«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
«Ogni singolo individuo che si innalza dal suo essere propriamente naturale all’esistenza spirituale trova nella lingua, nei costumi e nelle istituzioni del suo popolo una sostanza preesistente che, come accade nell’apprendimento della lingua, deve far propria. Perciò l’individuo singolo è già sempre sulla via della cultura, ha già sempre cominciato a superare la propria naturalità proprio in quanto il mondo in cui si sviluppa è un mondo formato nella lingua e nei costumi».
Hans-Georg Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 1997, pag 37.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
L’uomo che non ha musica in se stesso, che l’armonia dei suoni non commuove sa il tradimento, e la perfida frode. Le sue emozioni sono una notte cupa. I suoi pensieri un Erebo nero.
Alla musica credi, non a lui.
William Shakespeare, Il mercante di Venezia [1594-1598], Atto V.
«Il Sultano Shāhrīyār, convinto che tutte le donne fossero false ed infedeli, giurò di mettere a morte tutte le sue mogli dopo la prima notte di nozze. Ma sua moglie Shéhérazade si salvò, riuscendo ad intrattenere il suo signore con dei racconti affascinanti, raccontati in serie, per mille e una notte, cosicché il Sultano, preso dalla curiosità, procrastinava continuamente l’esecuzione della moglie, ed infine abbandonò del tutto il suo proposito. Di molte cose fantastiche gli raccontò Shahrazād, portando le parole di poeti e di canti, volando di fiaba in fiaba, e di racconto in racconto».
Nikolaj Andreevič Rimskij-Korsakov, Breve introduzione programmatica alla sua suite Shéhérazade, My Musical Life.
«Si possono cercare invano dei motivi conduttori. Al contrario, nella maggior parte dei casi, tutte queste somiglianze tra i vari motivi non sono altro che materiale puramente musicale utile per lo Nikolaj Andreevič Rimskij-Korsakov, My Musical Life.
«Componendo Shéhérazade non intendevo orientare l’ascoltatore dalla parte dove si era diretta la mia fantasia. Volevo semplicemente che avesse, se la mia musica sinfonica gli piaceva, la sensazione di un racconto orientale, non soltanto di quattro pezzi suonati l’uno dopo l’altro su temi comuni. Per tutti noi, infatti, il nome “Mille e una notte” evoca l’Oriente […] Questa composizione e altre conclusero un periodo in cui la mia orchestrazione aveva raggiunto un grado notevole di virtuosismo e di sonorità chiara, senza influenze wagneriane».
Nikolaj Andreevič Rimskij-Korsakov, My Musical Life.
«Ci sono movimenti che risvegliano il passato. Sbuccio lentamente una mela con un coltellino tascabile (un tempo si diceva coltellino da tasca), osservo come si arrotola la spirale della buccia, asciugo il succo di mela sulla lama. La mia mano ricorda la mano di mio padre, che ricorda quella di mio nonno. Non sono io, è la mano che ricorda. Non sono io, è mio nonno che sbuccia la mela. E tutti e tre la inghiottiamo contenti».
Georgi Gospodinov, Tutti i nostri corpi. Storie superbrevi, trad. di G. Dell’Agata, Voland, Roma 2020, p. 10.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
«Artisti come Bach e Beethoven eressero cattedrali e templi sulle vette. Io ho voluto, come dice Ibsen in un suo dramma, “costruire dimore per gli uomini, dimore in cui essi possano sentirsi felici ed a proprio agio”. In altre parole, ho trascritto la musica folcloristica della mia patria, ho cercato di ricavare un’arte nazionale da queste manifestazioni sinora non sfruttate dell’anima norvegese».
Edvard Grieg, citato in Giuseppe Passarello, Voci del tempo nostro, antologia di letture moderne e contemporanee, Società editrice internazionale, Torino, 1968, p. 746.
Edvard Grieg, Peer Gynt Suite No.1 Op. 46, H. von Karajan, Berlin Philharmonic
«Chi immagina e percepisce sé medesimo come un essere “isolato” dalla totalità degli esseri porta il concetto di individualità fino al limite della negazione, lo storce fino ad annullarne il contenuto. L’io biologico ha un certo grado di realtà: ma è sotto molti riguardi apparenza, vana petizione di principio. La vita di ognun di noi pensata come fatto per sé stante, estraniato da un decorso e da una correlazione di fatti, è concetto erroneo, è figurazione gratuita. In realtà, la vita di ognun di noi è “simbiosi con l’universo”. La nostra individualità è il punto di incontro, è il nodo o groppo di innumerevoli rapporti con innumerevoli situazioni (fatti od esseri) a noi apparentemente esterne. Ognuno di noi è limitato, su infinite direzioni, da una controparte dialettica: ognuno di noi è il no di infiniti sì, è il sÌ di infiniti no. Tra qualunque essere dello spazio meta fisico e l’io individuo (io-parvenza, io-scintilla di una tensione dialettica universale) intercede un rapporto pensabile: e dunque un rapporto di fatto».
Carlo Emilio Gadda, “L’egoista”, in I viaggi la morte, Garzanti, Milano 2001.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
«Più sensibile è l’anima di chi contempla, più questi si abbandona all’estasi suscitata in lui da tale armonia [della natura]. Una fantasticheria dolce e profonda s’impadronisce allora dei suoi sensi, ed egli si smarrisce, in uno stato di deliziosa ebbrezza, nell’immensità di questo bell’ordine, con cui si immedesima. Tutti i singoli oggetti gli sfuggono, ed egli non vede e non sente che il tutto».
Jean-Jacques Rousseau, Les rêveries du promeneur solitaire (prima edizione postuma Genève1782), Flammarion, Paris 1964, p. 126.
«Quando spero, vedo l’avvenire venire verso di me. La speranza va piu lontano nell’avvenire dell’attesa. lo non spero nulla né per l’istante presente né per quello che immediatamente gli subentra, ma per l’avvenire che si dispiega dietro. Liberato dalla norma dell’avvenire immediato, io vivo, nella speranza, un avvenire piu lontano, piu ampio, pieno di promesse. E la ricchezza dell’avvenire si apre adesso dinanzi a me. […] Ma la speranza va “piu lontano” anche in un altro senso: la speranza allontana da noi il contatto immediato del divenire-ambiente, sopprime la morsa dell’attesa e mi consente di guardare liberamente lontano nello spazio vissuto che si apre adesso davanti a me. Nella speranza intuisco tutto quanto può esserci al mondo al di là del contatto immediato stabilito dall’attesa tra il divenire e l’io».
Eugène Minkowski, Il tempo vissuto: fenomenologia e psicopatologia, Einaudi, Torino 2004.
«la felicità ha […] bisogno di durata e di costanza, e di qui nasce il suo rischio. Se è certamente vero che non si tratta di un dono della sorte (tyche) ma di un premio spettante a una prassi tenacemente virtuosa, è altrettanto vero che essa è esposta alla vicenda del tempo. Poiché non si tratta di una condizione privata, chiusa nell’individualità, ma di un’attività tutta socializzata, essa risulta ulteriormente esposta ai colpi della sorte che la contingenza dei rapporti umani può in ogni momento inferire».
Mario Vegetti, L’etica degli antichi, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 175.
«Piana ha vissuto, nel confine tra anni Cinquanta e anni Sessanta, l’esperienza della fenomenologia di Husserl che costituì il centro d’interesse di un grande Maestro come Enzo Paci. Non è il caso qui di tracciare mappe di quelle vicende, credo però che non sarebbe sbagliato sostenere che Piana, in quel gioco delle parti, che è sempre l’apertura di un’esperienza plurale sul suggerimento di un filosofo autentico, si è preso quella del fenomenologo più prossimo ai temi ‘duri’ di Husserl, agli obbiettivi che stabiliscono la teoreticità della ricerca fenomenologica come tratto distintivo ed essenziale rispetto ad altre figure di pensiero».
«Piana è a mio parere uno dei pensatori maggiori del dopoguerra italiano: mai prono alle mode, sempre originale e innovativo, come dimostrano i suoi essenziali contributi alla filosofia della musica. In sintesi un maestro in cui si ritrovano sempre momenti di autentico pensiero».
Elio Franzini, Intervento ad un Convegno presso l’Università di Macerata il 12-13 novembre 2015.
Mirio CosottiniMirio Cosottini, Ritratto a Giovanni Piana.
È possibile fare riferimento al nuovo in un senso più ampio, più ricco e profondo di quanto lo sia quello che vincola la parola alla pura dimensione temporale.
L’apertura al nuovo si rivela così fin dall’inizio essere un’apertura al molteplice.
Afferrare tutto ciò che si chiama realmente in causa chiamando in causa il nuovo: è nuovo ciò che non appartiene alla cerchia delle cose familiari e note.
Novità vuol dire anche estraneità, differenza, sradicamento e viaggio.
Non possiamo fare a meno di notarlo: la musica del nostro secolo che così spesso ha meritato e vantato, secondo le più varie formulazioni e accentuazioni, soprattutto il suo essere nuova è ormai diventata, nell’ineluttabilità del tempo che passa, la musica di un secolo che ora volge al suo termine. Fra non più di una decina danni avremo tutti i diritti di rivolgerci ad essa con quel senso di passato che viene realmente avvertito forse soltanto quando possiamo parlare riferendoci al secolo scorso, per quanto un simile schema temporale possa essere ritenuto arbitrario e irrilevante. Ma richiamare l’attenzione su questa circostanza non vuole affatto essere la premessa, peraltro inconsistente, per un discorso sullinvecchiamento, ma al contrario per fissare questa novità come una delle caratteristiche interne della musica novecentesca. Di essa è del resto possibile fornire uninterpretazione che ha ben poco a che vedere con la dimensione puramente temporale, con lavvicendarsi del vecchio al nuovo. Gettiamo dunque uno sguardo dinsieme, già installati nel secolo appena futuro, alla musica del secolo XX. E allora avremmo forse ragione di notare: al di là della grande complessità intrinseca delle vie intraprese, della differenza dei progetti e dei pensieri che stanno alla loro base, vi sono certamente tratti comuni che in qualche modo sono in grado di tipicizzare la vicenda musicale novecentesca, ed a questo proposito proprio il parlare di novità coglie nel segno. Tuttavia occorre subito precisare: parlando di novità come una caratteristica della musica novecentesca, non vogliamo semplicemente ribadire ciò che essa ha continuato a dire ed a ridire di se stessa, ma vogliamo piuttosto e qui naturalmente i termini e il senso del problema mutano profondamente cogliere un atteggiamento verso il nuovo come un atteggiamento peculiare, che caratterizza la musicalità novecentesca, il modo dessere del Novecento nella musica e per la musica. Certo, siamo consapevoli di come sia arrischiata già la stessa pretesa di rintracciare qualcosa di simile a dei tratti caratteristici e come si possa, nel tentare di soddisfare questa pretesa, pervenire a formulazioni che possono apparire astratte e ben poco significative. Eppure abbiamo la sensazione che, annoverando tra essi l’atteggiamento verso il nuovo, non si abbia a che fare con una vuota generalità, ma con uno dei punti di vista che possono essere utilmente assunti per vedere da una diversa angolatura cose mille volte già viste, cominciando a scorgere problemi ricchi di senso e difficoltà inavvertite. Intanto dobbiamo essere in grado di afferrare tutto ciò che si chiama realmente in causa chiamando in causa il nuovo: è nuovo ciò che non appartiene alla cerchia delle cose familiari e note, andare verso il nuovo significa in qualche modo allontanarsi da casa, addentrarsi in un paese straniero. Novità vuol dire dunque anche estraneità, differenza, sradicamento e viaggio. Perciò non è affatto interessante chiedersi se e quando vi sia stata novità nella musica novecentesca domanda che diventerebbe forse ben presto oziosa quanto riconoscere in essa unesigenza fondamentale che la caratterizza in profondità. Ovunque, nelle più diverse e diversamente motivate proposte musicali, sembra potersi applicare limmagine di un cerchio come delineazione di un confine che deve essere oltrepassato. Ovunque si scorgono limitazioni, barriere che ci stringono da ogni parte e che esigono di essere superate, e proprio in esse consiste il vecchio a cui si contrappone il nuovo, nell’abbattimento di queste barriere consiste soprattutto l’innovazione. Ciò vale naturalmente per il superamento del linguaggio tonale il primo passo decisivo. Per quanto si possa mostrare la continuità di un processo in cui questo superamento può apparire come il suo esito coerente, è più interessante per noi portare ora lattenzione piuttosto sul momento della rottura, e quindi, se mai, su un processo di erosione progressiva che produce alla fine un varco dal quale si può uscire all’aperto. Ciò che la pratica musicale ha sempre mostrato di sapere che nessun privilegio intrinseco spetta al linguaggio della tonalit à dal punto di vista espressivo arriva infine alla più chiara consapevolezza teorica, e con ciò viene a cadere l’idea di un sistema fondamentale prossimo più di ogni altro all’essenza stessa della musica, come anche l’idea di un finalismo interno capace di operare la subordinazione di ogni forma di espressione musicale entro una prospettiva unitaria. L’apertura al nuovo si rivela così fin dallinizio essere un’apertura al molteplice. Non solo vi sono molti modi di intervenire nella crisi del tonalismo e di operarne un superamento – una circostanza che ancora oggi si tende a trascurare immiserendo con falsi schematismi la ricchezza di dimensioni della musicalità novecentesca – ma questo superamento va compreso e integrato in un più ampio processo di acquisizione delle esperienze musicali extraeuropee, dall’altra musica, che può perciò essere considerata anchessa musica nuova. Come abbiamo osservato poco fa, lidea della superiorità della musica europea, laddove non ha come conseguenza il puro e semplice disinteresse, comporta una sorta di distorsione finalistica, come se il linguaggio musicale europeo fosse anche situato al livello finale di uno sviluppo a cui non potevano che tendere anche le altre culture con maggiore o minore successo. Solo leffettivo venir meno di una simile idea può consentire un approccio che preservi l’autonomia dell’altra musica da quelle pratiche assimilatrici che ne annientano l’alterità e che, all’interno di un simile finalismo, potevano essere ritenute plausibili e senza problemi. Lo stesso si può dire per il modo in cui riemerge nella musica novecentesca ai suoi inizi il problema della musica popolare e della sua relazione con la musica colta. Questo problema fa parte della musica di sempre: ma solo nel nostro secolo la musica popolare viene assunta come un altro linguaggio da scatenare contro o da innestare come elemento esplosivo all’interno della musica colta. Il cerchio che chiude è qui rappresentato proprio dall’idea che il nuovo sia acquisito semplicemente esplicitando e dispiegando tensioni appartenenti al passato, in una sorta di logico sviluppo di una tradizione che pretende di bastare a se stessa e di attingere da se stessa l’energia per andare più avanti. Rompere il cerchio potrebbe allora significare acquisire di salto forme di espressione musicale nuove, che sono tali non già perché superano il passato prossimo, promuovendo un passo dopo l’altro il futuro, ma perché appartengono a un’altra dimensione storica, nella quale esse sono del resto ricche di passato. Diventa così sempre più chiaro in che modo sia possibile fare riferimento al nuovo in un senso più ampio, più ricco e profondo di quanto lo sia quello che vincola la parola alla pura dimensione temporale. Si consideri da questo punto di vista il problema delle nuove sonorità. In realtà, ogni epoca, ogni cultura musicale ha operato le proprie scelte anche sul terreno della materia sonora, manifestando preferenze verso certi tipi di sonorità piuttosto che verso altri. Eppure è certamente una caratteristica esclusiva della nostra epoca l’entusiasmo così spesso manifestato per la pura e semplice idea della possibilità di scoprire una suono nuovo, un suono mai prima udito. Ciò sembra riportare l’accento sull’aspetto temporale, prospettando un’esperienza di ascolto che dovrebbe essere considerata in via di principio eccezionale proprio per questa assoluta novità. Ma a uno sguardo appena un poco più penetrante appare invece che anche questo tema merita piuttosto di essere considerato alla luce delle nostre osservazioni precedenti. Veramente importante è infatti, anche in questo caso, la percezione di una limitazione che deve essere trascesa. Nuovi non sono solo i suoni inauditi, ma anche quelli che non appartengono alla chiusa cerchia di quelli che la nostra tradizione musicale ci ha reso familiari, dunque anche quei suoni che si odono ogni giorno, facendoci più o meno caso, integrati come sono nelle immediate circostanze della nostra vita quotidiana. La ricerca di nuove sonorità tende così a fare tuttuno con l’idea di un ampliamento del campo dei suoni utilizzabili all’interno della composizione. La concezione secondo la quale vi sarebbero suoni predestinati ad un impiego musicale deve essere giudicata come priva di fondamento. Questa idea si ripresenta in numerose varianti che del resto esplicitano la ricchezza del suo contenuto. Intanto si tende a ribaltare o comunque a modificare le «gerarchie» tradizionali degli strumenti, si promuove e si degrada; si propongono modifiche e alterazioni delle pratiche strumentali tali da produrre effetti rari e inusitati. E anche in questi casi non dobbiamo dimenticare l’area dei sensi entro cui si agita questa tensione alla novità: ciò che ora si esalta o che si pone al centro dell’interesse musicale sono sonorità reiette, lontane, marginali. Che importanza hanno avuto, ad esempio, le percussioni nella tradizione musicale europea? Solo una nuova consapevolezza di altre civiltà musicali e quindi della necessità di operare un superamento dei limiti imposti al materiale sonoro della nostra tradizione può portare ad una valorizzazione degli strumenti percussivi. Di contro si sa come il pianoforte, punto culminante ed emblema di una civiltà musicale, venga spesso «degradato» a ciò che di fatto esso è innanzitutto, e cioè uno strumento percussivo. Si assiste così a operazioni di particolare complessità, nelle quali spesso le dimensioni temporali e le dimensioni culturali tendono a intrecciarsi. È il caso qui di rammentate in un lampo come in Ionisation di Varèse all’arcaismo dei suoni percussivi, appartenenti a civiltà lontane ed a paesaggi desertici, si contrapponga il suono perforante di una sirena che ci riporta di colpo al centro della città operaia, al presente della fabbrica metropolitana. All’ambito della problematica delle nuove sonorità appartiene naturalmente la riflessione musicale sulla produzione elettronica del suono benché naturalmente il suo raggio di azione sia molto più ampio. In realtà questa riflessione è stata guidata per un buon tratto dall’idea di poterci liberare una volta per tutte dagli strumenti non solo della tradizione europea, ma dagli strumenti, come dire? umani in genere: dalle pesantezze, rigidità, incapacità, dai limiti derivanti non solo dalla costituzione meccanica e materiale dello strumento, ma soprattutto dal fatto che esso può produrre suoni solo attraverso l’azione dello strumentista educato in un lungo esercizio. E per quanto quell’esercizio sia stato perseguito ostinatamente, per quante abilità siano state in esso acquisite, il flautista dovrà pure, almeno una volta, tirare il fiato, e il violinista non potrà arrampicarsi sulla tastiera più velocemente di quanto lo consenta l’osso delle sue dita. Per non dire poi della rozzezza, approssimazione, grossolanità delle capacità psicologiche, dei limiti invalicabili che rendono impossibile, ad esempio, una suddivisione temporale realmente fine, il mantenimento esatto delle durate e la differenziazione dei piccoli intervalli. All’improvviso tutti gli strumenti in genere ci appaiono invecchiati, anzi ci appaiono vecchi cadenti. Rammentando ancora Varèse. Contro il violino: «gracile, misero, penoso». «Il violino non esprime la nostra epoca». «Con le attuali possibilità di amplificazione del suono è stupido mettere venti primi violini in unorchestra». Contro gli strumenti a fiato: «E nonostante che nella vita quotidiana abbiamo scoperto qualcosa di più efficace e di più conveniente della pompa a mano, siamo ancora lì a soffiare come matti negli strumenti a fiato». Qualunque cosa oggi si possa pensare di affermazioni come queste, esse fanno certamente parte della storia del problema. Ed è sempre all’interno di questa storia che si va affermando la convinzione non solo di possedere un mezzo per produrre suoni mai prima uditi, e nemmeno soltanto di realizzare un ampliamento dei materiali della musica, ma soprattutto di poter dominare l’intero campo dei fenomeni uditivi in generale possibili. Un atteggiamento verso il nuovo che è essenzialmente caratterizzato dall’esperienza di un limite contiene indubbiamente nelle sue pieghe il pensiero di un dominio e di un controllo che ha di mira la totalità stessa. Ed è il caso forse di attirare lattenzione sul fatto che si tratta di un pensiero che in passato non è mai stato formulato, nemmeno in una prospettiva utopica.
Giovanni Piana, Filosofia della musica, Introduzione, Editore Angelo Guerini e Associati, Milano 1991; versione digitale del 2005 in Archivio di Giovanni Piana, pp. 7-13.
Le sue Opere complete, in ventinove volumi, sono racchiuse nei seguenti volumi, disponibili via Amazon: Vol. I – Elementi di una dottrina dell’esperienza Vol. II – Strutturalismo fenomenologico e psicologia della forma. Vol. III – La notte dei lampi. Parte prima Vol. IV – La notte dei lampi. Parte seconda Vol. V – Le regole dell’immaginazione Vol. VI – Filosofia della musica Vol. VII – Intervallo e cromatismo nella teoria della musica Vol. VIII – Alle origini della teoria della tonalità Vol. IX – Teoria del sogno e dramma musicale. La metafisica della musica di Schopenhauer Vol. X – Mondrian e la musica Vol. XI – Saggi di filosofia della musica Vol. XII – Problemi di teoria e di estetica musicale Vol. XIII – Introduzione alla filosofia Vol. XIV – Interpretazione del “Mondo come volontà e rappresentazione” di Schopenhauer Vol. XV – Immagini per Schopenhauer Vol. XVI – Interpretazione del “Tractatus” di Wittgenstein Vol. XVII – Commenti a Wittgenstein Vol. XVIII – Commenti a Hume Vol. XIX – I problemi della fenomenologia Vol. XX – Fenomenologia, esistenzialismo, marxismo Vol. XXI – Saggi su Husserl e sulla fenomenologia Vol. XXII – Stralci di vita Vol. XXIII – Conversazioni sulla “Crisi delle scienze europee” di Husserl Vol. XXIV – Fenomenologia delle sintesi passive Vol. XXV – Numero e figura Vol. XXVI – Frammenti epistemologici Vol. XXVII – Barlumi per una filosofia della musica Vol. XXVIII – Album per la teoria greca della musica. Parte prima Vol. XXIX – Album per la teoria greca della musica. Parte seconda
“La fenomenologia come metodo filosofico”, Introduzione al volume P. Spinicci, La visione e il linguaggio, Guerini e Associati, Milano 1992. English version: Phenomenology as philosophical method, PDF disponibile qui.
“Immaginazione e poetica dello spazio”, in: Metafora Mimesi Morfogenesi Progetto, a cura di E. D’Alfonso e E. Franzini, Guerin e Associati, Milano 1991, pp. 93–100.
“Considerazioni inattuali su T. W. Adorno”, “Musica/Realtà”, XIII, n. 39, (Dicembre 1992), pp. 27–53.
“Figurazione e movimento nella problematica musicale del continuo”, in: Autori Vari, La percezione musicale, Guerini e Associati, Milano, 1993, pp. 11–36.
“Fenomenologia dei materiali e campo delle decisioni. Riflessioni sull’arte del comporre”, in: Il canto di Seikilos, Scritti per Dino Formaggio nell’ottantesimo compleanno, Guerini e Associati, Milano 1995, pp. 45–55.
I compiti di una filosofia della musica brevemente esposti, html, De Musica, 1997.
Elogio dell’immaginazione musicale, De Musica, 1997.
La serie delle serie dodecafoniche e il triangolo di Sarngadeva, De Musica 2000.
Immagini per Schopenhauer (2001)
Il canto del merlo (1999) – Versione PDF completa dei suoni.
“Occorre riflettervi ancora”. Considerazioni in margine a Fantasia e immagine di Edmund Husserl (2018). PDF
Leggere i poeti. Note in margine a Giovanni Pascoli (2018) – articolo per De Musica
Traduzioni
G. Lukács, Scritti di sociologia della letteratura (Milano, 1964)
H M. Enzensberger, Questioni di dettaglio ( Milano, 1965)
G. Lukács, Storia e coscienza di classe (Milano, 1967)
E. Husserl, Ricerche logiche (Milano, 1968)
E. Husserl, Storia critica delle idee (Milano, 1989)
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