Salvatore Bravo – Pensare la scuola con Antonio Gramsci



Salvatore Bravo

Pensare la scuola con Antonio Gramsci

Pensare la scuola significa pensare il proprio tempo. Gramsci è stato critico verso la scuola del suo tempo. La critica necessita di domande profonde e la domanda che guida le osservazioni di Gramsci e pervade i suoi scritti non è un monologo celebrativo come accade normalmente nell’attuale assetto istituzionale e culturale, ma si confronta con un modello teorico di scuola e di pedagogia fondato a livello veritativo. L’essere umano è comunitario: da tale verità sorgono domande sulla scuola del suo tempo e sulla necessita di un’alternativa rispettosa della natura umana. L’istituzione scolastica non è separabile dalla realtà storica ed istituzionale, ne è parte viva, e specialmente mediante ed attraverso di essa si esplica l’egemonia culturale delle classi dirigenti. La scuola è il luogo per eccellenza nel quale la struttura economica si riproduce; l’educazione è il campo di battaglia dove l’egemonia culturale incontra resistenze e consolida il proprio dominio economico e culturale. L’integralismo del plusvalore deve necessariamente abbattere ogni attività intellettuale disinteressata per modellare un intellettuale che sia “organico” alla finanza. L’utile è il valore del capitalismo; non esistono fini, ma solo mezzi, al punto che mezzi e fini si confondono fino a fondersi. L’intellettuale “organico” al capitale è specializzato, in modo da essere utilizzabile dalla struttura. Il pensiero specializzato mutila l’essere umano della sua natura generica rendendolo utilizzabile dal potere. La visione culturale umanistica dev’essere assediata ed erosa con proposte che preparino la coscienza collettiva di stampo utilitaristico e consolidi l’egemonia capitalistica che ha il suo centro nella “merce” e nella produzione di merci. Alla scuola orientata alla specializzazione, oggi più di allora, Gramsci contrappone la scuola unitaria di base. Con la scuola unitaria l’essere umano “ritrova” la sua natura generica e comunitaria:

Oggi la tendenza è di abolire ogni tipo di scuola «disinteressata» (non immediatamente interessata) e «formativa» o di lasciarne solo un esemplare ridotto per una piccola élite di signori e di donne che non devono pensare a prepararsi un avvenire professionale e di diffondere sempre più le scuole professionali specializzate in cui il destino dell’allievo e la sua futura attività sono predeterminate. La crisi avrà una soluzione che razionalmente dovrebbe seguire questa linea: scuola unica iniziale di cultura generale, umanistica, formativa, che contemperi giustamente lo sviluppo della capacità di lavorare manualmente (tecnicamente, industrialmente) e lo sviluppo delle capacità del lavoro intellettuale. Da questo tipo di scuola unica, attraverso esperienze ripetute di orientamento professionale, si passerà a una delle scuole specializzate o al lavoro produttivo1”.

 

Nuova scuola per un nuovo umanesimo

La scuola unitaria di base deve formare il cittadino alla coscienza politica e sociale: disponibile a lottare per difendere i diritti sociali. Il cittadino della prassi deve imparare, prima di specializzarsi, ad osservare la realtà storica con sguardo olistico. Ciò presuppone un metodo che lo educhi alla visione delle connessioni delle parti e al giudizio qualitativo. Il cittadino della futura società comunista deve saper decodificare gli eventi in modo processuale.

Al dualismo dell’ideologia capitalistica che oppone cultura tecnica e umanistica la comunità comunista dovrà rispondere con la conciliazione delle due culture. L’antitesi inconciliabile ed eterna è il paradigma del capitalismo. Con essa si giustifica il dominio di classe, ma l’antitesi diviene un modo di pensare e di classificazione ideologica teso a consolidare il dominio di classe. La naturalizzazione dell’antitesi rende “naturale” il dominio gerarchico come l’opposizione tra lavoro manuale ed intellettuale.

Si dovrà integrare la cultura tecnica con la cultura umanistica, in modo da non lasciarsi guidare da tecnicismi, antitesi ideologiche e prescrizioni dogmatiche. La formazione specialistica e tecnica dovrà ritrovare il suo senso mediante la cultura umanistica. Alla segmentazione ideologica che priva dell’autonomia critica e politica il cittadino, bisognerà opporre l’unità di base della formazione, in modo da dotare tutti i cittadini di strumenti culturali per poter partecipare attivamente alla vita politica. La nuova scuola sarà paideutica ed umanistica:

Un punto importante nello studio dell’organizzazione pratica della scuola unitaria è quello riguardante la carriera scolastica nei suoi vari gradi conformi all’età e allo sviluppo intellettuale-morale degli allievi e ai fini che la scuola stessa vuole raggiungere. La scuola unitaria o di formazione umanistica (inteso questo termine di umanismo in senso largo e non solo nel senso tradizionale) o di cultura generale, dovrebbe proporsi di immettere nell’attività sociale i giovani dopo averli portati a un certo grado di maturità e capacità, alla creazione intellettuale e pratica e di autonomia nell’orientamento e nell’iniziativa. La fissazione dell’età scolastica obbligatoria dipende dalle condizioni economiche generali, poiché queste possono costringere a domandare ai giovani e ai ragazzi un certo apporto produttivo immediato2”.

Imparare l’attività critica necessita di disciplina e metodo che non si acquisiscono con la scuola spettacolo che mutila i contenuti in nome della demagogia pedagogica. La scuola unitaria forma all’autonomia con la disciplina del pensiero, affinando il metodo di studio si rafforzano la capacità di concentrazione e la logica dell’argomentare con le quali si riporta la realtà alla sua razionalità:

La scuola unitaria dovrebbe corrispondere al periodo rappresentato oggi dalle elementari e dalle medie, riorganizzate non solo per il contenuto e il metodo di insegnamento, ma anche per la disposizione dei vari gradi della carriera scolastica3.

Nella terza lettera a Tania Gramsci ribadisce il valore dell’autonomia nella descrizione del comportamento di due passerotti. La sua simpatia va al passerotto che mostra autonomia e non si sottomette con docilità. Simbolicamente il passerotto indipendente è l’essere umano che si sottrare alle spire del potere e che non ha paura della libertà. Si può essere liberi anche “in gabbia” se vi è l’educazione all’autonomia:

Ciò che mi piaceva di questo passero è che non voleva essere toccato. Si rivoltava ferocemente, con le ali spiegate e beccava la mano con grande energia. Si era addomesticato, ma senza permettere troppe confidenze. Il curioso era che la sua relativa familiarità non fu graduale, ma improvvisa. Si muoveva per la cella, ma sempre nell’estremo opposto a me4”.

L’autonomia non è solitudine, ma capacità di collaborare mettendo in campo esperienza e capacità. Nella settima lettera de L’albero del riccio Gramsci, nel raccontare le azioni solidali dei ricci nell’approvvigionarsi di mele, palesa l’importanza della collaborazione solidale, la quale implica il mettere in rete i talenti di ogni membro del gruppo5. Umanesimo per Gramsci è prassi solidale nella quale l’essere umano può porre in atto la differenza nel riconoscimento della comune umanità da cui non può che conseguire il comunismo democratico.

 

A scuola di uguaglianza e di creatività

Il nuovo umanesimo non dev’essere elitario ma popolare, l’essere umano è il centro dell’agire educativo, per eliminare disuguaglianze di origine ambientale ed affinare le personalità si dovrà intervenire sulle condizioni ambientali di partenza che neutralizzano lo sviluppo delle personalità. Per dissolvere le differenze culturali che impediscono la giustizia sociale e l’uguaglianza reale tra i cittadini Gramsci propone la diffusione di asili in modo da agire in età precoce e di collegi che educhino alla comunità; si è eguali e liberi solo nel riconoscimento reciproco delle differenze:

Così gli allievi della città, per il solo fatto di vivere in città, hanno assorbito già prima dei sei anni una quantità di nozioni e di attitudini che rendono più facile, più proficua e più rapida la carriera scolastica. Nell’organizzazione intima della scuola unitaria devono essere create almeno le principali di queste condizioni, oltre al fatto, che è da supporre, che parallelamente alla scuola unitaria si sviluppi una rete di asili d’infanzia e altre istituzioni in cui, anche prima dell’età scolastica, i bambini siano abituati a una certa disciplina collettiva ed acquistino nozioni e attitudini prescolastiche. Infatti, la scuola unitaria dovrebbe essere organizzata come collegio, con vita collettiva diurna e notturna, liberata dalle attuali forme di disciplina ipocrita e meccanica e lo studio dovrebbe essere fatto collettivamente, con l’assistenza dei maestri e dei migliori allievi, anche nelle ore di applicazione così detta individuale, ecc.6”.

Non ci si improvvisa creativi, il pensiero divergente è attività che dev’essere curata e sostenuta fin dall’infanzia. Il pensiero autonomo, capace di resistere alle pressioni sociali ed amico del concetto, necessita di un lungo apprendistato. Di tale finalità pedagogica ne usufruisce anche la formazione specializzata, poiché essa non diventa semplice esecuzione di compiti, ma feconda la scienza rendendola consapevole della sua finalità assiologica, essa è al servizio dei popoli, perché è posta dal popolo. Le cesure producono sterilità: segmentare i momenti formativi neutralizza il potenziale di ogni cittadino e delle discipline. Rimandare lo sviluppo della creatività all’università significa rendere impossibile una diffusa cultura divergente e ciò è un obiettivo ideologico:

Ecco dunque che nella scuola unitaria la fase ultima deve essere concepita e organata come la fase decisiva in cui si tende a creare i valori fondamentali dell’«umanesimo», l’autodisciplina intellettuale e l’autonomia morale necessarie per l’ulteriore specializzazione sia essa di carattere scientifico (studi universitari) sia di carattere immediatamente pratico-produttivo (industria, burocrazia, organizzazione degli scambi, ecc.). Lo studio e l’apprendimento dei metodi creativi nella scienza e nella vita deve cominciare in questa ultima fase della scuola e non essere più un monopolio dell’università o essere lasciato al caso della vita pratica: questa fase scolastica deve già contribuire a sviluppare l’elemento della responsabilità autonoma negli individui, essere una scuola creativa (occorre distinguere tra scuola creativa e scuola attiva, anche nella forma data dal metodo Dalton. Tutta la scuola unitaria è scuola attiva, sebbene occorra porre dei limiti alle ideologie libertarie in questo campo e rivendicare con una certa energia il dovere delle generazioni adulte, cioè dello Stato, di «conformare» le nuove generazioni 7”.

La scuola creativa dev’essere umanistica, deve avere al centro l’essere umano. La scuola del tempo attuale ha al centro il business, ma gioca con la parola creatività desertificandola del suo valore critico, curvandola al fare puramente crematistico ed individualistico: si tratta del “fare senza pensare”. Il confronto critico con le riflessioni di Gramsci ci svelano la scuola contemporanea nel suo antiumanesimo militante:

Così scuola creativa non significa scuola di «inventori e scopritori»; si indica una fase e un metodo di ricerca e di conoscenza, e non un «programma» predeterminato con l’obbligo dell’originalità e dell’innovazione a tutti i costi. Indica che l’apprendimento avviene specialmente per uno sforzo spontaneo e autonomo del discente, e in cui il maestro esercita solo una funzione di guida amichevole come avviene o dovrebbe avvenire nell’Università. Scoprire da se stessi, senza suggerimenti e aiuti esterni, una verità è creazione, anche se la verità è vecchia, e dimostra il possesso del metodo; indica che in ogni modo si è entrati nella fase di maturità intellettuale in cui si possono scoprire verità nuove8”.

 

Territorializzare

La scuola per essere luogo che coltiva la comunità non può essere astratta e deterritorializzata, ma deve rispondere alle reali esigenze del territorio. Non si tratta della scuola al servizio dei potentati economici cosmopoliti del tempo attuale, che usano la scuola pubblica come istituzione da cui attingere manovalanza gratuita e clienti per incrementare le vendite. La scuola deve rispondere al territorio, è istituzione che tiene viva la cultura del popolo. La lingua nazionale forma cittadini consapevoli responsabili verso il territorio nella sua poliedricità significante. Ne vivono le potenzialità e progettano all’interno del solco della tradizione. I popoli non sono entità astratte, ma sono concretamente radicati, e partecipano all’universale dell’umanità nella differenza delle identità. A scuola si impara l’universale concreto e non certo l’astratta astrazione della finanza cosmopolita:

Territorialmente avrà una centralizzazione di competenze e di specializzazione: centri nazionali che si aggregheranno le grandi istituzioni esistenti, sezioni regionali e provinciali e circoli locali urbani e rurali. Si sezionerà per competenze scientifico-culturali, che saranno tutte rappresentate nei centri superiori ma solo parzialmente nei circoli locali. Unificare i vari tipi di organizzazione culturale esistenti: Accademie, Istituti di cultura, circoli filologici, ecc., integrando il lavoro accademico tradizionale, che si esplica prevalentemente nella sistemazione del sapere passato o nel cercare di fissare una media del pensiero nazionale come guida dell’attività intellettuale, con attività collegate alla vita collettiva, al mondo della produzione e del lavoro. Si controllerà le conferenze industriali, l’attività dell’organizzazione scientifica del lavoro, i gabinetti sperimentali di fabbrica, ecc.9”.

 

Lo studio come lavoro

Lo studio del latino e del greco consente non solo lo sviluppo di personalità con capacità di riflessione etica e di concentrazione, ma è capace di “donare”. Il latino e il greco formano lo studioso e una classe dirigente diffusa capace di pensare. Sono lingue etiche in quanto il loro valore pedagogico contribuisce a formare il cittadino e una diffusa classe di pensatori. Non sono lingue morte ma eterne, poiché le loro parole conservano non solo l’esperienza umana, ma sono fonte di modelli a cui ispirarsi plasticamente. La loro ricchezza espressiva e lessicale apre orizzonti osservativi e di significato insostituibili:

Nella vecchia scuola lo studio grammaticale delle lingue latina e greca, unito allo studio delle letterature e storie politiche rispettive, era un principio educativo in quanto l’ideale umanistico, che si impersona in Atene e Roma, era diffuso in tutta la società, era un elemento essenziale della vita e della cultura nazionale. Anche la meccanicità dello studio grammaticale era avviata dalla prospettiva culturale. Le singole nozioni non venivano apprese per uno scopo immediato pratico-professionale: esso appariva disinteressato, perché l’interesse era lo sviluppo interiore della personalità, la formazione del carattere attraverso l’assorbimento e l’assimilazione di tutto il passato culturale della moderna civiltà europea. Non si imparava il latino e il greco per parlarli, per fare i camerieri, gli interpreti, i corrispondenti commerciali. Si imparava per conoscere direttamente la civiltà dei due popoli, presupposto necessario della civiltà moderna, cioè per essere se stessi e conoscere se stessi consapevolmente. La lingua latina e greca si imparava secondo grammatica, meccanicamente; ma c’è molta ingiustizia e improprietà nell’accusa di meccanicità e di aridità. Si ha che fare con ragazzetti, ai quali occorre far contrarre certe abitudini di diligenza, di esattezza, di compostezza anche fisica, di concentrazione psichica su determinati soggetti che non si possono acquistare senza una ripetizione meccanica di atti disciplinati e metodici10”.

La scuola unitaria è scuola nazionale che risponde alla vera politica, la quale è contatto vivo con i popoli e con i territori. L’impronta nazionale favorisce il dialogo tra i popoli, in quanto presuppone differenze identitarie che giungono in contatto, possono avere gli stessi obiettivi e le stesse finalità politiche ma nel rispetto delle differenze. La scuola gramsciana prepara l’internazionale dei popoli, poiché il dialogo è realtà vivente solo nel contatto tra le differenze. La distanza che separa il nostro presente dalla concezione gramsciana della scuola e non solo, ci permette di visualizzare l’abisso in cui siamo e che dobbiamo attraversare per riportare l’umanesimo al centro della prassi politica. L’alternativa è il veloce rovinare nel nulla e nella barbarie del politicamente corretto.

 

L’atto impuro

La scuola ha bisogno di più scuola, perché studiare è attività faticosa che coinvolge la mente, il corpo, la muscolatura e la prassi della persona in formazione. A coloro che oppongono la scuola al lavoro per destrutturarla nel suo significato etico e sociale bisogna ricordare, in fine, le parole di Gramsci tratte dai Quaderni del carcere:

Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza”.

Il rispetto verso la scuola non può che avere il suo fondamento nella chiarezza di cosa sia “studiare”, definizione che, al momento, pare persa tra PCTO, demagogia e scuola azienda asservita al solo mercato. Gramsci da materialista e storicista teorizza l’atto impuro in contrapposizione al generico Non io. L’atto impuro è la sovrastruttura sociale e classista del capitalismo, lo studio è prassi, in quanto il concetto dinamizza ciò che l’ideologia ha cristallizzato, ma il concetto resta impuro, perché è nel tempo e nello spazio. A scuola si impara a riconoscere l’atto impuro, ed ad emanciparsi senza formule astratte e definitive. Siamo nella storia, l’essere umano può tendere all’universale, l’atto di tendere è già emancipazione senza assoluti. Il terrore verso i contenuti e la disciplina del pensiero cela il timore che la scuola umanistica possa smascherare gli atti impuri su cui si fonda il liberismo illiberale capitalistico con la sua naturalizzazione astorica. La scuola nell’ottica di Gramsci è il luogo istituzionale dove prende forma la filosofia dell’atto impuro senza la quale si è inchiodati alle antitesi ideologiche conservatrici dello stato presente:

Filosofia dell’atto (prassi, svolgimento) ma non dell’atto «puro», bensì proprio dell’atto «impuro», reale nel senso più profano e mondano della parola11”.

Salvatore Bravo

1 Antonio Gramsci, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Liber Liber, 2017, p. 138.

2 Ibidem, p. 141.

3 Ibidem, p. 142.

4 Antonio Gramsci, L’albero del riccio, Liber Liber, 2017, p. 13.

5 Ibidem, pp. 24-25.

6 Antonio Gramsci, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Liber Liber, 2017, p. 143.

7 Ibidem, p. 144.

8 Ibidem, p. 145.

9 Ibidem, p. 146.

10 Ibidem, pp. 151-152.

11 Antonio Gramsci, Quaderno 11 (XVIII), § (64).


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – La critica all’economicismo non può essere disgiunta dalla chiarezza sulla natura umana. Solo in tal modo appare nella sua tragica realtà la violenza della crematistica, che recide i sentieri tra il passato e il presente occultando il pensiero dei “divergenti”.

Salvatore Bravo

La critica all’economicismo non può essere disgiunta dalla chiarezza sulla natura umana.
Solo in tal modo appare nella sua tragica realtà la violenza della crematistica,
che recide i sentieri tra il passato e il presente occultando il pensiero dei “divergenti”.

Rimettere in circolo le idee di pensatori che non solo hanno pensato l’opposizione al capitale,
ma l’hanno vissuta: per esempio F. Saverio Merlino

 

 

La natura umana è una. I bisogni diventano disuguali quando si allontanano dalla natura, e diventano fittizii. Il bisogno del ricco è di strapotere come il bisogno del potente è di straricchire. Questi bisogni, che consistono non nella conservazione e nel perfezionamento del proprio essere, ma nell’oppressione e nella soppressione dell’essere e de’ bisogni altrui, sono contro natura. I bisogni veri e progressivi degli uomini lungi dall’essere in conflitto fra loro, armonizzano e si esaltano, per così dire, nell’associazione.

F.S. Merlino

 

Economisti organici

In un’epoca mediocre, in cui la mediocrazia ideologica è divenuta il fondamento del capitalismo nella sua fase distruttiva dell’essere umano e del suo ambiente, è necessario comprendere il nostro tempo storico per poter deviare dal realismo ideologico con cui i trombettieri del capitale dichiarano l’impossibilità di ogni alternativa. Il realismo ideologico deve appellarsi alla scienza neutra ed oggettiva organica al capitale: l’economia. In assenza di fondamento metafisico il capitalismo per giustificarsi deve appellarsi all’economia con un movimento di autofecondazione di se stesso che è stato ed è il suo trionfo, ma prepara anche il suo dissolvimento. L’autoreferenzialità del capitale lo rende totalitario, lo costituisce come il nuovo totalitarismo che con i suoi postulati impera e sussume. Le contraddizioni e le tragedie del capitale sono rimosse dagli atei devoti che officiano le loro sacre lezioni di economia. L’autoreferenzialità spinge le contraddizioni verso intensità sempre più estreme, gli stessi sudditi possono non concettualizzarle, ma le vivono quotidianamente. L’acuirsi delle ingiustizie sociali ed internazionali non potrà che favorire il passaggio dalla cupa rassegnazione alla formazione di un’opposizione politicamente organizzata e plurale. In questo contesto è possibile trarre energia plastica dagli autori che nel passato hanno denunciato la deriva ideologica del capitale con i suoi abili occultamenti. Il capitale ha lasciato cadere su di loro la mannaia del tempo, sono stati espunti dalla storia del pensiero e ostracizzati. L’opposizione prima a tale stato di cose è rimettere in circolo il pensiero fecondo e vero di pensatori che non solo hanno pensato l’opposizione al capitale, ma l’hanno vissuta. In un’epoca di mediocrità strutturale voluta le testimonianze di coloro che hanno deviato il percorso dal conformismo dimostra al nostro presente che l’opposizione radicale è sempre una potenzialità dell’umano che si può esplicare e rinnovare nel presente. Francesco Saverio Merlino[1] è stato anarchico e socialista libertario nei suoi scritti denuncia la verità prima del sistema ideologico del capitale: l’economia e gli economisti sono gli intellettuali organici al sistema per eccellenza. Gli economisti si fanno promotori di soluzioni alle contraddizioni del capitale con “ricette” che rispondono agli interessi dei capitalisti. Il lavoro è descritto come attività di produzione finalizzata al consumo, non risponde alla soddisfazione dei bisogni materiali e della persona, ma è attività meccanica disumanizzata. La disumanizzazione del lavoro si completa con la gerarchia padronale. I lavoratori sono corpi in attività che non pensano, devono obbedire alla mente che appartiene al padrone e ai suoi sgherri. La divisione ideologica delle funzioni di un essere umano è riprodotta nella gerarchia sociale per rendere indiscutibile e naturale la verticalizzazione dell’ordine sociale:

 

“Gli economisti hanno falsato i concetti del lavoro, della rimunerazione e della consumazione. Per essi lavoro è la servitù del proletario che presta l’opera sua, spesso vende la sua esistenza, per una mercede che procura a lui il necessario affinché egli procuri al capitalista e necessario e surperfluo. Per noi lavoro è ogni attività utile alla società e che apre l’adito, come tale, alla soddisfazione de’ bisogni[2]”.

 

In questa ricostruzione ideologica dell’ordine sociale gli economisti risolvono le crisi a cui periodicamente il capitalismo va incontro con proposte che soddisfano i padroni del capitale e dei mezzi di produzione: il taglio dei salari dei lavoratori. Il potere resta indiscusso e indiscutibile e, allora, come oggi, la crisi è pagata dai lavoratori:

 

Gli economisti dal canto loro non se ne stanno con le mani alla cintola: ma studiano, indagano e dànno responsi. La crisi è l’effetto della concorrenza straniera: no, dell’eccesso di produzione: neppur di questo, ma dell’elevatezza de’ salari. Sicuro, se gli operai del paese non fossero così ingordi da pretendere una paga superiore a quella de’ coolies cinesi e degli schiavi africani, quale capitalista al mondo penserebbe di sospendere la produzione? Il capitalista — gli economisti proclamano ad alta voce — è ben nel suo dritto di non voler sapere di produzione, se egli non tocca il suo ordinario profitto: spetta all’operaio a metter senno e contentarsi, per paura di peggio, di lavorare a stomaco digiuno, come se si dovesse prendere la santa comunione[3]”.

 

La metafora dello Stato padronale

Francesco Saverio Merlino usa una breve metafora per smascherare la favola dello Stato super partes. Lo Stato è parte in causa nella logica del dominio e della sussunzione, è schierato con i più forti, perché è l’agile strumento istituzionale con cui i più forti dominano mascherandosi e facendo appello ad una uguaglianza giuridica e quindi solo formale. Lo Stato nell’immaginario letterario e politico di Severino è uno scimmione, non è umano, assomiglia all’essere umano, ma in realtà agisce bestialmente e secondo la legge della giungla: approfitta e divora la fatica dei più deboli. Li turlupina al punto che l’unico modo che i sussunti hanno per difendere ciò che hanno guadagnato è disertare dalla giustizia del scimmione:

 “C’erano due gatti, che convennero di uscire a foraggiare insieme e di dividersi la preda in parti uguali. Presero ciascuno un pezzo di formaggio; ma il pezzo d’uno era più grosso di quello dell’altro. Si recarono dallo Scimione, che era giudice; il quale per eguagliare le parti, cominciò a morsicare prima il pezzo più grosso, che presto divenne più piccino, poi l’altro, poi di nuovo il primo. I gatti videro la mala parata, s’adocchiarono e, raccolto quel che restava, andarono a goderselo in pace. I due gatti sono gli operai manuali, intellettuali ed altrimenti distinti d’oggi. I due pezzi di formaggio sono i prodotti del loro lavoro associato, co’ quali devono soddisfare i loro bisogni. — Lo Scimione è il Governo con quel che segue. La morale della favola tiratela voi[4]”.

Per poter resistere e trasformare in prassi la consapevolezza che i sudditi hanno appreso dalla realtà storica è necessario ricongiungere ciò che il capitale ha separato: la natura umana. Senza rifondazione metafisica il capitale non può essere abbattuto. Se la natura umana è una, il capitale per ipostatizzarsi interviene per dividerla e immettere fratture, in tal modo nella lotta che pervade ogni strato sociale e ogni relazione umana si disperde la possibilità del sovvertimento di un ordine innaturale che nega la comune natura umana:

“Anche qui lo scienziato ed il manovale sono eguali: ambedue vivono ad un dipresso la stessa vita. La natura umana è una. I bisogni diventano disuguali quando si allontanano dalla natura, e diventano fittizii. Il bisogno del ricco è di strapotere come il bisogno del potente è di straricchire. Questi bisogni, che consistono non nella conservazione e nel perfezionamento del proprio essere, ma nell’oppressione e nella soppressione dell’essere e de’ bisogni altrui, sono contro natura. I bisogni veri e progressivi degli uomini lungi dall’essere in conflitto fra loro, armonizzano e si esaltano, per così dire, nell’associazione[5]”.

 

Associazionismo e natura umana

La soluzione è l’associazionismo con cui l’essere umano si riappropria della sua natura comunitaria ed esce dalle relazioni di dominio e violenza. L’alienazione non è eterna, ma essa può essere trascesa con un movimento storico che abbia la chiarezza dell’obiettivo finale: l’economia per l’essere umano e non contro gli umani:

“L’uomo, che lavora per sé, produce quello che gli bisogna e consuma quello che produce. Egli trova la misura al suo lavoro nei suoi bisogni, e trova la misura de’ suoi bisogni nella sua capacità e forza di lavorare. Egli non sacrifica la sua salute in un lavoro eccessivo, né trascura per ingordigia di ricchezze la coltura della sua mente. Solo costretto per fame, l’uomo lavora eccessivamente a prezzo della vita, per soddisfare non i suoi, ma gli altrui bisogni[6]”.

 

Associazionismo e pieno possesso dei mezzi di produzione ribaltano l’innaturale ordine del capitale. La critica all’economicismo non può essere disgiunta dalla chiarezza sulla natura umana. Solo in tal modo appare nella sua tragica realtà la violenza della crematistica che, per eternizzarsi, cerca di occupare lo spazio e il tempo di ogni essere umano occultando la sua violenza.

Per ricominciare a pensare in modo libero può essere proficuo riallacciare i sentieri interrotti tra il passato e il presente che il capitale ha “ideologicamente” reciso.

Salvatore Bravo

[1] Francesco Saverio Merlino (Napoli, 15 settembre 1856– Roma, 30 giugno 1930) 

[2] Francesco Saverio Merlino, Manualetto di scienza economica, Vasai editore, Firenze, 1888, pag. 10.

[3] Ibidem, pag. 49.

[4] Ibidem, pag. 11.

[5] Ibidem, pag. 10.

[6] Ibidem, pag. 10.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Lo sfacelo del sistema-scuola in Italia. Mediocrazia e autonomia scolastica. Difendere la scuola pubblica significa schierarsi filosoficamente e politicamente per la comunità, e far avanzare il pubblico contro le privatizzazioni. La razionalità irrazionale del capitalismo giunge fino ad inserire nel corpo vivo della comunità l’automatismo dell’uso, inducendo all’accecamento dei fini.


Salvatore Bravo

Lo sfacelo del sistema-scuola in Italia. Mediocrazia e autonomia scolastica.

Difendere la scuola pubblica significa schierarsi filosoficamente e politicamente per la comunità,
e far avanzare il pubblico contro le privatizzazioni.

La razionalità irrazionale del capitalismo giunge fino ad inserire nel corpo vivo della comunità
l’automatismo dell’uso, inducendo all’accecamento dei fini.

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Filosofia e metafisica critica

Vi sono autori trattati come “cani morti”, poiché le loro analisi permettono di svelare le contraddizioni cariche di potenzialità rivoluzionaria del proprio tempo storico. La filosofia è attività teoretica e politica mai conclusa. La riflessione sulla totalità storica in cui si è implicati consente di valutarne non solo la qualità, ma anche le contraddizioni ma anche i processi strutturali in atto. Filosofare è operazione metodologica e logica, è metodo d’indagine in quanto capacità di tessere assieme le parti ideologicamente separate dal potere, è logica in quanto il tessere le parti ideologicamente separate comporta la comprensione razionale del proprio tempo concettualizzato nella sua verità. L’ostilità e l’ostracismo colpiscono solo i veri filosofi, gli accademici e gli eruditi che si limitano alla specializzazione filosofica sono favorevolmente accolti dal potere, in quanto alla coscienza critica del proprio tempo hanno sostituito l’adattamento opportunistico e carrieristico. Massimo Bontempelli1 è stato filosofo del nostro tempo, attraverso le analisi sulla condizione della scuola dopo la caduta dell’Unione Sovietica pone in evidenza la decadenza dell’intero tessuto sociale privatizzato e saccheggiato dalle logiche privatistiche comuni alla destra e alla sinistra. L’annichilimento di un’istituzione non si può astrarre dal suo contesto storico. Massimo Bontempelli fu un pensatore hegelo-marxiano, la sua metodologia di indagine è stata concreta, ovvero metafisica nel senso alto della parola. La metafisica non è un trascendere oltre lo spazio e il tempo, ma un oltre che ricongiunge la complessità storica costituita da dati, istituzioni e modi di produzione. Per poter concettualizzare è necessario ricongiungere ciò che appare diviso per ricostruirlo nei suoi nessi storici e strutturali, sono in tal modo “l’oltre” si rivela nel “con” per dare senso alla totalità. Lo sfacelo del nostro tempo storico è comprensibile, se lo si riporta al disastro delle istituzioni pubbliche sotto la spinta del neoliberismo. L’analisi critica sulle patologie che ammorbano l’istituzione scolastica permette di capire il presente nella sua totalità, in quanto l’approccio di Massimo Bontempelli è olistico:

Lo sfacelo del sistema-scuola, dunque, è nello stesso tempo espressione e concausa dello sfacelo della nazione2”.

La privatizzazione del patrimonio pubblico ha comportato la privatizzazione della scuola pubblica, essa è formalmente pubblica, ma gestita secondo criteri aziendalistici e, specialmente, deve formare sudditi che perseguono la sola logica del profitto. Nel disastro della scuola è riflessa la controrivoluzione neoliberista che ipostatizza se stessa con l’eliminazione veloce di ogni residuo comunitario, pertanto la scuola, luogo dove si dovrebbero formare cittadini dallo spirito critico, è stata pesantemente travolta dal ciclo di controriforme che hanno interessato globalmente l’intero asse sociale:

È la storia del disastro sociale provocato dal grande ciclo delle privatizzazioni che tra il 1993 e il 1999 ha smantellato l’economia pubblica italiana. Le pressioni più forti ad avviare tale ciclo non sono state nazionali, ma estere, provenendo dalle nuove regole iperliberiste dell’Unione economica e monetaria europea nata da Maastricht nel 1992, e dalla grande finanza anglosassone, desiderosa di prendersi a buon mercato i pezzi più produttivi e profittevoli della nostra industria nazionale3”.

Per poter smantellare velocemente ogni resistenza la testa d’ariete che ha fatto “il lavoro sporco” è stata la sinistra parlamentare, la quale si è immediatamente venduta e adattata, dopo il 1989, per non perdere i privilegi acquisiti. In tal modo ha mostrato il nichilismo ideologico che ne ha eroso gradualmente le fondamenta. Senza idee e senza verità metafisiche ha puntato unicamente a conservare il potere, l’assenza di ideali e di progetti politici ha favorito la salita alla ribalta di personaggi mediocri.

 

Mediocrazia e autonomia scolastica

La mediocrità è l’espressione del nichilismo neoliberista: la realtà storica non è compresa nella sua complessità e nei suoi pericoli, si adattano ad essa ricette miracolose con cui sfuggire allo sfacelo che avanza. Sullo sfondo restano calcoli politici dalla gittata limitata ed irresponsabilità verso gli elettori e la nazione tutta. La mediocrità non ha progettualità, in politica è ripiegamento trasformistico verso la difesa di interessi personali o lobbistici, per cui non si ha la tempra morale e politica per porre un limite ai condizionamenti che provengono dall’esterno. In questo clima si introduce l’autonomia scolastica. Il nichilismo è svuotamento dei significati linguistici. La lingua smette di essere punto di contatto, in quanto le parole sono un mezzo per dominare e manipolare l’opinione pubblica. La parola autonomia è resa innocua e traviata, non più indipendenza dalla burocrazia e dall’economia, ma diviene il cavallo di Troia, il grande inganno con cui far entrare il neoliberismo a scuola e renderla dipendente dal mercato. La scuola quale istituzione principe della formazione si eclissa, è solo l’obbediente serva del mercato. Perde ogni specificità e senso per essere “azienda tra le aziende”:

Berlinguer, così, già nel 1997, disarticola il sistema nazionale della pubblica istruzione, assimilando i singoli istituti scolastici ad aziende che producono ciascuna una propria offerta formativa, ma credendo di compiere una riforma progressista nel nome della cosiddetta autonomia delle scuole. Autonomia è una parola seducente, che evoca una prassi democratica e una libertà da pastoie burocratiche. La realtà che si nasconde dietro quella parola è però il diminuito impegno dello Stato nel finanziare il sistema scuola, la consegna data ai singoli istituti scolastici, sia pure per un futuro non immediato, a cercarsi finanziamenti privati, e l’abbandono di ogni progetto educativo nazionale con contenuti culturali vincolanti per l’insegnamento nelle singole scuole, tutti elementi che discendono dal contesto storico e ideologico, proprio dell’epoca, di privatizzazione del pubblico”.

Lo scopo finale per lo Stato assimilato dalle potenze della finanza è abbandonare la scuola al suo destino, limitare i finanziamenti, renderla economicamente autonoma. La scuola deve reperire i fondi per la sua sussistenza, è parte della guerra perenne del mercato all’interno del quale l’unico scopo è reperire risorse. Il cittadino non è più tale è suddito del mercato: il docente deve adoperarsi per il marketing, il preside dev’essere un manager e in ultimo lo studente non è più persona che si apre al mondo conoscendosi nella concretezza della classe, ma è solo consumatore e produttore. Massimo Bontempelli è venuto a mancare nel 2011, non ha visto, ma ha profetizzato con lo sguardo della civetta la “Buona scuola” di Renzi e la lunga e inesorabile discesa e scomparsa dell’istituzione nel nichilismo del mercato.

 

Scuola e senso

Il filosofo e storico pisano evidenziava che la scuola non è il luogo dove si impara il lavoro, quest’ultimo si impara nei luoghi deputati a ciò, la scuola deve formare la persona alla vita comunitaria sviluppando senso critico e politico. La scuola formatrice di lavoratori sarà sempre in affanno nell’inseguire il mercato, è negata nella sua finalità ontologica e assiologica, e ciò non potrà che comportare la frustrazione di coloro che vi operano e un senso di impotenza depressiva che non può che contribuire a realizzare i processi di derealizzzazione. Non a caso il risultato di tale meccanismo posto in essere è il trionfo della mediocrità con cui il potere può saldamente conservarsi. Docenti attenti alla carriera, e non ai contenuti e all’educazione, e formule didattiche finalizzate a presentare il niente come innovazione hanno prodotto la ricetta della mediocrità. I peggiori nelle istituzioni sono diventati il “punto di riferimento”, l’insegnamento ha realizzato il nichilismo didattico: si tengono in ordine le carte, si valorizza la quantità burocratizzata. I contenuti disciplinari e i processi educativi con annessi ostacoli da superare con lo sviluppo del concetto sono declassati ad attività secondarie e moleste, in quanto non attraggono iscritti:

Formulari vuoti, e divoratori di tempo, si sostituiscono alla serietà dei contenuti dell’insegnamento, progetti parcellari interrompono la continuità dei percorsi disciplinari, la demenziale esaltazione della flessibilità organizzativa corrode forme di omogeneità indispensabili alla scuola, persino l’unità del gruppo-classe alle elementari. Scocca, in quegli anni, l’ora degli insegnanti mediocri, che sono finalmente legittimati a disinteressarsi alla loro preparazione culturale e di ogni vincolo di contenuto ai loro insegnamenti, e possono ritagliarsi un’immagine positiva indaffarandosi nel nulla di scartoffie, griglie, funzioni promozionali, formule valutative (come il demenziale giudizio tripartito su capacità conoscenze e competenze)4”.

L’analisi impietosa e senza infingimenti di Massimo Bontempelli non può limitarsi alla sola critica, ma deve intraprendere e inerpicarsi per il sentiero che porta all’uscita da tale condizione. Per poter ricostruire il senso della formazione bisogna prendere atto che la scuola ha la sua genesi all’interno della formazione dello Stato-nazione. Solo una nuova consapevolezza nazionale e comunitaria senza nazionalismo può indurre la comunità a prendere consapevolezza che la scuola svuotata di ogni senso e umanità corrisponde all’annichilimento della cultura nazionale. Senza cultura nazionale non vi è progetto politico, ma dipendenza linguistica, politica ed economica dalle forze capitalistiche globali:

Non si può dunque ricomporre un sistema-scuola, contrastando l’analfabetismo culturale, e l’impoverimento mentale di massa diffusi dal suo sfacelo, senza ricomporre uno Stato-nazione, finalità generali ben distinte dagli interessi particolari, funzioni pubbliche ben distinte dalle attività private. Solo una tale dimensione statale, infatti, ha bisogno di una cultura della cittadinanza e di una scuola che la promuova, mentre una società di mercato ha bisogno di ottusità consumistica, non di scuola5”.

 

Capitalismo reale

La scuola non è un’agenzia lavorativa, non si può assegnare alla scuola tale compito che spetta allo Stato come la Costituzione recita. La scuola forma persone e non lavoratori, l’istituzione scolastica è prassi di umanesimo integrale. La comunità è viva e sana se riconquista politicamente il “senso metafisico” delle istituzioni. Il capitalismo reale, parafrasando la definizione di comunismo reale utilizzata per denigrare i paesi al di là del muro, nella sua verità storica è forza assimilatrice e intrinsecamente nichilista, nega la natura umana che si materializza nelle istituzioni. La propaganda del “capitalismo reale” struttura il consenso su temi a cui i popoli sono naturalmente sensibili come il lavoro per far deflagrare le istituzioni che dovrebbero formare alla cittadinanza critica. L’utile e il lavoro divengono grimaldelli per attaccare frontalmente le istituzioni formative, le quali se formano non producono, pertanto sono inutili e non preparano all’attività lavorativa:

La soluzione del problema drammatico della mancanza di lavoro (e soprattutto dei diritti del lavoro riconosciuti dalla nostra Costituzione) è compito di un esteso intervento statale nell’economia, da ricostituire secondo il dettato costituzionale e in nome dell’integrità della nazione, e non rientra nella possibilità della scuola6”.

Dinanzi ad un capitalismo incapace di autocorreggere i suoi postulati i resistenti devono palesare le contraddizioni del “capitalismo reale” e difendere le culture nazionali dalla globalizzazione del mercato. Difendere la comunità e la pratica del pubblico è possibile mediante la graduale processualità che deve condurre l’individuo a partecipare attivamente alla vita dello Stato, tale passaggio non può realizzarsi con “la furia del dileguare”, per cui la scuola è uno dei luoghi etici dove coltivare il concetto e la pratica comunitaria.

 

Ontologia in costruzione

Difendere la scuola pubblica significa schierarsi politicamente e filosoficamente per la comunità, e far avanzare il pubblico contro le privatizzazioni e la sussunzione. Massimo Bontempelli rileva che coloro che affermano ripetendo quanto ossessivamente si dichiara nei media di regime che il pubblico è inefficiente “approfittano” della cultura dell’astratto. In un contesto governato dalla violenza dei soli interessi privati, in cui il pubblico è additato quale causa del debito pubblico è inevitabile l’inefficienza del pubblico. In realtà si occulta con tale manovra la corruzione e l’alienazione che producono le attività private. Per rendere il reale razionale bisogna riportare l’astratto nella storia, diviene non rimandabile una cultura storica, non come vuota erudizione, ma come capacità filosofica di relazionare i dati e gli eventi per astrarre il concetto. In tal modo l’attività critica non può che condurre alla consapevolezza e alla prassi. La lingua e la storia umanizzano l’essere umano, sono veicolo di senso, sono ontologia in costruzione:

C’è poi un’altra area di scuole, prevalentemente insediate in zone socialmente più fortunate e costituite per lo più, ma non solo, da licei classici e scientifici, in cui gli allievi sono sufficientemente scolarizzati. In quest’area l’asse culturale dell’insegnamento dovrebbe essere di tipo storico, per almeno tre motivi. In primo luogo la formazione di una consapevolezza storica è oggi indispensabile per il semplice fatto che le menti sono state totalmente destoricizzate7.

La storia svela la verità dei processi di naturalizzazione del presente e dei paradigmi sociali, e specialmente ci offre la possibilità di raffrontare modelli sociali ed economici con cui capire il presente ed elaborare percorsi di emancipazione:

Per poter pensare al cambiamento non di questa o quella cosa particolare, ma di un cosmo sociale, occorre infatti che esso non sia naturalizzato dalla nostra mente, ma sia relativizzato sulla scala del tempo. La storia è la grande tastiera di comparazione attraverso la quale un cosmo sociale viene relativizzato dal confronto con altri cosmi sociali di altri tempi e di altri luoghi. Chi conosce la storia delle pòleis greche può comparare il dominio dell’economia sulla politica del nostro tempo con il dominio della politica sull’economia nel tempo greco, e quindi relativizzarlo e pensarlo di conseguenza modificabile8”.

In un momento oscuro della nostro tempo la lettura di autori che fortemente hanno pensato il nostro presente è attività non antiquaria ma plastica con la quale far lievitare la consapevolezza critica, la quale è impegno e responsabilità nel presente. Il concreto è lo storicizzarsi, per capire il reale storico contro «l’esclusione assoluta di ogni problema di realtà» come György Lukács sentenziava nell’Ontologia dell’essere sociale. Ad una tale nichilistica esclusione bisogna opporre la razionalità metafisica dell’impegno quotidiano (che può iniziare con la lettura di autori e filosofi autenticamente veritativi). Massimo Bontempelli ha tematizzato la razionalità irrazionale del nostro tempo e la tecnica che trionfa con la rimozione dei fini dall’orizzonte umano. La razionalità irrazionale del capitalismo giunge fino ad inserire nel corpo vivo della comunità l’automatismo dell’uso, inducendo all’accecamento dei fini così da far volgere lo sguardo (naturalizzato) unicamente ai profitti. La tecnica diviene, in tal modo, “arte nichilistica del profitto”, e la scuola l’istituzione che forma all’automatismo ideologico. È in tale dramma della contemporaneità che Massimo Bontempelli ha pensato con le categorie hegelo-marxiane l’urgenza della metafisica:

«Una razionalità irrazionale non è affatto, come potrebbe sembrare, una contraddizione in termini. Si tratta, invece, di un modello di razionalità, che possiede, cioè, caratterizzazioni proprie della ragione (precisione, rigore, calcolabilità, prevedibilità, efficacia), ma che non ha scopi, e che perciò include tutte quelle caratterizzazioni in un orizzonte di irrazionalità. Nell’universo tecnico la razionalità non può che non avere scopi, ed essere perciò irrazionale, in quanto la tecnica appartiene per definizione alla sfera dei mezzi, non degli scopi. Finché dunque la tecnica è subordinata ad altre istanze sociali, essa è ancora compatibile con una razionalità connessa a scopi. Ma in un universo tecnico lo scopo è lo stesso apparato scientifico-tecnologico, cioè un mezzo senza alcun intrinseco scopo che non sia la sua natura di mezzo. Inoltre il nostro universo è anche un universo di merci, e la circolazione delle merci ha come scopo l’accrescimento senza limite del denaro [e ciò, si è visto, riveste una decisiva importanza al fine di definire la specifica fisionomia storicamente acquisita dallo stesso sviluppo tecnico], che è un altro mezzo (il denaro) senza alcun altro intrinseco scopo che non sia la sua natura di mezzo».9

Nella scuola, come nell’intera società, agiscono forze che vorrebbero mercificarla e che, specialmente, vorrebbero deformare la natura umana. Il compito che ci spetta è quello di denunciare le contraddizioni e le manipolazioni mercificanti. Occorre dunque promuovere una educazione capace di rimettere al centro i fini e, dunque, la metafisica con la quale riportare la razionalità olistica e assiologica dove oggi regna la sola razionalità strumentale (in quanto tale irrazionale).

***

***

 

Note

1 Massimo Bontempelli (Pisa, 26 gennaio1946– Pisa, 31 luglio 2011) è stato uno storico, filosofo, saggista e insegnante italiano, autore del saggio L’agonia della scuola italiana, Petite Plaisance, Pistoia 2000.

2 Fabio Bentivoglio, Massimo Bontempelli, Storia di uno sfascio epocale, 2009 in Dossier Scuola, pag. 20

3 Ibidem,  pag. 20.

4 Ibidem,  pag. 23.

5 Ibidem,  pag. 25.

6 Ibidem,  pag. 28.

7 Ibidem,  pag. 30.

8 Ibidem,  pag. 31.

9 Massimo Bontempelli, La conoscenza del bene e del male, Petite Plaisance, pag. 123



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Marx lettore di Spinoza. «Lo scopo della filosofia non è altro che la verità. […] In un ordinamento politico non è mai possibile, se non con tentativi destinati a fallire miseramente, voler imporre a uomini di diverse e opposte opinioni l’obbligo di parlar e esclusivamente in conformità alle prescrizioni emanate dal sommo potere».


Salvatore Bravo

Marx lettore di Spinoza

Comprendere Marx significa spostarsi in modo sincronico nella sua complessiva impostazione teorica. Vi sono cesure, ma specialmente linee di continuità che vanno rintracciate per ricostruire il senso dell’opera marxiana nella sua ispirazione umanistica. Il comunismo abbozzato nel cantiere Marx ipotizza il soggetto emancipato dalle strutture di sussunzione materiale e formale, non più né obbedientedisobbediente, in quanto vive la pienezza delle sue possibilità e del suo conatus in un quadro politico senza le forme gerarchiche dell’obbedienza nella forma dello Stato, della proprietà capitalistica e della religione. La trinità dell’obbedienza non può che produrre negazione e alienazione.

Marx lettore spinoziano, dunque, in quanto il soggetto può relazionarsi al mondo in modo fecondo per ricrearlo soltanto se perviene a se stesso dopo un lungo processo dialettico nel quale ha vissuto, pensato e razionalizzato la liberazione dalle mordacchie delle superstizioni e della naturalizzazione del sistema capitale. Ogni feticismo è una forma di religione irriflessa e dunque non riconosciuta.

Nella formazione di Marx il Quaderno Spinoza del 1841 è rilevante non solo per comprendere la genealogia delle opere della maturità, ma l’opera giovanile può essere d’ausilio per capire il comunismo marxiano, nel quale importante – quanto e anche più dell’abolizione della proprietà privata – è il soggetto liberato dall’obbedienza che diviene soggetto attivo della storia. La proprietà privata è il ceppo che gerarchizza e ordina l’obbedienza associata e rafforzata dalla sovrastruttura con le sue manifestazioni culturali e sociali. La religione è il mezzo più potente con cui insegnare ideologicamente l’obbedienza e proiettare la speranza in un tempo sovrastorico.

Nel Quaderno Spinoza il commento marxiano al Trattato teologico-politico e alle lettere di Spinoza destruttura la religione, rendendola intellegibile, smascherando la sua essenza ideologica e il suo essere funzione del potere. Nei rapidi passaggi dell’opera, Marx (che pur avrà comunque un rapporto lui stesso controverso con la filosofia), specifica che la filosofia è radicale nella sua essenza, perché cerca, vuole e dimostra la verità. La filosofia non scende a compromessi, perché la verità non la si può accogliere parzialmente: in tal caso è già menzogna. La religione è obbedienza e pratica della pietà che non trasforma il mondo, ma lo conserva con le sue piaghe dolenti e le sue contraddizioni:

«[25] Resta infine da dimostrare come tra la fede, o teologia, e la filosofia non esista alcun rapporto né alcuna affinità, cosa che non può fingere di non sapere nessuno che conosca il fondamento e lo scopo di queste due discipline, le quali sono tra loro totalmente diverse. Lo scopo della filosofia, infatti, non è altro che la verità; mentre quello della fede [come abbiamo diffusamente dimostrato] è solamente l’obbedienza e la pietà. I fondamenti della filosofia, per di più, sono le nozioni comuni, sicché essa deve essere ricavata dalla sola natura; mentre i fondamenti della fede sono i racconti e la lingua, ed essa deve essere tratta soltanto dalla Scrittura e dalla rivelazione (§ 348)». 1

 

Disobbedire per esserci

La disobbedienza non è un atto di protesta: con essa piuttosto l’essere umano riconquista la sua natura e la sua dignità. La libertà è prassi non scissa dalla teoria, il pensiero è potenza creatrice incoercibile e non in toto controllabile: il potere dunque non può cancellare definitivamente la libertà. Si può fingere di obbedire per calcolo opportunismo o vigliaccheria, si possono ripetere le parole del potere, riprodurre atti e comportamenti, ma nessun potere può impedire il pensiero, vero baluardo della “naturale libertà” dell’essere umano che attende di venire al mondo non per semplice stimolazione delle circostanze storiche, ma per l’interazione tra condizioni storiche ed azione-reazione del soggetto. Dove vi è l’umanità l’impossibile è possibile:

«[36] Se, dunque, nessuno può rinunciare alla propria libertà di giudicare e di pensare quello che vuole, ma ciascuno è, per diritto incontestabile della natura, padrone dei suoi pensieri, da ciò deriva che in un ordinamento politico non è mai possibile, se non con tentativi destinati a fallire miseramente, voler imporre a uomini di diverse e opposte opinioni l’obbligo di parlar e esclusivamente in conformità alle prescrizioni emanate dal sommo potere (§ 420). 2

Il potere può costringere alla temporanea obbedienza, ma non può conquistare interamente l’essere umano, il quale con il pensiero resiste al controllo. Da un punto di vista fenomenico può obbedire, ma l’atto di obbedire, l’obbedienza carpita o concessa non significa che sia stato sconfitto e conquistato.

 

Potere e pensiero

Il potere nella nostra contemporaneità quantifica il numero degli ubbidienti per poter usare la quantificazione quale mezzo di persuasione coercitiva verso gli indecisi. Ma in realtà il potere, anche quando trionfa con i grandi numeri è più fragile di quanto si possa ipotizzare. Tra gli ubbidienti vi è un grande numero di persone già propense alla disobbedienza non appena il dominio allenti la sua morsa. I dubbi serpeggiano anche tra i più disponibili all’obbedienza. Non è possibile trasformare l’essere umano in automa meccanicamente passivo. La psiche e l’intelligenza restano potenzialmente libere, anche se si obbedisce per costrizione, disperazione o indifferenza. Marx sembra dirci che non dobbiamo disperare. Oltre l’omologazione c’è vita, e più vita di quanto le nostre singole e fragili intelligenze possano immaginare.

La libertà – conformemente al pensiero spinoziano – è un processo nel quale si incontrano stratificazioni di libertà e qualità diverse di libertà. Certo, si deve ammettere l’esistenza di gruppi umani che “pensano” – erroneamente ritengono – di agire autonomamente, ma in realtà sono parlati e agiti dal potere, è una possibilità dell’umano; ma non è l’unica e la coscienza, comunque, è sempre una variabile dinamica pronta a evolversi e/o ad involversi. Il rivoluzionario non deve arretrare dinanzi all’obbedienza gregaria, ma deve agire più fortemente per l’emancipazione, perché l’obbedienza è un dato storico e culturale:

«[53] Dal fatto che l’uomo agisca secondo la sua deliberazione, non si deve dunque concludere che egli operi secondo il proprio diritto, anziché secondo quello dello Stato (§ 374)». 3

Marx attraversa i secoli per parlarci e suggerirci che la storia non è chiusa e l’omologazione è solo apparente. La potenza del pensiero lavora per la storia e per un nuovo inizio anche quando la storia sembra una palude la cui acqua appaia immobile, senza alcuna crespatura. Il pensiero è discrepante e divergente, accumula e si carica di onde di esperienze; può temporaneamente rimuoverle, ma esse si riattivano in circostanze storiche favorite da innumerevoli atti di disobbedienza, apparentemente innocui e di poco conto, i quali preparano la “grande storia”. Le tempeste della storia possono essere precedute da decenni intrisi di un apparente generale insensibile distacco, in cui i piccoli gesti di una quotidianità pur desiderosa di cambiamento rimangono silenti, ma preparano il vento della storia. Le storie dei singoli possono passare e cadere nella transitoria dimenticanza del tempo, ma i gesti e le parole restano, si moltiplicano, prendono forma nelle circostanze preparate da un silenzio carico di esperienze e linguaggi insopprimibili. Nessuna forma di alienazione, quindi, potrà mai cancellare il pensiero dei popoli che si vorrebbero tenere alla catena:

«La svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose. Il lavoro non produce soltanto merci; produce se stesso e l’operaio come una merce, e proprio nella stessa proporzione in cui produce in generale le merci». 4

Se il potere avesse la possibilità di trasformarsi in dominio assoluto, la storia e il mondo già sarebbero diventati immense macchine di sfruttamento per produrre profitto. Tra i meccanismi della macchina, invece, sopravvive l’essere umano, che può pensare ed ascoltare l’alienazione che lo costringe ad una esistenza disumana.

Il dolore vissuto è già individualità potenzialmente pronta all’esodo.

Pertanto il pensiero è fonte di resistenza collettiva inesauribile che apporta il nuovo nelle acque apparentemente stagnanti dell’omologazione.

Salvatore Bravo

1 K. Marx, Quaderno Spinoza, Bompiani 2022, Capitolo XIV: Che cosa sia la fede e …

2 Ibidem, Capitolo XX: Della libertà di insegnamento.

3 Ibidem, Cap XVII Della Repubblica ebraica.

4 K. Marx, Manoscritti economico filosofici del 1844, il lavoro estraniato.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – “Dentro-Fuori”– “Inclusione-Esclusione”. Un esempio del modo in cui avviene il controllo e l’espulsione ce lo offre quanto è accaduto al giornalista Manlio Dinucci. «il manifesto» ha espunto un suo articolo sulla guerra in Ucraina e ha eliminato la sua rubrica dal quotidiano.

Salvatore Bravo

«Dentro-Fuori» – «Inclusione-Esclusione»

Un esempio del modo in cui avviene il controllo e l’espulsione ce lo offre quanto è accaduto
al giornalista Manlio Dinucci.
il manifesto ha espunto un suo articolo sulla guerra in Ucraina e ha eliminato la sua rubrica dal quotidiano

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La società binaria del turbocapitalismo ha la sua linea di confine, coloro che sono oltre la linea dell’inclusione sono persi nel silenzio, sono cancellati dall’ordine del discorso. Coloro che sono sospinti oltre, perché non allineati, non hanno il diritto di proferire parola. Hanno peccato contro il sistema capitale, il quale ha divorato ogni differenza ed oggi questa è la nuova religione che chiede ai sudditi di inginocchiarsi e, specialmente, di diventare clero orante che esalta la nuova divinità e a cui tutto si può chiedere. Se si è disposti all’olocausto di sé sull’altare del capitale, si è ripagati in proporzione ai propri meriti. La religione atea ha il suo inferno e il suo paradiso, ma tutti sono egualmente dannati.
In questi giorni di guerra, in cui il vero protagonista è il capitalismo, possiamo verificare la verità dell’inclusione e dell’addomesticamento alla divisione dentro-fuori ottenuto con il green pass. L’inclusione nell’epoca del capitale è utilizzata in ogni istituzione come la sovrastruttura culturale per giustificare, a livello ideologico, la struttura economica. La parola “inclusione” fa parte del lessico che ammicca al gergo della sinistra, ora usato dalle oligarchie e dai sostenitori del capitale per ricoprire ciò che è immondo con il velo di Maya intessuto di belle parole, sullo stile del celeste impero. L’inclusione, se si segue la traccia della parola, è un atto di confinamento all’interno: si “deve stare dentro”. Il celeste impero favorisce lo stare dentro, esige che si faccia pubblica confessione della propria fede nella religione del capitale. Un esempio del modo in cui avviene il controllo e l’espulsione ce lo offre quanto è accaduto al giornalista Manlio Dinucci, che su il manifesto ha pubblicato un articolo in cui affermava che la Russia ha reagito ad un’implicita aggressione. Non solo l’articolo è stato espunto, ma è stata eliminata anche la rubrica personale del giornalista.1 La sua voce può apparire solo se è organica alla versione del ministero della verità. Il giornalista ha detto addio alla sua collaborazione con il giornale “notoriamente di sinistra e di opposizione”. Anche in questo caso il sistema inclusivo pone le condizioni per oltrepassare “liberamente” la linea di confine dell’inclusione nella speranza che si scompaia nell’indeterminato.
La violenza è la sostanza del regime capitale, violenza polimorfa, in quanto utilizza varie modalità per normalizzare il linguaggio e neutralizzare il logos, il quale notoriamente è plurale e dialettico. Si susseguono episodi di espulsione, quindi, al fine di normalizzare l’opinione pubblica, ed indurla a ragionare secondo le categorie dentro-fuori, inclusione-esclusione.


Normalizzazione del pensiero unico

Si giunge a tale depauperamento della democrazia dopo trent’anni di guerra del modo di produzione capitalistico contro ogni forma di opposizione al capitale di tipo politico, filosofico, letterario e spirituale. L’abitudine all’espulsione dei dissidenti, associata all’ipnosi di massa, conduce all’indifferenza verso le sorti di ogni cittadino oggetto di tale dinamica di dominio. Il momento massimo di tale perversa rieducazione dell’essere umano è stato ed è il green pass. Con la tessera verde i cittadini hanno imparato a ragionare secondo confini geografici binari: c’è chi è dentro ed usufruisce di diritti formali, c’è chi è fuori e non usufruisce di nessuno diritto, al punto che vengono tagliate le condizioni per la sopravvivenza. Il dominio ha il diritto di concedere a chi è dentro la momentanea sopravvivenza, a chi è fuori la morte. Coloro che sono dentro sentono il sibilare della spada di Damocle dell’espulsione, per cui la parola “inclusione” appare minacciosa, in quanto indica la possibile espulsione, se non si acconsente “liberamente” all’ordine del discorso. Il sistema include a punti, l’obbedienza è premiata con l’inclusione meritocratica, in quanto i più ligi alla virtù dell’obbedienza possono avere in cambio carriera e successo, coloro che tiepidamente dicono il loro “sì” fatale hanno la sopravvivenza assicurata. Tutto è precario, pertanto l’obbediente di oggi può essere espulso dal ministero della verità in qualsiasi momento.
Obbedire è diventata la virtù del sistema capitale, ma pur in questa condizione di successo assoluto, il modo di produzione capitalistico mostra le due fessurazioni e la sua interna corruzione storica e strutturale. Se il sistema necessita di atei devoti dogmaticamente obbedienti ciò è dovuto, si può ipotizzare, al fatto che è eroso da innumerevoli contraddizioni sociali e produttive. Il sistema è sempre sul punto di perdere consenso, propone modelli sociali impossibili, spinge all’atomismo competitivo impoverendo una larga parte della classe media. Il processo di animalizzazione dell’essere umano, l’homo novus che deve consumare la sua biografia tra consumi e desideri illimitati, non si concretizza in senso assoluto. Nicchie di resistenza si diffondono, mentre le nuove generazioni sono affette da depressioni diffuse, anche in età infantile. Il capitale vorrebbe curare i sintomi di questa generazione alienata e sofferente senza intaccare il sistema, vive di miti e di onnipotenza, non vede che se stesso, come affermava Costanzo Preve, per cui è incapace di autocorreggersi.
Abbiamo tutti, in questo momento di crisi, l’occasione di capire e di uscire dal torpore e dal fatalismo quotidiano. La prima disobbedienza con la quale dobbiamo riconquistare la dignità che ci è stata sottratta è nel mettere in epochè la versione ufficiale per verificare versioni, immagini e parole: aude sapere, kantianamente dobbiamo riprenderci il coraggio di pensare dialetticamente per riaprire il campo di possibilità della storia e trascendere il filo spinato del confine. Bisogna ricominciare dalla ragione critica per imparare la disobbedienza interiore la quale deve trasformarsi in uso pubblico della ragione nei luoghi di lavoro e nelle nostre comunità degli affetti. La forza della ragione critica e pubblica non è nell’apparire nei media, ma è specialmente nella prassi quotidiana:

 

«Un’ultima osservazione. La società contemporanea è basata sulla diversificazione simbolica dell’offerta religiosa. Gli adolescenti isolati di fronte allo schermo luminoso del loro computer sono la base sociale odierna del rapporto individuale con l’assoluto, e quindi anche con Dio. Non si tratta più del vecchio libero esame di Lutero, ma del nuovo isolamento informatico. Le adunate urlanti dei papa-boysnon sono lo strumento per la rottura di questo isolamento. Come disse a suo tempo Heidegger, il collettivismo è solo l’individualismo posto al livello della totalità. È necessaria una vera e propria rifondazione della ragione, che parta dall’individuo e dalla sua interiorità e poi risalga al livello della società, tenendo conto però che finché la società non diventa comunità tutto è destinato a ricadere in basso al punto di prima».2

 

Alla tetragona realtà del capitale, si deve opporre la disobbedienza della ragione etica, la quale non cerca il proprio interesse privato, ma la vitalità comunitaria senza la quale ogni esistenza è solo un atomo oggetto della forza di gravità del modo di produzione capitalistico.

Salvatore Bravo

 

L’animalizzazione dell’essere umano nel capitalismo
indicepresentazioneautoresintesi


Note


1 “L’8 marzo – dopo averlo per breve tempo pubblicato online – il Manifesto ha fatto sparire nottetempo l’articolo di cui sotto anche dall’edizione cartacea, poiché mi ero rifiutato di uniformarmi alla direttiva del Ministero della Verità e avevo chiesto di aprire un dibattito sulla crisi ucraina. Termina così la mia lunga collaborazione con questo giornale, su cui per oltre dieci anni ho pubblicato la rubrica L’Arte della guerra” (Manlio Dinucci)


Qui a seguire l’articolo censurato.

Ucraina, era tutto scritto nel piano della Rand Corp, di Manlio Dinucci

Il piano strategico degli Stati uniti contro la Russia è stato elaborato tre anni fa dalla Rand Corporation (il manifesto, Rand Corp: come abbattere la Russia, 21 maggio 2019). La Rand Corporation, il cui quartier generale ha sede a Washington, è «una organizzazione globale di ricerca che sviluppa soluzioni per le sfide politiche»: ha un esercito di 1.800 ricercatori e altri specialisti reclutati da 50 paesi, che parlano 75 lingue, distribuiti in uffici e altre sedi in Nord America, Europa, Australia e Golfo Persico. Personale statunitense della Rand vive e lavora in oltre 25 paesi.
La Rand Corporation, che si autodefinisce «organizzazione non-profit e non-partisan», è ufficialmente finanziata dal Pentagono, dall’Esercito e l’Aeronautica Usa, dalle Agenzie di sicurezza nazionale (Cia e altre), da agenzie di altri paesi e potenti organizzazioni non-governative.
La Rand Corp. si vanta di aver contribuito a elaborare la strategia che permise agli Stati uniti di uscire vincitori dalla guerra fredda, costringendo l’Unione Sovietica a consumare le proprie risorse nell’estenuante confronto militare. A questo modello si è ispirato il nuovo piano elaborato nel 2019: «Over-extending and Un-balancing Russia», ossia costringere l’avversario a estendersi eccessivamente per sbilanciarlo e abbatterlo.
Anzitutto – stabilisce il piano – si deve attaccare la Russia sul lato più vulnerabile, quello della sua economia fortemente dipendente dall’export di gas e petrolio: a tale scopo vanno usate le sanzioni commerciali e finanziarie e, allo stesso tempo, si deve far sì che l’Europa diminuisca l’importazione di gas naturale russo, sostituendolo con gas naturale liquefatto statunitense.
In campo ideologico e informativo, occorre incoraggiare le proteste interne e allo stesso tempo minare l’immagine della Russia all’esterno.
In campo militare si deve operare perché i paesi europei della Nato accrescano le proprie forze in funzione anti-Russia. Gli Usa possono avere alte probabilità di successo e alti benefici, con rischi moderati, investendo maggiormente in bombardieri strategici e missili da attacco a lungo raggio diretti contro la Russia. Schierare in Europa nuovi missili nucleari a raggio intermedio puntati sulla Russia assicura loro alte probabilità di successo, ma comporta anche alti rischi.
Calibrando ogni opzione per ottenere l’effetto desiderato – conclude la Rand – la Russia finirà col pagare il prezzo più alto nel confronto con gli Usa, ma questi e i loro alleati dovranno investire grosse risorse sottraendole ad altri scopi.
Nel quadro di tale strategia – prevedeva nel 2019 il piano della Rand Corporation – «fornire aiuti letali all’Ucraina sfrutterebbe il maggiore punto di vulnerabilità esterna della Russia, ma qualsiasi aumento delle armi e della consulenza militare fornite dagli Usa all’Ucraina dovrebbe essere attentamente calibrato per aumentare i costi per la Russia senza provocare un conflitto molto più ampio in cui la Russia, a causa della vicinanza, avrebbe vantaggi significativi».
È proprio qui – in quello che la Rand Corporation definiva «il maggiore punto di vulnerabilità esterna della Russia», sfruttabile armando l’Ucraina in modo «calibrato per aumentare i costi per la Russia senza provocare un conflitto molto più ampio» – che è avvenuta la rottura. Stretta nella morsa politica, economica e militare che Usa e Nato serravano sempre più, ignorando i ripetuti avvertimenti e le proposte di trattativa da parte di Mosca, la Russia ha reagito con l’operazione militare che ha distrutto in Ucraina oltre 2.000 strutture militari realizzate e controllate in realtà non dai governanti di Kiev ma dai comandi Usa-Nato.
L’articolo che tre anni fa riportava il piano della Rand Corporation terminava con queste parole: «Le opzioni previste dal piano sono in realtà solo varianti della stessa strategia di guerra, il cui prezzo in termini di sacrifici e rischi viene pagato da tutti noi». Lo stiamo pagando ora noi popoli europei, e lo pagheremo sempre più caro, se continueremo ad essere pedine sacrificabili nella strategia Usa.

 

2 Costanzo Preve, Considerazioni introduttive sugli attuali dibattiti fra laicismo, scienza, filosofia e religione, Petite Plaisance Pistoia, pag. 22

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Metafisica e Guerra. Senza fondamento metafisico non vi è verità-bene.



Salvatore Bravo

Metafisica e guerra.
Senza fondamento metafisico non vi è verità-bene

La guerra di questi giorni necessita di una lettura storica e filosofica. La lettura storica ricostruisce gli eventi in modo olistico, mentre la filosofia deve svolgere un lavoro archeologico. La guerra non è uno stato di eccezione, è la normalità dell’Occidente capitalistico. Da Hobbes fino a giungere al tempo presente la guerra si svolge all’interno dei confini degli Stati o tra gli Stati. Ogni guerra è un episodio della storia della crematistica divenuta “la storia” dell’Occidente planetario. Lo scopo di ogni atto di guerra personale o collettivo è il perseguire interessi privati o lobbistici, è la potenza della dismisura che guida intenzioni, gesti, parole e armi. Bisogna far emergere il non detto, il paradigma all’interno del quale ci si muove, si pensa e si agisce. La ragione strumentale è ormai azione priva di limiti ed è supportata dal pensiero debole, che crede nel solo calcolo utilitaristico e nella logica computazionale.

La verità è dunque soltanto un accidente del passato: senza fondamento metafisico non vi è verità-bene, per cui la ragione strumentale da frammento dell’attività umana è divenuta totalità illimitata. La guerra tra Ucraina e Russia è un evento interno alla storia del nichilismo europeo e planetario che persegue l’onnipotenza economica. Senza fondamento veritativo (che dona concretezza alla vita dei singoli), si perseguono soltanto obiettivi sempre più astratti e onnipotenti per incidere nella realtà che sfugge tra i sogni di grandezza che si sviluppano nelle pieghe della disperazione. Le oligarchie, per toccare la vita e sentire di esistere, devono avere come obiettivo ambizioni sempre più elevate e onnipotenti. Si coniugano due livelli, che si intersecano: la crisi della metafisica ha comportato la rinuncia alla ragione oggettiva, tale condizione ha incentivato lo sviluppo della razionalità strumentale la quale ha comportato l’economicismo e l’accumulo smisurato. Le oligarchie internazionali esprimono massimamente i due piani, sono il punto apicale dell’eclisse della ragione oggettiva. La tragedia attuale è nella generalizzazione di tale cultura antimetafisica. I popoli sono addestrati a credere ciecamente nella ragione strumentale, guardano con ammirazione invidiosa la potenza delle oligarchie, non scorgono l’impotenza che li caratterizza, ma solo il farsi padroni e signori della vita dei popoli. I popoli sono ingannati e turlupinati della ragione metafisica. Le oligarchie negli ultimi decenni hanno agito neutralizzando il dibattito pubblico ed eliminando i corpi medi nei quali la dialettica costituiva il katechon all’onnipotenza distruttrice della razionalità strumentale. La condizione attuale è ulteriormente complicata dalla presenza pervasiva dei media in possesso degli oligarchi che sterilizzano il dibattito, e hanno sostituito la pluralità delle posizioni ideologiche e prospettiche, sostanza della democrazia, con la pluralità delle immagini ampiamente manipolate. Le immagini, con il loro silenzio, hanno sostituito il logos e il dialogo, per cui si ha la percezione di essere in democrazia, ma in realtà è solo il suo cavo esoscheletro. Dinanzi al nuovo episodio della storia del nichilismo tecnocratico in corso, vi è un’urgenza metafisica non colta e rimossa. Senza verità-bene nulla potrà cambiare, e qualora le circostanze portassero ad una rapida pace o al compromesso diplomatico, resterebbe irrisolto il fondamento metafisico del problema. Senza una rivoluzione culturale e metafisica continueremo ad essere all’interno di un percorso distruttivo planetario a livello biologico e culturale.

La razionalità strumentale non comprende e conosce che l’accumulo e l’utile, per cui è azione di devastazione antropologica e ambientale ordinaria con dei picchi di tensione nei quali si può scorgere la verità non detta della condizione storica attuale. Le guerre permettono di fessurare la realtà del potere e di guardare, all’interno, la verità in cui siamo implicati. La lettura storica delle ragioni delle parti in causa, se è scissa dall’ermeneutica filosofica, rischia di condurci ad un semplicismo che non individua la profondità del problema. Bisogna guardare la tempesta che muove l’intero bosco della vita e dei popoli e non solo i singoli alberi che cadono con il loro fragore.

Solo il frammento che rimanda alla totalità può liberarci dalla cecità della ragione strumentale. I suoi innumerevoli dati sono utili per comprendere la contingenza attuale, ma non sufficienti per cogliere il problema nella sua inquietante profondità.

Senza la verità e il bene nessuna alternativa è progettabile. Alla cultura del frammento che cela la ripetizione ossessiva dello stesso in forme nuove, dobbiamo opporre il frammento in relazione alla totalità per poterne svelare la verità e cambiare percorso che punta direttamente verso l’abisso. Necessitiamo di strumenti metafisici e di una nuova metodologia di indagine per comprendere che nel frammento di tale guerra è racchiusa la verità dell’intero. Far emergere tale verità è l’esodo che dobbiamo organizzare dalla cultura totalitaria delle oligarchie. La metafisica nella percezione della maggioranza e delle accademie è solo un residuo inutile del passato, invece, solo essa ci può restituire il riorientamento gestaltico per un nuovo inizio:

«L’Intero dell’essere, dunque, si trova come riprodotto nel frammento anche attraverso la predicazione dell’unità, così come il frammento ha proiettato la propria ombra sull’intero dell’essere attraverso la richiesta della determinatezza della predicazione. E infatti, come è impossibile, cioè autocontraddittorio, pensare al “fondo” dell’essere quale molteplice. Così è impossibile, cioè autocontraddittorio, porre qualcosa senza porla nella sua unità. Porre qualcosa vuol dire pensarla, pensare qualcosa vuol dire l’unità di un molteplice».1

La guerra ci restituisce il dramma metafisico in cui siamo. Il frammento non pensato nella sua unità e relazione diviene illimitato e, dunque, assimila e cancella la totalità per diventare la verità artificiale e relativistica senza fondamento. Senza la chiarezza del problema metafisico si rischia di non individuare il nemico sociale che tutto muove, il quale non è solo nemico di classe, ma è problema e dramma etico derivante dalla crisi dei fondamenti. Il nemico circola nei popoli con la cultura del frammento e con la ragione strumentale che conosce solo mezzi senza finalità onto-assiologiche. I popoli sono colonizzati dalle oligarchie, in quanto si nutrono dello stesso linguaggio bellicoso e proprietario.

Il vero lavoro metafisico deve partire dalla guerra che vive nei nostri comportamenti quotidiani per elevarsi ad un piano di consapevolezza comunitaria per trascenderla in una nuova progettualità metafisica. Le vie di uscita dalla crisi metafisica possono essere plurali, ma ciò che è irrinunciabile è riportare il frammento alla totalità nelle sue relazioni e rimandi, poiché la sola cultura analitica non può che portarci all’irrazionalità di uno stato di guerra perenne, in quanto le parti sono irrelate e dunque destinate al conflitto:

«In fondo, le vie d’accesso o di fuoriuscita di una città sono molteplici e l’importante è rappresentarne il senso interale, almeno nel nostro caso rispettandone la complessità di struttura».2

1 Carmelo Vigna, Il frammento e l’intero. Indagini sul senso dell’essere e sulla stabilità del sapere, Vita e Pensiero, Milano 2000, pag. 201.

2 Ibidem, pag. 426.


Picasso, Guernica, 1937

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Con il viaggio interiore di Pinocchio, e attraverso i simboli che attorniano il burattino, l’autrice osa sfidare l’immaginario pietrificato del nostro presente.

In copertina: Marc Chagall, Self-portrait with muse (dream), 1918 [Autoritratto con musa (sogno)].

indicepresentazioneautoresintesi


 In viaggio con Pinocchio
di Fernanda Mazzoli

Con il viaggio interiore di Pinocchio, e attraverso i simboli che attorniano il burattino,
l’autrice osa sfidare l’immaginario pietrificato del nostro presente.

Il Pinocchio di Fernanda Mazzoli è un viaggio tra letteratura di formazione, archetipi e critica sociale, è un processo cairologico come il titolo del saggio ci indica: In viaggio con Pinocchio. Nessun viaggio è mono-tono, ma comporta una serie di aspetti che l’autrice magistralmente tiene assieme in una sintesi armonica ed organica. Il viaggio con Pinocchio non termina mai con la subitanea lettura del libro di Collodi, ma continua più in profondità proprio dopo la comprensione del testo. Se il lettore ha vissuto le metamorfosi di Pinocchio, nelle trasformazioni ritrova se stesso e, specialmente, dinanzi a lui si apre un campo aperto di possibilità: deve scegliere il percorso migliore che lo riporta a se stesso, dopo i processi di reificazione in cui ha rischiato di perdersi. Il saggio di Fernanda Mazzoli osa sfidare l’immaginario pietrificato del nostro presente con Pinocchio ed i suoi simboli. Senza attività di simbolizzazione non vi è significato, per cui il nostro presente riposa nel “niente”. Rinunciando al viaggio interiore la politica è solo un far carriera e la comunità una giustapposizione di individui senza profondità e prassi. Non a caso dopo l’interessante prologo si sofferma sulla rilevanza della figura della fata Turchina, la quale è il logos, perché è la personificazione del fatum, da fari, ovvero di ciò che è stato annunziato. La fata preordina il percorso, è il concetto che prepara la prassi, fino a far coincidere teoria e prassi. Il logos è la fata Turchina, e senza logos non vi è formazione, non vi è crescita qualitativa, ma solo tempo cronologico senza speranza. Il tempo del viaggio è processo che deve maturare al contatto consapevole con il negativo. Pertanto la strada che il burattino deve svolgere per passare dallo stadio legnoso al corpo vissuto è segnato dalla fioritura del legno. Il legno non è materiale inerte, in esso scorre la vita in potenza che deve portare in atto i suoi germogli interiori fino alla completa trasformazione. Nulla è banale in un processo di crescita, ma tutto è meravigliosamente eccezionale:

«La banalità qui non è di casa: è storia, piuttosto, di una contrastata acquisizione della coscienza di sé e del mondo che si fa strada attraverso mille peripezie di carattere iniziatico».[1]

Il viaggio di Fernanda Mazzoli non si limita a cogliere i rapporti tra il testo di Collodi e la letteratura di formazione, rintraccia nel percorso interno al saggio elementi di divergenza e convergenza con il genere picaresco, ma è presente, anche, una lettura critica e sociale del romanzo. Nell’Italia che si avvia verso la sua prima rivoluzione industriale riemerge l’utopia dell’arricchimento facile con il Gatto e la Volpe e il desiderio utopico ed antico di un’abbondanza che  si autoproduce senza l’intermediazione del  lavoro:

«È il vagheggiamento di un’abbondanza che nasce direttamente da se stessa, senza l’intermediazione del lavoro, ad animare le strabilianti narrazioni, ora divertite, ora ingenuamente partecipi, messe in scena dalla letteratura dotta  e da quella popolare».[2]

Il romanzo ci induce a guardare al presente, da esso si dipanano piani di temporalità: vi è l’eternità dei simboli, il tempo coevo di Collodi e il nostro tempo. Il paese della Cocaigne è accostato al mondo debordante di merci dei nostri ipermercati, ma in essi la Cocaigne non è sogno, ma disincanto, perché senza il denaro nulla è possibile; si può solo guardare, ma si è respinti nel grigiore dell’impotenza e della frustrazione:

«Un grande centro commerciale che esibisce sui propri scaffali, accuratamente disposte, merci di ogni tipo e per tutti i gusti e che basta allungare per cogliere, fare proprie e soddisfare tutte le brame, potrebbe essere la versione moderna di Cocaigne».[3]

Pinocchio alla fine della sua iniziazione comprende che la crescita non è l’accumulo dell’individuo proprietario, ma è la luce interiore dei legami di significato senza i quali nulla ha senso. Il burattino ci insegna a non cadere nella trappola degli ipermercati e delle miserie dell’abbondanza. Solo la crescita qualitativa e la chiarezza del bene liberano dai processi di alienazione. Il bene è discreto e silenzioso, ed è Geppetto nel romanzo che testimonia la profondità del bene con la sua vita al limite della miseria, ma incentrata nel dono di sé, nella cura e nella misura:

«Se non modello, Geppetto identifica però un ideale di vita, fondato sulla misura, l’onestà, la sobrietà e il senso del dovere, che Pinocchio farà suo».[4]

In questo tempo bellicoso, il saggio di Fernanda Mazzoli non è fuga dalla realtà, ma ci è di ausilio per riscoprire ciò che è fondamentale per ogni comunità umana degna di essere definita tale: i processi di formazione e germinazione della vita, i quali non terminano con l’adolescenza, ma sono i tempi veri ed autentici di tutta l’esistenza. Il prezzo da pagare è la separazione dall’inautentico per una superiore qualità di vita. Ciò può avvenire in ogni periodo della vita, per cui Pinocchio è l’eterno nella condizione umana:

«È il prezzo da pagare per diventare se stessi, separazione dopo separazione, per raggiungere un’unità più alta, una forma che emerge dal caos dell’indistinto e conquista una sua faticosa libertà».[5]

[1] Fernanda Mazzoli, In viaggio con Pinocchio, Petite Plaisance, Pistoia 2022, pag. 76.

[2] Ibidem, pag. 57.

[3] Ibidem, pag. 66.

[4] Ibidem, pag. 42.

[5] Ibidem, pag. 86.


Pieter Bruegel the Elder, Luilekkerland (“The Land of Cockaigne “), oil on panel (1567; Alte Pinakothek, Munich).jpg
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo, Lo studio di Luca Grecchi sulle tracce della filosofia è un esercizio di critica sociale e di defatalizzazione./Letture.org, Intervista a L. Grecchi: «Come può esserci una filosofia prima della filosofia?».


A seguire:
Introduzione di Daniela Lefèvre-Novaro
Sommario del volume
Intervista a L. Grecchi: 5 domande all’autore da parte di Letture.org.

Salvatore Bravo

Lo studio e la ricostruzione storica di Luca Grecchi
sulle tracce della filosofia è un esercizio di critica sociale e di defatalizzazione

 

Verità e bene nella pratica filosofica

Vi sono studiosi che non si adattano alle mode accademiche, ma sono fedeli al loro destino. Praticare la filosofia significa avere la chiarezza del fine della stessa. La filosofia è scienza della verità, è attività veritativa che soppesa le opinioni con la forza dialogica delle argomentazioni per uscire dalla palude del conformismo nichilistico. Il presente ci offre un numero notevoli di studiosi, anche di valore, che si sono cadavericamente adeguati alla filosofia nella forma dell’epistemologia o del multiculturalismo. Spesso tali scelte – che negano la filosofia nel suo senso più profondo e nella sua tradizione più antica – sono dovute a pressioni culturali e sociali. In questo contesto gli studiosi che si sottraggono all’omologazione rassicurante sono preziosi, perché ci rammentano il fine autentico della filosofia e ci ricordano che adeguarsi è una scelta: è sempre possibile intraprendere la via più difficile.
La filosofia vive nei filosofi, per cui essa è sempre ad un bivio in cui bisogna scegliere se intraprendere la via dell’opinione o la via della verità. Luca Grecchi è in cammino sul sentiero della verità e le sue pubblicazioni testimoniano il suo percorso. Il suo ultimo testo, La filosofia prima della filosofia. Creta, XX secolo a.C.-Magna Grecia, VIII secolo a.C. (Morcelliana, Brescia 2022) non è una semplice ricostruzione genetica della filosofia, quale pratica della verità nel rispetto della natura comunitaria degli esseri umani. La filosofia difende la buona vita e il bene testimoniandoli, per cui la ricostruzione storica di Luca Grecchi sulle tracce della filosofia è un esercizio di critica sociale e di defatalizzazione. Il presente è senza speranza, la categoria della necessità regna, per cui l’attuale modello economico e sociale è giudicato come unico e senza alternative. Luca Grecchi attraverso l’analisi documentata degli albori della filosofia nella società cretese palesa che il presente è esperienza storica non assoluta, e specialmente, il futuro è condizione di possibilità progettante, solo se ci si rivolge al passato per esplorare modelli sociali ed economici nei quali il fine è il benessere dell’essere umano e non il profitto. Per mettere in atto tale prassi è necessario porre al centro la filosofia. Essa è analisi critica della totalità: il metodo dialettico concettualizza la totalità per saggiarne la qualità. Senza l’esame critico della totalità il presente si eternizza negando la prassi e la responsabilità etica e storica dell’essere umano:

«La filosofia, infatti, si occupa principalmente di due contenuti, ossia la verità e il bene, di cui nessuna altra scienza si occupa».[1]

La filosofia ha il compito – che si storicizza nel tempo – di porre un argine alla deriva crematistica, nella quale l’essere umano è solo un mezzo per il profitto e non un fine. Se si vive in una totalità in cui si è solo degli enti da consumare e usare all’occorrenza, l’infelicità e l’alienazione sono generali. La filosofia è anche pratica politica, non è l’anima bella che si rifugia nella turris eburnea dell’astratto, ma è concretezza etica sin dalle origini:

«Nell’VII secolo, dunque, la crematistica ricerca del vantaggio privato, era già presente nei processi dominanti della riproduzione sociale della realtà cittadina. Vi era tuttavia la consapevolezza che essa andava tenuta a freno dalle strutture pubbliche della nascente polis. Al crescere della pervasività della crematistica sul piano sociale cercarono infatti di rispondere le strutture politiche della polis, e, poco dopo, le strutture culturali della philosophia».[2]

 

Civiltà cretese e comunitarismo

L’essere umano per natura è comunitario. Anche l’attuale individualismo presuppone la comunità, solo che essa è intesa e vissuta come mezzo e non come fine. L’individualismo comporta la cattiva vita, poiché l’alterità è uno strumento per soddisfare necessità e per estorcere profitto. La filosofia fa emergere la verità del contesto storico per compararlo al bene, ovvero alla comunità in cui l’essere umano è il centro disinteressato di ogni attività e non una semplice comparsa in funzione del profitto. Non bisogna cadere nella trappola di coloro che affermano che la pianificazione comunitaria dell’economia sia possibile solo vi è una società poco sviluppata.
Luca Grecchi palesa la differenza tra la civiltà cretese e le civiltà orientali, in cui vigeva la gerarchizzazione del potere e la comunità era asservita al potere della casta sacerdotale. Condizioni storiche simili possono sviluppare diversi modelli politici. A tal fine la filosofia è fondamentale, poiché il comunitarismo presuppone una adeguata riflessione teoretica. L’architettura della civiltà cretese comporta una visione dell’essere umano e della totalità in cui è implicato. Il fine è il bene di tutti, pertanto l’economia non è crematistica e saccheggio dell’altro, ma equa distribuzione dei beni conservati nei magazzini di stoccaggio. La centralità è il cortile, spazio aperto in cui si svolgono le attività sociali ed in cui si impara la condivisione e la si organizza:

«Il cortile centrale inoltre rappresenta il cuore dei Palazzi cretesi, in quanto fu verosimilmente il luogo della comunicazione politica e della distribuzione economica dei beni, dunque il luogo fondamentale della comunità».[3]

L’architettura non è neutra, ma è l’oggettivazione della teoretica che guida la comunità. L’architettura ha la prima radice nel sostrato silenzioso ed essenziale della visione del mondo di una civiltà. Se guardiamo all’urbanistica delle nostre città (con la privatizzazione di ogni spazio), non è difficile dedurre che è l’interesse privato a condurre ogni azione e a determinare l’isolamento atomistico che deprime le energie creative e plastiche di ogni cittadino. Nella civiltà minoica la centralità del cortile è il segno della consapevolezza che il benessere dev’essere di ognuno, altrimenti non vi è che lotta e “animalizzazione indotta” dell’essere umano:

«Non vi è dubbio, insomma, che i Palazzi minoici siano stati strutture polifunzionali, ospitanti sia attività economiche che assemblee civili, sia feste sportive che cerimonie religiose. Ciò nonostante, la funzione primaria di tali Palazzi – la funzione essenziale – rimase quella economico-politica di coordinamento della pianificazione produttiva-distributiva dei beni necessari alla vita».[4]

 

La comunità come esperienza e aspirazione non cointingente

La fine della civiltà minoica non ha comportato la scomparsa nel nulla dell’esperienza cretese, ma essa rivive in taluni aspetti nella civiltà omerica, pur in condizioni storiche molto modificate e diverse. Non a caso nei testi omerici ritroviamo due parole (idion e demion) che segnalano la prevalenza etica e qualitativa del pubblico-comunità sul privato. L’idion è colui che si dedica solo ai propri interessi privati, per cui rompe il vincolo solidale con la comunità tutta:

«L’utilizzo dei termini idion e demion per indicare privato e pubblico era, del resto, già frequente nei poemi omerici, a riprova di una riflessione su questi temi che non poteva essere acerba».[5]

La società omerica, pur bellicosa, conserva la condivisione comunitaria; non a caso i guerrieri pongono al centro (es meson) il bottino per dividerlo. Il mettere al centro è un residuo vivo del passato che non trascorre, è il germe che sarà pensato e porterà alla polis. L’esperienza cretese non scompare con la civiltà minoica, ma la si ritrova ripensata nelle diverse condizioni storiche nelle civiltà geograficamente limitrofe. Nella polis si ha l’espressione massima di tale visione comunitaria, poiché la città è organizzata per il dialogo comunitario, per cui gli spazi pubblici sono la manifestazione della chiarezza concettuale del bene che deve integrare la città con la natura e gli dèi:

«Oltre alla pianificazione degli spazi pubblici (edifici, piazze, santuari, necropoli, ecc.) e degli spazi privati (ripartizione della terra urbana e agricola, ecc.), la progettualità originaria delle apoikiai prevedeva che, nel territorio, ampi spazi dovessero sempre rimanere di uso comune. Si tratta dei cosiddetti saltus, ovvero spazi agricoli occupati dalle foreste e dalle estensioni di altura, necessari per il pascolo estivo, il legname e la caccia. Inoltre, in pressoché tutte le poleis di Magna Grecia e Sicilia erano sempre assicurate le cosiddette “aree di rispetto”, definibili come aree libere situate a ridosso delle mura urbane, disponibili per vari utilizzi comunitari».[6]

Il percorso che dalla civiltà cretese porta alla polis è un messaggio che giunge fino a noi e ci invita a guardare, pensare e vivere il presente con lo sguardo della civetta che è in ogni essere umano:

«L’uomo ha necessità di vivere bene, e per ottenere questo risultato deve costituire all’interno della physis, ossia della realtà che lo ospita, un contesto comunitario in cui realizzare un’esistenza armonica, caratterizzata da rispetto e cura verso sé stesso, gli altri uomini, la natura e il divino».[7]

Leggere il testo di Grecchi è esperienza teoretica, poiché ci conduce con il suo stile discreto a riscoprire il passato per comprendere il presente, in modo da riportare la possibilità della prassi dove vige l’annientamento del solo profitto.

Salvatore Bravo

***

[1] Luca Grecchi, La Filosofia prima della filosofia. Creta, XX secolo a.C.-Magna Grecia, VIII secolo a.C., Scholé Morcelliana, Brescia 2022, pag. 15.
[2] Ibidem, pag. 116.
[3] Ibidem, pag. 73.
[4] Ibidem, pag. 89.
[5] Ibidem, pag. 115.
[6] Ibidem, pag. 135.
[7] Ibidem, pag. 156.





Intervista  pubblicata il 18 gennaio 2022 su “Letture.org


  • Prof. Luca Grecchi,
    Lei è autore del libro La filosofia prima della filosofia. Creta, XX secolo a.C. – Magna Grecia, VIII secolo a.C. edito da Morcelliana: come può esserci filosofia prima della filosofia?


La domanda è legittima, e la risposta doverosa. Il libro inizia infatti spiegando questo titolo strano, il che si può fare grazie alla coppia concettuale potenza/atto, tematizzata per la prima volta da Aristotele. Detta in modo semplice, la filosofia è un’attività che esiste da sempre in potenza nell’uomo, dato che, per natura, l’uomo – sintetizzo qui le tre caratteristiche essenziali che a mio avviso definiscono la filosofia – necessita, per realizzarsi compiutamente: a) di rapportarsi all’intero, ricercandone il senso; b) di conoscere con verità, agendo per il bene; c) di relazionarsi dialetticamente alla realtà, ponendosi continuamente domande e cercando di formulare risposte, a loro volta da vagliare. Posto che in potenza la filosofia esiste da sempre nella natura umana, essa ha tuttavia iniziato ad esistere in atto solo in un certo luogo ed in un certo momento – poi vedremo dove e quando –, poiché solo in quel luogo ed in quel momento si sono per la prima volta verificate le condizioni, naturali e sociali, favorevoli alla sua nascita.

Cerco di spiegarmi con un esempio. Un uomo e una donna, per natura, hanno sempre in potenza, se si uniscono, almeno in un certo periodo del loro ciclo vitale, la possibilità di procreare. Affinché la procreazione non resti una potenzialità ma si realizzi in atto, occorrono però molte condizioni (che l’uomo e la donna siano fecondi, che vi sia fra loro un’attrazione, che l’interazione della loro genetica non ostacoli la formazione del feto, ecc.). Nel caso mio e di mia moglie, già nei primi giorni dopo il concepimento di nostra figlia Benedetta, si erano verificate queste condizioni, senza che lo sapessimo. Benedetta c’era già, insomma, ma ancora non eravamo consapevoli della sua esistenza. Allo stesso modo, in base a quanto cerco di argomentare nel libro, a partire almeno dalla Creta palaziale del XX secolo a.C., la filosofia in un certo senso c’era già – per quanto non ancora compiutamente formata –, anche se non se ne conosceva l’esistenza; ciò in quanto le sue tre caratteristiche essenziali, che ho poco sopra sintetizzato, cominciarono a formarsi proprio in quel momento ed in quel luogo.

L’obiezione prevalente, tuttavia, che riceverò dagli storici della filosofia antica, immagino si condenserà nella seguente domanda: non è eccessivo andare indietro di 15 secoli nel ricercare l’origine della filosofia rispetto a quanto normalmente si fa, dato che la nascita della stessa è solitamente attribuita al VI-V secolo, coi Presocratici e con Platone? A questa domanda risponderei nel modo seguente: è eccessivo solo in rapporto a quello che si è finora fatto. Così, tuttavia, come non è eccessivo per un neonatologo analizzare un neonato facendo riferimento a tutte le condizioni biologiche del concepimento, all’intero periodo della gestazione e in generale alle varie fasi del processo procreativo, anziché partire solo – come si faceva una volta – dal momento della sua nascita, per lo stesso motivo non è eccessivo, a mio avviso, studiare la filosofia facendo riferimento alle condizioni originarie del suo concepimento, a tutto il periodo della sua gestazione e in generale alle varie fasi della sua “procreazione”. Indubbiamente, con la filosofia si parla di 15 secoli anziché di 9 mesi, e di un processo che riguarda molte generazioni anziché pochi individui, il che rende tutto più complesso. Penso però che sia doveroso considerare tale processo nella sua interezza: dalla cultura minoica del XX secolo alla cultura classica del V secolo vi è una continuità, che nel testo è mostrata in vari modi, la quale deve essere valutata compiutamente se si desidera comprendere in maniera adeguata la nascita della filosofia.

Nel volume ho utilizzato ripetutamente una analogia vegetale – poco fa ho usato quella umana –, assimilando la filosofia a una piantina, uscita dal terreno nel VI-V secolo, e di cui, al massimo, è stata ipotizzata l’esistenza di radici un paio di secoli prima, con la poesia di Omero. La cultura omerica, tuttavia, dipende strettamente dai cosiddetti “secoli oscuri” che l’hanno preceduta (XI-IX), i quali sono, a loro volta, la risultanza del crollo dei regimi micenei (XVII-XII), che ebbero come modello – per quanto senza assimilarne compiutamente la cultura – proprio la civiltà minoica cretese (XX-XV). Possibile, alla luce di quanto ho qui sintetizzato, continuare a studiare la piantina della filosofia considerando solo, al più, i 2 centimetri (secoli) delle sue radici fino a Omero, quando è assai verosimile, per i legami ora esposti, che esse siano lunghe almeno 15 centimetri (secoli) fino a Creta? Mi sembra semplicemente che finora, siccome è molto difficoltoso scavare in profondità, si sia scavato solo in superficie, o spesso addirittura non si sia scavato, essendosi limitati – me compreso – a studiare solo la parte della piantina fuoriuscita dal terreno (ossia la filosofia quando ha iniziato ad essere nominata, coi Presocratici e con Platone), riducendo però di molto, in questo modo, le possibilità di comprensione della stessa.

Mi conceda un’ultima analogia – di quelle che fanno sorridere gli studenti a lezione –, stavolta di genere animale, per par condicio con quelle umana e vegetale utilizzate prima. In una gita ad un parco zoologico di qualche anno fa con mia figlia, ho appurato che la lunghezza delle gambe di una giraffa adulta è di circa 150 centimetri. Sarebbe ben rappresentata, a suo avviso, una giraffa con solo 20 centimetri di gambe? Senza considerare i secoli di cui si occupa questo libro, la filosofia rimane disegnata come una giraffa con le gambe di 20 centimetri. Per quanto la parte più importante di una giraffa sia verosimilmente costituita dal tronco e dal collo, con le gambe così corte essa non è raffigurata in maniera corretta. Ciò nonostante, da secoli, continuiamo a rappresentare la filosofia in questo modo, con tutto quello che ne consegue. Nel libro mostro in merito che molti errati luoghi comuni sulla nascita della filosofia (ad esempio il suo presunto sorgere nelle “colonie”, senza che si specifichi bene questo termine), si originano proprio a causa della mancata analisi delle sue condizioni di base. Per questo motivo ritengo che i futuri manuali di Storia della filosofia dovrebbero essere integrati, nelle loro prime pagine, non col contenuto di questo libro, ma col contenuto di questi secoli. Nutro tuttavia, in merito, poche speranze: lo specialismo accademico non accetta di aprirsi a novità così grandi. La mia proposta sarà per lo più considerata come il testo eccentrico di uno studioso “originale”; o, ancor più probabilmente, sarà ignorata.


  • In che modo, nel XX secolo a. C., a Creta ebbe inizio
    il processo che condurrà alla costituzione della polis
    e alla fioritura della philosophia?


Creta è un’isola grande circa come le Marche, più o meno equidistante fra l’Europa, l’Asia e l’Africa. Per la sua bellezza, fin dal Neolitico, fu abitata da popoli diversi, non esclusivamente da gente ellenica. Solo nel seguito la sua grande civiltà, grazie anche alla mediazione micenea, plasmò la cultura ellenica costituendone la matrice originaria. Lei mi chiede però, giustamente, come sia stato possibile, a partire dai primi insediamenti organizzati dell’Età del Bronzo, giungere progressivamente fino alla costituzione delle poleis ed alla successiva fioritura della philosophia, che è effettivamente un prodotto delle poleis elleniche.

Ebbene, pensi alle tre caratteristiche essenziali della philosophia cui abbiamo accennato sopra: il rivolgimento all’intero; la ricerca della verità e del bene; l’approccio dialettico alla realtà. Pensi a una situazione originaria, in cui vari gruppi di persone vennero ad abitare diverse parti dell’isola cercando di costituire aggregati stabili in cui vivere in maniera armonica. Come ragionarono e come agirono questi gruppi? Essendo nuclei comunitari, come lo sono quasi sempre i nuclei che viaggiano cercando di formare contesti abitativi permanenti, essi in sostanza seguirono – naturalmente senza esserne consapevoli – i tre orientamenti costitutivi della philosophia: a) si rapportarono all’intero, ossia alla natura (scelta di un luogo con corsi d’acqua potabile, con la giusta vicinanza al mare, con luoghi coltivabili nelle vicinanze, ecc.), al divino (scelta dei riti più adatti ad unire la comunità, a rispettare tutte le divinità care ai rispettivi gruppi, a garantire l’armonico svolgimento della vita sociale, ecc.) e all’umano (scelta di modalità economiche comunitarie, di una legislazione attenta alle esigenze di tutti, delle modalità migliori per favorire le espressioni culturali, ecc.). In questo modo essi realizzarono anche, implicitamente, b) una ricerca della verità e del bene, che fu posta in essere in un continuo confronto, ossia c) in maniera dialettica.

A Creta, insomma, rispetto alle coeve civiltà orientali, molto più gerarchiche, autoritarie e dogmatiche, si crearono forse i primi contesti cittadini comunitari di cui abbiamo notizia, i quali scelsero – verosimilmente, per quanto ho potuto ricostruire – di organizzare la loro vita sociale in maniera pianificata, in maniera tale che ognuno potesse dare in base alle proprie capacità e ricevere in base ai propri bisogni. Una simile pianificazione comunitaria, organizzata nei famosi Palazzi, adottata peraltro in tutte le principali città dell’isola, non poté prescindere da una grandiosa elaborazione culturale e da una rilevante condivisione politica: due condizioni essenziali che spiegano forse come, da quelle prime poleis ante litteram, iniziarono ad essere inseriti nel terreno, a mettere radici e a germogliare i primi semi della philosophia.


Quali caratteristiche
presenta
la Creta palaziale?


Ho poco fa parlato di Palazzi, ma non dobbiamo pensare – come pure i primi archeologi scopritori degli stessi, fra cui Evans, hanno lasciato intendere – a qualcosa di simile ai palazzi reali di Versailles. I cosiddetti Palazzi, nelle città minoiche, erano infatti costruzioni molto ampie in cui avevano sede le istituzioni politico-religiose-culturali della città, così come diverse attività produttive. Essi erano in effetti più simili a veri e propri quartieri, in cui erano svolte le attività economico-sociali fondamentali relative alle necessità della vita, fra cui in primo luogo lo stoccaggio e la distribuzione delle risorse alimentari, nonché l’organizzazione – la scrittura nacque verosimilmente a Creta con questo fine – della pianificazione. Erano Palazzi senza mura, aperti alla cittadinanza, non arroccati in difesa del potere. Nonostante l’immaginario collettivo pensi al mitico Minosse come ad un monarca imperialista, l’iconografia rimasta non mostra mai, a Creta, re in posizioni dominanti e sudditi con la testa bassa, come spesso accade nelle coeve civiltà orientali; mostra anzi spesso gruppi di persone felici con la testa alta. L’archeologia conferma peraltro l’iconografia, con situazioni abitative, nei nuclei urbani, tutte fra loro piuttosto omogenee. Si tratta, come dico più volte nel libro, soltanto di indizi (qui ne ho indicati alcuni), ma se tre indizi fanno una prova, nel libro ci sono anche alcune prove.


In mancanza di documenti scritti,
su quali elementi
si basa il Suo studio


Altra domanda doverosa. Mi si potrebbe infatti giustamente chiedere: essendo lei uno storico della filosofia antica – peraltro un po’ anomalo, dato che si occupa anche di filosofia morale e di filosofia teoretica –, cosa ne sa di queste civiltà anteriori ad Omero, di cui restano poco più che le pietre? Naturalmente, mi sono a lungo documentato prima di scrivere questo libro, come la bibliografia citata dimostra. Non solo: ho anche importunato, per diverso tempo, archeologi, storici, orientalisti, ecc., nella convinzione che il sapere non sia caratterizzato da compartimenti stagni. In tal senso, devo ringraziare in modo particolare due archeologi assai interdisciplinari, quali la Professoressa Daniela Lefèvre-Novaro, dell’Università di Strasburgo e il Professor Massimo Cultraro, dell’Università di Palermo, che mi hanno fornito molte utili indicazioni ritenendo, alla fine, plausibile la mia interpretazione.

Queste epoche in effetti, su cui non ci sono fonti scritte dirette – la cosiddetta Lineare A, nonché le altre scritture geroglifiche minoiche, non sono ancora state completamente decifrate; inoltre, il totale dei testi minoici di cui disponiamo ammonta a poche pagine di un attuale libro –, devono necessariamente essere indagate in maniera interdisciplinare. Occorre infatti saper mettere insieme i pezzi scoperti dai singoli specialisti, per arrivare a delineare un quadro coerente di una civiltà così meravigliosa come quella minoica. Questa attività però, oggi, la fanno ormai in pochi. I processi selettivi dell’Università obbligano in effetti ad uno specialismo estremo, tanto che se ci si lascia risucchiare dagli stessi si finisce con lo studiare una sola tesserina del mosaico per tutta la vita, senza andare oltre. Eppure, ci vuole sempre qualcuno che tenti di mettere insieme le tessere, se si desidera avere una immagine complessiva del mosaico.


  • In che modo l’indagine sugli albori della riflessione filosofica
    ci aiuta a comprendere il senso di un fine
    che la filosofia contemporanea sta progressivamente smarrendo?

Questa domanda finale è molto bella, perché condensa veramente il significato che attribuisco a tanti anni di libri e di insegnamento. Indagando le culture antiche, ho sempre cercato di far risaltare il valore comunitario della filosofia, che è appunto una ricerca comune della verità dell’intero, svolta in comune per favorire il bene comune. Il fine del fare ricerca, in filosofia, deve sempre essere l’affrontare problemi importanti per trovare soluzioni importanti, dunque anche modelli di riferimento validi. La Creta minoica, in base a quanto argomento nel libro, rappresenta un possibile paradigma di società comunitaria, pianificata in maniera armonica, in cui a nessuno mancava il necessario, la natura era rispettata e ciascuno partecipava liberamente al processo della riproduzione sociale complessiva. Non abbiamo bisogno, oggi, di un modello simile, vivendo in un modo di produzione che, strumentalizzando tutto al fine del profitto, non rispetta né gli uomini né la natura, mettendo in pericolo la stessa sopravvivenza del pianeta e lasciando nella infelicità centinaia di milioni di persone? 

Sono assolutamente consapevole dei limiti della mia ricerca filosofica, che è “roba minima”, come direbbe Enzo Jannacci. Finché, tuttavia, mi sembrerà di essere almeno un poco utile in questa direzione, continuerò a scrivere; quando capirò di non esserlo più, impiegherò la mia vita in maniera diversa, per quanto sempre con lo stesso fine.

****

Luca Grecchi insegna per le cattedre di Filosofia morale e di Storia della filosofia all’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Fra le sue pubblicazioni più recenti: Leggere i Presocratici (Morcelliana, 2020) e tre volumi della collana Questioni di filosofia antica (Edizioni Unicopli): Natura (2018), Uomo (2019) e Ricchezza (2021). Con l’editore Petite Plaisance ha curato tre importanti volumi collettivi: Sistema e sistematicità in Aristotele; Immanenza e trascendenza in Aristotele; Teoria e prassi in Aristotele (rispettivamente 2016, 2017 e 2018).

Luca Grecchi – Alcuni suoi libri


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – L’età delle parole, ricordando Antonia Pozzi. Non dobbiamo temere i cancelli chiusi dal silenzio: abbiamo bisogno di parole di verità.

 
Salvatore Bravo

L’età delle parole, ricordando Antonia Pozzi

Non dobbiamo temere i cancelli chiusi dal silenzio: abbiamo bisogno di parole di verità
 

“Forse l’età delle parole è finita per sempre”, scrisse nel 1938 Antonia Pozzi al poeta Vittorio Sereni. Le parole di Antonia Pozzi risuonano, ora, e oggi più vere che mai. Vi è il timore che le parole non siano più il luogo topico dell’umanizzazione: hanno dismesso la loro capacità di comunicare, di mettere in comune argomentazioni e vite per capire la verità. Al loro posto vi è solo la parola usata come arma contundente per segnare la potenza di pochi e l’umiliazione di molti. Le parole non solo ci parlano, ma sono la breccia con cui l’irrazionale diviene razionale, sono la partecipazione alla vita, sono la vita nel suo dispiegarsi verso la totalità.

In questo momento storico sono soltanto il mezzo con cui si tolgono i diritti, si occultano i doveri e si alimenta la discriminazione. Il confronto dialogico è stato sostituito dal monologo ubbidiente a cui si obbedisce supinamente. L’obbedienza non è una virtù, Don Milani lo ha testimoniato!

Solo le parole riescono ad emancipare dalla sofistica del dominio. La mortificazione che molti provano è l’effetto delle parole usate come uno sperone di ferro sotto il quale schiacciare i dissenzienti: le loro parole non devono trovare spazio e tempo per apparire, ma devono essere tacitate e oltraggiate.

Assistiamo all’oltraggio delle parole, e quindi alla negazione dell’essere umano. Senza parole l’essere umano è disumanizzato, il logos è sostituito dalla scaltrezza del calcolo e dall’uso arbitrario dei significati.

Non resta che la solitudine. Il rischio è la disperazione silenziosa, poiché il furto delle parole non è un semplice saccheggio, è negazione della profondità umana e della natura dialogica che, per storicizzarsi, necessita dell’incontro. Quest’ultimo è possibile solo se la parola è la soglia nella quale e dalla quale la verità prende forma.

Senza le parole del logos non vi è che la legge del più forte: la violenza pur invisibile è legalizzata e la truffa sociale della governance ai danni della collettività diviene “normalità” e “banalità del male” che penetra nelle relazioni per saccheggiarle della corrente calda dell’incontro senza il quale non vi è pensiero, ma solo dominio.

Antonia Pozzi si è suicidata nel 1938, nell’anno delle leggi razziali. La sua tragica scelta è per noi un monito: non si può vivere senza parole e senza verità. Ella non ha resistito dinanzi all’apparir del vero, come la giovane Silvia (nella parola poetica di Leopardi). Dobbiamo ricordare la sua morte e la cornice in cui è avvenuta per non cedere alla violenza dei nostri giorni, anche se ai più appaia ormai inesorabile. Dinanzi al male che avanza abbiamo bisogno di parole di verità: «L’amore per la verità non è fattore normativo autoritario, ma è intima coerenza tra vita e pensiero», ha scritto una insegnante in questi difficili giorni. Parole di verità per non cedere alla malinconia delle passioni tristi che incombe su tutti. Non dobbiamo temere i cancelli chiusi dal silenzio:

 

Giardino chiuso

 

Come in una fiaba
triste – un altro giardino
si chiude – al margine
della strada –

 Restano soli sul colle
i pioppi con le foglie leggère –
le siepi di bosso – le mammole
delle primavere
perdute –

 Il bosco dei faggi
si fa tutto ombra
senza raggi
di cielo –
tomba
per gli uccelli
che saranno
morti –

 Come in una fiaba
triste – il viandante che porti
per questa strada

la sua

fatica –
vede una fuga di cancelli
chiusi – su l’antica
erta – e imprigionati nel fondo
i castelli
dei sogni ciechi –

 

13 settembre 1933

Antonia Pozzi

I cancelli hanno bisogno di parole per aprirsi alla speranza e alla prassi, ora che il cielo sembra chiudersi su di noi.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo- Il sei dicembre 2021 entra in vigore il super greenpass.

 

Salvatore Bravo

6 DICEMBRE 2021

Il sei dicembre 2021 entra in vigore il super greenpass

***

Si tratta di un’autentica rivoluzione reazionaria, in quanto i diritti sono concessi nello stile della costituzione ottriata e flessibile. Con un colpo di spugna il governo ha eliminato i diritti costituzionali conquistati dal popolo con la resistenza per inaugurare una nuova fase regressiva della democrazia. Dal sei dicembre vige un nuovo stato di diritto, in cui i cittadini non sono eguali davanti alla legge, ma si conquistano i diritti con l’obbedienza: diritti a punti o se si vuole a livelli. Vi sono tre livelli di cittadinanza: i senza grennpass, coloro che hanno il greenpass minimo e i supercittadini con il super grenpass. Cittadinanza a fasce di livello che mette in atto una discriminazione legalizzata. Il diritto allo studio è in realtà sospeso, gli studenti per poter arrivare nelle scuole devono dotarsi di greenpass.

Se uno Stato impedisce l’istruzione introduce una discriminazione inaudita: si neutralizza la formazione personale, si sottrae la possibilità di educarsi, si insegna che non tutti possono nei fatti entrare in classe. Gli studenti imparano che i diritti sono concessioni temporanee e che la formazione può essere espletata solo con l’obbedienza. Non poco tempo addietro il ministro dell’istruzione introduceva lo slogan “scuola affettuosa”. Una scuola che impedisce l’istruzione e ricatta le famiglie con il greenpass non è affettuosa, ma discrimina e insegna la discriminazione. L’inclusione parola che ossessiva si ripete nelle scuole di ogni ordine e grado mostra la sua tragica verità: non vi è inclusione, ma discriminazione, e se vuoi essere incluso devi obbedire e fingere che lo fai liberamente, magari con un post in cui ci si vaccina senza sapere con precisione cosa ti stanno inoculando. Parlare e discutere agli alunni dell’uguaglianza, battersi il petto dinanzi a ogni forma di violenza e poi impedire ad una parte della popolazione scolastica di viaggiare con treni e autobus è una contraddizione palese, ma taciuta. In TV si continua a ripetere e a quantificare il numero dei greepass scaricati, ma se anche dietro uno dei greenpass vi è una sola persona costretta dalle circostanze a farsi inoculare ciò che non vorrebbe, non si può parlare di stato di diritto, ma di violenza conclamata e velata da slogan ed esemplificazione. Ciò che è più grave è l’incultura della discriminazione che entra nel lessico quotidiano. Il nuovo lessico quotidiano è infarcito di violenza, e questa volta le parole coincidono tragicamente con i fatti. Non solo alunni, ma anche docenti e lavoratori non potranno usare mezzi pubblici, se non accettano gli ordini stabiliti per decreto esautorando il parlamento. Dopo l’eliminazione dell’articolo diciotto dallo Statuto dei lavoratori, si introduce e si rafforza la discriminazione senza giusta causa.

In una democrazia si discute, ma, da noi, d’ora in avanti si obbedisce. Se si guarda lo stato presente con sguardo olistico, non si può che avere la tetra immagine della fine della democrazia e l’inizio di una transizione verso una forte limitazione della stessa. Il senatore Monti lo ha dichiarato apertis verbis, “in Italia vi è troppa democrazia ed informazione, la democrazia va dosata alle circostanze”. Il senatore che ha tagliato i servizi sociali e le pensioni, se ha potuto dichiarare che la democrazia dev’essere adattabile come i fondi di investimento, per cui i diritti sono concessi sul “merito”, lo ha fatto, perché sa che una parte della popolazione è stata rieducata a giudicare la democrazia come un limite. Tali dichiarazioni sono possibili, perché è passata la logica della discriminazione dalla quale non sarà facile tornare indietro. Si sta sperimentando una democrazia limitata e a tempo. Coloro che gongolano per il supergreepass sappiano che nessun diritto è per sempre e che potrebbero ritrovarsi tra i dannati all’improvviso. L’Europa complice tace e applaude all’esperimento italiano. L’Europa dimostra la verità del capitalismo nella sua fase assoluta: il capitale è per suo fondamento discriminatorio ed ha in odio l’uguaglianza. Decenni di tagli ai diritti hanno inoculato l’attuale normalità della discriminazione che non ha nessun fine sanitario, ma è l’inizio di una nuova ideologia da capire e arrestare. Il 6 dicembre non è l’inizio della libertà come i manipolatori vogliono lasciare intendere, ma l’introduzione di un apartheid accettato senza nulla controbattere da partiti e sindacati, e di questo bisogna prendere atto. In ultimo, è bene rileggere l’articolo 3 della Costituzione per comprendere l’abisso in cui siamo:

«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Salvatore Bravo


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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