Roberto Mordacci – Il cinema pensa. Ma, se non adottiamo un modo di fruire un film con una postura e uno sguardo filosofico avremo perduto l’occasione di incontrare una verità. La filosofia autentica è pensiero vivo che prova a darsi una forma, a mettersi in gioco, ad immergersi nella vita e ci aiuta a cogliere nel cinema la sua autenticità di riflessione visiva, di pensiero per immagini.

Roberto Mordacci 02

«.[…] Il cinema pensa. […] Tuttavia, se non disponiamo di una chiave di lettura […] per cogliere la densità sotterranea del film, quest’ultimo scorrerà via come un fluido su una superficie impermeabile […]. Avremo così perduto, nientemeno, l’occasione di incontrare una verità, spesso molto semplice quanto profonda, mostrata per via sensibile invece che concettuale. […] Si tratta di coglierne, precisamente come dice Hitchcock, la vicinanza con la vita, il suo non essere mero divertissement (anche quando ci diverte molto),la sua autenticità di riflessione visiva, di pensiero per immagini.
Le forme del pensare sono custodite e tramandate, nella nostra tradizione, soprattutto (anche se, certamente, non solo) dalla filosofia. Quest’ultima, quando è autentica, non è (e non è mai stata) un esercizio privato di pochi “tecnici del pensiero”, un gergo impenetrabile e artificioso, una sequenza di idee autoreferenziali il cui unico scopo è parlare di filosofi ad altri filosofi o aspiranti tali. La filosofia è pensiero vivo che prova a darsi una forma e a mettersi in gioco, che s’immerge nella vita per esaminarla dall’interno, scovandone le contraddizioni e ammirandone la potenza assai più che giudicandola. Ora, che cosa più del cinema offre al pensiero l’esperienza condensata, aumentata e intensificata della vita, già mediata da un pensiero – quello degli autori – che però si affida a un complesso di immagini, suoni, parole, storie e sogni? […] Se si impara a leggere un film con gli “utensili” (concetti, ragionamenti, idee e persino teorie) della filosofia, si accede a un’esperienza più piena, più consapevole ed elevata […]. Acquisire questa capacità di lettura non è un esercizio esoterico, non è imparare una tecnica, ma può ben consistere nell’adottare un modo di fruire un film, una postura e uno sguardo filosofico che è accessibile a chiunque si dia un’occasione per farlo.
È in tal senso che questo libro offre un metodo. Anzi, ne offre quattro. Quattro metodi filosofici per leggere i film […]. Lo spettatore di un film è investito da un flusso di sensazioni che colpiscono tutti i suoi sensi, a eccezione (finora) dell’olfatto […].
La vista, in primo luogo, […]. La filosofia, come suggerisce Andrea Tagliapietra nel saggio dedicato a questo metodo, nasce in un certo senso proprio come teoria dell’immagine (si pensi alla dottrina platonica delle idee), ante litteram rispetto al cinema stesso ma già pronta per esserne l’interprete fin dalle sue origini. […] Tuttavia, la vista ha, nella densità dell’immagine cinematografica, uno spessore quasi tattile. […]. Così, il tatto è in qualche modo, sia pure indiretto, coinvolto nell’esperienza cinematografica. Questo senso indaga, tasta, verifica, mette alla prova ciò che vediamo: […] il tatto pensa e argomenta, saggia le impressioni con i ragionamenti, non potendo realmente esercitarsi su quegli oggetti evanescenti. Questo atteggiamento, che mira a raccogliere le ragioni che sostengono l’immagine, corrisponde al secondo dei metodi qui esposti, quello che ho chiamato filosofia filmica. Un film può essere considerato come un testo argomentativo, cioè come un testo filosofico. […]
Un altro senso fortemente coinvolto nell’esperienza cinematografica è l’udito, almeno dall’avvento del sonoro (ma non dimentichiamo che anche i film muti erano per lo più accompagnati da esecuzioni di musica dal vivo). A questo senso arrivano suoni e rumori, ma soprattutto parole. Il linguaggio verbale, che ovviamente non esaurisce affatto il linguaggio cinematografico, è per noi umani il veicolo più fondamentale della comunicazione. Le storie e i dialoghi, le battute fulminanti e i monologhi insistiti sono spesso ciò che ci rimane più a lungo dopo la visione di un film. Tuttavia, parole e dialoghi sono frequentemente l’occasione per mettere a tema qualcosa che parte dal film ma non si esaurisce in esso. In questi casi, si fa quella che abbiamo chiamato filosofia con il cinema. […]
Infine, vi è un modo di leggere i film che in un certo senso chiama in causa il gusto. Le sensazioni più persistenti sono quelle più elaborate e il gusto è un luogo primario di questa elaborazione: una percezione di guSto richiede tempo, raffinatezza ed è spesso l’eco di una memoria (la madeleine di Proust) o di una tradizione […].
Questo libro si presenta come un manuale, cioè intende fornire gli elementi essenziali di una “disciplina”: […] una disciplina richiede esercizio, non solo teoria […]. Questo esercizio è fondamentale per acquisire la capacità di leggere filosoficamente un film».

 

 

Roberto Mordacci (a cura di), Come fare filosofia con i film, Carocci editore, Roma 2017, pp. 11-17.

Contributi
di

Andrea Tagliapietra, Roberto Mordacci, Claudia Bianchi,
Luca Pes, Maria Russo, Raffaele Ariano, Francesco Valagussa, Antonio Moretti.



Roberto Mordacci – Ritorno a Utopia. Il nucleo originario e tuttora pulsante dell’utopia deve essere in qualche modo riportato alla luce proprio contro le sue distorsioni, che sono divenute prevalenti nel senso comune contemporaneo. La navigazione è data all’ingegno di ognuno e di tutti.

Un tuffo …

… tra alcuni dei  libri di Roberto Mordacci…



 
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Andrea Tagliapietra – «La metafora dello specchio». Lo specchio, mostrando ciò che non può essere significato, cioè l’essere riflesso del riflesso, è testimone della verità dell’apparire in quanto darsi veritiero della menzogna.

Andrea Tagliapietra 01

Specchio ed auto-riconoscimento

Riflessioni di Salvatore Bravo


 I miti greci ci parlano, continuano a raccontare di noi, della eterna lotta per trascendere la soglia dalla caverna. I miti, relegati a sapere secondario, se ascoltati ci raccontano della condizione umana e della prassi, dell’agire della coscienza per uscire dal dominio dell’immagine irriflessa. Il testo di Andrea Tagliapietra, La metafora dello specchio, insegue il significato simbolico dello specchio – e dei miti afferenti – per rivelarci i processi di consapevolezza attraverso i significati custoditi nei simboli dei miti. Solo attraverso il processo di auto-riconoscimento allo specchio, colui che guarda può riconoscersi e riscoprirsi in una soggettività non più gettata o situata, ma pensata mediante la chiarezza del concetto e del linguaggio.
Lo specchio è metafora della verità e della necessità: si giunge al logos, alla ragione, mediante un processo concreto che parte dall’immediatezza dell’astratto ed arriva al concreto, nel quale il soggetto che si specchia si scopre implicato nel tutto, nei segni che si riflettono nel soggetto che guarda. Lo specchio è così immagine archetipica e metaforica di una crescita, di un passaggio senza il quale l’astratto prevale, annichilendo il soggetto nella trappola della doxa (δόξα). L’immagine che si mostra dev’essere interpretata, i segni devono essere correlati, la tela del mondo dev’essere ripensata e riscritta dal soggetto: senza tale attività il soggetto vive il silenzio dell’immediatezza, resta sulla soglia del logos. Lo specchio dona all’interpretante che oltrepassa la soglia dell’immagine la consapevolezza dell’illusione ed indica la via che porta alla verità, la svela (ἀλήθεια). Ciò che appare, il fenomeno (ϕαινόμενον), non è la verità, la filosofia è, dunque, attività che toglie all’immagine la sua illusione per restituire la verità. La filosofia guarda dietro l’immagine, non affonda nell’immagine, ma scopre che l’immagine riflessa è parte del soggetto; ogni feticismo cade per donare la complessità relazionale del segno:

«Lo specchio è la presenza del mondo a se stesso e, quindi, quello stesso specchio può solo mostrare la presenza, manifestarla, non dirla secondo i modi della rappresentazione, secondo il gioco dei significanti e dei significati. Lo specchio è la soglia del mondo dei segni e della mediazione, perciò è immediato e non si può significare. Lo specchio restituisce ciò che appare ma, insieme, mostra l’essere di ciò che appare, di ciò che è segno potenzialmente menzognero, indica la verità del suo essere altro da ciò che nel mondo dei segni appare. Nell’esprimere l’illusorietà della conoscenza lo specchio di Dioniso manifesta la conoscenza dell’illusione. Il mondo che appare è altro da ciò che vuole apparire: lo specchio, mostrando ciò che non può essere significato, cioè l’essere riflesso del riflesso, è testimone della verità dell’apparire in quanto darsi veritiero della menzogna».[1]

Lo specchio è anche metafora di una tragica verità, ci parla della regressione ad uno stato mitico nella contemporaneità. Ciò che appare sulla parete della caverna mediatica è accolta non solo come verità, ma specialmente come accade nel mito l’immagine riflessa reca una cesura tra il soggetto e l’oggetto, per cui non resta che il silenzio del logos, ciò che il soggetto guarda, quindi, non ha altro significato che l’immediato accadere. La fatalità ha il sopravvento sui processi di decodifica e responsabilità.

L’autoriconoscimento
L’autoriconoscimento deve passare per il doppio, ci si deve specchiare, guardarsi, riconoscersi, scindersi per arrivare alla consapevolezza di sé; senza lo sdoppiamento ed il pericolo di perdersi in esso, non è possibile attivare la consapevolezza che il soggetto pone il mondo, e dunque è implicato in esso, ne è responsabile con le sue azioni, con il suo agire, con il suo linguaggio. Il soggetto non può effettuare la sua catabasi, la sua discesa (κατάβασις), senza l’esperienza tragica ed emancipatrice del doppio. Se siamo parte del tutto, non ci si può esimere dalla responsabilità etica e politica. La morale emerge all’interno dei processi di rispecchiamento e riflessione su di esso; con la morale si delinea la politica: non siamo essere astratti, avulsi dal tutto, ma siamo all’interno di un mondo di significati che contribuiamo a formare:

«Tuttavia lo specchio di Dioniso insegna l’eccedenza: il dio che si specchia è parte di quel tutto mondo specchiato in cui, appunto, accade anche l’individuazione del dio che si specchia. Davanti allo specchio non più la violenza dell’Uno, non più la pretesa dell’Originale, bensì “tessere spezzate”, semplici metà, in una parola simboli: la metà è insieme l’unità e il doppio, se stessa come Uno e come metà dell’Uno, evocando l’unità della coppia, il maschile/femminile della bisessualità originaria che riunifica Eco la parola senza corpo al corpo del desiderio, al corpo di Narciso, ancora muto come il “segno” di un fiore».[2]

 

La medusa
Nel volto della medusa il mortale (βρότος), l’essere umano vive l’esperienza estrema, nel volto della medusa è riflessa l’alterità assoluta: il nulla. La medusa ha gli occhi cavi, nelle orbite non vi è che il buio del nulla. L’esperienza della medusa mostra al mortale la verità da cui l’essere umano fugge: il limite ontologico della morte. Solo la mediazione del logos può portare fuori il mortale dalla tragedia del nulla, il logos razionalizza il limite, lo ribalta in progetto e prassi pertanto lo trasforma, lo ricrea con il concetto, in tal modo le orbite della medusa non annichiliscono il mortale, ma il linguaggio con cui trascende il nulla gli consente di dare una forma al limite, di attribuire al tempo limitato il suo senso, strappandolo dall’angoscia del nulla che tutto fagocita e che trasforma in statua di sale:

«Il volto della Medusa cattura lo sguardo poiché lo isola dal tutto. Nello specchio di Dioniso il dio-fanciullo vedeva riflesso il mondo, qui, nella maschera della Gorgone, è il mortale che è chiamato all’esperienza più radicale di sé. Nello specchio del volto di Medusa l’uomo appare come mortale, facendo affiorare quell’arcaica esperienza del nulla a cui gli uomini ancora non danno i nomi dell’essere e del non essere».[3]

 

Narciso
Narciso si specchia nelle acque, scambia per corpo ciò che è acqua, ciò che è fugace. Narciso è il simbolo di un’autonomia impossibile, dell’atomizzazione che impedisce i processi di riconoscimento: ci si conosce nello sguardo dell’alterità, nella relazione concreta che ci rende gradualmente consapevoli della nostro sé rispetto all’altro e delle nostra potenzialità: senza l’intenzionalità concreta e reale ci si rinchiude in un vortice di autoreferenzialità che porta alla morte, all’alienazione perenne per cui si vive nell’inautentico, si vive la morte:

«Narciso scambia per un corpo ciò che è acqua (corpus putat esse quod unda est), non si accorge affatto dell’inconsistenza dell’oggetto del suo desiderio (spem sine corpore amat), né tantomeno che l’immagine della sua mira è una proiezione di quel corpo che, all’inizio del mito, si dichiarava interdetto a qualsiasi amante. Così il desiderio, per raggiungere il miraggio di una perfetta autonomia deve chiudersi in una “circolarità viziosa”, dove l’oggetto desiderato fa tutt’uno con il soggetto desiderante, e ciononostante viene simulato un andamento a spirale che impedisce il riconoscimento a vantaggio della peripezia infinita degli specchi». [4]

Il mito di Narciso è tra di noi, alla relazione con l’altro il sistema liberal sostituisce il desiderio immediato, per cui l’altro dev’essere l’eguale, dev’essere riportato al nostro desiderio. La categoria del medesimo di Levinas è il volto operativo della negazione dell’altro e dunque di noi stessi. Il narcisismo è il nulla che entra nel quotidiano e paralizza ogni prassi.

 

Marx e lo specchio
Le produzioni umane sono specchi, sono possibilità di decodificare il mondo in cui siamo, attraverso lo sguardo razionale che riflette e pensa, ciò che è separato è ricostruito nella sua genesi. In quello che produciamo c’è il segno del soggetto che opera, nell’azione produttiva il soggetto si scopre negato, alienato, costretto ad attività che non rispecchiano la sua essenza. Il passaggio è imprescindibile bisogna passare per le nostre produzioni per scoprire la rete relazionale che ci avvolge, i processi di disintegrazione ed alienazione mediante i quali il soggetto può ritrovare se stesso o perdersi:

«Troviamo questa metafora, alla lettera, nel testo marxiano, ove si legge “che le nostre produzioni sarebbero proprio come molti specchi [viele Spiegel], di cui la nostra essenza [Wesen] di rimando verrebbe illuminata [entgegenleuchtete]”. Qui l’essenza specchiata e rispecchiata sul piano degli oggetti mondani che non se ne stanno mai come “nature” isolate al di fuori della relazione teorico-pratica che istituisce il mondo conduce a un gioco tale la metafora da suggerire un oltrepassamento della parzialità che distingue cosa vera e immagine adeguata […]».[5]

Specchio in Marx sono le merci: ogni merce è specchio del plusvalore, il feticismo delle merci in cui l’umanità può alienarsi se non supera la divisione, la scissione, se non strappa la realtà in cui si muove alla naturalizzazione per scoprire che la realtà è posta dal soggetto, solo il soggetto consapevole può mettere in atto processi di liberazione.

 

Le gallerie dei passages
L’abbondanza delle merci si specchia nelle gallerie, le passeggiate non sono esperienza per ritrovarsi, nelle gallerie commerciali la merce si riflette ovunque, esse hanno un loro sguardo, mirano il passeggiatore lo avvinghiano con le luci degli specchi, lo avvolgono, gli tolgono il logos e la parola fino ad avere la potenza di ridurlo ad una appendice dell’abbondanza barocca delle merci, l’eccesso trabocca dalle vetrine e rompe ogni limite per dirigersi verso il passeggiatore:

«Le gallerie di specchi dei passages, che cominciano a disorientare il passante con la vertiginosa figa delle loro prospettive di cristallo e con l’incertezza barocca degli spazi delle strade cittadine, che si fanno interni, e degli interni che si aprono alla dimensione urbana, ospitano un doppio movimento per cui le cose, specchiandosi, sembrano possedere uno sguardo e gli sguardi degli occasionali spettatori di queste fantasmagoriche esposizioni di merci, posandosi sulle superfici riflettenti, vengono restituiti, nell’indifferenza, come oggetti accanto ad altri oggetti. Uomini e merci, esseri viventi e cose inanimate, messi in questo modo sullo stesso piano, vengono coinvolti in un movimento progressivo di dissoluzione ontologica che li trasforma, oltre l’intenzionalità degli sguardi, in una uniforme sequenza di sguardi».[6]

 Si arredano i locali pubblici in modo da farli apparire come superfici riflettenti; si è così avvinti nel bagliore, ogni distinzione tra esterno ed interno diviene labile in modo che il passeggiatore sia sempre all’interno di uno spazio fiabesco in cui l’essere ed il nulla, la verità e la menzogna siano indistinguibili.
Lo specchio nelle considerazioni di Benjamin, prepotentemente, ci parla dell’attualità: l’essere umano nella trappola delle merci rischia di essere egli stesso merce, di essere parte dell’indifferenziato, il regno delle merci è il luogo della quantità, l’essere umano in un mondo di soli merci diviene parte di un tutto da cui non si distingue, precipita tra le merci.

La metafora dello specchio nella sua vitalità significante ci svela il valore della cultura umanistica e la sua autonomia rispetto alla cultura tecno-scientifica, ma specialmente se si vuole vivere in un mondo umano la cultura umanistica è ambito culturale e formativo non contrattabile dei processi di umanizzazione. Il mito ci insegna a difenderci dagli specchi, dalla regressione, dal sonno del logos senza il quale si resta sul limitare dell’umanità.

 

Salvatore Bravo

[1] Andrea Tagliapietra, La metafora dello specchio. Lineamenti per una storia simbolica [1991], Bollati Boringhieri, Torino 2008, p. 33.

[2] Ibidem, p. 131.

[3] Ibidem, p. 59.

[4] Ibidem, p. 90.

[5] Ibidem, p. 330.

[6] Ibidem, pp. 333-334.