserci di ausilio per decodificare il presente. Severino ripone al centro la totalità e l’arte di porre domande profonde senza le quali non vi è futuro e non vi è passato, per cui le domande che si levano devono essere accolte. E, come avviene nella storia della filosofia, ci invitano ad altre risposte e soluzioni. Ma senza l’incipit della domanda nulla può iniziare. I percorsi per uscire dal “sentiero della notte” sono plurali. Per poter avviare l’esodo nessuna domanda e nessun ipotetico percorso dev’essere respinto, ma vagliato con il logos, ogni respingimento preconcetto ci riporta nel “sentiero della notte”.
Salvatore Bravo
[1] Emanuele Severino (Brescia, 26 febbraio 1929 – Brescia, 17 gennaio 2020).
[2] Emanuele Severino, Il destino della tecnica, Rizzoli, Milano 2009, pp. 8-9.
[3] Severino, La struttura originaria, Adelphi, Milano 1981, p. 215.
[4] Emanuele Severino, ἀλήθεια in Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, p. 415.
[5] Antonio Sabatucci, Emanuele Severino: la morte del capitalismo, p. 16
[6] Emanuele Severino, Destino della necessità, Adelphi, Milano 1980, p. 97.
[7] Emanuele Severino, La filosofia contemporanea, Milano 1986, p. 5.
[8] Luca Grecchi, Nel pensiero di Emanuele Severino, Petite Plaisance, Pistoia 2005, p. 88
Luca Grecchi, Nel pensiero filosofico di Emanuele Severino.
ISBN 978-88-7588-092-7, 2005, pp. 176, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [4]. In copertina: Auguste Rodin, La Pensée. 1886, marmo, h. cm. 74. Musée d’Orsay.
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:
Illuminismo meridionale, plebe ed emancipazione, limite e democrazia nella Costituzione del 1799
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Illuminismo meridionale L’Illuminismo meridionale non è presente nei manuali di storia della filosofia, nelle accademie le ricerche sull’Illuminismo si limitano, in genere, gli studi agli autori noti. Gli autori meridionali compaiono solo in casi eccezionali ed all’interno di circoli accademici di nicchia. Il loro oblio ci racconta della sconfitta della la Repubblica del 1799 e della vittoria piemontese sull’Italia meridionale. Per dominare un popolo è necessario privarlo della sua memoria storica e della sua identità, non è necessario eliminarlo biologicamente. Ma la modernità e la contemporaneità hanno sviluppato innumerevoli dispositivi di sterminio. La scomparsa di una tradizione culturale trasforma i popoli in plebe, in massa informe che attende dal dominatore una nuova anima che funge da falsa identità. Il dominatore “trasmette”, in modo unidirezionale, la sua storia, rade al suolo la storia degli sconfitti e si assicura la loro perpetua sudditanza. Le parole del popolo divengono le parole dei vincitori, gli autori con cui si “pensa e progetta” la storia sono le parole dei colonizzatori. Per i popoli meridionali così è stato. Ai piemontesi ora si sostituisce il dominio anglosassone. Pertanto la lingua ed i valori appartengono ad altri, sono imitate le parole come i comportamenti, mentre i luoghi della memoria divengono mercati per i nuovi potentati. I domini si stratificano ed affondano la memoria. I popoli divengono plebe sviluppando una percezione distorta ed aggressiva di sé. Il vuoto intuito e la violenza perenne dei dominatori si trasformano in identità posticce ed esteriori: il nulla identitario è sostituito con l’eccesso e l’aspirazione collettiva alla privatizzazione di ogni gesto ed allo smantellamento del senso pubblico, fino a sottrarsi ad ogni vincolo etico e comunitario. Nel caos dell’illimitatezza i popoli divengono masse tracotanti che compensano l’incapacità di tracciare il proprio destino con la disarmonia etica ed estetica: dal tessuto urbano all’abbigliamento vi è una struttura comune, ovvero l’occupazione aggressiva di ogni spazio al fine di marcare una presenza per occultare la sconfitta politica con l’esteriorità aggressiva. Le parole sono dette con l’angloitaliano che annichilisce non solo i dialetti, ma anche la lingua italiana. Il dispositivo di dominio ha lo scopo palese di trasformare i popoli in plebi precarie, e tale azione diviene più semplice con i popoli che hanno già subito violenze e mutilazioni identitarie.
Plebe ed emancipazione La plebe non solo non è un soggetto politico, ma specialmente non ha valori linguistici e religiosi di cui si sente parte. È una massa esposta alle tragedie della storia, e si adatta. Ma, mentre si abbandona al nuovo dominatore a cui chiede identità e storia, diviene servile come i “lazzari napoletani”. La plebe non ha concetto, ma spera nell’obolo del nuovo vincitore. L’Italia meridionale è oggi l’espressione compiuta della condizione plebea, è l’archetipo dei popoli privati della loro anima collettiva e sostituita con i miti e gli incanti anglosassoni: i dialetti arretrano, la religione è in abbandono, la politica è sfregiata del suo senso dai nuovi sceriffi della legge, dall’invocazione impotente agli uomini forti che devono guidare il gregge verso un futuro che non c’è, ma si connota come l’ennesimo saccheggio delle risorse materiali e spirituali. Ricordare l’Illuminismo meridionale significa riannodare i fili di una memoria spezzata da altri, perché il dominio si configura con la violenza della frantumazione dello spazio e del tempo. Nell’Illuminismo meridionale la differenza tra popolo e plebe non è soltanto delineata, ma specialmente si pone il problema di come trasformare le plebi in popoli. Eleonora Pimental de Fonseca[1] si impegnò nel coinvolgere la popolazione nella politica con il Monitore, il cui motto era “Far diventare la plebe popolo”. Francesco Mario Pagano[2] scrive i Saggi politici (1783 1785) e stese la Costituzione del 1799, mentre Gaetano Filangieri[3] delinea il concetto di felicità individuale mai scisso dal destino della comunità. Il popolo diventa plebe nella passività e specialmente nella rinuncia alla ricerca della felicità personale la quale è servizio alla comunità: la felicità di ordine acquisitivo è plebea, perché la soggettività è consegnata al disincanto delle merci. La Costituzione americana (17 settembre 1787) riporta il diritto alla felicità attraverso l’opera giuridico-filosofica di Gaetano Filangieri.
Limite e democrazia nella Costituzione del 1799 L’ostentazione della ricchezza è oggetto di censura nella Costituzione del 1799, coloro che usano il potere del denaro per offendere l’altrui condizione, e dunque si affermano sull’infelicità altrui, sono oggetto di una censura politica ed educativa. L’illimitatezza è il privato che assimila il pubblico, pertanto è nemico della cittadinanza. Nella Costituzione del 1799 vi è una parte che ha titolo Censura e, nell’articolo 314, si condannano con la censura gli eccessi: non si può essere cittadini senza il senso della misura. Per Pagano l’essere umano ha una sua natura etica, pertanto i diritti devono essere controbilanciati dai doveri. Il senso del limite restituisce dignità all’essere umano, il quale ha una natura etica che gli consente di razionalizzare i comportamenti. Pagano censura l’individualismo che rompe la comunità ed innesca processi di competizione che la disintegra dal suo interno. La costituzione del 1799 condanna l’individualismo in modo da favorire la coesione comunitaria nella quale si consolida la comunicazione e la maieutica. Non a caso gli articoli 398-399, nel Titolo XV, affermano la libertà di espressione come fondamentale per la Repubblica. La libertà di espressione dev’essere supportata da un contesto educato all’ascolto ed al contraddittorio, pertanto l’educazione al limite è la condizione per la comunicazione e la partecipazione politica. La cultura del diritto e del dialogo sono il centro della ricerca giuridica e filosofica di Pagano, il quale risponde al pericolo dei corsi e ricorsi storici vichiani con la cultura del diritto. Per Pagano il ritorno alla barbarie è scongiurato se i popoli non subiscono il diritto, ma partecipano vivamente alla sua elaborazione. L’Illuminismo meridionale dinanzi all’imbarbarimento dei costumi e del linguaggio ci indica un percorso per uscire dalla violenza della passività: il diritto alla cittadinanza partecipata e consapevole. L’alternativa non può che condurre all’anarchia della sregolatezza e all’infelicità generale. In un momento storico in cui si vaccinano i giovani inducendoli a tale operazione non con l’informazione, ma mediante “rave” organizzati nei “centri di vaccinazioni”, si può affermare che la barbarie è tra di noi. I giovani sono trattati come plebi, panem et circenses, in questo caso il panem è sostituito dal vaccino. Il paese dei balocchi si fonde con il biopotere producendo una barbarie unica nella storia: l’informazione ed il contraddittorio sono sostituiti con la musica assordante. La parola maieutica è sostituita con la propaganda, si trattano le nuove generazioni come sudditi da portare nel paese dei balocchi. Si celano gli interessi economici e si accompagnano le nuove generazioni al pascolo della barbarie: la scelta consapevole è sostituita con la musica e ciò rammenta altri periodi storici.
L’Illuminismo meridionale ha posto per primo, e fortemente, la differenza tra plebe e popolo. Ora che i popoli sono indotti dai nuovi piffererai verso l’abisso della plebe, dimostra la sua attualità e la necessità di ripensare il presente con il passato. Senza la tensione concettuale tra il presente ed il passato non vi è futuro, ma solo la sussunzione distruttiva. Forsan et haec olim meminisse iuvabit [“Forse un giorno ci farà piacere ricordare anche queste cose”] (Virgilio, Eneide, I, 203), il verso virgiliano con cui la Pimental si avviò al patibolo risuona ancora, ma ancora non è ascoltato. Gli illuministi meridionali restano testimoni eroici che attendono di essere ripensati. Le parole di Mario Francesco Pagano, il Platone napoletano, nella Costituzione del 1799 risuonano, oggi: sono vere e lontane:
«La libertàè la facoltà dell’Uomo di valersi di tutte le sue forze morali e fisiche, come gli piace, colla sola limitazione di non impedire agli altri di far lo stesso. Contro l’oppressione ogni Uomo ha il dritto d’insorgere, il Popolo ha diritto di insorgere, ma quando diciamo Popolo, intendiamo parlare di quel Popolo che sia rischiarato ne’ suoi veri interessi, e non già d’una plebe assopita nell’ignoranza, e degradata nella schiavitù, non già della cancrenosa parte aristocratica. L’uno e l’altro estremo sono de’ morbosi tumori del corpo sociale, che ne corrompono la sanità».
Salvatore Bravo
[1]Eleonora Pimental de Fonseca (Roma, 13 gennaio 1752– Napoli, 20 agosto 1799).
[2]Francesco Mario Pagano (Brienza, 8 dicembre 1748 – Napoli, 29 ottobre 1799).
[3]Gaetano Filangieri (San Sebastiano al Vesuvio, 22 agosto 1753 – Vico Equense, 21 luglio 1788).
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