Salvatore Bravo – L’umanesimo integrale di Massimo Bontempelli. Filosofia Storia Pedagogia

Massimo Bontempelli-Salvatore Bravo
Salvatore Bravo

L’umanesimo integrale di Massimo Bontempelli. Filosofia Storia Pedagogia

ISBN 978-88-7588-176-4, 2020, pp. 128

indicepresentazioneautoresintesi

In copertina:
Paul Klee, Einst dem Grau der Nacht enttaucht …
(Dapprima innalzatosi dal grigiore della notte …),
acquarello, inchiostro e matita su carta argentata, 1918, Berna, Kunstmuseum.

Il titolo dell’opera fa riferimento all’incipit di una poesia scritta probabilmente da Klee:
Dapprima innalzatosi dal grigiore della notte
poi grave e prezioso
e reso forte dal fuoco …
Infine etereo avvolto di blu,
si libra su campi innevati,
verso cieli stellati.


Massimo Bontempelli
(1946-2011)

Massimo Bontempelli, professore di liceo, è stato filosofo olistico: l’originalità della sua teoretica è nel tenere assieme filosofia, storia e pedagogia, al fine di orientare la paideia sul fondamento veritativo che coniuga l’asse ontologico-assiologico all’azione educativa. Ha avvertito l’incombere plumbeo del nichilismo sul destino dell’Occidente, guardando con gli occhi della mente il dramma in cui è impigliata la cultura occidentale ormai planetaria. Trascendere il nichilismo ha significato per lui interpretarlo, inseguirlo nei meandri della sua genealogia, per sfidarlo, e quindi, ricostruire il percorso verso la verità. La sofferenza teoretica per lo stato presente, si è sublimata in pensiero e pratica educativa. Filosofo dalla passione intellettuale per il presente, con l’impegno rivolto fortemente al futuro, ha teorizzato l’alternativa al nichilismo consumistico dei nostri giorni. Ha rielaborato il pensiero teoretico e po­litico di Hegel mediandolo col pensiero di Marx. Con Hegel ha condiviso l’urgenza della metafisica, senza la quale il soggetto è lasciato alla sua accidentalità e dissolto nel pulviscolo del conflitto economico. Il suo stile filosofico ed educativo ha un significato simbolico e sostanziale: l’essenziale è la parola, veicolo della qualità contro la quantità. Ci ha lasciati eredi non solo della sua attività teoretica, ma della sua esperienza umana vissuta fuori dalla caverna della società dell’immagine e della pornografia mediatica spacciata per trasparenza.

 Questi i temi discussi

Prologo / L’uroboro / Nichilismi / La tirannia del presente: l’isola di Pasqua / Il verme nel nocciolo / Il pensiero debole / Massimo Bontempelli / L’olismo come paradigma irrinunciabile / La bicicletta di Bontempelli / La metafora della caffettiera / Concreto ed astratto / Lo sguardo contro il nichilismo / Destra-Sinistra / Pedagogia della passività / Le categorie della quantità e della qualità / La categoria della quantità e la morte / Modelli metafisici / Il regno dei lupi / La libertà / La derealizzazione / La sussunzione / Il bene / Il narcisismo-derealizzazione / Perché educare? / A scuola di nichilismo / Filosofia e Storia / La storia come necessità / Tempo e memoria / Msssimo Bontempelli/Costanzo Preve / Narcisismo, concretismo e arbitrarismo / Le miserie dell’abbondanza / La metafora della valle / Verità e libertà / “Ex ducere” / Mutazione antropologica / La Storia come asse culturale / Il Gesù di Bontempelli / La società del disprezzo di sé / Bontempelli interprete di Marx / Marx ed Hegel / L’esperienza della decrescita / Umanesimo integrale.


I libri di Salvatore Bravo



Salvatore Antonio Bravo – Una morale per M. Foucault?

Salvatore Bravo – Aldo Capitini e la omnicrazia. L’apertura è sentire la compresenza dell’altro, sentire la propria vita fluire nell’altro, lasciarlo essere, amarlo per quello che è, liberarlo dalla paura del potere, della mercificazione.

Salvatore Bravo – L’abitudine alla mera sopravvivenza diviene abitudine a subire. Ma possiamo scoprire, con il pensiero filosofico, che “oltre”, defatalizzando l’esistente, c’è la buona vita.

Salvatore Bravo – La filosofia è nella domanda di chi ha deciso di guardare il dolore del mondo. Responsabilità della filosofia è il riposizionarsi epistemico per mostrare la realtà della caverna e rimettere in azione la storia.

Salvatore Antonio Bravo – L’epoca del PILinguaggio. Il depotenziamento del linguaggio è attuato dalla globalizzazione capitalistica, nel suo allontanamento dalla persona e dalla comunità.

Salvatore Bravo – Sentire se stessi è possibile attraverso l’uscita dalla caverna dei cattivi pensieri quotidianamente inoculati assumendo la libertà di vivere i poliedrici colori del possibile.

Salvatore Bravo – La tolleranza è parola invocata nel quotidiano terrore dei giorni. La tolleranza nasconde il volto aggressivo della globalizzazione. È la concessione della legge del più forte, il diritto di vivere concesso dal potere.

Salvatore Antonio Bravo – Il tempo che ha la sua base nella produzione delle merci è esso stesso una merce consumabile. Ogni resistenza dev’essere svuotata della sua temporalità e colonizzata dalle immagini dello spettacolo globale.

Salvatore Antonio Bravo – Le miserie della società dell’abbondanza. La verità del consumo è che essa è in funzione non del godimento, bensì della produzione.

Salvatore Antonio Bravo – La società dei cacciatori. L’atomismo sociale e la deriva individualista dei nostri giorni, trovano la loro sostanza in un’immagine esplicativa della condizione umana postmoderna: il cacciatore.

Salvatore Antonio Bravo – «Le vespe di Panama» di Z. Bauman. La filosofia perde la sua credibilità e la sua natura critica e costruttiva se vive nel mondo temperato delle accademie e degli studi televisivi e mediatici, dove campeggia l’uomo economico: turista della vita, vagabondo tra le mercificazioni.

Salvatore Antonio Bravo – Il comunista è un pensatore militante, consapevole dunque che la sua azione è perenne: non vi sono sistemi o regimi che concludono la storia e pacificano gli animi. In Marx l’idea del comunismo si concretizza anzitutto nell’immagine di una società in cui l’individuo, liberato dall’alienazione, diventa un uomo totale, universale, cioè capace di dar pieno sviluppo alla sua personalità.

Salvatore Antonio Bravo – Theodor L. Adorno, in «Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa», ci comunica l’urgenza di un nuovo esserci. Chi vuol apprendere la verità sulla vita immediata, deve scrutare la sua forma alienata, le potenze oggettive che determinano l’esistenza individuale fin negli anditi più riposti. Colui che non vede e non ha più nient’altro da amare, finisce per amare le mura e le inferriate. In entrambi i casi trionfa la stessa ignominia dell’adattamento.

Salvatore Antonio Bravo – «Viva la Revoluciòn» di E. Hobsbawm.

Salvatore Antonio Bravo – Evald Ilyenkov e la logica dialettica. Occorre studiare il pensiero come un’attività collettiva, in cooperazione. Il capitalismo è profondamente anticomunitario, trasforma tutto in merce, disintegra le comunità, smantella la vita nella sua forma più alta: il pensiero comunitario consapevole.

Salvatore Antonio Bravo – «Il giovane Marx», di György Lukács. L’intera opera di Marx è finalizzata dall’amore per l’umanità che si fa pensiero consapevole della disumanità di ogni condizione di alienazione, e di ogni reificazione negatrice della libertà.

Salvatore Antonio Bravo – Il libro di Norman G. Finkelstein, «L’industria dell’olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei».

Salvatore Antonio Bravo – Il mercato e l’asservimento della Scuola: il mito dell’orientamento consapevole. Ciò che occorre invece è tempo per un’educazione da esseri umani, per lo sviluppo intellettuale, per l’adempimento di funzioni sociali, per rapporti socievoli, per il libero gioco delle energie vitali fisiche e mentali.

Salvatore Antonio Bravo – Marx poeta nel suo anelito all’universale: «Non rimaniamo immobili Senza volere né fare niente. Non subiamo passivamente il giogo ignominioso. Il desiderio, la passione, l’azione sono parte di noi».

Salvatore Antonio Bravo – L’industria culturale capitalistica utilizza solo autori che interpretino K. Marx in senso riduttivo, proprio per evitare possibilità di sviluppo teorico progettuale con una conseguente prassi rivoluzionaria.

Salvatore A. Bravo – Il collare e le catene delle navi negriere, sono ora sostituiti dal controllo digitale, un panopticon che controlla per spezzare sul nascere la possibilità di un pensiero che voglia progettare un mondo altro.

Salvatore Bravo – Estetiche del turbocapitalismo. La paideia negativa e nichilistica dell’immagine. Contrapporre alla notte delle immagini la cultura dell’impegno, sottraendosi alla violenza dell’incultura dell’immagine.

Salvatore Bravo – Il flâneur, passeggiatore annoiato, è l’uomo massa della società dell’abbondanza che vive nella distanza dallo sguardo altrui. Essere astratto e distratto vive l’esperienza senza simbolizzarla in prassi, al servizio del sistema mediante le protesi tecnologiche, che esigono automatici comportamenti.

Salvatore Bravo – L’assenza di futuro è il nichilismo dell’assoluto presente. Il trionfo dell’immediato-astratto forma individui e non persone. Il radicamento nell’attimo fa del soggetto un ente che si piega alle circostanze.

Salvatore Bravo – Il pensiero corporante all’epoca del capitalismo assoluto, con la sua promessa dell’Eden restituisce soltanto un corpo esausto e violento, come nel mito della caverna di Platone. Si immilla la frustrazione. Il capitalismo oggi esige che l’uomo lotti contro se stesso oltre che contro gli altri.

Salvatore Bravo – Il disorientamento gestaltico e le parole valigia. Le parole valigia e lo spettacolo sempre in scena reificano il soggetto umano riducendolo a semplice funzione del gioco perverso della produzione.

Salvatore Bravo – Il modello Marchionne trasforma gli uomini in soldati dell’efficienza, inibisce ogni discussione sul senso e sulla dignità del lavoro, il cui scopo non è la sopravvivenza biologica, ma l’espressione di sé, della propria identità, la conoscenza di se stessi, come afferma la Costituzione. Il lavoratore è persona, non un servo dell’azienda.

Salvatore Bravo – L’umanesimo del lavoro in Marx. Il lavoro dell’«uomo macchina» distrugge il lavoro come progetto creativo in cui conoscersi perché il lavoro coatto brucia la creatività e inibisce la possibilità di costruire e produrre secondo le leggi della bellezza.

Salvatore Bravo – Tecnica e cultura classica. La potenza della tecnica non è garanzia di virtù e bene. Cultura classica come formazione alla libertà consapevole.

Salvatore Bravo – Lo sradicamento è vita fuori dalla storia, dalla coscienza, dalla comunità in cui la vita fiorisce. Lo sradicamento massimo è la riduzione di tutto sulla linea della quantità, è associare il bene solo alla quantità. Ma se il bene è la quantità, il male è per tutti.

Salvatore Bravo – ll presente non è tutto, lo diviene in assenza di domande. La domanda è già utopia concreta. Per pensare l’utopia concreta l’immaginazione è imprescindibile, essa è operazione critica, domanda radicale e filosofica, è una diversa rappresentazione del presente: mentre configura il futuro, opera nel presente investendolo di nuova vita. Un mondo senza pensiero ed immaginazione empatica è solo distopia.

Salvatore Bravo – L’epoca dello straniamento. Se ignoriamo che cosa mai noi siamo come potremo conoscere l’arte per render migliori noi stessi? Dalla peccaminosità assoluta alla colpevole innocenza. La vera trasgressione è il pensiero critico contro l’attività perenne senza consapevolezza.

Salvatore A. Bravo – Il bisogno di filosofia è un bisogno autentico, in quanto filosofare è proprio dell’essere umano. Nulla è facile, ma tutto diventa più difficile in un mondo senza teoretica.

Salvatore A. Bravo – Vogliamo ricordare Costanzo Preve, l’uomo e il filosofo che, con la sua resistenza al capitalismo speculativo, ha testimoniato che è possibile vivere diversamente dal nietzschiano “ultimo uomo”. È sceso nelle profondità sistemiche della nostra epoca e scandagliato filosoficamente la genesi dell’odierno economicismo nichilistico.

Salvatore A. Bravo – Le metafore nella filosofia. La metafora è bussola concettuale per guardare oltre l’orizzonte dell’angusto presente.

Salvatore A. Bravo – Plebe e popolo: rivoluzione passiva e tecnologie. Vi è popolo solo dove vi è sovranità partecipata. Il popolo diventa plebe in assenza di pensiero e di linguaggio. Il popolo è comunità manifesta, è progetto partecipato. Non possiamo sottrarci alla responsabilità del divertere.

Salvatore A. Bravo – La prudenza è virtù che coniuga qualità e misura dando un significato alla quantità, determinandola. La società dell’imprudenza si concretizza nella forma del nichilismo economicistico.

Salvatore A. Bravo – Senza progettualità, in un mondo senza virtù e nell’epoca della normalità del male, non vi è che l’eternizzazione dell’attimo che si ripete.

Salvatore A. Bravo – Ma che genere di uomini è questo? Quod genus hoc hominum? Quale barbara patria permette un’usanza simile? Quaeve hunc tam barbara morem permittit patria? Ci negano il rifugio dell’arena; muovono guerra impedendoci di scendere a terra e di fermarci sulla spiaggia. L’impegno civile è resistenza antropologica.

Salvatore A. Bravo – I barbari e l’Occidente. La comunità è il luogo del dono. La barbarie è l’incapacità di pensare la possibilità del dono. La bellezza germina nel pensiero che medita sull’esperienza. L’edonismo struttura un mondo senza intelligenza.

Salvatore A. Bravo – Massimo Bontempelli interprete di Karl Marx. Marx era prima di tutto un rivoluzionario: questa era la sua reale vocazione. La lotta era il suo elemento. Ed ha combattuto con una passione, con una tenacia e con un successo come pochi hanno combattuto.

Salvatore A. Bravo – La laicità all’epoca dell’integralismo laicista. Si può resistere alla mutazione antropologica messa in atto dal capitale assoluto in nome dell’aziendalizzazione della vita, della parola, delle relazioni.

Salvatore A. Bravo – La pedagogia del coding. Pensare come una macchina. L’efficienza è l’obiettivo finale. L’obbiettivo e disellenizzare. Il coding è costruzionismo attivistico. Al coding si può opporre la cultura classica.

Salvatore A. Bravo – La superstizione scientista. La verità è qualche cosa di infinitamente più dell’esattezza scientifica.

Salvatore A. Bravo – L’albero filosofico del Ténéré. Esodo dal nichilismo ed emancipazione in Costanzo Preve. Dalla metafora del deserto (Nietzsche-Arendt) al fondamento veritativo in Costanzo Preve.

Salvatore A. Bravo – Storia, filosofia ed oblio in Massimo Bontempelli. Sulla necessità di coniugare lo studio della storia e della filosofia di fronte alla pianificazione dell’oblio alienante e nichilistico.

Salvatore A. Bravo – Salviamo le Cattedrali dalle fiamme del plusvalore.

Salvatore Bravo – Superare L’inquietudine e l’indifferenza nell’estasi del camminare eretti, con l’entusiamo che scaturisce nell’anima da un punto originale che genera valore e determina valore, continuando ad ardere anche dopo tutte le catastrofi empiriche. È necessario, oggi, difendere il diritto alle passioni.

Salvatore Bravo – Siamo nella rete della globalizzazione della chiacchiera, ma abbiamo l’illusione di essere liberi. La chiacchiera, che è alla portata di tutti, non solo esime dal compito di una comprensione genuina, ma diffonde una comprensione indifferente, per la quale non esiste più nulla di incerto.

Salvatore Bravo – Populismo pedagogico e scuola senza concetto. La scuola facile non libera, non permette al pensiero di configurarsi, ma lo destruttura in chiacchiera. La scuola difficile e dell’impegno educa alla domanda, forma alla temporalità distesa e densa di contenuti.

Salvatore Bravo – La filosofia è per sua natura anticrematistica e comunitaria. è resistenza all’inverno dello spirito che avanza. L’uscita dallo “stato capitale” necessita della radicalità della filosofia, senza di essa non vi è prassi, non vi è verità, non vi è domanda, ma solo l’antiumanesimo.

Salvatore Bravo – I nuovi «dannati della terra» sono in grado di sfidare la paura. L’essere umano è pensiero, coscienza. per quanto forte sia il condizionamento, nessun potere potrà occupare lo spazio interiore dell’uomo, perché l’infinito è nell’essere umano.

Salvatore Bravo – Il 23 Novembre del 2013 veniva a mancare Costanzo Preve. Ci lascia una importante eredità morale e filosofica: cercare verità, complessità, libertà dalle conventicole. La filosofia non ha il compito di rassicurare, ma di porre domande, rinunciando alle facili risposte.

Salvatore Bravo – Intellettuali, parola e potere.

Salvatore Bravo – La filosofia umanizza, strappa l’essere dall’abbandono in cui vive, per consegnarlo a se stesso, al suo progettare nella storia. Scindere la verità dalla prassi e dalla responsabilità dispone l’essere umano alla passività. Ma così la filosofia diviene gioco ed intrattenimento per mediocrità acculturate.

Salvatore Bravo – La voce del padrone sulla scuola della sola “quantità”. In campo la «Fondazione Agnelli» ed «Eudoscopio».

Salvatore Bravo – filosofia e ordine del discorso. La «passione durevole» di György Lukács per la filosofia è finalizzata a trascendere i condizionamenti del capitalismo che vuole anestetizzare la corrente calda del pensiero critico perché nella prefigurazione del fine la coscienza struttura la prassi dell’emancipazione.

Salvatore Bravo – L’irrazionale-razionale del capitalismo si palesa con la legge della “nuova civiltà”: l’arbitrarismo.

Salvatore Bravo – L’automa è l’ideale del nuovo integralismo economicista: sussumere il corpo, l’anima e le relazioni. Ma dove regna la quantificazione la vita si consuma e si logora nell’utile. Vivere è aprirsi al mondo con le nostre domande di senso.

Salvatore Bravo – Il vessillo dell’Occidente consumistico è la libertà astratta dell’homo consumens. La modernità trionfante soddisfa l’istinto dell’animalità troglodita.

Salvatore Bravo – Il mito del progresso e Pasolini. Il simulacro (capitalismo) non nasconde la verità, ma non ha verità e teme di svelare il nulla che è.

Salvatore Bravo – Pensare la didattica alternativa e non subirla. Se un docente è stato capace di trasmettere contenuti, metodi, motivazioni, se ha testimoniato con il suo impegno silenzioso la consapevolezza del suo ruolo non vi è distanza che possa cancellare ciò che si è radicato nella profondità relazionale di ciascuno.

Salvatore Bravo – Il disprezzo come modalità di governo. Il disprezzo è la vera cifra dell’esperienza «covid 19». il sintomo di una malattia carsica e profonda che attende la cura del pensiero e della prassi.

Salvatore Bravo – Tutti promossi, perché la cultura e l’impegno non sono un valore, ma un limite al mercato. La didattica smart non insegna a pensare, ma solo a dare il minimo della preparazione che serve al mercato.

Salvatore Bravo – Il trionfo della malinconia nella società dello spettacolo nega la parola che è festa della vita. La festa è l’immanenza che dà un nuovo senso al tempo vissuto.

Salvatore Bravo – Tra guerra e paura. La lotta all’epidemia è descritta nella forma di una guerra capillare e pervasiva che irrora la comunità, fino a trasformarla in un luogo chiuso in cui regna la paura dell’altro. Nella guerra la prima vittima è la verità, scriveva Eschilo.

Salvatore Bravo – L’umanesimo integrale di Massimo Bontempelli. Filosofia Storia Pedagogia


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Alessandro Dignös – Il saggio «L’ultimo uomo» di Salvatore A. Bravo. Un tentativo di cogliere l’essenza del mondo attuale alla luce del concetto nietzscheano di «ultimo uomo».

Ultimo uomo, Nietzsche

L’ultimo uomo

indicepresentazioneautoresintesi

Alessandro Dignös

Il saggio L’ultimo uomo di Salvatore Antonio Bravo

Un tentativo di cogliere l’essenza del mondo attuale
alla luce del concetto nietzscheano di «ultimo uomo»

 

Il saggio L’ultimo uomo di Salvatore Antonio Bravo intende esaminare e «riattualizzare una figura lasciata di sfondo e che poco è stata evocata nella storia della filosofia» (p. 5): quella dell’«ultimo uomo» (der letzte Mensch) nietzscheano. Si tratta, com’è noto, di un tema cardine del pensiero filosofico di Friedrich Nietzsche; nondimeno, come rileva lo studioso, nonostante gli innumerevoli studi dedicati al suo pensiero, «titoli che trattino specificatamente dell’uomo più inquietante sono pressoché assenti» (Ibidem). Questo fatto appare paradossale: l’analisi del concetto di «ultimo uomo» è infatti di vitale importanza per la decodificazione della filosofia nietzscheana, al punto che non si può realmente pervenire alla sua comprensione se si prescinde dalla considerazione di tale figura. Nella misura in cui l’«ultimo uomo» rappresenta l’incarnazione del «nichilismo», che Nietzsche identifica con la cifra della nostra civiltà e del nostro tempo, va da sé come la sua analisi sia del tutto imprescindibile per intendere la diagnosi nietzscheana della contemporaneità. Alla luce di ciò, la nozione di «ultimo uomo» appare, per alcuni aspetti, più importante di quella di «superuomo»: infatti, se è vero che questa coincide, in un certo senso, con la “causa finale” della costruzione filosofica di Nietzsche, è altresì vero che è l’«ultimo uomo» che costui ha in mente nella sua radicale critica dell’evo presente. Sulla scia della lettura della filosofia nietzscheana data da Costanzo Preve, che ha il merito di aver «spostato l’asse interpretativo dell’opera nietzscheana dal superuomo all’ultimo uomo» (Ibidem), Bravo si propone di indagare tale concetto «al fine di coglierne la validità interpretativa rispetto all’attualità» (Ibidem). Se dunque, da un lato, egli mira a far luce su alcuni aspetti del pensiero di Nietzsche, dall’altro la sua ricerca appare rivolta alla comprensione del nostro tempo proprio a partire dall’analisi nietzscheana.
Come emerge dalle opere di Nietzsche, l’«ultimo uomo» non è che un semplice replicante: «uguale a tutti, si confonde con ognuno» (p. 7). Non solo appare incapace di distinguersi dalla massa, ma addirittura vede con sospetto ogni tentativo di differenziarsi rispetto ad essa. Costui rappresenta il venir meno dell’uomo, poiché la sua identità consiste nell’assenza di identità. Nel mondo in cui egli domina «non vi sono idee, non vi sono modi di sentire e di esserci differenti: lo scorrere del tempo è un «eterno ritorno dell’eguale» consistente in una «replicazione ad infinitum di parole, frasi, gesti, comportamenti eguali, orientati verso una riconciliazione massificata che respinge ogni tensione creativa» (Ibidem). In un mondo siffatto, nota Bravo, «scompare ogni maieutica ed ogni dialettica» (Ibidem).
È il suo «integralismo nichilista» a renderlo «il più inquietante» tra gli uomini. La sua visione del mondo è unicamente orientata al «trionfo della sicurezza: precondizione per il successo dei suoi piccoli raggiri da mercato» (p. 8). Lo strumento della sua affermazione è la «tecnica» (Gestell), mentre il suo habitat è la “società di mercato”, l’orizzonte nel quale «si rende manifesta la morte di Dio e con essa la morte dell’uomo» (Ibidem). Questo “mondo storico” segna il tramonto di ogni umanesimo, poiché il regno della cieca manipolazione tecnico-utilitaristica ripudia e respinge qualsiasi forma di resistenza al suo imporsi, qual è quella costituita da realtà e concetti come “essere”, “natura umana” o “verità”. Alla ricerca dialogica della verità come fondamento della comunità, l’impero del mercato sostituisce l’«esattezza» delle scienze, intesa come strumento di gestione e manipolazione della vita umana. Di un fondamento veritativo irriducibile a tale «esattezza» non è più nulla. Con l’evento della morte di Dio, muore così anche la filosofia; non resta che l’egemonia del nulla o «nichilismo».
Per la sua capacità di prevedere alcuni esiti prodotti dalla tecnica e dal mercato, Nietzsche, secondo Bravo, può essere considerato il “profeta” «dell’ultimo integralismo: quello economico, il più insidioso, il più pervasivo, poiché risponde ad una logica semplice: “comprare – vendere”; e, mediante tali attività, trasforma in verità ontologica, in paradigma, il mercato» (p. 9). La società mercatista, per Nietzsche, rappresenta «la realizzazione assoluta della “décadence”», che «partorisce gli uomini che meritano il grande disprezzo» (p. 13). L’«ultimo uomo», in questo senso, non figura che come il “prodotto” di un complesso lavoro di ingegneria “sociale” che ha nel totalitarismo del “mercato” – l’unico vero Dio della postmodernità – il proprio “ingegnere” – o, meglio, il proprio Demiurgo. Il sentimento che più lo caratterizza è l’assenza di sentimento, ovvero l’indifferenza: nulla in lui desta reale gioia o stupore, così come nulla in lui crea sgomento o angoscia: «ripiegato su se stesso e sui suoi piccoli affari, ha quale obiettivo quello di rassicurarsi e gratificarsi nei giochi minuscoli di potere e piacere. Vive nella sua caverna, giudicandola l’unica possibile; […] non immagina un mondo altro possibile» (p. 10). «Schiavo della sua indifferenza, sa solo agire e reagire, è veloce nel contare, nella tattica della piccola politica, ma ogni grande pensiero, ogni sospensione della prassi per una comprensione completa e feconda gli è estranea» (p. 12). L’«ultimo uomo» parla sempre del proprio “io”, senza però intendere che esso non è che un fantasma: «in realtà, in sua vece, parla il sistema tecnocratico» (p. 11). Ogni pensiero profondo è in lui e da lui rimosso: per l’«ultimo uomo», il solo “essere” possibile è il “visibile”, il “corporeo”, ciò che si presta a ridursi ad oggetto di scambio, mercanteggiamento, chiacchiera, contraffazione e consumo. «La consapevolezza è espulsa dal percorso vitale perché dona profondità e diventa elemento di interruzione di un flusso finanziario» (p. 7); e «chi sente diversamente» in questo mondo, preconizza Nietzsche, «se ne va da sé al manicomio» (Così parlò Zarathustra, Proemio, § 5).
Il giudizio nietzscheano sul «totalitarismo del mercato», afferma Bravo, «è accostabile a quello di Marx» (p. 16): ciò che Nietzsche scrive a proposito della condizione di “alienazione” che caratterizza gli uomini nell’età del «nichilismo» ricorda i rilievi marxiani sulla massificazione e sull’alienazione degli individui che il capitalismo inevitabilmente genera. Secondo lo studioso, «Nietzsche come Marx secondo prospettive diverse ravvisa i movimenti che avrebbero portato al gelo dell’ultimo uomo ed al depauperamento progressivo della creatività e della progettualità singolare e comunitaria» (p. 59). Entrambi, insieme a Hegel, «hanno colto lo stesso pericolo: l’uomo ad una dimensione, l’uomo mediocre, l’animo piccolo borghese anonimo porta con sé una forza titanica distruttiva. Si avvale della tecnica e delle tecnologie, e le utilizza per il salto finale, ovvero conquistare ogni parte del pianeta al capitale, mentre avanza l’ultima ideologia, ogni coscienza è a sua volta terra di conquista» (p. 19). La società (post-)moderna è una «gabbia d’acciaio» in cui «l’ultimo uomo può diventare il cannibale della propria comunità o di altre comunità» (p. 23). Come rileva Bauman, ognuno, in questo palcoscenico, è in pericolo: il processo di razionalizzazione che esso inscena partorisce individui autolatrici, cinici e inconsapevoli che non pongono alcun freno alle proprie azioni e appaiono disposti a tutto pur di realizzare il proprio utile.
Ma chi sono questi individui? Bravo mette in luce come non esista, nella prospettiva di Nietzsche, un solo “modello ideale” di «ultimo uomo», poiché, dal momento che egli rappresenta l’assenza di qualsivoglia identità, molteplici sono le “maschere di carattere” che egli è in grado di indossare. Tra queste vi sono «lo storico, lo scienziato positivista, il razionalista socratico, il demagogo, il razzista, il nazionalista, il religioso» (p. 12), così come i «ricchi borghesi» e i «socialisti rivoluzionari». Questi ultimi, secondo Nietzsche, non personificano un tipo umano differenziato, una sorta di homo novus; all’opposto, la loro ragion d’essere è nei borghesi stessi, dei quali incarnano i sentimenti dell’invidia, del rancore e del risentimento. «Nell’esposizione-confronto tra chi ostenta e chi possiede e chi invidia», evidenzia lo studioso, vi è per il pensatore «la genealogia, l’origo delle ideologie socialiste», poiché «il mercato […] invita all’invidia, e dunque diventa causa delle stesse ideologie degli egoismi e dei rancori. […] I ricchi borghesi ostentano la loro muscolatura mediante i beni in loro possesso» e «offrono con essi l’ostentazione del loro potere; dall’altra parte», invece, vi è «la penuria e dunque l’invidia: i proletari vorrebbero essere al posto dei ricchi borghesi, e dunque fomentano la rivoluzione, la distruzione di ogni gerarchia e valore» (p. 15), ossia, in una parola, il «nichilismo».
A questo punto, si tratta di capire quando si sia realizzata, per Bravo, la profezia di Nietzsche. La risposta che egli offre stupirebbe di certo la maggioranza degli studiosi del pensiero nietzscheano. Secondo costui, la sua compiuta realizzazione non ha luogo nella prima metà del Novecento, ma a partire dal Sessantotto. È con il Sessantotto, la «fuga da ogni regola», che si aprono le porte alla «possibilità totale della mercificazione» grazie al «trionfo del capitale senza borghesia e senza etica. Il capitale liberato da ogni vincolo può dunque dimorare ovunque; così l’Occidente diviene la casa del capitale» (p. 29). Grazie al Sessantotto, «ogni trasgressione è innalzata sugli altari», non perché costituisca una forma di “liberazione”, ma «poiché produce beni di consumo» (Ibidem). “Liberati” da ogni resistenza al dominio della merce, agli individui non resta che accettare e promuovere con nichilistica esaltazione la precarizzazione dell’esistenza, la disgregazione sociale, l’omologazione culturale, la deificazione del progresso e, infine, la tecnicizzazione della vita, dei rapporti umani e della politica. Si approda così all’idea che il presente incarni la gloriosa «fine della storia» e che questo mondo, nonostante suoi difetti, rappresenti «il solo» e «il migliore dei mondi possibili». E così sia.
Il “mondo storico” previsto e descritto da Nietzsche si presenta oggi come un orizzonte ineluttabile, una realtà di cui si è parte e con cui si è costretti a fare i conti in ogni istante della vita quotidiana. La sua prospettiva, tuttavia, è tutt’altro che fatalista: da questo mondo, egli avverte, il «possibile» non è né può essere espunto. È vero che «il deserto avanza», ma è altrettanto vero che esso, per il filosofo, «incontra e si scontra con anime immense che rompono la massificazione» (p. 49). Esse, spiega Bravo, sono coloro che «conservano il contatto con il dionisiaco», «la riserva delle energie psichiche della creatività vissuta nella carne e pensata con la carne, ciò che racchiude «potenzialità del pensiero che la ragione non conosce» (Ibidem). Sono «gli ispirati di Dioniso», dunque, che, per Nietzsche, «possono cambiare la storia, rovesciano il regno della necessità, divenendo i portatori di pensieri inauditi» (p. 49). Ciò che consente di liberare il «dionisiaco» nell’uomo e trasformarlo è descritto dal filosofo con l’espressione «eterno ritorno dell’eguale». Esso rappresenta «la palingenesi per poter creare», poiché determina l’arresto di quel «tempo meccanico, deterministico e positivistico» che è «il tempo ciclico del capitale», il cui infinito ripetersi segna «l’annichilimento della categoria del possibile» e «di ogni trasformazione individuale e collettiva» (p. 21). «L’eterno ritorno trasforma il tempo in ente voluto» (Ibidem) dando origine all’«oltreuomo», a colui che «sospende il tempo del fare, della ripetizione, per scegliere l’agire, nella rinuncia alle fantasie di onnipotenze la condizione per la creatività, per il dominio e la conoscenza di sé» (pp. 21-22), rivelando il «possibile» là dove, per l’«ultimo uomo», non vi sono che «necessità» e «normalità».
Ad ogni modo, l’emersione del «possibile», ossia della possibilità di uscire dalla «gabbia d’acciaio» tecno-capitalistica, non si manifesta, per Nietzsche, solo in senso “individuale”, con l’«oltreuomo». Come evidenzia Bravo, pur non essendovi opere «nelle quali egli ha trattato in modo sistematico un modello alternativo al sistema», «sono presenti tracce per un ipotetico programma sociale» (p. 45). Se si legge ciò che il filosofo scrive in alcuni suoi scritti, si può constatare che «le tragedie della sua epoca sono lette attraverso la cattiva distribuzione delle ricchezze»: «la polarizzazione dei capitali» e «l’assenza della politica», per costui, generano «estremismi pericolosi, la radicalizzazione dello scontro» (Ibidem). La critica di Nietzsche si rivolge così a un’«economia senza politica» che «frammenta e distrugge ogni tessuto sociale e diviene precondizione per nuovi e fatali sconvolgimenti in una deriva conflittuale della dismisura» (Ibidem). Quale sia il rimedio da porre a tale situazione è indicato da Nietzsche nell’aforisma 285 del secondo volume di Umano, troppo umano, nel quale esorta a togliere «dalle mani dei privati e delle società private tutti i rami del trasporto e del commercio, che sono favorevoli all’accumulazione dei grandi patrimoni, ossia in particolare il commercio del denaro», e a considerare «tanto i grandi possidenti quanto i nullatenenti come esseri pericolosi per la comunità»; è solo tenendo «aperte tutte le vie del lavoro alla piccola proprietà», contrastando sia la povertà sia «l’arricchimento senza sforzo ed improvviso», che si può rendere la proprietà «più morale» e preservare la comunità (Umano, troppo umano II, aforisma 285). Sulla base di ciò, è lecito sostenere che anche in Nietzsche si delinea, per certi aspetti, una “via sociale” al superamento del «nichilismo» – una “via” che rivela all’uomo nuove «possibilità» rispetto all’ordine dominante.
Il saggio di Bravo ha il merito di mostrare un “ritratto” di Nietzsche sconosciuto anche a molti interpreti del suo pensiero. Dalla presente analisi, il “filosofo del martello”, lungi dall’impersonare il mero “profeta dei fascismi” – come pretende una delle interpretazioni che da decenni domina il dibattito mediatico-culturale –, appare piuttosto come il “profeta” di quell’«ultimo uomo» che, dal Sessantotto in poi, ha conquistato ed egemonizzato la scena del mondo. La sua diagnosi, tuttavia, non ha affatto un esito depressivo, poiché mira ad individuare nuovi percorsi in grado di condurre oltre il «nichilismo» che anima la società (post-)moderna. Il confronto con il pensiero nietzscheano permette di cogliere che, dietro l’idea che questo sia «il migliore» o «il solo» mondo possibile, si cela l’ennesimo mito da sfatare. «Il futuro non è fatalità, ma sistema aperto che attende tutti» (p. 68): è questo, per Bravo, il grande insegnamento di Nietzsche. Egli chiarisce come il compito della filosofia, lungi dal risolversi nella decostruzione fine a se stessa o nell’accettazione fatalistica dello status quo, consista nel farci «assumere la consapevolezza delle macerie» (p. 67) e «prepararci al possibile» (p. 52) per «ridare dinamicità alla storia» (p. 68) e «ridisegnare la condizioni per nuove coscienze, per una coscienza liberata dal giogo dell’asservimento» (p. 54). Si tratta di un atto che si rivolge contro il mondo esterno, ma che è anzitutto rivolto contro se stessi: l’«ultimo uomo», infatti, non è mai solo l’altro da sé, ma vive «in ognuno di noi», poiché «ciascuno di noi vive all’interno del dispositivo di potere […] e porta con sé l’ospite inquietante» (p. 51). Solo accettando questa tremenda verità diventa possibile «restituire una forma alla storia» (p. 68). La via che conduce alla trasformazione della realtà passa dunque attraverso la radicale trasformazione di sé. È questo il senso della lezione di Nietzsche – una lezione che è dedicata all’«ultimo uomo» che tutti noi siamo.

Alessandro Dignös

Alessandro Dignös – Discorso e verità nella Grecia antica, di Michel Foucault. Un contributo fondamentale per la comprensione dell’umanesimo della cultura greca
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M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Le osservazioni pedagogiche di Kant sono oggi un monito. Il fine più alto dell’educazione è la responsabilità verso il futuro.

Immanuel Kant, La Pedagogia
Salvatore Bravo

Filosofia e Pedagogia

Le osservazioni pedagogiche di Kant sono oggi un monito.
Il fine più alto dell’educazione è la responsabilità verso il futuro.

I grandi pensatori sono stati filosofi-educatori: pedagogia e filosofia sono un corpo speculativo unico, pertanto filosofare significa educarsi ed educare: i processi sono sincretici. Nessun pensatore potrebbe definirsi solo in rapporto alla filosofia, poiché i sistemi – l’arte di inventare concetti e di problematizzarli – sono già, di per sé, attività educative. Il motto del criticismo kantiano è “aude sapere”, ma potrebbe essere: legge del filosofare. Non si tratta di un’attività al singolare, ma comunitaria. Il particolare, poi, la forma specifica del sapere filosofico è il suo rapportarsi al potere in modo dialettico, a volte conflittuale, al fine di difendere l’autonomia del filosofo e delle genti contro le ipostasi artificiose ed ideologiche del potere. La filosofia è esigente: senza il rischio della solitudine non è che conformismo da salotto.

Immanuel Kant (Königsberg 1724-1804) si occupò di pedagogia. Tale aspetto è spesso poco conosciuto. Fu un suo allievo, Theodor Rink, a pubblicare le sue osservazioni pedagogiche nel 1803. Nella prima parte dell’opera Pedagogia, al paragrafo sette, afferma che i príncipi spesso trattano il popolo come se fosse appartenente al “regno animale”. Il potere spesso strumentalizza i popoli e ne fa carne da macello. L’educazione deve avere come scopo non l’utile, ma la formazione umana e dev’essere rivolta a tutti. Una simile osservazione, oggi, è più vera che mai: le istituzioni scolastiche sono curvate sull’utile del mercato, pertanto la formazione è solo un percorso per diventare strumento dell’ipostasi economia a cui tutto si deve. Un essere umano, invece, ha bisogno di una pluralità di attività, affinché il suo sviluppo sia armonico: cure fisiche, disciplina ed istruzione. Il percorso che conduce all’autonomia è lungo e complesso. L’adolescente, come l’infante, per poter imparare “il libero pensiero” deve sperimentare l’autorità senza autoritarismo. È necessario che vi siano figure educative che contengano e modellino le pulsioni e gli istinti, i quali se lasciati liberi finiscono per dominare la persona, e limitare anche l’altrui libertà. Senza disciplina non si può vivere la libertà: questa è una verità eterna. Oggi si assiste ovunque alla distruzione della figura paterna per poter consegnare le nuove generazioni al mercato ed al consumo. Il pedagogismo contemporaneo demonizza l’autorità, ma non riflette sulle conseguenze della sua assenza, e specialmente sulla solitudine di bimbi ed adolescenti senza punti di riferimento:

«L’uomo è la sola creatura capace di essere educata. Per educazione, in senso largo, s’intende la cura (il trattamento, la conservazione) che richiede l’infanzia di lui, la disciplina che lo fa uomo, infine la istruzione con la cultura. Sotto questi tre rispetti, egli è infante, allievo e scolare. Appena gli animali cominciano a sentire le proprie forze, le usano regolarmente, cioè in maniera tale da non recar danno a sè stessi. È curioso il vedere, per esempio, come le giovani rondinelle, appena uscite dal loro uovo e tuttora cieche, sappiano disporsi per modo da far cadere i loro escrementi fuori del nido. Gli animali non hanno dunque bisogno d’essere curati, sviluppati, riscaldati e guidati, o protetti. Vero è che la più parte di essi domandano nutrimento, ma non cure. Per cure bisogna intendere le precauzioni che prendono i genitori per impedire ai loro nati di far uso nocivo delle loro forze. Se, per esempio, un animale venendo al mondo gridasse come fanno i bambini, diverrebbe certamente preda dei lupi e di altre bestie selvagge attirate dalle sue grida. La disciplina o educazione ci fa passare dallo stato di animale a quello d’uomo. Un animale è pel suo istinto medesimo tutto ciò che può essere; una ragione a lui superiore ha preso anticipatamente per esso tutte le cure necessarie. Ma l’uomo ha bisogno della sua propria ragione. Costui non ha istinto, e conviene che formi da se stesso il disegno della sua condotta. Ma, siccome non ne possiede la immediata capacità e viene al mondo nello stato selvaggio, ha bisogno dell’aiuto altrui. La specie umana è obbligata a cavare a grado a grado da se stessa colle proprie sue forze tutte le qualità naturali che appartengono all’umanità, una generazione educa l’altra. Se ne può cercare il primo principio in uno stato selvaggio o in uno stato perfetto di civiltà; ma nel secondo caso, bisogna pure, ammettere che l’uomo sia poi ricaduto nello stato selvaggio e nella barbari».[1]

 

L’universale fine dell’educazione
L’educazione è un processo di responsabilità collettiva, è un’ardua impresa, perché le generazioni tramandano la loro esperienza alle nuove generazioni, le quali hanno il compito di vagliarla e migliorarla. Continuità e discontinuità coesistono, si trasmette un’identità culturale non solo per conservarla, ma specialmente per ripensarla. L’autonomia si attua nel confronto critico con l’identità di provenienza. Senza “appartenenza” non vi è umanità, perché non vi è identità. Non è possibile non svolgere una comparazione con il presente, in cui vige la distruzione di ogni tradizione linguistica e politica, al punto che non vi è più conflitto.
Senza confronto non si formano personalità, non si strutturano autocoscienze, vi è solo la solitudine dell’adolescente a cui è permesso tutto: in tal modo perde se stesso. Il conflitto, se non è distruttivo, consente di conoscere se stessi, ed invita le parti in dialogo ad argomentare su valori e scelte sclerotizzate dall’abitudine, o a giudicarne la loro validità etica e razionale:

«L’uomo deve innanzi tutto svolgere le sue attitudini per il bene; la Provvidenza non le ha messe in lui bell’e formate, ma come semplici disposizioni, e però non vi è ancora distinzione di moralità. Render se stesso migliore, educare se medesimo, e, s’egli è cattivo, svolgere in sè la moralità, ecco il dovere dell’uomo. Quando vi si rifletta consideratamente, si vede quanto ciò sia difficile. L’educazione, pertanto, è il più grande e il più arduo problema che ci possa esser proposto. Difatti le cognizioni dipendono dall’educazione, e questa dipende alla sua volta da quelle. Onde non potrebbe l’educazione progredire che di mano in mano; e noi possiamo arrivare a farcene un’idea esatta solo in quanto ciascuna generazione trasmette le sue esperienze e le sue cognizioni alla generazione posteriore, che vi aggiunge qualcosa di suo e le tramanda così aumentate a quella che le succede. Qual cultura e quale esperienza dunque non suppone questa idea? E però essa non poteva sorgere che tardi, e noi stessi non l’abbiamo ancora innalzata al suo più alto grado di purezza. Si tratta di sapere se l’educazione nell’uomo singolo debba imitare la cultura che l’umanità in generale riceve dalle sue diverse generazioni».[2]

 

Educazione privata e pubblica
All’educazione privata è preferibile l’educazione pubblica, poiché si apprende la libertà nelle relazioni plurali, in cui non solo si impara ad ascoltare (competenza difficilissima), ma specialmente si trascende il naturale egocentrismo di ogni essere umano in formazione. In famiglia si è il centro di ogni attenzione, prevale l’interesse personale. Nello spazio pubblico si impara ad essere cittadini capaci di rispettare regole e doveri comuni a tutti, “il mondo” si configura nello spazio pubblico nella sua problematicità:

«L’educazione privata è data dai genitori stessi, o, se per caso non ne abbiano il tempo, la capacità o il gusto, da altre persone che li aiutano in ciò, mediante una ricompensa. Ma questa educazione data così da persone ausiliarie ha il gravissimo difetto di dividere l’autorità fra i genitori ed il precettore. Il fanciullo deve regolarsi secondo i precetti dei suoi maestri, e deve in pari tempo seguire i capricci dei suoi genitori. È necessario che in questo genere di educazione i genitori depongano tutta la loro autorità in mano dei maestri. Ma fin dove l’educazione privata è preferibile alla educazione pubblica, o questa a quella? L’educazione pubblica, in generale, sembra più vantaggiosa dell’educazione domestica, non solamente in rispetto alla abilità, sì anche in rispetto al vero carattere di cittadino. L’educazione domestica, oltre non correggere i difetti appresi in famiglia, li aumenta».[3]

 

Responsabilità e formazione
Il fine più alto dell’educazione è la responsabilità verso il futuro: i genitori solitamente si occupano del presente senza porsi il problema del valore qualitativo ed etico del tempo immediato, mentre i potenti utilizzano i loro popoli come strumenti per soddisfare i loro disegni di grandezza. Le nuove generazioni hanno bisogno di educatori che insegnino loro non solo la responsabilità verso il futuro, ma specialmente che si è parte di un’unica umanità. Solo in questo modo il percorso educativo di generazione in generazione può trarre dalle persone il “bene” ed avere la sua teleologia:

«Un principio di Pedagogia, al quale dovrebbero mirare segnatamente gli uomini che propongono norme di arte educativa, è questo: Che non devesi educare i fanciulli secondo lo stato presente nella specie umana, ma secondo uno stato migliore, possibile nell’avvenire, cioè secondo l’idea dell’umanità e della sua intera destinazione. Questo principio è d’una importanza grande. I genitori educano per lo più i loro figli per la società presente, sia pure corrotta. Dovrebbero, al contrario, dar loro una educazione migliore, perché un migliore stato ne possa venir fuori nell’avvenire. Ma qui si parano dinanzi due ostacoli:
1° I genitori non si curano per ordinario che di una cosa sola, ed è che i loro figli facciano buona figura nel mondo.
2° I principi risguardano i propri sudditi come strumenti nei loro disegni.
I genitori pensano alla casa, i principi allo Stato. Gli uni e gli altri non si propongono per fine ultimo il bene generale e la perfezione a cui è destinata l’umanità. Le basi fondamentali d’un disegno d’educazione fa d’uopo che abbiano un carattere mondiale. Ma il bene generale è un’idea che possa tornar dannosa al nostro bene particolare? Niente affatto! Imperocché, quantunque sembri che gli si debba sacrificare qualcosa, veniamo così a lavorar meglio pel bene del nostro stato presente. E allora quante nobili conseguenze! Una buona educazione è proprio la sorgente d’ogni bene nel mondo. I germi che sono riposti nell’uomo debbono svilupparsi ognor di vantaggio; imperocché nelle disposizioni naturali dell’uomo non v’ha principio di male. La sola causa del male sta nel sottoporre a norme la natura. Nell’uomo non vi sono che i germi per il bene. Da chi dee provenire il miglioramento dello stato sociale? Dai principi o dai sudditi? Conviene che questi si migliorino prima da sè stessi, e facciano la metà di strada per andare incontro a governi buoni? Se, invece, deve partire dai principi questo miglioramento, si cominci dunque a riformare la loro educazione; poiché si è commesso per lungo tempo questo grave sbaglio, di non resistere mai agli stessi principi nella loro gioventù. Un albero che resta isolato in mezzo ad un campo perde la sua dirittura nel crescere e stende lungi i suoi rami; al contrario, quello che cresce nel mezzo di una foresta si mantiene diritto, per la resistenza che gli oppongono gli alberi vicini, e cerca al disopra l’aria ed il sole. Avviene lo stesso nei principi. Ma vale ancor meglio siano educati da qualcuno dei loro sudditi che dai loro pari. Non si può attendere il bene dall’alto se prima non vi sarà migliorata l’educazione! Qui bisogna dunque contare più sugli sforzi dei privati che sul concorso dei principi, come hanno giudicato Basedow ed altri; dacché l’esperienza c’insegna che i príncipi nell’educazione badano meno al bene del mondo che a quello dello Stato, e vi scorgono solo un mezzo per giungere ai loro fini. Se col denaro soccorrono la educazione, si riservano il diritto di stabilire le norme che loro convengono. Lo stesso va detto per tutto ciò che risguarda la cultura dello spirito umano e l’incremento delle umane conoscenze. Questi due risultamenti non sono procurati dal potere e dal denaro, ma solo facilitati; bensì potrebbero procurarli ove lo Stato non prelevasse le imposte unicamente nell’interesse del suo erario. Neppur le Accademie li hanno dati finora, ed oggi più che mai non si scorge alcun segno ch’esse comincino a darli».[4]

I germi del bene sono in ogni essere umano, ma senza educatori, strutture e spazi pubblici la predisposizione al bene non resta che una possibilità senza atto. La comunità deve essere educante, ogni adolescente ed infante è parte di una totalità comunitaria che deve responsabilizzarsi verso di essi: l’alternativa è la barbarie.

 

Libertà
L’equilibrio tra autorità ed autorevolezza non è certo semplice, in quanto il fine di ogni educazione è lo sviluppo delle naturali potenzialità comunitarie e soggettive dell’educando, le quali confliggono con le sue pulsioni individualiste. È necessario guidare l’adolescente, insegnargli la libertà con gradualità. La libertà si deve sperimentare sotto l’occhio vigile dell’educatore, al fine di incoraggiare esperienze di autonomia, nelle quali l’adolescente deve educarsi a gestire il senso del limite ed a contenere i suoi fini, perché anche gli altri li possano concretizzare. Ogni vita nel suo sviluppo deve lasciare spazio alle altre esistenze. La libertà non è finalizzata alla soddisfazione del proprio incontenibile piacere, ma primariamente a conoscersi mediante il rapporto dialettico con le alterità:

«Qui devesi por mente alle infrascritte regole. 1° Bisogna lasciar libero il fanciullo fino dalla sua prima età e in tutti i suoi movimenti (salvo in quelle occasioni in cui può farsi del male come, per esempio, se prendesse in mano uno strumento tagliente), a patto bensì di non impedire la libertà altrui, come quando grida, o manifesta il suo brio in modo troppo rumoroso e da recar disturbo agli altri. 2° Gli si deve mostrare ch’ei può conseguire i suoi fini, a patto bensì ch’egli permetta agli altri di conseguire i loro propri; ad esempio, non si farà niente di piacevole per lui s’ei non fa ciò che desideriamo, come d’imparare ciò che gli viene insegnato, e via dicendo. 3° Bisogna provargli che l’autorità, il costringimento a cui si sottopone, ha per fine d’insegnargli ad usar bene della sua libertà, che lo educhiamo ed istruiamo affinché possa un giorno esser libero, cioè fare a meno del soccorso altrui. Questo pensiero sorge assai tardi nella mente dei fanciulli, poiché non riflettono nei primi anni che dovranno un giorno provvedere da sè stessi al loro mantenimento. Credono che la cosa andrà sempre come nella casa paterna, cioè ch’essi avranno da mangiare e da bere senza darsene alcun pensiero. Ora senza questa idea, i fanciulli, segnatamente quelli dei ricchi ed i figli dei principi, restano per tutta la vita come gli abitanti di Otahiti. L’educazione pubblica ha qui manifestamente i più grandi vantaggi: vi s’impara a conoscere la misura delle proprie forze ed i limiti che c’impone il diritto altrui. Non vi si gode alcun privilegio, poiché vi sentiamo dovunque la resistenza, e ci eleviamo sopra gli altri solo per merito proprio. Questa educazione pubblica è la migliore immagine della vita del cittadino. Resta ancora una difficoltà che non vuol essere qui dimenticata, e risguarda la cognizione anticipata del sesso, a fine di preservare i giovinetti dal vizio prima dell’età matura».[5]

Si impara a diventare cittadini con esperienze formative che esulano il successo e la competizione. A tal fine è indispensabile l’educazione pubblica con la quale si apprende la condivisione e la responsabilità.
Le osservazioni pedagogiche di Kant sono oggi un monito che dal passato ci esorta a pensare alle conseguenze dei processi di privatizzazione ed atomizzazione dell’educazione. Comunità vi è soltanto in presenza di cittadinanza attiva e consapevole. Ma ciò può avvenire solo mediante un percorso di formazione che riponga al centro la persona nella comunità e non certo il mercato globale. Il cosmopolitismo kantiano, spesso invocato a sostegno della globalizzazione, ha piuttosto come fine la formazione del cittadino libero e razionale e non certo del suddito globale.

Salvatore Bravo

[1] Immanuel Kant, Pedagogia, Liber Liber, pag. 9.
[2] Ibidem, pag. 11.
[3] Ibidem, pag. 14.
[4] Ibidem, pag. 12.
[5] Ibidem, pag. 15.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – Tra guerra e paura. La lotta all’epidemia è descritta nella forma di una guerra capillare e pervasiva che irrora la comunità, fino a trasformarla in un luogo chiuso in cui regna la paura dell’altro. Nella guerra la prima vittima è la verità, scriveva Eschilo.

Covid 19 e guerra
Salvatore Bravo

Tra guerra e paura

 

La lotta all’epidemia è descritta nella forma di una guerra capillare e pervasiva che irrora la comunità,
fino a trasformarla in un luogo chiuso in cui regna la paura dell’altro

Il proliferare della parola guerra è un ottimo espediente per occultare le responsabilità.

«Nella guerra la prima vittima è la verità», scriveva Eschilo.

Il Covid-19 non è solo un problema epidemiologico, anzi, lo stato di eccezione in cui siamo sta rivelando “le verità nascoste” del sistema, attraverso i provvedimenti attuati per inibirne la diffusione.
In questi mesi serpeggia un nuovo linguaggio che si catalizza intorno alla parola “guerra”. La parola “guerra” stride con il periodo pasquale, la pasqua con i suoi significati simbolici e teologici sfuma tra le chiuse chiese e l’aggressività verbale in nome della difesa della salute. Contro il nemico sull’uscio di casa. La lotta all’epidemia è descritta nella forma di una guerra capillare e pervasiva che irrora la comunità, fino a trasformarla in un luogo chiuso in cui regna la paura dell’altro: l’infezione ha il viso del vicino, il pericolo è incarnato nella comunità vivente veicolo del retrovirus.
La guerra reca con sé la paura specie se il nemico è invisibile, impalpabile: è ovunque, ma resta invisibile, indeterminato, può essere in chiunque. La paura non paralizza solo gli spostamenti e le relazioni, ma specialmente rafforza il desiderio di dirigismo ed autoritarismo, mediante i quali difendersi dall’aggressore. Si cavalca la guerra e la paura nel circo mediatico. Scorre nella rete la parola guerra, si compara la situazione attuale a contesti altri, ci si spinge a paragonare la guerra al retrovirus alle vicende della seconda guerra mondiale. La forzatura è assolutamente palese, ma ha l’effetto di provocare la chiamata alle armi contro i trasgressori, e specialmente di giustificare la paralisi della democrazia, e l’assenso ai nuovi padroni: i virologi.

Democrazia senza politica
La politica tace e cede il passo agli esperti che progettano la guerra. I finanzieri hanno ceduto il posto agli scienziati, nel silenzio della politica, per cui le loro dichiarazioni sono il nuovo oracolo verso cui si tende l’orecchio oranti, sono i generali di una popolazione impaurita che ha perso il controllo sulla propria vita. I virologi giudicati come esponenti dell’oggettività della scienza sono i nuovi punti di riferimento, le loro parole sono indiscutibili. La politica fa un passo indietro per non perdere consensi e delega ai virologi l’agenda da dettare. La politica arretra sempre, prima dinanzi ai finanzieri, ora davanti ai virologi, e dunque è evidente il grande vuoto dell’Occidente.
L’Occidente non pratica la politica, perché ha smesso di essere comunità. Comunità e politica sono un binomio inscindibile come insegna Platone col mito di Prometeo nel Protagora. Naturalmente i virologi si limitano ad indicare provvedimenti tacendo le istituzioni di appartenenza ed i legami tra scienza, politica e finanza. La parola “guerra” che risuona violenta tra le sinapsi degli impauriti sudditi serve a celare l’intreccio per ostentare l’immagine di una realtà sociale progredita e scientifica.
Le domande possono tacere come l’opposizione, poiché la “guerra” esige il distanziamento spaziale e temporale. Dove si combatte una guerra ci sono soltanto soldati, tutti i cittadini sono in trincea. Ogni casa è una trincea, per cui si vive separati, ed in tal modo le parole cadono, le prime vittime della guerra sono le domande, le richieste di chiarimenti, il silenzio delle opposizioni. Domenico Arcuri commissario all’emergenza ha dichiarato il 18 Aprile che vige una guerra. In tempo di guerra il potere invita ad adeguarsi e ad effettuare “dichiarazioni” ragionevoli. Le uniche affermazioni ragionevoli sono le enunciazioni del governo:

«Tra l’11 giugno 1940 e il primo maggio 1945 – dice – a Milano sono morti sotto i bombardamenti della seconda guerra mondiale 2 mila civili, in 5 anni; in due mesi in Lombardia per il coronavirus sono morte 11.851 civili, 5 volte di più». Da qui la riflessione: non può esserci ripartenza senza la salute. «Dobbiamo agire con cautela e prudenza come in questi mesi. – dice Arcuri – È clamorosamente sbagliato comunicare un conflitto tra salute e ripresa economica. Senza salute, la ripresa durerebbe un battito di ciglia, bisogna tenere insieme questi due aspetti. Dobbiamo ripartire ma garantendo la salute e la sicurezza del numero massimo di cittadini possibile. Serve esperienza e intelligenza. Non abbiamo tempo per dibattiti».

«Non c’è tempo per dibattiti», in un normale paese democratico, tali parole sarebbero sufficienti per la caduta del governo. Dove non c’è dibattito non c’è democrazia. Ci si scandalizza del caso ungherese: V. Orban, il 30 marzo 2020, ha ricevuto dal parlamento potere speciali, ha istituzionalizzato apertis verbis la contrazione della democrazia. Il caso italiano è peggiore: i DPCM non sono oggetto di discussione, il parlamento è un bivacco vuoto, non si discute e non si dibatte, perché si è in guerra. La funzione dell’uso della parola guerra trova una prima ragione: si è in guerra, quindi niente discussioni. L’Europa tace ed interviene solo sui conti pubblici e sui tagli alle politiche sociali; sul deficit di democrazia tace svelando d’essere semplicemente l’Europa della finanza.

Guerra scientifica
Il 29 marzo, da Fazio, Prodi ribadiva è «come una guerra», sostenendo l’affermazione di Draghi. Anzi, nel paragone di Draghi, la lotta al Covid-19 è una «guerra scientificamente giusta». La guerra necessita di essere valutata secondo criteri scientifici in possesso da Draghi. L’uso truffaldino della parola scienza è fatto con maestria, la guerra è scientifica, per cui nessuno può contestare i provvedimenti e la loro esattezza. Draghi e Prodi si intendono di guerra, hanno depauperato il patrimonio pubblico a favore dei privati. Anche quella era una guerra, ma i morti e gli infelici effetti di quei provvedimenti erano rappresentati come “risanamento economico”:

Prodi: «Come la guerra, ha ragione Draghi» – Mentre la settimana che inizia segnerà un momento cruciale anche per gli aiuti europei. Sul tema, in serata, si è fatto sentire l’ex presidente della Commissione europea, Romano Prodi: «È come la guerra, il paragone di Draghi è scientificamente giusto. Non è la crisi del 2008 che parte dalla finanza e poi prende il resto dell’economia, prende tutti: i ristoratori e quelli che devono andare a mangiare». Esiste, ha spiegato l’ex premier a Che tempo che fa, «una diffusa idea che la solidarietà europea finisca per aiutare soprattutto gli altri, ma gli olandesi devono capire: se succede una grande crisi a chi vendono i loro tulipani?».

 

Verità e guerra
Il proliferare della parola guerra è un ottimo espediente per occultare le responsabilità, e far apparire le decine di migliaia di vittime come normali e naturali, perché se c’è la guerra ci sono vittime, e non ci si chiede se erano evitabili, e se i tagli alla sanità sono tra le cause dell’ecatombe: la guerra semplicemente ha le sue vittime, ed i suoi eroi sul campo (personale sanitario).
Ma è una strana guerra, poiché ci sono le vittime, gli eroi, i generali al comando, ma mancano i carnefici, o meglio è tutta colpa di un virus: non vi sono carnefici umani, è una fatalità naturale. In tal modo si educa ad affidarsi agli eroi ed ai generali. La popolazione inerme trova in loro il rifugio dai bombardamenti virali. Il circo mediatico con toni sempre più aggressivi incita a sanzionare i trasgressori, la rabbia è veicolata verso i nuovi untori: in tal modo i responsabili sono esenti da critiche e da processi. La paura inibisce il pensiero, cerca il responsabile immediato, e così si resta impigliati nello scorrere delle informazioni senza discernimento, senza poter ricostruire la genetica dei fatti. «Nella guerra la prima vittima è la verità», Eschilo sentenziava. La cultura classica attraversa i tempi e ci dona la bussola per capire il presente.

Normalità della guerra
La parola guerra ha l’effetto di formare le menti alla normalità dell’aggressione per risolvere i problemi a dispregio dell’articolo 11 della Costituzione:

“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.

La coerenza con l’articolo 11 vorrebbe che si insegnasse ad usare un linguaggio di pace e di concetti nelle contingenze difficili. Invece le argomentazioni sono sostituite dalle esortazioni alla guerra contro il nemico invisibile. La normalità della guerra di tutti contro tutti prima del Covid-19 era edulcorata dal sentimentalismo mediatico. Ora la maschera cade. In contingenze sfavorevoli si fa appello solo all’attività repressiva indorata da forme di orgoglio nazionali: inni sui balconi, esposizione di bandiere, appelli mediatici per mostrare di essere un grande paese.
La politica ha assunto la postura di Clinia nelle Leggi di Platone, ovvero la guerra è un valore, nei tempi di pace si educa alla guerra in modo che in caso di necessità il passaggio risulti lieve. La globalizzazione ha educato alla guerra ed alle sue parole, per cui la politica ed i suoi esperti che descrivono la guerra e la necessità del dirigismo autoritario non sorprendono nessuno, perché si è stati emotivamente preparati alla divisione ed alla solitudine dalla guerra perenne della globalizzazione:

«CLINIA: Credo, straniero, che a chiunque sia facile comprendere le nostre usanze. Come vedete, la natura di tutta la regione di Creta non è pianeggiante come quella dei Tessali, ed è per questo motivo che quelli si servono per lo più di cavalli, mentre noi corriamo a piedi: il nostro territorio infatti è irregolare, ed è più adatto alla pratica della corsa. In questa regione è necessario possedere armi leggere e correre senza portare con sé cose pesanti: la leggerezza degli archi e delle frecce sembra dunque essere adatta. Tutte queste cose ci preparano ad affrontare la guerra, e, mi sembra, tutto è stato ordinato dal legislatore in vista di questo obbiettivo: perché anche per i pasti in comune, forse li ha introdotti, vedendo che tutti, quando fanno una guerra, sono costretti dalla situazione stessa a mangiare insieme durante questo tempo per motivi di sicurezza. Del resto mi sembra che abbia voluto condannare la stoltezza della maggior parte di coloro i quali non capiscono che ogni stato si trova sempre in una guerra incessante contro un altro stato finché vive. Se allora in tempo di guerra bisogna mangiare insieme per ragioni di sicurezza, e comandanti e soldati devono essere addestrati per la guardia, questo dev’essere fatto anche in tempo di pace. Infatti, quella che la maggior parte degli uomini chiama pace, è soltanto un nome, perché di fatto ogni Stato è per natura sempre in guerra, anche se non dichiarata, contro un altro stato. Considerando la cosa da questo punto di vista, scoprirai che il legislatore di Creta stabili tutte le nostre consuetudini pubbliche e private in vista della guerra, e che per questa ragione ci comandò di osservarle, poiché pensava che nessun’altra ricchezza o possesso fosse utile, se non si vincesse in guerra, dato che tutti i beni dei vinti finiscono nelle mani dei vincitori». [1]

 

La democrazia ha bisogno di parole per capire: senza di esse non è che un corpo privo di vita. Il Covid-19 con le sue tragedie, se non innesca la dialettica della verità rischia di rendere vane il numero, innumerevole, di persone che non ci sono più, e specialmente è fondamentale comprendere quanto avviene per dare dignità ai morti ed a coloro che hanno vissuto il trauma del lutto.
La democrazia non vive di paure, ma di verità e dialettica. Le parole sono l’anima pensante di una nazione, se le parole che circolano sono solo parole di guerra, non vi sarà comunità democratica, ma solo il regno dell’aggressività che entra in ogni relazione e si insedia nei pensieri per curvali allo sguardo guerriero.

Salvatore Bravo

[1] Platone, Le Leggi, Ousia, Edizione Acrobat, a cura di Patrizio Sanasi, pag. 5,

 

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – Il trionfo della malinconia nella società dello spettacolo nega la parola che è festa della vita. La festa è l’immanenza che dà un nuovo senso al tempo vissuto.

Aldo Capitini e la festa

Salvatore Bravo

Il trionfo della malinconia nella società dello spettacolo nega la parola che è festa della vita. La festa è l’immanenza che dà un nuovo senso al tempo vissuto.

Il trionfo della malinconia.
La parola – nella sua essenza umana – è festa della vita.
Se essa è depotenziata, si riduce a spettacolo,
luogo della separazione, dello sguardo che passivamente assiste e subisce il potere.

Lo spettacolo diseduca all’ascolto, incita al confronto nevrotico,
muove alla società dell’invidia, per instillare il pessimismo antropologico.

La festa è prassi, attività, agere politico poiché muove nella direzione comunitaria.

L’homo faber non conosce la festa, non produce per conoscersi,
per contribuire alla liberazione-emancipazione della comunità.

La festa è l’immanenza che dà un nuovo senso al tempo vissuto.

Il lavoro è liberato dalle pastoie dell’alienazione,
poiché la formazione comunitaria insegna al soggetto la dialettica con l’altro.

La “festa” è il luogo del ricordo vivo,
mentre la società della tristezza conosce lo spettacolo,
l’esibizione di sé e specialmente la dimenticanza.

Il capitalismo assoluto è il trionfo della malinconia. Dietro la facciata orgiastica dei consumi, non vi è che il regno delle passioni tristi che depotenziano la creatività umana e la prassi storica. Il capitalismo neoliberista procede per annientamento, trasforma ogni esperienza umana in plusvalore con l’effetto di astrarre l’elemento essenziale dell’esperienza, “la relazione comunitaria”, per sostituirla con il calcolo, col saccheggio predatorio: affinché ciò possa avvenire, agisce sulle parole rendendole organiche al capitale.

Pieter Bruegel il Vecchio, Lotta tra Carnevale e Quaresima (1559)

La manipolazione delle parole svela la verità del capitalismo assoluto, esse sono il mezzo con cui stringere i lacci dell’oppressione. “Il fenomenismo delle parole” fa apparire la libertà e la democrazia come esperienze individualistiche e crematistiche:[1] riduce le attività umane a soli fini privati negando la pubblica partecipazione vera sostanza della democrazia.
Le parole usate, svuotandone il “loro senso”, dimostrano che il capitalismo è esperienza di consumo, ma non di festa. Quest’ultima vive nell’esperienza disinteressata, è la forma emozionale e razionale dell’emancipazione dall’utile, dalla fatica della coercizione inclusiva.
La parola – nella festa – è incontro, è pensiero che argomenta per elaborare concetti, con i quali il mondo “emerge” dalla caverna dell’ignoranza e della negazione. Non è un caso che il capitalismo ami gli “acronimi”, deve celare l’evidenza con “formule linguistiche” senza trasparenza. La lingua germinatrice di vita e pensiero è stata sostituita dalla “lingua tracciabile” dei replicanti, non più pensiero, ma semplice opinione ripetuta senza argomentazione. Il surrogato della parola è la chiacchiera (Gerede) senza pensiero. Le parole dominanti sono i significati frecciati delle classi dominanti: il potere ha le sue parole con cui cannibalizza la semantica delle culture. Il lessico del potere si insedia nelle menti dei dominati per diventarne la gabbia d’acciaio entro cui il prigioniero lessicale deve muoversi. Le parole allora divengono vincoli che irretiscono e delineano i filtri sociali ed individuai: costruiscono percezioni, azioni, orizzonti orientati all’utile privato. Il mondo è osservato da una feritoia, si è sempre pronti all’attacco ed alla difesa.

La parola – nella sua essenza umana – è, invece, festa della vita, poiché permette di approssimarsi ai problemi per condividerli e decodificarli: dove c’è lingua, ci sono ricerca e comunità:[2]

«SOCRATE: Phronesis (‘senno’); è infatti ‘intendimento di movimento e di corrente’, phoras kai rou noesis. Ma sarebbe possibile intenderlo anche come utilità di movimento, onesis phoras. Dunque riguarda sempre il pheresthai (‘essere portato’, ‘muoversi’). E se vuoi, la gnome (‘discernimento’) significa sostanzialmente gones skepis (‘indagine’, ‘studio di generazione): infatti noman (‘studiare’) e skopein (‘investigare’, ‘ricercare’) significano la stessa cosa. Del resto, se vuoi, lo stesso vocabolo noesis è neou esis (‘tendenza al nuovo’), e il fatto che le cose esistenti siano nuove significa che sono generate in continuità. Chi dunque assegnò il nome di noesis, ha voluto significare che l’anima tende sempre al nuovo; infatti anticamente non veniva chiamata noesis, ma invece dell’eta bisognava pronunciare due epsilon: noeesis. Sophrosune (‘saggezza’), poi, è salvezza di quello che abbiamo esaminato or ora, cioè della phronesis (‘senno’). E episteme (‘scienza’, ‘conoscenza’) significa che l’anima, quella degna di considerazione, tiene dietro, hepetai, alle cose che sono in movimento e non le lascia indietro e nemmeno corre loro innanzi. Noi perciò introducendo una e bisogna che la chiamiamo epeisteme. Synesis (‘intelligenza ‘,’comprensione’) a sua volta parrebbe, grosso modo, equivalere a sylloghismos (‘ragionamento’, ‘conclusione’); e dunque quando si dice synienai accade di dire proprio lo stesso che epistasthai (‘comprendere’). Synienai infatti vuol dire che l’anima avanza insieme con le cose. Sophia (‘saggezza’), poi, [Platone, Cratilo, 16] significa ephaptesthai phoras (‘toccare il movimento’), ma è un termine alquanto oscuro e strano. Ma occorre pure ricordarsi che i poeti, assai spesso, quando si imbattono in qualcuna di quelle cose che cominciano ad avanzare rapidamente, dicono esythe (‘balzò su’). Uno spartano, tra i più illustri, aveva nome Sous, vocabolo questo che gli Spartani chiamano il movimento rapido».

 

Festa
Vi è “festa[3]” dove vi è comunità senza monismo. La festa è relazione donante tra soggetti che si riconoscono in un’esperienza comune. Non vi è festa nella società dello spettacolo, ma solo divisione, affermazione narcisistica dell’io astratto, scisso dal tutto, che corre sul palcoscenico per l’ultimo cono di luce. Tutto si oscura intorno a lui, le ombre abitano l’esibizione. Non è un caso, se l’asticella della spettacolarizzazione dell’io, del narcisismo, per poter attrarre e vendere deve alzare di volta in volta l’asticella della trasgressione, fino a trasformarsi in tragedia etica ed umana. Lo spettacolo trasforma ogni festa in occasione di affermazione, competizione, plusvalore. Ogni evento mascherato da festa non lascia ai partecipanti che una sottile malinconia, poiché si maschera per “focolare comune”, una sua volgare copia: anche il dolore è festa, se vi è condivisione. Senza l’accoglienza dell’altro, senza lo sguardo che si fa altro non si conosce se stessi: la festa è disvelamento di sé. Essa è l’essenza del comunismo comunitario: la parola comunismo deriva dal latino commūnis («comune», «pubblico» e «che appartiene a tutti»): la festa è l’esodo dall’alienazione e pertanto è emancipazione, è il luogo nel quale lo scorrere del tempo ha un nuovo inizio. La festa assume, così, la dimensione della gioia dalla quale non si esce eguali. Non vi è festa è senza teoria,[4] senza pratica del concetto che dispone al riorientamento gestaltico.
Se essa è depotenziata, si riduce a spettacolo, in cui i partecipanti sono mezzi per un unico fine: il plusvalore. Lo spettacolo[5] è il luogo della separazione, dello sguardo che passivamente assiste e subisce il potere. Lo spettacolo diseduca all’ascolto, incita al confronto nevrotico, muove alla società dell’invidia, per instillare il pessimismo antropologico negando, in tal modo, la prassi: in esso ogni esperienza è all’interno delle maglie dell’economicismo che come una cappa di piombo scende per lasciare, dietro gli splendori e gli abbagli dell’immediato, un senso di tristezza. Il totalitarismo dell’individuo,[6] la sua tirannide, non conosce la festa, ma solo l’illimitatezza e la solitudine nella moltitudine: non vi è scambio simbolico, ma solo il chiasso che silenzia la partecipazione/festa.

La festa secondo Aldo Capitini
Aldo Capitini, il primo in Italia ad aver utilizzato la bandiera arcobaleno della pace, il 24 Settembre 1962 nel corso della marcia Perugia-Assisi. Nelle sue opere tratta della festa. Essa è un momento maieutico e partecipativo. Non vi è giustapposizione, ma incontro, in cui tutti scoprono di essere importanti con la loro semplice presenza. Ogni storia umana col suo mistero può donare il suo contributo alla comunità, in quanto ogni prospettiva coglie ed accoglie un frammento dell’infinita verità. La festa per Aldo Capitini è l’omnicrazia, il potere di tutti, in cui le parole circolano per essere ascoltate; il potere è nella festa, nella collettiva tensione per capire e proporre; è il luogo della compresenza, ovvero della partecipazione empatica e razionale di ciascuno alla vita della comunità:[7]

«La piena realizzazione della compresenza e dell’omnicrazia è la festa, la festa per tutti. L’apertura ad esse ne è la visione. La festa è la celebrazione e il godimento per la rimozione di tutto ciò che impedisce la compresenza e l’omicrazia».

La festa è prassi, attività, agere politico poiché ci si muove nella direzione comunitaria, e ciò può avvenire solo se i partecipanti rimuovono le sovrastrutture che impediscono la partecipazione e l’espressione del sé profondo.

 

L’homo faber
L’homo faber non conosce la festa, non produce per conoscersi, per contribuire alla liberazione-emancipazione della comunità, ma fa del suo lavoro un mezzo di divisione, uno strumento attraverso il quale rimarcare la sua affermazione sugli altri esseri umani: è interno alla legge della giungla. L’homo faber fa del lavoro un’esperienza muscolare, si astrae dal mondo della vita. I successi divengono sottili esperienze della lontananza non solo dall’umanità, ma anche da se stesso: disperso nei ritmi lavorativi, come un orcio bucato non è mai gratificato, in quanto gradualmente diventa parte meccanica di un sistema che non controlla. Non ha potere alcuno sulla sua vita, sul sistema di cui è solo il famulo triste ed arrabbiato:[8]

«Noi siamo ancora sotto l’influenza dell’isolamento che è stato fatto negli ultimi secoli, e con grande sviluppo teorico e pratico, del fatto del lavoro, o homo faber: tutto il resto è passato in secondo piano, e si è visto nel lavoro l’espressione più concreta della personalità umana e il modo più serio per costituirla e per contrapporla alla personalità di “chi non fa”».

 

La terza rivoluzione
Per Aldo Capitini ci sono le condizioni culturali e tecniche, affinché si possa andare oltre gli schemi ideologici del novecento. Nessuna alienazione sarà superata se gli esseri umani non si riapproprieranno della dimensione della festa, della compresenza e della omnicrazia: il trittico semantico prospetta un quotidiano in cui la prassi modifica le strutture istituzionali e lavorative. La festa è l’immanenza che dà un nuovo senso al tempo vissuto. Il lavoro è liberato dalle pastoie dell’alienazione, poiché la formazione comunitaria insegna al soggetto la dialettica con l’altro, l’io incontra il tu senza monismo o universalismi che discendono, estranei e minacciosi, dall’alto. La festa è la luce terrena che irrora le vite, le lega secondo geometrie sempre nuove. La festa di Aldo Capitini è impegno, assunzione di responsabilità e cura dell’altro. L’io si magnifica, si infinitizza per ritrovarsi. Se la formazione e l’educazione non prevedono un percorso di tal genere, il lavoro come il potere continueranno ad essere esperienza della separazione, della competizione che scava solchi per indurre gli esseri umani a vivere da estranei, ed a rafforzare le logiche di dominio:[9]

«La festa così diventa il sostegno più profondo del lavoro e del tempo libero, e come impostata con essi, un elemento, come una luce, che li accompagna e li irrora. Prendere il lavoro come non ci fosse tutto questo, ha portato ad assolutizzazioni che si son viste insufficienti. Non che mi sfugga quel molto della civiltà che è connesso con esse, ma bisogna aver anche il coraggio di cogliere le svolte della civiltà. In nome dell’uomo come “cittadino” e dell’uomo come “lavoratore”, sono state fatte due rivoluzioni: ma noi oggi possiamo cogliere che l’uomo, in quanto connesso con la compresenza e con l’onnicrazia, è anche altro e questo altro diventa un protomovimento, a suo modo, dell’esser cittadino e dell’esser lavoratore; perché, sulla base di questo altro di questo elemento celebrato nella festa, il cittadino diventa appassionatamente aperto al potere di tutti e il lavoro viene aperto al contributo che da ogni essere viene alla produzione dei valori, che è la forma più alta del lavoro».

 

Trascendere la tecnocrazia
Aldo Capitini intende la omnicrazia non solo come esperienza di partecipazione attiva dal basso, ma anche come educazione che consenta a tutti di partecipare e controllare le operazioni tecniche imprescindibili per il benessere delle comunità. “Festa” è non subire il potere tecnico, ma comprenderlo e saperlo vivere, e specialmente non “pensare” in modo unicamente computazionale. A tal fine Aldo Capitini propone una formazione tecnica che possa facilitare l’accesso a chiunque, per brevi periodi, a ruoli dirigenziali e tecnici per evitare la formazione di oligarchie tecnocratiche. Ciò è possibile, in quanto le tecnologie stanno sviluppando sistemi che in quanto automatizzati sono più semplici nell’uso con l’effetto di permettere ad un numero sempre più ampio di persone l’accesso a funzioni sociali di rilievo:[10]

«Se il dominio di un processo meccanico è possibile con poca fatica e con poche conoscenze, sarà possibile estendere a moltissimi tali compiti, almeno per brevi periodi a turno. Tutti potremmo alternarci in certi servizi pubblici, se estremamente esemplificati nel congegno direttivo. […] D’altra parte nella scuola dovremmo apprendere, tutti, una certa cultura politecnica che ci renda atti, domani, ad esercitare temporaneamente certe funzioni tecniche o a dirigerle, se avremo imparato le strutture dei vari campi dell’amministrazione della vita».

 

Educazione permanente
L’educazione permanente, la crescita formativa di ciascuno è attività interna al potere. Le assemblee sono la libera discussione, dove si realizza lo scambio di informazioni, e ognuno è di ausilio all’altro nei processi di concettualizzazione e liberazione dai pregiudizi. La festa entra nel potere e nel processo formativo, non nella forma della esemplificazione, del divertimento[11] perenne, quale fuga dai contenuti e dalle difficoltà, ma nella parola che diviene dialogo per comunicare e motivare a trascendere resistenze ideologiche e stereotipi:[12]

«Inoltre l’apertura all’omnicrazia, che è l’esercizio continuamente costruttivo delle assemblee, spinge pressantemente all’educazione permanente, perché le assemblee affrontano problemi, e i problemi bisogna conoscerli, approfondirli, vederne i precedenti, i riferimenti, le soluzioni proposte. Valori e problemi vengono così a costituire la sostanza sempre viva di un’educazione permanente coltivata è sperabile dal più largo numero di esseri viventi».


La “festa” è il luogo del ricordo vivo, mentre la società della tristezza conosce lo spettacolo, l’esibizione di sé e specialmente la dimenticanza:[13]

«La realtà sorge nello spettacolo, e lo spettacolo è reale».

La festa e l’omnicrazia conseguenti sono un disporsi su più direttrici temporali: il senso necessita della compresenza, ma anche di un ponte teso tra passato e futuro, solo in questo modo il soggetto assume concretezza, in quanto è parte di una storia che si orienta verso il possibile. La società dello spettacolo, invece, è il regno della tirannia dell’individuo astratto che annichilisce la libertà e la comunità. L’individuo senza comunità trasforma la libertà giuridica in esperienza di violenza dalle mille forme: dalla seduzione a tutti i costi, al desiderio acquisitivo senza limiti. Il regno della tirannia dell’individuo, si connota per la sua generale regressione infantile di massa, si attende che il mondo soddisfi e si pieghi ai desideri di ciascuno. Non vi è festa, non vi è comunità, ma solo l’inquietudine del desiderio senza misura, la tristezza della lotta e della perenne frustrazione.

 

Che fare?
L’intellettuale in un periodo storico di passività e senza attesa ha il dovere di ricordare che la storia è un processo di prassi ed ideologie, che l’improbabile può prendere forma, se i popoli, le comunità, le classi sociali si mettono in cammino. La “festa” non è terminata come la non lo è la storia. La festa e la storia respinte e rimosse possono tornare, se anche le parole degli intellettuali ritornano a far circolare con la critica sociale anche una visione del mondo che apra a nuovi scenari. Perché questo possa avvenire non è necessario che gli intellettuali assumano il ruolo dei depositari della verità, ma a loro spetta il compito di fessurare la cappa del velo dell’ignoranza generato dall’ipertrofia della disinformazione mediatica per mostrare la verità storica del presente. Senza la memoria, dunque, non vi lotta, pertanto il dovere primo è guardare alla storia da cui trarre motivazione e speranza per il futuro.

L’intellettuale che ha trasformato il proprio ruolo ad una banale professione, ha rinunciato alla propria vocazione all’impegno e alla verità. L’intellettuale clericale è parte del problema e sintomo del conformismo operante. La memoria storica può ritrovare la sua forza plastica solo nell’intellettuale che non fa della propria attività un semplice mezzo per fini soggettivi. Alla festa ci si avvicina solo nella rinuncia alla servitù dell’utile personale e collettivo:[14]

«Diversa è la minaccia che oggi incombe sugli intellettuali in ogni parte del mondo: non l’accademia né il voler vivere periferici né l’esecrabile spirito commerciale del giornalismo e dell’editoria, bensì un atteggiamento che definirei professionale. Di chi, cioè, pensa di svolgere il proprio compito come un’attività lavorativa qualsiasi, tra le nove del mattino e le cinque di sera, tenendo d’occhio l’orologio ma con qualche ammiccamento al corretto stile del presunto vero professionista: non creare incidenti, non scostarsi dai modelli e dai limiti convenzionati, mostrarsi disponibili al mercato e, soprattutto, mantenere il doveroso contegno: non prestando mai il fianco, non scendendo sul terreno della politica, mantenendosi ”oggettivi”».

La festa e la comunità sono un binomio possibile solo nella rinuncia a ciò che Costanzo Preve definiva “centrismo furbesco” in Il popolo al potere. L’intellettuale ed il cittadino sempre disponibili al compromesso non producono che estraneità e sfiducia, e specialmente rafforzano l’oligarchia al potere, in tal modo, “moralmente legittimata”. Si consolida la malinconia del “politicamente corretto” senza speranza. La democrazia è un “campo di battaglia” (Kampfplatz), alla “festa” si arriva, solo se si attraversa la fatica del concetto ed il rischio dell’esodo. “La capacità di secessione” è il punto di inizio dialettico senza il quale non si realizza la democrazia. Gli intellettuali potrebbero essere parte essenziale di questo processo, loro compito è favorire la partecipazione, oggi neutralizzata dalla disinformazione organizzata. Devono riportare al centro della discussione politica la formazione senza la quale la democrazia e la comunità non sono che presenze formali e non sostanziali.

Salvatore Bravo

 

[1] Crematistica, dal greco τὰ χρήματα (ta chrèmata) “ricchezze”.

[2] Platone, Cratilo, Edizione Acrobat a cura di Patrizio Sanasi, pp. 14-15.

[3] Festa da Festum o dies festus = giorno di festa, o dal greco festiao o estiao, indica, in entrambi i casi, l’atto di accogliere presso il focolare domestico.

[4] Teoria da da thea spettacolo, da cui anche “teatro”, e horan osservare: nei due sensi, corteo appariscente e angolo di osservazione.

[5] Spettacolo da latino spectacŭlum, der. di spectare «guardare».

[6] Individuo dal latino individuus, parola composta dal prefisso in – privativo e dividuus, «diviso».

[7] Aldo Capitini, Attraverso due terzi del secolo, Omnicrazia: il potere di tutti, a cura di L. Binni e M. Rossi, Il Ponte Editore, Firenze. pag. 108.

[8] Ibidem, pag. 109.

[9] Ibidem, pag. 110.

[10] Ibidem, pag. 86.

[11] Divertimento dal latino divertere “cambiare strada”.

[12] Aldo Capitini, Attraverso due terzi del secolo, Omnicrazia: il potere di tutti, op. cit.,  pag. 102

[13] Guy Debord, La società dello spettacolo, Milano, Baldini Castoldi Dalai editore, 2008, pag. 55.

[14] Edward W. Said, Dire la verità. Gli intellettuali e il potere, Feltrinelli, Milano, 2014, pp. 82-83.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Globalizzazione / glebalizzazione

Riccardo Staglianò
Salvatore Bravo

Globalizzazione / glebalizzazione

La globalizzazione pone quesiti imprescindibili sul futuro dell’umanità e di ciascuno. È necessario filtrare i messaggi che disorientano per “riflettere sulla durezza del problema”. I trombettieri della globalizzazione rappresentano l’interconnessione planetaria come una destino a cui non ci si può sottrarre. L’operazione ideologica si ripete secondo parametri operativi sempre uguali: si osannano le potenzialità del mercato globale, le tecnologie, si sciorinano numeri e nel contempo si occultano la verità e le tragedie etiche di cui è portatrice. Non sono “convenzionali tragedie della storia umana”, ma ci si trova dinanzi a processi tendenzialmente irreversibili che, nel loro incedere graduale, rischiano concretamente di minacciare ogni forma di vita e civiltà.

Si assiste ad una mutazione antropologica definita “rivoluzione”, ma in realtà si tratta di una regressione. Il termine rivoluzione ha un’accezione positiva. Si scorgono, invece, nel present,e i primi segni della barbarie che verrà. Il lavoro e la sua scomparsa a causa della robotizzazione crescente ed incontenibile è parte della regressione umana che si configura. Il lavoro non è una maledizione biblica, può esserlo in particolari condizioni materiali ed ambientali, ma il lavoro è parte sostanziale dei processi attraverso cui la persona ed intere classi sociali divengono consapevoli della propria condizione, e assumono il compito della lotta e dell’emancipazione per sé e per l’umanità. Senza il lavoro condiviso e simbolizzato non vi è che la tragedia dell’atomismo. Hegel, nella Fenomenologia dello Spirito, descrive la figura “servo-padrone”: il servo, attraverso il lavoro, impara a trasformare la natura, educa il proprio carattere e specialmente impara che non necessita del padrone, che la forza del padrone è la sua paura. Il lavoratore scopre di essere il motore della storia e che il signore dipende dal servo. Senza il lavoro non vi è coscienza di sé, delle proprie capacità, e non vi è, specialmente senso sociale. Il lavoro è ricchezza: non solo perché permette la sopravvivenza, ma perché forgia il soggetto, gli dà il carattere senza il quale non sarebbe che un fuscello al traino delle tempeste della storia. In Marx il lavoro non scompare, e nel comunismo è sostituito dalla libera espressione di sé, la quale è la forma più nobile di lavoro a cui giungere. L’estinzione del lavoro nella contemporaneità non è causato solo dal plusvalore aumentato in modo esponenziale, per pochissimi, con la sostituzione degli esseri umani con la robotica, al punto che Andrea Tagliapietra ha definito la globalizzazione “glebalizzazione”. La scomparsa del lavoro inquieta, poiché ha il fine di devitalizzare i popoli, di ridurli a plebi, a consumatori senza diritti. Senza il lavoro comune non vi è politica, perché essa ha la sua genealogia nella condivisione di esperienze che permettono di rimappare i significati, di assumere una postura critica e di formulare una visione del mondo (Weltanschauung). Senza di essa non vi è possibilità di resistere, ogni dialettica della storia lascia il posto ad una massiccia glebalizzazione dell’umanità. Il cittadino è sostituito dal mendicante del consumo. Le responsabilità sono plurime: spesso sono le vittime che aiutano i carnefici, in assenza di strumenti culturali per poter decodificare il presente. Il lavoro scompare poiché i clienti scelgono i prodotti meno costosi delle multinazionali, dietro le quali vi è robotizzazione e precarietà. Il martello dell’economia batte, è trasversale, impedisce di comprendere che ogni atto è un gesto politico, un semplice acquisto è un gesto che favorisce la proletarizzazione delle classi medie e rafforza il regno delle multinazionali che mentre offrono i loro prodotti a consumatori sempre più precari annichilisce il lavoro dei tanti e le loro coscienze:

 

«Come mi ha spiegato Jaron Lanier, uno dei padri della realtà virtuale fortunatamente ridisceso sulla terra, nella penombra del suo studio che è un monumento vivente al concetto di entropia: “Ci piace la musica gratis, ma poi gridiamo allo scandalo per l’orchestrale nostro amico che non ha più fondi. Ci eccitiamo per i prezzi online stracciati, e poi piangiamo per l’ennesima serranda abbassata. Ci piacciono anche le notizie a costo zero, e poi rimpiangiamo i bei tempi in cui i giornali erano in salute. Siamo felicissimi dei nostri (apparenti) buoni affari, ma alla fine ci renderemo conto che stiamo dilapidando il nostro valore”. Per tutti questi motivi, a una generazione dalla nascita della New Economy, ho pensato che era il caso di fare un viaggio, il più laico possibile, nel lato oscuro della Forza. Non per provare a fermarla, che è impossibile e neppure auspicabile. Ma per disattivare il pilota automatico e reclamare il posto del conducente. Perché web e robot ci tolgono la terra sotto i piedi, ma non sono eventi naturali imprevedibili come i terremoti. Solo se continueremo a comportarci come se il progresso che portano sia indiscutibile, ineluttabile e ingovernabile finiremo sotto le macerie. Io, che rimango sostanzialmente entusiasta, sono convinto che possiamo ancora evitare che vada così».[1]

 

Economia “smart”

La velocità e l’efficienza degli acquisti online consente alle multinazionali di presentarsi come “smart”. Il consumatore dinanzi alla velocità ed alla possibilità di un’agile restituzione intravede negli acquisti online un servizio insostituibile che gli garantisce la soddisfazione dei suoi desideri quotidiani in modo veloce, senza il fastidio di recarsi in negozio, di dover attendere, semplicemente con un clic può soddisfare se stesso e sentirsi per un attimo onnipotente: le frustrazioni quotidiane, la malinconia di vivere per un attimo trova il suo balsamo. Il clic è un farmaco[2] nel senso etimologico della parola, il clic ripetuto trasforma “la cura in veleno”, poiché distrugge il tessuto economico della classe media a cui appartiene, per cui la gioia immediata di clic in clic diventerà la sua disgrazia, gli sottrarrà il suo lavoro facendone un precario sempre sulla soglia della miseria. La New economy non è compresa, non è conosciuta, e non è un caso. Nelle scuole si insegna l’uso delle tecnologie, ma non il contesto economico e di potere del loro uso ed i suoi effetti. Non si sollevano dubbi, si hanno solo certezze, il futuro sarà digitale, per cui non resta che adattarsi. Si cela la verità, “l’apparir del vero”. L’avanzare celere della nuova economia non trova resistenza, e specialmente non incontra che un’umanità abituata a ragionare secondo l’immediato. L’immaginazione creativa è sepolta tra clic ed il martello dell’economia. La politica in generale non accoglie l’urgenza del problema, non risponde ai popoli, ma semplicemente si appiattisce agli ordini delle multinazionali che finanziano le campagne elettorali:

 

«La New Economy, ormai è ufficiale, non l’abbiamo capita. Me ne rendo conto adesso, con circa venti anni di ritardo. O meglio, ci siamo entusiasmati di fronte ai suoi vantaggi (chiunque avesse una buona idea poteva diventare ricco, con trascurabili investimenti iniziali) e abbiamo trascurato gli svantaggi collegati alle dinamiche delle tante compagnie internettiane, da Netscape ad Amazon, che fecero spettacolari quotazioni in Borsa a partire dalla metà degli anni ’90. Eravamo tutti troppo presi a favoleggiare intorno alle stock option delle segretarie di Yahoo! che le avrebbero presto trasformate in milionarie in dollari per fermarci a ragionare intorno a un fastidioso effetto collaterale di quella fenomenale e sin troppo rapida creazione di ricchezza. L’effetto collaterale, la caratteristica essenziale di cui parlo, è che tutti quei soldi venivano generati grazie a una minima porzione di lavoratori rispetto al passato. Quando il 9 agosto 1995 Netscape si quota e viene valutata 2,9 miliardi di dollari ha una trentina di dipendenti. In Italia, dove gli eccessi sono stati molto minori che negli Stati Uniti, quando Tiscali si quota nell’ottobre del ’99 arriva a essere valutata 35 mila miliardi di lire, ovvero quasi quanto Fiat. Che però dava lavoro a oltre 221 mila persone, ovvero 63 volte tanto il service provider sardo. Per non dire che la prima aveva creato quella ricchezza in cento anni, mentre la seconda in uno. Si capiva che c’era qualcosa di anomalo, ma quasi nessuno segnalò il cambiamento di più vasta gittata. Ossia: nella Vecchia Economia i lavoratori erano consumatori e i consumatori erano lavoratori. Se aumentava il salario dei primi, i secondi spendevano di piú e qualche altro lavoratore doveva produrre di piú per saziare i nuovi acquirenti. E cosí via. A quell’epoca gli uomini, un discreto numero di loro, erano ancora necessari per produrre ricchezza. Nella Nuova Economia no, perché i siti e le piattaforme che la incarnano si prestano benissimo a essere scalabili, ovvero a servire un pubblico dieci, cento, mille volte più ampio solo aggiungendo dieci, cento, mille computer in più. Chi ha memoria ricorderà cosa successe allora. Lo sboom del marzo 2000 fece pulizia di tante illusioni, nella maniera più cruenta possibile».[3]

 

La salivazione per gli acquisti

L’impero della globalizzazione ha la sua forza nella fragilità dialettica dei servi. A tale debolezza si è giunti dopo decenni di smantellamento dei corpi medi della democrazia: partiti, sindacati, associazioni nei quali l’incontro era il fondamento per capire e progettare azioni di lotta. Ai corpi medi non si è sostituito nulla, il vuoto ha permesso l’avanzata del nichilismo nella forma degli ipermercati, dove si impara a condividere la “salivazione” per gli acquisti ed a sostituire il concetto, la parola che unisce con l’esame merceologico. Solo in questa cornice è possibile occultare dati anche palesi, ed il più evidente è che la globalizzazione erode mestieri e professioni per sostituirli con il nulla, con la disoccupazione perenne e senza speranza:

 

«Lo studio si intitola The Future Of Employment: How Susceptible Are Jobs To Computerisation?, è datato 17 settembre 2013 e lo firmano Carl Benedikt Frey e Michael A. Osborne. I due ricercatori analizzano il mercato statunitense del lavoro e lo suddividono in 702 diverse occupazioni. Poi valutano la probabilità che, entro il ventennio successivo, un determinato mestiere venga rimpiazzato da una macchina. Il risultato è spaventoso: il 47 per cento dei mestieri analizzati ricade nella categoria ad alto rischio di sostituzione da parte di robot o algoritmi. Tra i sostituibili figurano la maggior parte degli addetti ai trasporti e alla logistica, i lavori d’ufficio e amministrativi di basso rango nonché quelli nelle linee di produzione dell’industria. Quelli piú a rischio di tutti sarebbero gli addetti al telemarketing, assicuratori, riparatori di orologi e preparatori di dichiarazioni dei redditi».[4]

Impossibile competizione

Non è secondaria la mortificazione con cui la globalizzazione infetta i popoli: il servo deve competere con algoritmi e macchine, deve constatare la sua nullità, ogni giorno deve verificare che essere ”umani” è uno svantaggio, perché le macchine possono ciò che per ciascuna persona è possibile solo nelle fantasie di onnipotenza senza freno. Il nuovo servo introietta che ogni competizione con la macchina non può che scoprirlo vulnerabile e perennemente sconfitto, per cui è facile rassegnarsi alla condizione di servi:

 

«Avvistamenti non dissimili sono stati fatti in altre fabbriche americane, comprese quelle della Honda, della General Motors, della Nissan o della Toyota in cui a molti robot sono stati dati nomi di animali. E non è un vezzo solo statunitense. Nello stabilimento Nissan di Kyushu, nel sud del Giappone, i grossi robot che saldano e assemblano sono stati chiamati come personaggi di anime. Minsoo Kang, un professore di lettere all’università del Missouri a St Louis, ha scritto un libro dal titolo Sublime Dreams of Living Machines e si è interrogato sul perché di questa tendenza umanizzante. Dice: “Non diamo un nome alle forbici, ma quando cominciano a fare azioni da umani, lo facciamo”. Da una parte c’è il rispetto, dall’altra la paura. “Nel profondo questi lavoratori sono impauriti. Se le macchine non sono controllate, potrebbero risultare estremamente pericolose”. Già dar loro un nome le fa sentire meno aliene. Per quanto riguarda le scelte di Rethink Robotics, Baxter era il termine inglese arcaico per indicare una fornaia mentre Sawyer era il nome desueto di colui che tagliava il legno».[5]

 

La quotidiana mortificazione, l’impossibile competizione è sostenuta dalla propaganda del capitale che magnifica la sostituzione umana nel lavoro come un traguardo finalizzato a rendere le vite di tutti “più umane”, meno faticose e noiose. Si utilizza il linguaggio marxiano della liberazione dalla fatica, in realtà si punta ad indebolire le capacità critiche ed organizzative. Vi sono umanoidi che già collaborano nelle redazioni, erodono il lavoro dei giornalisti, l’utile immediato rischia di essere pagato a caro prezzo in futuro, in assenza di norme che limitiamo “le collaborazioni umanoidi”. L’evoluzione degli umanoidi potrebbe in futuro sostituire i giornalisti, i docenti, i traduttori ecc. in questo modo il potere globale si libererà delle idee e della coscienza umana sostituendole con docili umanoidi. È indispensabile conservare la visione olistica degli eventi, vedere con gli occhi della mente ciò che potrebbe accadere in futuro per potersi opporre in modo costruttivo “al mondo nuovo che avanza” con i suoi dispositivi di controllo e sostituzione delle coscienze:

 

«Prima di congedarsi Hammond insiste sul punto che gli sembra dirimente: “Mettiamo che un giornale abbia un corrispondente dalla Germania che, come tutti gli esseri umani, non può leggere ogni giornale locale e coprire tutto. Mettiamo adesso che gli affianchiamo Quill che legge anche i giornali online di quartiere e riassume, secondo le regole che gli abbiamo dato, le storie piú interessanti perché statisticamente anomale. A quel punto il corrispondente potrà prendere il testimone e magari fare uno scoop di cui altrimenti non si sarebbe nemmeno accorto. Questo è il nostro scopo: liberare i giornalisti dalle occupazioni banali per consentire loro di dedicarsi a quelle piú creative. Piú in generale la nostra ambizione sarebbe quella di far sí che gli esseri umani possano risparmiare tempo per reinvestirlo nelle relazioni, in ciò che li rende davvero umani”. È un programma elettorale che non fa una piega. Liberare gli uomini dalla catene della noia e della ripetizione. Solo un folle potrebbe dirsi contrario. Eppure, come tanti progetti utopici, il rischio di virare in distopia va tenuto in considerazione. Perché, come l’apprendista stregone disneyano, una volta che abbiamo aperto le porte della redazione allo scrivente automatico quello non si ferma piú. Inizia con le brevi, e a forza di scriverle, le scrive sempre meglio. A quel punto, con un po’ di aggiustamenti dei parametri, l’algoritmo diventerà bravo anche nel mettere insieme articoli veri e propri. E poi ancora, istruendolo su come allargare il tiro e migliorare lo stile, sarà la volta degli editoriali. Magari mi preoccupo anzitempo, ma non posso fare a meno di pensare al celeberrimo sermone del pastore Martin Niemöller sull’ignavia degli intellettuali tedeschi di fronte all’ascesa del nazismo, reso popolare da Brecht: “Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare”».[6]

 

 

La parte e il tutto

Per difendere l’umano e l’umanesimo necessitiamo di immaginazione collettiva, della capacità di non lasciarsi ammaliare dall’immediato per poter prevedere possibili scenari futuri e prevenirli. Spetta a chiunque mettere in campo idee e progettualità senza le quali ogni possibilità di curvare le conoscenze al servizio degli esseri umani è persa. Perché tale obiettivo possa essere raggiunto si deve rimettere al centro la politica ed i corpi medi e specialmente un’istruzione che formi alla consapevolezza dei pericoli insiti nel mondo che verrà. Non è un destino che gli esiti esiziali si concretizzino, la responsabilità decisionale è ancora dei popoli e delle classi dirigenti. Il fascino degli algoritmi sta lasciando il posto alla verità della precarietà, della disoccupazione, del nichilismo senza speranza. La verità ha il potere di liberarci dal pericolo, anzi più grande è il pericolo maggiore è la possibilità di divergere da esso: “Dove c’è pericolo cresce anche ciò che salva” (Friedrich Hölderlin). Il senso del pericolo deve indurci a pensare, a riattivare le nostre energie politiche: ciascuno può dare il proprio contributo e favorire la rinascita contro la barbarie che avanza. Affinché vi possa essere il progetto alternativo è indispensabile il riorientamento gestaltico su due punti: l’economicismo e la rivoluzione passiva. L’economicismo, il nuovo integralismo totalitarismo dell’Occidente, dev’essere abbandonato per integrare l’economia all’interno di una cornice epistemica ed ideologica, in cui è posta al servizio della politica. Alla rivoluzione passiva bisogna sostituire la partecipazione attiva e reale. La rivoluzione passiva oggi è nella forma della partecipazione mediatica, nella perenne dipendenza dell’apparire rappresentata come “rivoluzionaria”, perché espressione del progresso tecnologico, del dominio dell’individuo, della parte sul tutto. La rivoluzione autentica deve saper discernere le tecnologie dalla consapevolezza delle logiche strutturali e sovrastrutturali di cui è organica. Il riorientamento gestaltico non può che avvenire in modo comunitario, per comunitario si intende ogni luogo nel quale la parola è veicolo di significato critico e non di manipolazione conservatrice. Il tutto viene prima della parte, e la parte ha il suo senso nel tutto. La politica è la consapevolezza di questa relazione che si radica nella storia. I classici ci sono di ausilio. Possono indicarci da dove iniziare, e il punto primo è che nessuno si salva da solo, perché siamo all’interno di un intero che attende risposte, senza le quali rischiamo di scivolare in una furiosa barbarie:

 

«Invero la città secondo l’ordine naturale viene prima della famiglia e di ciascuno di noi. Perché necessariamente l’intero viene prima della parte: in effetti, tolto l’intero, non vi sarà più né piede né mano, se non per omonimia, come nel caso in cui ci si riferisca a una mano di pietra – sarà infatti in una tale situazione quando sarà morta; tutte le cose sono definite dalla funzione e dalla capacità, sicché non bisogna dire che sono le stesse, quando non sono più tali, ma solo che hanno lo stesso nome. È chiaro dunque che la città è per natura e viene prima di ciascun individuo; se infatti un individuo, isolato, non è autosufficiente, sarà rispetto all’intero nella stessa relazione delle altre parti; e allora chi non è in grado di far parte di una comunità o in virtù della sua autosufficienza non manca di nulla, non è parte di una città, e quindi è o una belva o un dio».[7]

Se il cittadino si auto-percepisce solo come consumatore non si integra con la totalità, la conseguenza è l’impossibilità della politica e della comunità. Politica e filosofia hanno il compito di rifondare la relazione tra la parte ed il tutto, quale verità fondativa da cui riprendere il cammino interrotto. Alla trasmissione di dati e calcoli senza fondamento bisogna sostituire la comunicazione mediante la quale non solo i dati divengono oggetto della lettura collettiva, ma specialmente la comunicazione[8] implica la messa in comune della dialettica della progettualità, in assenza di questo, il potere non trova limite alcuno, ma prolifera e si installa nell’anomia generale. Ci si deve riappropriare della pratica della comunicazione e smascherare le forme orwelliane della stessa, senza tale operazione dialettica ci si consegna ad un mondo senza storia, regno degli algoritmi.

 

Salvatore Bravo

[1] Riccardo Staglianò, Al posto tuo. Cosí web e robot ci stanno rubando il lavoro, Einaudi, Torino, pag. 9

[2] Farmaco dal greco phármakon, ‘medicamento’ o ‘veleno’.

[3] Riccardo Staglianò, Al posto tuo…, op. cit., pag. 50.

[4] Ibidem pag. 55

[5] Ibidem pag. 66

[6] Ibidem pp. 81 82

[7] Aristotele, La Politica, l’Erma di Bretschneider, Roma 2011, p. 147.

[8] Comunicare dal latino: communicare, mettere in comune, derivato di commune

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – Tutti promossi, perché la cultura e l’impegno non sono un valore, ma un limite al mercato. La didattica smart non insegna a pensare, ma solo a dare il minimo della preparazione che serve al mercato.

Tutti promossi
Salvatore Bravo

Tutti promossi.

Con la promozione generalizzata causa covid 19 si conclude un processo di distruzione dei contenuti. Tutti promossi, perché la cultura e l’impegno non sono un valore, ma un limite al mercato.
La didattica smart non insegna a pensare,
ma solo a dare il minimo della preparazione che serve al mercato.


La pubblica istruzione sta vivendo e consumando, sotto lo sguardo di ciascuno di noi, il suo stato di eccezione. La bozza del decreto sul corrente anno scolastico conferma quanto la ridda delle voci ministeriali e non aveva anticipato: tutti promossi. Ad uno sguardo superficiale tale provvedimento sembra inevitabile; in realtà lo è, se ci si colloca, come sta avvenendo, nell’ottica del pensiero unico. Non vi sono discussioni, dialoghi in cui le posizioni alternative si confrontano con la forza e con la debolezza logica di ciascuna proposta, ma vi è solo il chiasso del pensiero unico. Deleuze, in Che cos’è la filosofia, afferma che i dialoghi platonici sono una rappresentazione spaziale delle posizioni che si possono assumere su un dato problema. La realtà non è un dato di fatto, ma si costruisce mediante la capacità di ciascuna prospettiva di far emergere, come direbbe Hegel, un lato del problema. Nulla di questo accade nello stato di eccezione in cui siamo, dove si susseguono interviste e dichiarazioni, ma stranamente tutti concordano sulle posizioni ministeriali: la democrazia non è questione di “quantità vocali”, ma di “qualità verbale”. La pletora di voci è una abile manovra per la rappresentazione scenica della democrazia! In realtà le voci che si susseguono non sono che cloni della matrice unica ministeriale. Tutti devono essere promossi, nessuna bocciatura: nessuno si scandalizza, poiché lo stato di eccezione porta a compimento “il progetto pedagogico” che ha delegittimato in questi decenni la scuola pubblica. Essa ha perso la sua finalità formativa per essere un diplomificio finalizzato all’inclusione illusoria. I titoli elargiti con generosità hanno il fine di includere le nuove generazioni in logiche competitive e mercantilistiche e pertanto la scuola promuove ed accoglie per poter inserire nel mercato lavorativo generazioni di semianalfabeti facilmente manipolabili e, specialmente a “scuola”, si impara il pensiero unico della competizione senza qualità. Non a caso le competenze, il saper fare e vendere le proprie competenze è l’obiettivo primario, per cui: che ciascuno impari il minimo richiesto dal mercato! Questo è l’obiettivo facilmente raggiungibile che ci si propone. I contenuti su cui la scuola pubblica svolgeva la selezione sono stati ridotti ad elementi secondari, devono essere minimi; i contenuti sono giudicati dai pedagogisti di regime un doloroso fardello da schiacciare su minimi livelli, ma in realtà sono il nutrimento per ogni emancipazione. Si temono i contenuti, perché con essi si impara l’arte della concettualizzazione che sospende la produzione, ma rende la vita una vita umana. La scuola, attraverso i contenuti pensati e concettualizzati, dovrebbe insegnare a pensare il mondo diversamente; così la scuola diviene non il motore di conferma del potere, ma l’istituzione che pensa il potere e l’economia per riformarle. Con la promozione generalizzata causa covid 19 si conclude un processo di distruzione dei contenuti e delle differenze per dichiarare pubblicamente che la bocciatura è inutile, poiché i contenuti minimi possono essere recuperati con la didattica veloce, la didattica smart che non insegna a pensare, ma solo a dare il minimo della preparazione che serve al mercato.

La scuola deve formare alla competizione ed all’individualismo: non a caso vi è il PCTO, l’educazione all’imprenditorialità ed al coding esaltati e pubblicizzati dall’azienda scuola, la quale deve stare sul mercato dell’offerta formativa. Non dimentichiamoci del numero notevole di certificazioni linguistiche ed informatiche, organiche a tali obiettivi, che interrompono il processo di formazione. I contenuti sono delegittimati, e lo è ancor più l’attività di studio degli studenti, che resistono con i loro professori e presidi all’eliminazione del sapere-concetto per essere sostituito dalle logiche del fare per vendere. Il pensare è pericoloso per qualsiasi sistema; oggi l’immissione massiccia delle tecnologie ed il mercato globale favoriscono la sostituzione del pensare con il semplice saper fare: vendersi e godere illimitatamente. Pensare deriva da un verbo latino (pendo/penso) che significa “soppesare”, perché chi pensa coglie il valore delle parole, guarda e sperimenta processi dialettici, soppesa il valore qualitativo delle posizioni politiche e delle ideologie, le corrobora, come direbbe Popper. Nulla di questo deve più avvenire: tutti promossi, perché la cultura e l’impegno non sono un valore, ma un limite al mercato.

 

DAD

Se tutti devono essere promossi, qual è la funzione dei docenti che con improvvisate piattaforme cercano di trasmettere contenuti e di rendere viva la scuola? Forse dinanzi all’opinione pubblica educata solo alla quantità, si vuole giustificare lo stipendio dei docenti e nel contempo si usano i docenti come intrattenitori di una generazione stimolata dal mercato al perenne consumo ed ora costretta a stare a casa. Dovremmo chiederci quale messaggio arriva a quegli alunni che si sono impegnati fino a marzo, con due terzi della scuola effettuata, e che adesso si trovano ad essere eguagliati a coloro che in sei mesi nulla hanno fatto. Si pensi al senso di impotenza e di derisione che interiorizzano i discenti che si sono impegnati lungamente, malgrado le innumerevoli interruzioni dell’attività didattica causa “offerta formativa”. Il re è nudo … si comunica la verità, ovvero che lo studio, la ricerca, il merito sono valori in caduta verticale nella nostra nazione (non a caso le carriere accademiche si costruiscono con concorsi opinabili al punto che i nostri ricercatori sono migranti del sapere alla ricerca della loro Itaca); li si lascia andar via, perché il sistema non vuole cambiare, non vuole mettere in pratica processi dialettici di trasformazione profonda. Il merito è solo propaganda, non a caso tutti promossi… e, se ci si è impegnati, ci si deve accontentare e sperare di un voticino in più con cui giustificare il merito. La promozione oggi totale, da decenni generalizzata, rivela un’altra verità: che il lavoro non è distribuito secondo logiche meritocratiche, ma di censo. E’ il denaro a decidere la conferma o la promozione sociale, non la scuola con i suoi titoli e certificazioni. Essa è un diplomificio di illusioni, se non si ha denaro da spendere in corsi qualificanti. In tutto questo si dovrebbe effettuare un’epochè dei pregiudizi sui docenti, e ci si dovrebbe immedesimare in loro: Essi svolgono lo stesso lavoro di Sisifo, con la DAD si sforzano di dare dignità ai contenuti per non giungere a nulla e specialmente arriva il messaggio che i loro sforzi per inseguire gli alunni sono nulli … tanto saranno tutti promossi. Immaginatevi un ragazzino un po’ immaturo: in questo modo si rafforzano in lui il senso di onnipotenza, il disprezzo per l’impegno, la cultura e per i suoi colleghi studiosi. Ancora una volta prevale la logica del condono, per cui i cittadini con senso civico sono messi tacitamente alla berlina. Ma si immagini anche il disincanto degli alunni che hanno sempre svolto il loro dovere con motivazione.

 

Non vi è altra soluzione?

Il buon governo dev’essere capace di essere impopolare, invece si inseguono la calma sociale e l’elettorato con provvedimenti demagogici. Si potrebbero valutare gli alunni sui voti ottenuti fino a marzo, in modo da salvaguardare il merito. Si potrebbe rispondere in questo modo allo stato di eccezione di questi giorni, si può ipotizzare che tale provvedimento potrebbe essere attaccabile, poiché l’anno scolastico non è terminato e non ci sono stati i tempi per il recupere, ma affermare la validità dell’anno, qualora non si rientri, non è egualmente attaccabile a livello giuridico? Si dovrebbe comunicare, per una volta, che i recuperi veloci fatti a fine anno per evitare bocciature e ricorsi sono una vergogna nazionale, ed è ora di cambiare rotta. Tutti i giorni del tempo scuola sono importanti, non solo gli ultimi che consentono recuperi fragili, perché le strutture concettuali si formano con la sedimentazione qualitativa nel tempo. La maturità digitale, qualora si concretizzi l’ipotesi peggiore, con un unico orale – c’è da chiedersi – garantisce l’imparzialità della valutazione, dato che l’alunno dovrebbe collegarsi probabilmente da casa sua? I crediti potrebbero essere utilizzati, in alternativa, come elemento oggettivo, oltre alle valutazioni registrate fino a marzo, per garantire reali differenze tra gli alunni ed i meriti?

Le dichiarazioni continuano a susseguirsi, non vi sono state reazioni dei sindacati, dei partiti di opposizione, dei docenti. Tutto avviene fatalmente. Il silenzio apparente che segue alle innumerevoli indiscrezioni e dichiarazioni rafforza la posizione del ministero e la debolezza del settore pubblico soverchiato da logiche palesi che nessuno denuncia. Ancora una volta il sentimento che prevale è la pubblica mortificazione di coloro che credono e si impegnano. L’effetto lo sconteremo nei prossimi anni con un abbassamento ulteriore della qualità della nostra istruzione, come denunciano i risultati delle prove INVALSI. Si sta verificando una effettiva descolarizzazione della nostra nazione e tale descolarizzazione non è sostituita da nulla a livello comunitario, ma solo dalla legge del più forte che coincide con la legge del denaro. E’ il momento di sollevare dubbi e chiedersi che tipo di comunità umana stiamo costruendo, visto che le scelte di oggi producono effetti già nel presente e pertanto si protrarranno nel futuro. L’avvenire delle nostre scuole è intrecciato con il futuro di tutta la comunità umana. Non possiamo in un momento critico delegare il futuro a nessuno: se tale messaggio passa, ancora una volta abdichiamo alle nostre responsabilità in nome di un dirigismo che mai nella nostra storia è stato garante di democrazia, ma ha sostituito il diritto con il privilegio, il dialogo con le gerarchie.

 

Salvatore Bravo

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Salvatore Bravo – Il disprezzo come modalità di governo. Il disprezzo è la vera cifra dell’esperienza «covid 19». il sintomo di una malattia carsica e profonda che attende la cura del pensiero e della prassi.

Coronavirus- covid 19

Salvatore Bravo

Il disprezzo come modalità di governo

Il disprezzo è la vera cifra dell’esperienza covid 19: il popolo è oggetto di una pedagogia regressiva e reazionaria, di un esperimento paternalistico ed ideologico. Si susseguono gli appelli a restare in casa in ogni foggia e maniera. Si cerca di raggiungere le diverse fasce di età utilizzando immagini, slogan, pubblicità di diverso genere, funzionali alle fasce di età. In genere per convincere a restare in casa si utilizzano “i volti preoccupati” dei vip di circostanza, i quali descrivono le loro giornate al tempo del covid 19, anche loro costretti, come tutti, a restare in casa, a rinunciare agli splendori quotidiani per una sana cattività.
La volgarità del disprezzo non ha pudicizia. Si cerca di convincere la popolazione che tutti siamo eguali ed uniti in un unico destino. Si occultano le differenze, si rimuove la solitudine dei tanti che sono lasciati soli e sono impediti nelle attività quotidiane. La violenza del potere si concretizza in una falsa immagine della popolazione. Nei servizi televisivi sulle vite dei vip viene abilmente occultato che la loro condizione è diseguale rispetto alla media della popolazione. La vita vera, perché esiste la verità del quotidiano, si materializza nella difficoltà nel reperire il necessario per la sopravvivenza. Le lunghe file per la spesa per anziani e disabili sono l’incubo quotidiano, a cui si unisce la solitudine delle vuote ore casalinghe. Dopo l’attesa e le file si deve subire la televisione di Stato e non, che magnifica il sacrificio dei cittadini mostrando che non ci sono privilegiati, ma che anche i ricchi piangono, anche i famosi sono chiamati a rinunciare alla loro vita di consumo per essere parte del sacrificio nazionale. Nei servizi televisivi appaiono nello splendore abbacinante del trucco di scena e colgono l’occasione per una nuova esposizione mediatica, si garantiscono un’ulteriore visibilità mediatica.
Le vite delle persone normali con le loro ansie non appare, scompare tra le fumisterie dei trucchi, delle luci dell’ideologia del privilegio camuffato per condivisione nazionale. I famosi si appellano al senso civico, invitano alla pazienza, a leggere libri ed al senso della famiglia. Le loro vite sono la negazione dei valori a cui si appellano, ma si tratta solo di un altro copione con cui recitare un altro ruolo. Il nichilismo è per sua natura liquido, si può recitare ogni ruolo, perché nessuno è vero. Offende ed umilia la popolazione la farsa quotidiana e l’assenza dei veri protagonisti di questa tragedia nazionale.

Multe
Le trasgressioni devono essere sanzionate, se mettono in pericolo le vite degli altri, ma se in una condizione di tracollo economico, con il lavoro nero da sempre tollerato e sostenuto, si multano i trasgressori fino a tremila euro, ci si deve chiedere: multe di tale entità possono essere pagate dal precario che lavora in nero e deve uscire di casa per sopravvivere? Gli stipendi medi non raggiungono i mille euro; è lecito, è giusto, multare con tremila euro una persona costretta, in molti casi, a trasgredire?
Ancora una volta la distanza tra governati e governanti è abissale. Alla retorica della bandiera, delle canzonette sul balcone, al retorico “andrà tutto bene” bisogna opporre la crudezza del vero. La pandemia sta mostrando le verità di un sistema sclerotizzato in contraddizioni che non trovano voce. La “sinistra” di governo tace, ma è parte della scena mediatica che ci vuole ubbidienti e senza pensiero. Si sta consumando l’ennesima “farsa dolorosa” con le complicità di sistema, il quale avvezzo da decenni alla sottomissione delle masse, mette in pratica il disprezzo come forma di governo. È un’arma da non sottovalutare: il disprezzo entra nella psiche, nelle relazioni, forma alla servitù. Nel trattare l’altro da servo imbecille, si porta l’latro al convincimento di esserlo e in questo modo lo si persuade di non meritare altro che disprezzo, i suoi diritti non sono che capricci: il covid 19 è un terribile esperimento sociale, in cui il disprezzo per le masse è la nuova formula alchemica dei dominatori. Talvolta il potere batte i pugni per difendere la popolazione dai dinieghi dei plutocrati di Bruxelles, è la parodia della paternalismo borbonico. Il popolo bambino-suddito deve “percepire” che vi è il Super io che lo protegge, ma non gli consente di essere libero e padrone di sé: deve imparare la dipendenza.

Linguaggio
Il linguaggio del potere verso i sudditi è sempre prescrittivo: “State a casa!”, “Lavatevi le mani!” “Uscite uno alla volta!”. Ai bambini si danno ordini in modo ripetuto, perché possono disobbedire. I bambini non hanno autocoscienza, pertanto devono essere controllati con le parole che mentre ordinano, per il loro bene, terrorizzano con la sanzione e nello stesso tempo con immagini che servono ad impaurire ed inibiscono il pensiero. Le immagini che a ciclo continuo ci subissano, non aiutano a capire, ma servono a tener buona la popolazione. Capire il motivo dell’anomalia del numero dei morti non è consentito, implicherebbe il potere che si mette a nudo con le sue responsabilità dalla gestione dell’epidemia ai tagli sociali. Se non si comprendono le ragioni, se non sono oggetto di pubblica discussione, il potere si assicura che il dopo sarà eguale al prima. È in atto una manovra di conservazione e di investimento sul futuro del potere.
Nella melassa degli appelli e della propaganda ci sono anche gli angeli e gli eroi: il personale medico. Ma quest’ultimo non è costituito da eroi ed eroine, ma da vittime. Sulla loro carne viva si consumano decenni di tagli alla sanità, di numero chiuso alle università. Lavorano più di quanto dovrebbero e le loro vite sono in costante pericolo. Designarli come eroi è un modo per aggirare il problema della sanità pubblica e delle politiche di pareggio dei conti. Nella confusione non mancano i pretoriani del potere che donano centinaia di milioni di euro alla sanità: i finanzieri globali si possono permettere gesti di generosità con i quali essere, ancora, nella luce della ribalta. Sono giudicati come benefattori del popolo tanto nessuno si chiede da dove provenga tanta ricchezza. Colgono un’ottima occasione per farsi pubblicità e cancellare il sospetto che siano parte sostanziale del problema e non la soluzione.

Religione come oppio dei poveri
Le messe ed i crocifissi che vengono esposti per fermare la pandemia sono un ottimo espediente per tenere buona la popolazione, perché crede che tutto ciò che accade è dovuto a cause trascendenti. Dopo decenni di disprezzo verso la religione la si scongela per rabbonire le masse. Il senso religioso non è questo, ma vive nella vita quotidiana del libero atto di fede che non si lascia strumentalizzare, ma vive la scelta di essere altro nel mondo rispetto ai canoni convenzionali. Il credente difende la fede dall’uso che il potere ne vuole fare all’occorrenza: la religione di circostanza è l’oppio che si dà a taluni per calmierare la rabbia e le domande. Lo spazio che viene concesso alla religione è parte del disprezzo generalizzato verso un popolo che dev’essere eternamente bambino.

Eroi della didattica mediatica
I tempi grami vogliono una pluralità di eroi e di eroine. La didattica mediatica ha i suoi protagonisti in docenti che vengono invitati ad usare le piattaforme per videolezioni. Nessuno spiega ai docenti i rischi delle videolezioni, i pericoli della rete e specialmente che la propria immagine e la propria voce possono essere manipolate ed oggetto di ogni genere di uso. Si invita, si blandisce all’uso non consapevole. Non è una forma di disprezzo l’invito all’uso senza la consapevolezza? Ci si appella alla relazione empatica dopo che la scuola è stata ridotta ad azienda nella quale i fini educativi sono solo forma, mentre la tecnica è tutto. Si esige che siano i docenti a rassicurare i discenti, rivelando che le famiglie ed il loro senso comunitario è stato estinto dall’individualismo di sistema. La scuola nella quale si è imparato a competere a livello orizzontale e verticale, ora, dev’essere empatica… I docenti sono niente come gli alunni, per cui ad essi si può chiedere tutto.

Tempi moderni
Al bambino la verità va detta gradualmente: si deve abituare alla sottrazione delle sue libertà poco alla volta. La verità non la si dice intera, ma data la costitutiva fragilità del bambino si scelgono i tempi con cui dirgli a cosa va incontro. Si verifica la reazione ai primi provvedimenti. Se è positiva, si procede oltre. Il disprezzo è tutto qui, il popolo è un suddito che va governato dosando i provvedimenti, osservando le reazioni per poi decidere che si può chiedere ed esigere ancor di più. Il fine non è svelato, la verità è solo del potere. Il bambino deve solo imparare ad obbedire e se non lo fa si minaccia di controllare la tracciabilità dello smartphone. Si rafforza tale modalità ripetendo che è momentanea e che è per il suo bene, perché il popolo è naturalmente incapace di capire cosa è il bene ed il male: c’è il potere che gli insegna cosa deve docilmente fare e come deve vivere.

Nichilismo passivo
È in scena il nichilismo. Il nichilismo non è una teoria, ma una pratica di vita circolare ed invasiva che deve addestrare, le menti come i corpi, alla sudditanza. Perché gli uomini e le donne sono niente, sono entità manipolabili, sono argilla pronta a prendere la forma voluta dal potentato di turno. Nichilismo circolare, perché è il sistema dal basso verso l’alto, dall’alto verso il basso, ad esserne coinvolto. Il covid 19 sta rilevando, ancora una volta, la struttura nichilistica dell’Occidente nella forma della finanza. Nichilismo passivo, poiché la microfisica del potere esige la passività dei sudditi e gli stessi governanti sono i sudditi dei paradigmi culturali che mettono in pratica. Ora che la verità appare tra le sue tragiche fessure, sta agli uomini ed alle donne di buona volontà e di verità non farsi sfuggire un’occasione storica per un nuovo inizio. Il nichilismo non è la fine della storia, ma il sintomo di una malattia carsica e profonda che attende la cura del pensiero e della prassi.

Salvatore Bravo

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Salvatore Bravo – Pensare la didattica alternativa e non subirla. Se un docente è stato capace di trasmettere contenuti, metodi, motivazioni, se ha testimoniato con il suo impegno silenzioso la consapevolezza del suo ruolo non vi è distanza che possa cancellare ciò che si è radicato nella profondità relazionale di ciascuno.

Didattica a distanza

Se un docente è stato capace di trasmettere contenuti, metodi, motivazioni, se ha testimoniato con il suo impegno silenzioso la consapevolezza del suo ruolo non vi è distanza che possa cancellare ciò che si è radicato nella profondità relazionale di ciascuno.

Salvatore Bravo

Pensare la didattica alternativa e non subirla

 

In questi giorni concitati, in cui il coronavirus è diventato il protagonista, si alternano gli appelli alle cifre epidemiologiche in una sorta di ciclo ermeneutico che non spiega nulla. Ci si limita ai dati, ma si celano le verità che tale morbo sta evidenziando: le patologie istituzionali causate dai tagli indiscriminati alla spesa pubblica, e l’aggressione perenne da destra come da sinistra ai diritti sociali. Si ha così la chiara rappresentazione di una nazione che ha sostituito i diritti con i privilegi.
Vi è un aspetto poco discusso e ancora in ombra (non vi è pubblica riflessione anche da parte degli addetti ai lavori, professori e dirigenti): la didattica alternativa. La didattica a distanza con le piattaforme e le lezioni da svolgere anche dallo smartphone meriterebbero una debita riflessione. La scuola azienda ha insegnato agli alunni la dipendenza senza autonomia e responsabilità personale: è un dato acclarato che tutti possono verificare. Si pensi al concetto di inclusione che abilmente sostituisce quello di emancipazione. La scuola deve includere per formare individui, deve spingere al massimo l’individualizzazione della didattica per preparare il consumatore a percepirsi come depositario dei soli diritti civili, a cui si è aggiunto il diritto al consumo senza limiti. In tali circostanze serpeggia il timore che la distanza dalla scuola possa portare gli alunni a sviluppare l’autonomia nello studio e nel pensiero che tanto viene acclamata. Ma, di fatto, non la si persegue, anzi il concetto di autonomia è ammesso all’interno di spazi definiti, di scelte programmate dall’alto, scaltramente epurate dalle deliberazioni non funzionali al sistema mercato: si pensi all’orientamento preceduto da campagne informative che favoriscono l’olocausto personale, ovvero non conoscere se stessi, ma adeguarsi liberamente al mercato.

 

L’autonomia come problema
In tale contesto la didattica a distanza è un ottimo espediente per necrotizzare lo sviluppo di percorsi autonomi nello studio e la responsabilità sociale ed individuale. Le piattaforme e le videolezioni hanno l’obiettivo di raggiungere lo studente, la longa manus dell’istituzione. In realtà, non vuole la crescita responsabile dell’alunno e teme che la dipendenza mascherata da autonomia possa in taluni inclinarsi e che vi possa essere una fessurazione nel sistema delle dipendenze. L’alunno in questi giorni, sottratto all’incubo delle competenze, alla stimolazione perpetua dei progetti e delle certificazioni, può, se vuole, vivere un’esperienza inedita e kairologica,[1] che potrebbe segnare la sua rinascita: il tempo emancipato dall’attivismo e dal tecnicismo didattico potrebbe far emergere l’esperienza inaudita e trasgressiva del pensiero autonomo e indurre alla creazione concettuale. Lo sforzo personale tanto combattuto dai pedagogisti ha formato personalità incapaci di affrontare situazioni difficili che si vivono nel tempo personale e collettivo. Il pensiero dovrebbe riemergere dall’inverno del didatticismo, che insegna il fare senza il pensare. Affinché ciò sia possibile è necessario che il tempo sia vuoto in modo fecondo, cioè che ci si possa sottrarre alle logiche della stimolazione perpetua e soffocante per ritrovarsi con i testi, con i manuali e con le parole. Imparare a pensare il mondo ed il proprio tempo dovrebbe essere il fine della scuola e di ogni formazione, ciò è possibile all’interno di una didattica consapevole delle possibilità e dei limiti dei mezzi che utilizza, e specialmente, solo all’interno della consapevolezza dei fini è possibile far luce sui mezzi e sui rischi ad essi connessi. La didattica a distanza reca con sé non solo logiche già vissute nell’istituzione, ma specialmente il sospetto che la mediocre competizione tra “docenti” ed “aziende scuole” possa riprodursi anche in tale contesto. In questi decenni l’autonomia che la scuola doveva sviluppare era in realtà capacità imprenditoriale e individualismo. Il timore che gli alunni a casa possano far crescere l’autonomia concettuale e possano sottrarsi alle logiche solite forse è la verità nascosta della didattica a distanza.

 

Successo formativo?
In questi anni di successo formativo quasi assoluto con promozioni e voti notevolmente alti, se tali valutazioni fossero veritiere si dovrebbe pensare che gli alunni a casa continuino spontaneamente a studiare. Invece, il re è nudo, la didattica a distanza, in tale momento, svela il timore che gli alunni – abituati alla dipendenza ed alla promozione agevolata – possano in tempo breve “perdere” i radi contenuti acquisiti. La guerra contro i contenuti è stata una delle costanti di questi anni, i contenuti sono stati sostituiti dalle competenze. Naturalmente nessuna libertà di pensiero è possibile senza contenuti, mentre le competenze del fare ben rispondono ai bisogni del mercato e non della formazione umana. In questi giorni, che potrebbero diventare mesi, si dovrebbe riflettere sull’uso e le implicazioni della didattica a distanza, e specialmente si dovrebbero sollevare dubbi e domande. Forse, in tali circostanze, si vuole avviare un nuovo tipo di scuola e di didattica, la quale non arricchisce l’alunno con contenuti dialettici, ma rafforza forme di controllo e di dipendenza inclusiva. Vi è il rischio che la didattica a distanza divenga una costante anche dei periodi ordinari. La dialettica, vero centro dell’insegnamento, necessita dello spazio classe, in cui la relazione passa per lo sguardo, per il tono di voce, per l’esperienza vissuta che invita in modo spontaneo a sentirsi parte di un mondo di relazioni e di parole. L’alternativa è il dominio dell’astratto sul concreto. L’individualizzazione della didattica ai tempi privati dell’alunno e delle famiglie non può che favorire i processi di atomizzazione già largamente in atto. Se l’istituzione scolastica perde, in un momento di emergenza, la capacità di pensare il reale dimostra che non è luogo di formazione e problematizzazione, ma di esecuzione di ordini. Si tratta di avere il senso della misura, di discernere le contingenze e di pensare se l’attuale indirizzo didattico – fondato non sui contenuti e sull’impegno autonomo e responsabile – sia effettivamente valido. Se in questi decenni la scuola avesse puntato in primis sui doveri, sull’impegno quotidiano, sui contenuti concettualizzati, sul senso sociale, forse, sollevo un dubbio, avremmo più fiducia nei nostri alunni e non vi sarebbe la rincorsa alla didattica alternativa, anche, perché, e di ciò non si deve avere dubbi, se un docente è stato capace di trasmettere contenuti, metodi, motivazione, se ha testimoniato con il suo impegno silenzioso la consapevolezza del suo ruolo non vi è distanza che possa cancellare ciò che si è radicato nella profondità relazionale di ciascuno.

Salvatore Bravo

[1] Kairos (καιρός), traducibile con tempo cairologico indica il momento giusto o opportuno” o “momento supremo”.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – Il mito del progresso e Pasolini. Il simulacro (capitalismo) non nasconde la verità, ma non ha verità e teme di svelare il nulla che è.

Pier Paolo Pasolini 52
Salvatore Bravo

Il mito del progresso e Pasolini

 

Pier Paolo Pasolini (Bologna, 5 marzo 1922 – Roma, 2 novembre 1975) nei suoi scritti letterari analizza la metamorfosi storica che sta coinvolgendo e travolgendo la società a lui coeva. I suoi scritti attraversano il tempo, poiché il suo sguardo intelligente[1] ha pensato e vissuto la radicalità delle mutazioni antropologiche e culturali avvenute in Italia nel secondo dopoguerra. Si può accostare Pasolini a Costanzo Preve, a Gramsci, in quanto ha vissuto come loro l’esperienza della solitudine. Non si è omologato all’opinione ricorrente, ma ha avuto il coraggio della verità, della resistenza civile e della coerenza. Pasolini ha letto – dietro il postulato del progresso – la distruzione della cultura del molteplice, delle espressioni vitali e linguistiche in nome dell’omologazione del consumo. Costanzo Preve la definirà “irrilevanza”. In Gramsci il “cretinismo specialistico” è la concretizzazione della morte della verità e del pensiero plurale e polivoco.
Pasolini nei suoi scritti diviene cantore della verità contro la superstizione del progresso ad ogni costo, contro il semplicismo in base al quale il domani è sempre migliore dell’oggi e del passato. Non si tratta di passatismo, ma di analisi critica e consapevole della complessità ideologica del mito del progresso. Il mito serve a passivizzare i popoli, ad inibire la domanda e la partecipazione collettiva. Dietro la bandiera progresso non vi sono i popoli che si emancipano, che rompono le catene che li imprigionano nella caverna, ma interessi lobbistici e di classe. Lo stupro dell’ambiente e delle culture popolari in nome della felicità che verrà, in nome del consumo, ha la sua verità nei potentati capitalistici i quali hanno l’obiettivo di mutare non solo una cultura, ma la natura umana, la quale deve specializzarsi nel consumo, nella

A “scuola” di consumo
Il nichilismo è la verità del capitalismo, delle folle addestrate a desiderare con il consumo la morte di dio e di ogni idea del sacro e di socialità. Il potere non vive racchiuso nella sua turris eburnea, ma circola, è veicolo di trasformazione, entra nel corpo vissuto per reificarlo. La diffusione della cultura del consumo non può che avvenire attraverso le istituzioni ed i mezzi di comunicazione. Pasolini si spinge fino alla provocazione estrema: abolire la scuola dell’obbligo e la televisione, perché esse non sono al servizio del cittadino, ma al servizio del capitale. Nella scuola il genocidio culturale delle masse si realizza in modo compiuto e subdolo. La scuola, che dovrebbe formare l’uomo ed il cittadino, in realtà forma il funzionario del mercato, l’uomo dei soli fatti e consumi. La scuola è il luogo dove le catene dell’infelicità vengono forgiate mediante la negazione delle identità popolari e dei soggetti. In essa si educa a frammentare la comunità ed il soggetto per renderlo suddito del capitale. Il vero nemico non è il fascismo, non è il mondo clericale, ma il capitalismo nelle sue forme assolute. L’infelicità generale causa dipendenze compensatorie utili al sistema capitale. Sudditi infelici sono facilmente governabili e manipolabili.

Nel regno della monocultura feudale
L’analisi di Pasolini sulla scuola ci riporta alla verità della monocultura contemporanea anglofona e mercantile, nella quale gli alunni imparano che essere precari e sradicati è una forma di progresso. Si può ipotizzare che la pubblica avversione verso il latino celi il desiderio di occultare la verità che diventa palese nell’etimologia delle parole. La parola precario deriva dal latino prex-precis “preghiera”. Nelle scuole si insegna il neofeudalesimo, si impara ad essere precari, a dipendere dal favore e dal capriccio del capitale. Il nuovo signore e padrone ha la forma del capitale che rende servo chiunque dipenda dal suo potere. Ci si rimette al suo capriccio, alle leggi della finanza come un tempo ci si rimetteva nelle mani di Dio ed alla provvidenza. Per sopravvivere le scelte devono essere a misura di capitale/capitalista. Ogni cultura identitaria e collettiva è spazzata via, non resta che il narcisismo di massa con i miti superstiziosi del consumo.
Pasolini intravide nella scuola un luogo di allevamento e non di educazione. La televisione in tale contesto è il mezzo che con le sue immagini patinate, con i suoi modelli sociali entra in ogni salotto, accomuna nella separazione degli individui. La scuola ed i mezzi mediatici, oggi plurali, agiscono in una comunione di obiettivi che rende saldo il potere del capitale, ogni essenza generica “Gattungswessen” è negata per produrre consumatori con la forma mentis del solo calcolo personale e dell’utile. Lo scandalo che muove i suoi scritti sono un’invocazione alla resistenza civile, ad uscire dal semplicismo del dogmatismo superstizioso con i suoi automatismi che si trasforma in violenza, in delinquenza relazionale, poiché i modelli proposti sono fonte di frustrazione, in quanto irraggiungibili, e specialmente minano l’equilibrio delle nuove generazioni. L’illimitato consumo e narcisismo proposto da televisione e scuola ha l’effetto di destabilizzare la psiche, il carattere ed i talenti delle nuove generazioni. L’alienazione (Entfremdung) e la violenza che ne consegue è così resa normale prassi del quotidiano:

«Si lamenta in Italia la mancanza di una moderna efficienza poliziesca contro la delinquenza. Cioè che io soprattutto lamenterei è la mancanza di una coscienza informata di tutto questo, e la sopravvivenza di una retorica progressista che non ha più nulla a che fare con la realtà. Bisogna oggi essere progressisti in un altro mondo; inventare una nuova maniera di essere liberi, soprattutto nel giudicare, appunto, che ha scelto la fine della pietà. Bisogna ammettere una volta per sempre il fallimento della tolleranza. Che è stata, s’intende, una falsa tolleranza, ed è stata una delle cause più rilevanti nella degenerazione della masse dei giovani. Bisogna insomma comportarsi, nel giudicare, di conseguenza e non a priori (l’a priori progressista valido fino a una decina d’anni fa).
Quali sono le mie due modeste proposte per eliminare la criminalità? Sono due proposte swiftiane, come la loro definizione umoristica non si cura minimamente di nascondere.
1) Abolire immediatamente la scuola media dell’obbligo.
2) Abolire immediatamente la televisione. Quanto agli insegnanti e agli impiegati della televisione possono anche non essere mangiati, come suggerirebbe Swift: ma semplicemente possono essere messi sotto cassa integrazione.
La scuola d’obbligo è una scuola di iniziazione alla qualità di vita piccolo borghese: vi si insegnano delle cose inutili, stupide, false, moralistiche, anche nei casi migliori (cioè quando si invita adulatoriamente ad applicare la falsa democraticità dell’autogestione, del decentramento ecc.: tutto un imbroglio). Inoltre una nozione è dinamica solo se include la propria espansione e approfondimento: imparare un po’ di storia ha senso solo se si proietta nel futuro la possibilità di una reale cultura storica. Altrimenti, le nozioni marciscono: nascono morte, non avendo futuro, e la loro funzione dunque altro non è che creare, col loro insieme, un piccolo borghese schiavo al posto di un proletario o di un sottoproletario libero (cioè appartenente a un’altra cultura, che lo lascia vergine a capire eventualmente nuove cose reali, mentre è ben chiaro che chi ha fatto la scuola d’obbligo è prigioniero del proprio infimo cerchio di sapere, e si scandalizza di fronte ad ogni novità). Una buona quinta elementare basta oggi in Italia a un operaio e a suo figlio. Illuderlo di un avanzamento che è una degradazione è delittuoso: perché lo rende: primo, presuntuoso (a causa di quelle due miserabili cose che ha imparato); secondo (e spesso contemporaneamente), angosciosamente frustrato, perché quelle due cose che ha imparato altro non gli procurano che la coscienza della propria ignoranza. Certo arrivare fino all’ottava classe anziché alla quinta, o meglio, arrivare alla quindicesima classe, sarebbe, per me, come per tutti, l’optimum, suppongo. Ma poiché oggi in Italia la scuola d’obbligo è esattamente come io l’ho descritta (e mi angoscia letteralmente l’idea che vi venga aggiunta una “educazione sessuale”, magari così come la intende lo stesso “Paese Sera”), è meglio abolirla in attesa di tempi migliori: cioè di un altro sviluppo. (E’ questo il nodo della questione).
Quanto alla televisione non voglio spendere ulteriori parole: cioè che ho detto a proposito della scuola d’obbligo va moltiplicato all’infinito, dato che si tratta non di un insegnamento, ma di un “esempio”: i “modelli” cioè, attraverso la televisione, non vengono parlati, ma rappresentati. E se i modelli son quelli, come si può pretendere che la gioventù più esposta e indifesa non sia criminaloide o criminale? E’ stata la televisione che ha, praticamente (essa non è che un mezzo), concluso l’era della pietà, e iniziato l’era dell’edonè. Era in cui dei giovani insieme presuntuosi e frustrati a causa della stupidità e insieme dell’irraggiungibilità dei modelli proposti loro dalla scuola e dalla televisione, tendono inarrestabilmente ad essere o aggressivi fino alla delinquenza o passivi fino alla infelicità (che non è una colpa minore).
Ora, ogni apertura a sinistra sia della scuola che della televisione non è servita a nulla: la scuola e il video sono autoritari perché statali, e lo Stato è la nuova produzione (produzione di umanità). Se dunque i progressisti hanno veramente a cuore la condizione antropologica di un popolo, si uniscano intrepidamente a pretendere l’immediata cessazione delle lezioni alla scuola d’obbligo e delle trasmissioni televisive. Non sarebbe nulla, ma sarebbe anche molto: un Quarticciolo senza abominevoli scuolette e abbandonato alle sue sere e alle sue notti, forse sarebbe aiutato a ritrovare un proprio modello di vita. Posteriore a quello di una volta, e anteriore rispetto a quello presente. Altrimenti tutto ciò che si dice sul decentramento è scioccamente aprioristico o in pura malafede. Quanto ai collegamenti informativi del Quarticciolo – come di qualsiasi altro “luogo culturale” – col resto del mondo, sarebbero sufficienti a garantirgli i giornali murali e “l’Unità”: e soprattutto il lavoro, che, in un simile contesto, assumerebbe naturalmente un altro senso, tenendo a unificare una buona volta, e per autodecisione, il tenore di vita con la vita».[2]

 

Genocidio culturale
Si concretizza nelle scuole e nei mezzi di comunicazione ad un nuovo tipo di genocidio: non si eliminano gli esseri umani, ma la loro diversità, la storia stratificata di generazioni veicolata mediante linguaggi, gestualità e parametri valoriali differenti. Dinanzi al quotidiano genocidio delle identità collettive ed individuali, Pasolini non ha arretrato, ne ha denunciato le storture e le complicità consapevoli ed inconsapevoli constatando che la violenza è divenuta la legge della società a dimensione capitale e che i delitti devono essere letti in modo concreto, riportandoli al contesto strutturale e sovrastrutturale in cui accadono, altrimenti si cade in astrazioni irrazionali:

«Ma se la seconda rivoluzione industriale – attraverso le nuove immense possibilità che si è data – producesse da ora in poi dei “rapporti sociali “immodificabili? Questa è la grande e forse tragica domanda che oggi va posta. E questo è in definitiva il senso della borghesizzazione totale che si sta verificando in tutti i paesi: definitivamente nei grandi paesi capitalistici, drammaticamente in Italia.
Da questo punto di vista le prospettive del Capitale appaiono rosee. I bisogni indotti dal vecchio capitalismo erano in fondo molto simili ai bisogni primari. I bisogni invece che il nuovo capitalismo può indurre sono totalmente e perfettamente inutili e artificiali. Ecco perché, attraverso essi, il nuovo capitalismo non si limiterebbe a cambiare storicamente un tipo d’uomo: ma l’umanità stessa. Va aggiunto che il consumismo può creare dei “rapporti sociali” immodificabili, sia creando, nel caso peggiore, al posto del vecchio clerico-fascismo un nuovo tecno-fascismo (che potrebbe comunque realizzarsi solo a patto di chiamarsi anti-fascismo), sia, com’è ormai più probabile, creando come contesto alla propria ideologia edonistica un contesto di falsa tolleranza e di falso laicismo: di falsa realizzazione, cioè, dei diritti civili.
In ambedue i casi lo spazio per una reale alterità rivoluzionaria verrebbe ristretto all’utopia o al ricordo: riducendo quindi la funzione dei partiti marxisti ad una funzione socialdemocratica, sia pure, dal punto di vista storico, completamente nuova».[3]

Il senso del “politico”
Pasolini ci insegna ad avere la chiarezza sul nemico. La lotta è possibile quando si ha la chiarezza del nemico, che non è più il mondo clerico-fascista, ma il capitalismo assoluto dei nostri giorni. Senza la chiarezza sul nemico non vi può essere alternativa, ma solo complicità inconsapevole con le strutture di potere. L’impegno primario dev’essere, così, svelare il volto del nemico: in tal modo si reintroduce nel reale storico e sociale il principio di realtà, senza il quale è impossibile organizzare ogni resistenza individuale e collettiva. L’articolo pubblicato da Il Corriere della Sera è stato scritto poche settimane prima del suo omicidio, è il suo testamento spirituale, e specialmente indica il percorso da intraprendere per uscire dalla caverna scuola-televisione. Il suo messaggio oggi è più vero che mai. La scuola azienda attuale ha rinunciato a leggere il presente per diventare parte del sistema mediatico, cellula della germinazione del capitalismo, della seduzione e della menzogna. Il politico deve svelare che il simulacro (capitalismo) come si afferma nel Qoelet non nasconde la verità, ma non ha verità, è nichilismo ideologico che teme di svelare il nulla che è.

Salvatore Bravo

[1] Intelligenza, dal latino intus = dentro ed al verbo latino legere = leggere, comprendere.

[2] Pier Paolo Pasolini, “Aboliamo la TV e la scuola dell’obbligo”, Il Corriere della Sera, 18 Ottobre 1975.

[3] Pier Paolo Pasolini, “Il mondo”, intervento al congresso del Partito radicale, Novembre 1975.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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