Cosimo Quarta (1941-2016) – L’utopia trae le sue origini da una profonda coscienza etica. La perenne tensione tra l’essere e il dover essere è ciò che fa dell’uomo un essere progettuale. Platone nella Repubblica sottolinea a più riprese che il progetto da lui delineato non È impossibile, ma solo difficile da realizzare e aveva fatto della paideia il cardine di ogni rapporto umano. Educare è umanizzare. Umanizzare è liberare. La paideia è la via che conduce alla libertà.

Cosimo Quarta 007

È opportuno chiarire che qui il termine «utopia» (con tutti i suoi derivati) non è usato nel senso comune e banale di sogno, castello in aria, chimera, fantasticheria, gioco letterario; né in quello più impegnativo, ma ugualmente distorsivo, di stato ideale. Partendo dalla nuova parola coniata da Thomas More, è agevole scorgere com’essa oscilli, fin dalle origini, tra ou-topia («non luogo») ed eu-topia («buon luogo»), sicché l’utopia si configura come la «società buona» che «non c’è». Solo che questo suo «non essere» non coincide col nudo «non essere» degli eleati, ma si presenta, per dirla con Ernst Bloch, come un «non essere ancora», nel senso che ha la stessa realtà e consistenza di un progetto. L’utopia, dunque, è il progetto della società buona che non è ancora, e che proprio per questo gli uomini sono protesi a realizzare.
Ora il progetto nasce sempre da un bisogno; e il bisogno implica una carenza d’essere, esprime cioè la presa di coscienza che la realtà di fatto, il mondo in cui ci si ritrova a vivere, non soddisfa adeguatamente le profonde esigenze umane. Donde, appunto, il protendersi degli uomini verso realtà nuove e diverse, ritenute idonee a soddisfare i loro fondamentali bisogni di libertà, sicurezza, pace, giustizia, eguaglianza, fraternità, amore. Questi bisogni sono sempre stati presenti lungo la storia, anche se espressi in forme varie e molteplici. In questo senso essi sono fondamentali, ossia primordiali, radicati nella natura umana ab origine. Anzi sono proprio essi a costituire, in certo modo, l’essenza specifica dell’uomo, a farne cioè, come ho detto altrove, un homo utopicus, un essere cioè proteso a realizzare il suo dover essere, ch’è poi l’«umanità» e la società in cui vivere «umanamente»: la società giusta e fraterna.
Questa perenne tensione tra l’essere e il dover essere è ciò che fa dell’uomo un essere progettuale. Ma progettando e realizzando se stesso, l’uomo, proprio perché originariamente dimensionato di socialità, progetta e realizza anche la storia. E nell’incontro-scontro di questi esseri progettanti che sono gli uomini, l’utopia s’invera e diventa il progetto della storia. Non v’è infatti generazione che non abbia tentato non solo di elaborare, ma anche di realizzare, in qualche modo, il suo progetto di umanità e di società. I modi e i criteri di tale elaborazione sono stati certo diversi sul piano della consapevolezza teorica e dell’efficacia storica (miti, favole, messaggi di salvezza, progetti filosofici, prassi politica e rivoluzionaria), ma tutti ugualmente significativi sotto il profilo antropologico.
L’utopia non nasce dunque, come generalmente si crede, da una coscienza ludica, ma trae le sue origini da una profonda coscienza etica. È l’insostenibilità delle condizioni presenti che spinge gli uomini ad elaborare un progetto o, comunque, a prefigurare uno stato di cose diverso da quello in cui essi vivono. L’utopia nasce sotto l’urgenza della prassi, ossia dietro la spinta di bisogni concreti e, in quanto tale, è ben lungi dall’essere qualcosa di «astratto», come opinano molti dei suoi detrattori. L’accusa di «astrattezza» deriva il più delle volte dal fatto di aver confuso lutopia con l’ideale. Infatti, mentre uno dei caratteri fondamentali dell’ideale è quello di essere irrealizzabile per principio, l’utopia si caratterizza invece come progetto teso alla realizzazione. Ciò che del resto era stato già chiarito da Platone quando nella Repubblica sottolineava a più riprese che il progetto da lui delineato non era impossibile, ma solo difficile da realizzare; notando al tempo stesso come le difficoltà di realizzazione derivassero fondamentalmente dallo scarto che inevitabilmente s’interpone tra teoria e prassi.
Occorre inoltre rilevare che il «meglio» o l’«ottimo» che il pensiero utopico persegue non è il «meglio» o l’«ottimo» in senso assoluto, ma solo in senso relativo; ossia è il «meglio» che gli uomini di quella determinata società e di quel determinato tempo sono riusciti o riescono a scorgere. Nell’utopia non v’è quindi alcuna chiusura, né spaziale né temporale. Essa, infatti, non si chiude in se stessa, isolandosi dalla realtà circostante, ma è aperta al mondo, a ciò che di meglio il mondo produce. La tensione verso un futuro migliore non significa negazione della tradizione, del passato-presente. L’utopia se da un lato rifiuta quanto d’ingiusto e di negativo il presente contiene, dall’altro raccoglie e sviluppa tutto quello che di positivo le generazioni passate ci hanno tramandato. Ogni generazione, come si diceva, ha il suo progetto utopico, le cui istanze però, e le relative realizzazioni, dipendono dalle condizioni storiche di fatto. Sicché, ciò che una generazione non riesce a realizzare viene ripreso e istanziato dalle successive. E in questo processo dialettico tra le generazioni o, ciò che è lo stesso, tra passato, presente e futuro, consiste la storia; la quale, almeno per quanto in essa v’è di positivo, può essere a ragione considerata come il prodotto dell’utopia.
Vista in questa luce, l’utopia si presenta come la molla dell’agire umano e, insieme, come il motore della storia. Se poi, come spesso capita, gli uomini utilizzano questo motore per tornare indietro invece che per spingersi in avanti, allora questa forza potente che muove la storia, proprio perché ha mutato segno e direzione, dev’essere chiamata con un nome diverso da quello di utopia. In tal caso, infatti, ci si trova di fronte alla distopia, ossia ad un progetto di società perversa; una forza altrettanto potente con cui l’utopia da sempre si scontra e che è causa non secondaria del lento scorrere dei processi storici, e quindi dei ritardi nella maturazione della coscienza storica. La confusione tra utopia e distopia ha indotto non pochi critici, tra cui Popper, a caratterizzare il pensiero utopico in termini di illiberalità, intolleranza, massificazione, totalitarismo, violenza ecc., generando così numerosi fraintendimenti che, com’è noto, hanno colpito anche Platone.
L’approccio utopico, ossia la rilettura in chiave storico-macrostorica dei testi platonici che questo libro propone, lungi dal ridurre la complessità e problematicità del pensiero di questo grande maestro, mira invece ad esaltarne la profondità, la lungimiranza, l’esemplarità e, ultima ma non per importanza, la perdurante e, per certi aspetti, sconcertante attualità. Platone è attuale non solo perché, come tutti i veri «classici», ha parlato e continua a parlare agli uomini di ogni tempo e luogo, ma anche perché in non pochi passaggi delle sue opere lo sentiamo come un «contemporaneo», come uno che vive in mezzo a noi ed è gravato dai nostri medesimi problemi. Basti, a dimostrazione di ciò, un solo piccolo esempio tratto dalla Lettera settima (325 cd): «Vedendo questo, e osservando gli uomini che allora si dedicavano alla vita politica, e le leggi e i costumi, quanto più li esaminavo ed avanzavo nell’età, tanto più mi sembrava che fosse difficile partecipare all’amministrazione dello stato, restando onesto» (tr. il. A. Maddalena, Bari, 1971; il corsivo è mio). Un brano, questo, che s’attaglia assai bene a quel che accade oggi, soprattutto in Italia, dove disonestà, corruzione, affarismo, hanno infangato la politica, trasformandola da «attività eroica» in attività criminale. Di qui l’urgenza di ridare alla politica il suo autentico ruolo. E su questo Platone può darci ancora utili suggerimenti.

[…] Platone non trascurava affatto la felicità dei singoli. La sua preoccupazione era quella che lo stato diventasse uno strumento per il perseguimento della felicità dei «pochi». Infatti, egli dice, «il fine propostoci nel fondare lo stato» non è quello di far sì che una sola categoria di cittadini sia «particolarmente felice», ma quello di assicurare allintero stato il massimo possibile di felicità.[1] Come si vede, Platone è ben lungi dal negare ai cittadini del suo stato, in quanto singoli, la felicità . Ciò che egli vieta è che nessun cittadino o gruppo di cittadini goda di una felicità tutt’affatto «speciale», «straordinaria», rispetto agli altri. Se i critici di Platone non avessero sorvolato sul ruolo e significato che il termine «speciale» (diapherontos) assume per una corretta interpretazione del passo in questione, molti equivoci si sarebbero potuti evitare.
Qui Platone sottolinea che, di fronte alla felicità, tutti i cittadini sono uguali; e che nessuno, quale che sia la propria funzione nello stato, può rivendicare il diritto ad una felicità «speciale», «privilegiata». Lo stato esiste perché tutti e non solo alcuni siano il più possibile felici. Era questa una concezione dello stato talmente avanzata che nemmeno Aristotele riuscì a coglierne lo spirito, né tanto meno l’enorme portata utopica. […] Platone enuncia e sancisce proprio questo principio: il diritto di tutti alla felicità senza discriminazione veruna. I «custodi-reggitori» non saranno infelici, ma avranno la loro parte di felicità (e d’infelicità), «per quanto è possibile, nella stessa misura degli altri».[2] E di ciò si contentino. Lo «stato giusto», se vuole essere e conservarsi tale, non può permettere che i suoi «custodi-reggitori» approfittino delle funzioni che la comunità ha loro assegnato per procurarsi una felicità «speciale»; poiché così facendo il «tutto» verrebbe asservito a una sola «parte», stravolgendo l’ordine delle cose. Lo stato cesserebbe in tal modo d’essere una comunità politica e si trasformerebbe in una consorteria di privati, o meglio, in una giungla, dove i più potenti o i più furbi sottometterebbero i più deboli e onesti in vista del loro esclusivo tornaconto.
Si potrebbe a questo punto obiettare: ma questa felicità, cui tutti nello «stato giusto» hanno diritto, in che cosa propriamente consiste? E inoltre: i «custodi-reggitori», che attingono i gradi più alti del sapere, possono essere felici allo stesso modo degli altri cittadini, la cui natura non ha permesso loro di elevarsi ai fastigi della scienza? La risposta al primo quesito non presenta particolari difficoltà, dal momento che Platone ha sempre sostenuto, dai suoi primi scritti fino alle Leggi, che la vera felicità consiste nella virtù, ossia nel possesso della saggezza, della temperanza, della giustizia.[3]
[…] Platone, da un lato, riconosce nei filosofi-reggitori il più alto livello di umanità, proprio a causa della loro sapienza, che li pone in grado di conoscere «l’idea del bene», dall’altro, egli dice pure, come s’è già visto, che tale sapienza, se non è accompagnata dalla giustizia, non è affatto virtuosa. I filosofi-reggitori sono virtuosi soprattutto perché sono «giusti»; e sono «giusti» perché, obbedendo al principio del ta eautou prattein, non si limitano a contemplare il « bene» da loro speculativamente raggiunto, ma devono anche saper usare di questa loro «scienza del bene», dato che per Platone la felicità non si consegue attraverso il possesso dei «beni» […], ma mediante la capacità di usarne rettamente.[4] Ora, l’unico modo che i filosofi-reggitori hanno di usare correttamente, ossia di mettere in pratica la loro sapienza, che è appunto «scienza del bene», è quello di ridiscendere nella «caverna», ossia di impegnarsi concretamente nel governo della polis. In tal modo essi divengono «giusti», cioè virtuosi e, quindi, felici. Al pari degli altri cittadini, i quali, se vogliono essere felici, devono anch’essi usare rettamente dei beni in loro possesso, quali che siano. Se, infatti, la scienza è «lo strumento che procura il retto uso e la buona fortuna», allora, dice Platone, è necessario che «tutti gli uomini … s’impegnino … a divenire quanto più e possibile sapienti …».[5]
Tutti gli uomini, quindi, e non solo alcuni, per essere felici, devono acquisire quel grado di sapienza che consenta loro di svolgere al meglio possibile la funzione sociale per cui sono più adatti. […]
Come avrebbe potuto pensare, d’altronde, di eliminare la « personalità individuale »un autore come Platone che aveva fatto della paideia il cardine di ogni rapporto umano? E qual è lo scopo ultimo della paideia se non quello di sviluppare la personalità di ciascuno? Educare è umanizzare; umanizzare è liberare. La paideia è la via che conduce alla libertà. È vero che nella Repubblica il problema della libertà non viene affrontato in maniera organica; di tale problema infatti si parla solo per fugaci accenni. Ma come poteva Platone escludere dal suo modello «primo», dal suo stato «giusto» e «perfetto» la libertà e istanziarla invece nello «stato secondo» e «imperfetto» descritto nelle Leggi […]? […] Come avrebbe potuto Platone, acuto indagatore e profondo conoscitore dell’animo umano e del suo insopprimibile anelito di libertà, concepire uno stato che fosse in netto contrasto con quelle profonde esigenze umane per la cui crescita e soddisfazione, del resto, lo stato stesso è nato e ha senso?
La considerazione platonica dell’individuo non fa mai astrazione dalla comunità alla quale egli appartiene e in cui vive e convive. Nello stato platonico, individuo e società interagiscono in modo armonioso, senza squilibri. […] Un chiaro esempio di come Platone trattasse con pari dignità individuo e società, senza alcuna propensione a far prevalere l’una a scapito dell’altro, o viceversa, è dato da Repubblica, IV, 441 c-d, in cui, alternativamente, stato e individuo vengono considerati modelli l’uno dell’altro. Per non parlare poi di quelle profonde ed eloquenti pagine dei libri VIII e IX, dove trasformazioni costituzionali e trasformazione dei caratteri individuali procedono in perfetta sintonia, senza squilibri e sfasature.
Se dunque […] per Platone lo stato non è «tutto», nel senso che non è il «fine» assoluto cui la persona si rapporterebbe come puro «mezzo», occorre tuttavia guardarsi dal cadere nell’errore opposto; affermando cioè che nella Repubblica l’individuo è «il prius rispetto allo stato».[6] Questa ipotesi, infatti, al pari della precedente, poggia su basi alquanto labili. […] Il problema dei rapporti stato-individuo non può essere risolto ricorrendo a categorie del tipo prius-posterius. Poiché in tal modo si corre il rischio di falsare gli stessi termini del problema.
In che senso, infatti, l’individuo può essere il prius? Non certo sul piano fisico, ontologico; dov’egli si presenta chiaramente come il «risultato» della volontà o, comunque, dell’azione procreatrice dei genitori e, quindi, come posterius. L’individuo può forse considerarsi il prius sul piano etico? Anche su questo piano il problema si presenta tutt’altro che semplice. Certamente, una norma diviene etica nel momento in cui s’impone alla coscienza, o meglio, nel momento in cui la coscienza la riconosce e liberamente l’accetta come vincolo insuperabile, ossia come un «imperativo» cui si ispira la «massima» che guida il proprio «agire». In questo senso la norma etica, in quanto scaturente da un processo interiore è senz’altro un fatto individuale, anzi si rivela come il fatto individuale per eccellenza. E tuttavia rimane pur sempre, al tempo stesso, un fatto sociale, dal momento che si tratta di una libera (e perciò etica) accettazione di una norma preesistente all’individuo, nel senso ch’egli la « riconosce» (prima ancora di accettarla e farla propria) perché la «trova», per così dire, già in qualche modo operante nel contesto di società-storia in cui vive.
[…] Proprio perché sociali tali «valori» hanno la loro prima radice nella volontà delle singole persone che formano appunto la società. La norma morale, oggettiva e universale, non è un misterioso a priori, un dettame della «pura ragione» di cui si ignora la genesi, ma è un risultato storico, ossia il prodotto della convergenza di una pluralità di singole volontà verso un obiettivo comune: la salvezza e il progresso dell’umanità. Cioè dell’uomo in quanto specie, non in quanto singolo. Un patrimonio (culturale, certo, non genetico) che gli uomini di ieri hanno lasciato alle generazioni presenti le quali, a loro volta, hanno il «dovere» di trasmetterlo, migliorato, a quelle future. Poiché è in tal modo appunto che l’umanità si va costruendo.
[…] Se il problema dei rapporti stato-individuo s’imposta in termini di prius e di posterius, invece di avvicinarsi alla soluzione dello stesso ci si allontana. Stato e individuo non possono essere considerati secondo un prima e un dopo, perché essi non sono entità distinte e contrapposte. La società non è altro che l’insieme degli individui che la compongono, mentre l’individuo, a sua volta, non può essere concepito se non come membro di una società. Al di fuori di ogni rapporto sociale l’individuo umano semplicemente non sussisterebbe come tale. Affermare che l’individuo è il «prius rispetto allo stato» sarebbe come dire che l’individuo è il prius rispetto alla specie. Il che, evidentemente, sarebbe privo di senso dato che l’individuo è, per dirla con Kierkegaard, «in ogni momento … se stesso e la specie».[7]

 

Cosimo Quarta, L’utopia platonica. Il progetto politico di un grande filosofo, Edizioni Dedalo, Bari 1993, pp. 7-7, 240-247.

***

[1] Platone, Repubblica, IV, 420 b-e. Il medesimo concetto è ribadito a VII, 520 e, e anche altrove. Che Platone mirasse a rendere «veramente felice» ogni cittadino del suo «ottimo stato», lo aveva già riconosciuto un critico piuttosto severo del pensiero politico platonico come R.H. Crossman, Plalo Today, London, 1937, p. 111.

[2] Aristotele, Politica, II, 1264 b 22-24. È opportuno osservare che in altro luogo Aristotele affermerà, come Platone, che uno stato è felice non se una sola classe è felice, ma se tutti i cittadini lo sono. Cfr. Ivi, VII. 1329 a 22-24.

[3] Cfr., tra gli altri, Alcibiade primo, 134 b -135 e; Gorgia, 493 b-d; 506 d – 508 a; Repubblica, V, 621 c-d e passim; Leggi, II, 661 d – 663a; anche V, 732 d – 734 e.

[4] Eutidemo, 280 a – 282 a.

[5] Eutidemo, 282 a.

[6] M. Isnardi Parente, Socrate e Platone, p. 245.

[7] S. Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, tr. it., Firenze, 1968, p. 33.


Cosimo Quarta – L’uomo è un essere progettuale. Il progetto spinge a impegnarsi per cambiare lo stato di cose presente. La carenza di progettazione sociale è segno di fuga dalla vita, perché realizzare il fine richiede impegno, dedizione, pazienza, sofferenza, sacrificio.
Cosimo Quarta – Se manca solo uno di questi momenti (critico, progettuale, realizzativo), non si dà coscienza utopica, e anzi, non si dà coscienza autenticamente umana.
Cosimo Quarta – Il bisogno di progettare, nell’uomo, non è un fatto accidentale, ma essenziale, in quanto corrisponde alla sua originaria natura. Il progettare è possibile ed ha senso solo in presenza e in vista del futuro. La “fame di futuro” è fame di progettualità, ossia bisogno forte e urgente di utopia, il cui strumento privilegiato è la progettualità.
Cosimo Quarta – Non può costruirsi una società comunitaria senza un’azione parallela mirante a trasformare contemporaneamente le condizioni esterne e le coscienze. Perché vi sia autentica comunità occorre sviluppare una coscienza comunitaria. Il principio fondamentale che regge l’intero edificio comunitario di Utopia è proprio l’humanitas, ossia la coscienza del valore e della dignità degli uomini, di tutti gli uomini, e del loro comune destino.

Cosimo Quarta (1941-2016) – Nell’utopia si esprime la coscienza critica per la carenza d’essere, per l’insufficienza fattuale del reale, per la sua non rispondenza ai bisogni umani.

Cosimo Quarta (1941-2016) – Il mondo ha bisogno come non mai di utopia, di progettualità. L’utopia è un progetto storico, nasce da una profonda coscienza etica, si sviluppa in una coscienza critica e s’adempie in una coscienza progettuale. La coscienza utopica non è una coscienza sognante, pigra, pacificata con la realtà, e proprio perché si riconosce finita, limitata, è pronta al rischio e perfino allo scacco. Fine dell’utopia significa assenza di progettualità, smarrimento dei valori-guida.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Cosimo Quarta (1941-2016) – Il mondo ha bisogno come non mai di utopia, di progettualità. L’utopia è un progetto storico, nasce da una profonda coscienza etica, si sviluppa in una coscienza critica e s’adempie in una coscienza progettuale. La coscienza utopica non è una coscienza sognante, pigra, pacificata con la realtà, e proprio perché si riconosce finita, limitata, è pronta al rischio e perfino allo scacco. Fine dell’utopia significa assenza di progettualità, smarrimento dei valori-guida.

Cosimo Quarta - Utopia - Progettualità

Per un risveglio della coscienza utopica

[…] Oggi viviamo in società estremamente complesse. Alcuni ritengono che è proprio la complessità a non tollerare progetti sociali di sorta. Poiché, si dice, è praticamente impossibile forzare entro schemi progettuali le odierne società complesse, è meglio rinunciare ai progetti globali, considerati come arbitrarie fughe in avanti, e limitarsi a controllare di giorno in giorno i singoli sottosistemi, intervenendo soltanto là dove dovessero verificarsi grosse smagliature che potrebbero mettere in crisi il sistema nella sua interezza. Non ci si accorge che è stata proprio l’assenza di un progetto globale, la politica del giorno per giorno e degli interventi-tampone a determinare quello che forse può essere considerato il più grosso disastro di tutti i tempi: la crisi ecologica a livello planetario. Così come è l’assenza di progettualità politica a produrre le forti sperequazioni tra cittadini nei Paesi sviluppati e il crescente divario, sotto ogni profilo, tra il Nord e il Sud del mondo. Altro che “fine dell’utopia”. Oggi il mondo ha bisogno come non mai di utopia, di progettualità. Si tratta certo di intendersi. È chiaro che qui, per utopia, non s’intende quella banalizzata dal marxismo, né quella demonizzata dall’ideologia borghese. Non è cioè vuota “fantasticheria” né progetto totalizzante.

L’utopia […] è un progetto storico, che nasce da una profonda coscienza etica, si sviluppa in una coscienza critica e s’adempie in una coscienza progettuale. Tale è infatti l’originario contenuto semantico del termine stesso, che oscilla, appunto, tra ou-topia “nessun luogo”) ed eu-topia “buon luogo”). L’utopia come luogo della società buona e felice che non c’è ancora. Il pensiero utopico nasce dalla consapevolezza che il mondo, o meglio, la società, così com’è, è carente d’essere: è inadeguata cioè a soddisfare i bisogni di ciascuno e a garantirne i diritti. Lo stato di cose presente è sentito fondamentalmente come ingiusto proprio perché non dà a ciascuno il suo. Questa rivolta morale contro l’ingiustizia sarebbe tuttavia velleitaria e impotente se non si tramutasse in coscienza critica, se cioè non individuasse quelle forme e quelle strutture concrete che sono causa d’iniquità, in ordine alla loro rimozione. Ma lo spirito critico-eversivo non sarebbe fecondo se non fosse sorretto da una coscienza progettuale, la sola che permette di ricostruire o rifondare la società secondo i dettami della giustizia, ossia di sostituire il “vecchio” con il “nuovo”.

Questo non significa […] che la mentalità utopica sia protesa a negare in maniera assoluta il presente, ossia a negare non solo il “negativo”, ma anche quel che di “positivo” vi è nel presente. In realtà, non tutto ciò che il presente contiene è “vecchio”, vale a dire superato, non rispondente agli imperativi della coscienza etica. Proprio perché l’utopia è il progetto della storia, che è nato e si va facendo nella storia, essa non può rinnegare le sue stesse conquiste. La coscienza utopica non rinuncia al bene presente in vista di un bene futuro. Al contrario, essa accetta e conserva tutto ciò che di positivo il presente offre, ben sapendo che il presente non è altro che il futuro del passato. In ogni presente possono venire a maturazione le spinte e le aspirazioni delle generazioni passate. La critica del presente, dunque, mira solo a rigettare tutto quel che di negativo e ingiusto il presente racchiude in sé.

Quella utopica non è una coscienza sognante, pigra, pacificata con la realtà, ma è sempre vigile, inquieta e in lotta contro le ideologie di turno, che tendono a mascherare la realtà effettuale, presentandola come il migliore dei mondi possibili. Avendo come suoi valori-guida fondamentali la giustizia, la libertà, l’uguaglianza, la fraternità, l’amore, la felicità, la pace, la coscienza utopica si protende a realizzarli con tutte le proprie forze. E poiché la realizzazione dei valori passa anzitutto attraverso le coscienze dei singoli, essa non può mai essere data per acquisita una volta per tutte. Donde la continua tensione, la vigilanza per evitare la ricaduta nell’ideologia, che è sempre in agguato per riproporre subdolamente istanze obsolete e “ripescaggi” antistorici.

La coscienza utopica, proprio perché si riconosce finita, limitata, è pronta al rischio e perfino allo scacco. Solo che il rischio e lo scacco non la deprimono, ma le infondono coraggio, perché sa bene che gli autentici valori umani che essa persegue possono pur subire uno scacco nel breve periodo, ma alla lunga prevarranno. La coscienza utopica consente all’uomo di correre il rischio di pensare e decidere autonomamente. Le nostre società, dove il lavoro sociale si svolge in forme sempre più parcellizzate, hanno di fatto espropriato l’uomo del gusto del rischio, deprivandolo così anche della responsabilità. Tale espropriazione, che con il passare del tempo si è tramutata in una tacita delega agli “specialisti” (della politica e della scienza-tecnologia) di pensare e di decidere per tutti, ci ha regalato quella che a giusta ragione è stata definita «la società del rischio». […] Occorre perciò riappropriarsi del diritto al rischio, del diritto a decidere responsabilmente e autonomamente, liberandosi dalle “tutele” false e interessate e, in particolare, dall’ideologia scientista, che non è meno pericolosa delle altre di cui si “celebra”, spesso in modo allegramente discorsivo, la crisi.

Si può dunque affermare che mentre la crisi delle ideologie, se correttamente intesa, costituisce un fatto largamente positivo, poiché ci libera dalla “falsa coscienza”, la crisi, o ancor più la fine dell’utopia sarebbe una sciagura per l’umanità.

Fine dell’utopia significa assenza di progettualità, smarrimento dei valori-guida, e quindi ritorno a uno stato ingiusto, dove i rapporti umani vengono regolati non dalla coscienza etica e dalla ragione, bensì dalla forza. Se dovesse venir meno l’utopia, la stessa politica, da arte o scienza del buon governo degli uomini, decadrebbe a mera lotta per il potere sugli uomini. Sarebbe il trionfo definitivo di quella che è stata recentemente definita «ragione cinica». Una strada su cui si è incamminata gran parte delle nostre società, proprio a causa dell’affievolirsi della coscienza e della tensione etica, che ha portato alla crisi e allo smarrimento dei valori autenticamente umani e, di conseguenza, alla caduta dello spirito utopico. Se la storia ha un qualche valore pedagogico, essa ci insegna che sovente il sonno dell’utopia ha generato i mostri.

È dunque tempo di svegliarsi, per riprendere, con l’energia necessaria, il cammino interrotto dalle forze distopiche, che in questi ultimi decenni hanno prevalso, anche a causa dell’attuale processo di globalizzazione, che si sta rivelando profondamente dannoso e ingiusto non solo per l’uomo, ma anche per l’ecosfera.

Cosimo Quarta, Homo utopicus. La dimensione storico-antropologica dell’utopia, Dedalo, Bari 2015, pp. 167-170.


Cosimo Quarta – L’uomo è un essere progettuale. Il progetto spinge a impegnarsi per cambiare lo stato di cose presente. La carenza di progettazione sociale è segno di fuga dalla vita, perché realizzare il fine richiede impegno, dedizione, pazienza, sofferenza, sacrificio.
Cosimo Quarta – Se manca solo uno di questi momenti (critico, progettuale, realizzativo), non si dà coscienza utopica, e anzi, non si dà coscienza autenticamente umana.
Cosimo Quarta – Il bisogno di progettare, nell’uomo, non è un fatto accidentale, ma essenziale, in quanto corrisponde alla sua originaria natura. Il progettare è possibile ed ha senso solo in presenza e in vista del futuro. La “fame di futuro” è fame di progettualità, ossia bisogno forte e urgente di utopia, il cui strumento privilegiato è la progettualità.
Cosimo Quarta – Non può costruirsi una società comunitaria senza un’azione parallela mirante a trasformare contemporaneamente le condizioni esterne e le coscienze. Perché vi sia autentica comunità occorre sviluppare una coscienza comunitaria. Il principio fondamentale che regge l’intero edificio comunitario di Utopia è proprio l’humanitas, ossia la coscienza del valore e della dignità degli uomini, di tutti gli uomini, e del loro comune destino.
Cosimo Quarta (1941-2016) – Nell’utopia si esprime la coscienza critica per la carenza d’essere, per l’insufficienza fattuale del reale, per la sua non rispondenza ai bisogni umani.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Cosimo Quarta (1941-2016) – Il bisogno di progettare, nell’uomo, non è un fatto accidentale, ma essenziale, in quanto corrisponde alla sua originaria natura. Il progettare è possibile ed ha senso solo in presenza e in vista del futuro. La “fame di futuro” è fame di progettualità, ossia bisogno forte e urgente di utopia, il cui strumento privilegiato è la progettualità.

Cosimo Quarta - Nuova Utopia
«Il bisogno di progettare, nell’uomo, non è un fatto accidentale, ma essenziale, in quanto corrisponde alla sua originaria natura. Il progettare è possibile ed ha senso solo in presenza e in vista del futuro. La “fame di futuro” è fame di progettualità […] L’uomo è un essere progettuale. Il progetto spinge a impegnarsi per cambiare lo stato di cose presente. La carenza di progettazione sociale è segno di fuga dalla vita, perché realizzare il fine richiede impegno, dedizione, pazienza, sofferenza, sacrificio. […] Non può costruirsi una società comunitaria senza un’azione parallela mirante a trasformare contemporaneamente le condizioni esterne e le coscienze. Perché vi sia autentica comunità occorre sviluppare una coscienza comunitaria. Il principio fondamentale che regge l’intero edificio comunitario […] è proprio l’humanitas, ossia la coscienza del valore e della dignità degli uomini, di tutti gli uomini, e del loro comune destino».
Cosimo Quarta
Quale progettualità. L’uomo è un essere progettuale.

indicepresentazioneautoresintesi

Cosimo Quarta, Tommaso Moro. Una reinterpretazione dell’«Utopia», Dedalo, 1991.

«L’uomo, […] in quanto dotato di libertà, per costruire quel se stesso che ancora non è e un ambiente di vita adeguato a tale scopo, ha bisogno di progettare. Ed è davvero sorprendente che ancora oggi […] vi sia chi […] addirittura arriva a contrapporre, in nome dell’idolatria del mercato e dell'”intelligenza del denaro”, la libertà al bisogno umano di progettazione, allorché si affenna che è possibile conquistare nuovi spazi di libertà, se si rinuncia “al divorante bisogno di un oretine sovrimposto che abbia il pregio di risultarci immediatamente chiaro sulla carta”, dal momento che nessun “progetto”, per quanto chiaro e rigoroso si presenti, sarebbe in grado di garantire “la bellezza dell’esito” (A. Mignardi, L’intelligenza del denaro, Venezia, 2013).
È davvero strano che non si riesca ancora a comprendere che quel “divorante bisogno di un ordine sovrimposto”, ossia il bisogno di progettare, nell’uomo, non è un fatto accidentale, ma essenziale, in quanto corrisponde alla sua originaria natura.
In realtà, la nostra specie, stando anche a quanto lasciano supporre recenti studi di paleoantropologia, dovrebbe essere in certo modo ridefinita, riconoscendo che l’uomo è non solo sapiens, ma anche utopicus, in quanto si presenta originariamente come progettante, ossia come un essere che è strutturalmente proteso a diventare quel che ancora non è. E l’uomo, oltre a progettare e riprogettare se stesso, sente anche contestualmente il bisogno di progettare e ri progettare, di generazione in generazione, anche il proprio ambiente di vita, cioè la società, per meglio adeguarla ai suoi bisogni che, essendo dinamici e non statici, mutano nello spazio e nel tempo.
E progettando e riprogettando se stesso e la società, l’uomo costruisce la storia. Ecco perché l’utopia, se considerata dal punto di vista sociale, si configura come il progetto della storia, ossia come l’insieme dei progetti che le generazioni umane hanno elaborato e rielaborato lungo i millenni, al fine di migliorare le loro condizioni di vita.
Ma l’uomo, per svolgere la sua peculiare ed essenziale funzione di progettare deve anzitutto avere una corretta percezione della temporalità, riconoscendo a ciascuna delle dimensioni del tempo (passato, presente e futuro) il valore che le è proprio: il passato è importante perché la sua conoscenza ci arricchisce delle esperienze fatte dalle generazioni che ci hanno preceduto e ci aiuta, se letto con attenzione, a non ri petere gl i stessi errori; il presente è il tempo prezioso, in cui ciascuno di noi, da un lato, raccoglie ciò che le generazioni precedenti con tanta fatica hanno seminato, mentre, dall’altro, si sforza di correggere gli errori compiuti e di elaborare nuovi progetti per migliorare l’attuale stato di cose, della cui realizzazione godranno soprattutto le generazioni future. Infine, il futuro è il tempo da cui prende senso la funzione stessa del progettare. Senza futuro, infatti, non ci sarebbe progettazione, dal momento che quest’ultima ha bisogno di un orizzonte dinamico, che può essere dato solo dal futuro. Il progettare è possibile ed ha senso solo in presenza e in vista del futuro. Se il futuro scompare dali’orizzonte temporale umano, ciò significa che l’uomo è stato deprivato del desiderio, della speranza, della creatività [Cfr. E. Minkowski, Il tempo vissuto. Fenomenologiaa e psicopatologia, Einaudi, 1971, pp. 61, 89, e passim] e, quindi, anche della capacità di progettare, che è poi la conditio sine qua non per vivere il proprio tempo in modo attivo, senza lasciarsi travolgere dalla passività, che spesso conduce alla malinconia, alla depressione e alla disperazione […].
L’utopia, proprio per il suo legame indissolubile con l’uomo e con la storia, costituisce, in certo modo, la via maestra per far recuperare ali’uomo di oggi i valori fondamentali della speranza, del desiderio, della creatività, della progettualità e, quindi del senso del futuro, di cui egli, in questi ultimi decenni, è stato fortemente deprivato. Solo se recupera tali valori, l’uomo è in grado di impegnarsi attivamente e creativamente a divenire quel che ancora non è, ossia a dispiegare le sue potenzialità per costruire non solo se stesso, ma anche una società migliore e un futuro positivo, che torni ad essere portatore del meglio. La “fame di futuro”, di cui tanto oggi si parla, in realtà è una fame di speranza e, quindi, una fame di progettualità, ossia un bisogno forte e urgente di utopia. […]
Lo strumento privilegiato per raggiungere tali obiettivi è la progettualità […]. È quasi superfluo ricordare che un progetto è veramente utopico se si fonda su principi etici universalmente riconosciuti, come la giustizia, la libertà, l’uguaglianza, la fraternità, la solidarietà, la pace, l’amore. Ciò significa che educare ali ‘utopia implica, contestualmente,
l’impegno a formare cittadini dotati di una profonda coscienza morale e civile, capaci cioè di operare sempre responsabilmente, in vista del bene comune. Ma perché questo avvenga, è necessario che l’educazione all’utopia si diffonda in modo capillare, poiché grazie ad essa è possibile superare il mito dell’ individualismo, ossia di quel tarlo sociale che, dilagando in questi ultimi tempi in molti paesi e, soprattutto, in Occidente, spesso nelle forme patologiche dell’egotismo e del narcisismo, costituisce una delle cause principali dell’attuale crisi, in cui i rapporti umani hanno finito con l’assumere “la forma fredda dell’incuria e dell’indifferenza” che, non raramente e, in particolare, in tempi di ristrettezze economiche, si acuisce, determinando “lo spettro della perdita di futuro”, il quale, a sua volta, “alimenta potenzialmente la competizione e la guerra di tutti contro tutti”.
Solo attraverso l’educazione all’utopia si può invertire tale processo degenerativo, formando cittadini realmente “forti” […].  Tale progetto educativo, come tutti i progetti autenticamente utopici, è certamente difficile da realizzare, ma non è impossibile, come vorrebbero farci credere gli ideologi della crisi senza fine. In realtà, le vie d’uscita dalla crisi che oggi attanaglia l’umanità sono già fin d’ora percorribili, se si ha la volontà di farlo».

Cosimo Quarta, L’utopia nell’età dell’incertezza,
in Per un Manifesto della «Nuova Utopia»,
a cura di Cosimo Quarta, Mimesis, 2013, pp. 34-37.


Risvolto di copertina

I saggi che compongono questo volume, scritto a più mani, costituiscono un prezIoso contributo in ordine all’elaborazione di un Manifesto della “nuova utopia”, ossia di un documento a carattere interdlsclplinare, che ha tra i suoi fini anzitutto quello di ridare all’utopia il suo senso autentico, liberandola dai fraintendimenti che per secoli l’hanno banalizzata, deturpata e falsata. L’espresslone “nuova utopia” si è resa necessaria proprio per fare emergere la complessità e la rlccheua del fenomeno utopia, che non riguarda solo il fatto letterario, come da secoli si è creduto, ma abbraccia l’intera sfera dello scibile e della prassi umana, in quanto tale fenomeno si configura non come qualcosa di meramente “fantastico” e, meno che mai, di “bello ma impossibile”, bensì come il progetto della storia. E ciò perché l’uomo, fin dal suoi primordi, si caratterizza come un essere progettante, proteso cioè, sul piano personale, a diventare, attraverso l’educazione, quel che ancora non è, mentre, sul piano sociale, attraverso l’impegno etico-politico, si sforza di progettare e realizzare un ambiente di vita in cui possa vivere bene, ossia una società in cui regni la libertà, la giustizia, l’uguaglianza, la solidarietà, la pace, il benessere, l’amore. Un altro fine del Manifesto – e di questo volume che lo prepara – è quello di proporre l’utopia, intesa in senso nuovo, come antidoto alle paure e alle angosce che affliggono l’uomo del nostro tempo. In un contesto di perdurante crisi ed incertezza, che spesso sfocia nella disperazione, l’utopia, infondendo nell’animo umano la straordinaria e positiva forza emotiva della speranza, lo spinge ad uscire dalla mortificante condizione di passività e lo impegna a progettare e costruire una società più giusta e fraterna.

Scritti di: Lidia Caputo, Roberto Cipriani, Arrigo Colombo, Marina D’Amato, Carla Danani, Marianna Forleo, Vita Fortunati, Daniela Martina, Luigi Punzo, Gianpasquale Preite, Cosimo Quarta, Jean-Michel Racault, Christian Rivoletti, Giuseppe Schiavone, Eleonora Sparano, Laura Tundo Ferente, Francesco Totaro, Paul-André Turcotle.

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Cosimo Quarta – L’uomo è un essere progettuale. Il progetto spinge a impegnarsi per cambiare lo stato di cose presente. La carenza di progettazione sociale è segno di fuga dalla vita, perché realizzare il fine richiede impegno, dedizione, pazienza, sofferenza, sacrificio.
Cosimo Quarta – Se manca solo uno di questi momenti (critico, progettuale, realizzativo), non si dà coscienza utopica, e anzi, non si dà coscienza autenticamente umana.
Cosimo Quarta – Il bisogno di progettare, nell’uomo, non è un fatto accidentale, ma essenziale, in quanto corrisponde alla sua originaria natura. Il progettare è possibile ed ha senso solo in presenza e in vista del futuro. La “fame di futuro” è fame di progettualità, ossia bisogno forte e urgente di utopia, il cui strumento privilegiato è la progettualità.
Cosimo Quarta – Non può costruirsi una società comunitaria senza un’azione parallela mirante a trasformare contemporaneamente le condizioni esterne e le coscienze. Perché vi sia autentica comunità occorre sviluppare una coscienza comunitaria. Il principio fondamentale che regge l’intero edificio comunitario di Utopia è proprio l’humanitas, ossia la coscienza del valore e della dignità degli uomini, di tutti gli uomini, e del loro comune destino.
Cosimo Quarta (1941-2016) – Nell’utopia si esprime la coscienza critica per la carenza d’essere, per l’insufficienza fattuale del reale, per la sua non rispondenza ai bisogni umani.
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Eugène Minkowski – Il tempo vissuto – L’azione etica apre l’avvenire davanti a noi perché resiste al divenire: è la realizzazione di quanto vi è di più elevato in noi
Eugène Minkowski (1885-1972) – La ricchezza dell’avvenire che libera dalla morsa dell’attesa

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Cosimo Quarta (1941-2016) – Nell’utopia si esprime la coscienza critica per la carenza d’essere, per l’insufficienza fattuale del reale, per la sua non rispondenza ai bisogni umani.

Cosimo Quarta 006

Tommaso Moro

 

 

«L’utopia, in quanto ou-topia (“non-luogo”) si genera da un non ed è protesa su un altro non. Solo che il non da cui essa si genera è il negativo, la distopia, esprime cioè la coscienza critica, la carenza d’essere, l’insufficienza fattuale del reale, la sua non rispondenza ai bisogni umani. Mentre il non su cui l’utopia è protesa si configura come eu-topia (“buon luogo”), ossia come il “luogo felice” che non c’è».

Cosimo Quarta, Tommaso Moro. Una reinterpretazione dell’Utopia, Bari 1990, p. 68.

 


Cosimo Quarta – L’uomo è un essere progettuale. Il progetto spinge a impegnarsi per cambiare lo stato di cose presente. La carenza di progettazione sociale è segno di fuga dalla vita, perché realizzare il fine richiede impegno, dedizione, pazienza, sofferenza, sacrificio.
Cosimo Quarta – Se manca solo uno di questi momenti (critico, progettuale, realizzativo), non si dà coscienza utopica, e anzi, non si dà coscienza autenticamente umana.
Cosimo Quarta – Il bisogno di progettare, nell’uomo, non è un fatto accidentale, ma essenziale, in quanto corrisponde alla sua originaria natura. Il progettare è possibile ed ha senso solo in presenza e in vista del futuro. La “fame di futuro” è fame di progettualità, ossia bisogno forte e urgente di utopia, il cui strumento privilegiato è la progettualità.
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Jeroen van Busleyden (1470-1517) – Hai voluto guadagnarti la riconoscenza di tutto il mondo con i meriti splendidi di questa tua Utopia, nel proporre agli uomini dotati di ragione una tale idea di Stato.

Tommaso Moro Utopia 01

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«Hai voluto guadagnarti la riconoscenza di tutto il mondo con i meriti splendidi di questa tua Utopia: il che non avresti potuto ottenere per via migliore e più giusta di quella che consiste nel proporre agli uomini dotati di ragione una tale idea di Stato, una tale struttura dei comportamenti e un modello così perfetto, che non se n’è mai visto al mondo uno più sodamente istituito, più accurato nei particolari, più desiderabile, tanto che esso supera e sopravanza di un bel tratto le tanto celebrate e decantate repubbliche degli Spartani, degli Ateniesi e dei Romani.
Perché, se quest’ultime fossero state instaurate con gli stessi princìpi che ispirano questo tuo Stato, se fossero state regolate con le stesse istituzioni, leggi, decreti e costumi, certo non sarebbero ormai rovinate e rase al suolo, non giacerebbero estinte – ahimè! – senza speranza alcuna di poter risorgere».

Lettera di Jeroen van Busleyden scritta a Thomas More poco dopo la pubblicazione di Utopia, in Tommaso Moro, Utopia, a cura di L. Firpo, Torino 1970, p. 51.


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Koinè – Quale progettualità? Cerchiamo di percorrere, in maniera umanisticamente fondata, l’orizzonte progettuale per delineare le strutture di base di un futuro modo di produzione comunitario non più incentrato sulla privatezza e sulla mercificazione dei rapporti umani.

Quale progettualità invito

Lorenzo Dorato, Antonio Fiocco, Luca Grecchi,  Claudio Lucchini, Alessandro Monchietto,
Alessandro Pallassini, Giacomo Pezzano


Ci rivolgiamo a lettori che vogliano imparare qualcosa di nuovo,
che dunque vogliano pure pensare da sé.
Karl Marx

 

Quale progettualità

Quale progettualità?

indicepresentazioneautoresintesi


Koiné, Periodico culturale, Anno XXIII – NN° 1-4 Gennaio-Dicembre 2016, Reg. Trib. di Pistoia n° 2/93 del 16/2/93. Direttore responsabile: Carmine Fiorillo. Direttore: Luca Grecchi.


Hanno contribuito e reso possibile la pubblicazione di questo numero di Koiné:

Olivia Campana, Francisco Canepa, Stella Maria Congiu, Lorenzo Dorato, Antonio Fiocco, Carmine Fiorillo, Luca Grecchi, Claudio Lucchini, Alessandro Monchietto, Alessandro Pallassini, Giacomo Pezzano, Giancarlo Paciello, Ilaria Rabatti, Emilia Savi


Intenzioni

Questo numero della rivista Koinè si occupa di affrontare il tema oggi più importante sul piano filosofico politico: il tema della progettualità. Da oltre un secolo a questa parte la critica all’attuale modo di produzione sociale, pur nelle sue molteplici e mutevoli modalità, è stata nella sostanza effettuata. Ciò che resta ancora da fare è cercare di percorrere, in maniera umanisticamente fondata (ossia basandosi sulla natura umana), l’orizzonte progettuale, ossia delineare le strutture di base di un futuro modo di produzione comunitario finalizzato alla buona vita di tutti, non più incentrato sulla privatezza e sulla mercificazione dei rapporti umani. Senza uno sguardo realistico su come il nostro mondo può essere, difficilmente, infatti, si potranno condividere modifiche radicali delle nostre modalità di vita. Ciò richiede, oltre a competenze specifiche, educazione filosofica e capacità dialettica: quanto questo numero della rivista vorrebbe contribuire a formare.

Koinè


Indice

 

Luca Grecchi, Sulla progettualità

Alessandro Monchietto, Quale progettualità? A partire da alcune considerazioni di Luca Grecchi

Claudio Lucchini, La progettualità comunista tra utopia concreta e necessità di funzionamento quotidiano

Antonio Fiocco, Difendere in tutti i modi la progettualità

Alessandro Pallassini, Note marginali per la progettazione di un comunismo della finitezza a partire da Spinoza

Luca Grecchi,, Perché la progettualità

Claudio Lucchini, Annotazioni sulla progettabilità del bene etico-sociale e sulla determinatezza materiale-naturale dell’uomo

Lorenzo Dorato,, La progettualità come necessaria riflessione

sui destini collettivi e sociali

Giacomo Pezzano,, Commento all’articolo di Luca Grecchi “Sulla progettualità”

Commento all’articolo di Luca Grecchi “Perché la progettualità?”

Luca Grecchi, Nel merito dei commenti di Giacomo Pezzano

Giacomo Pezzano, Il vero punto filosofico da scavare è che cosa si voglia intendere con “progettualità”

Luca Grecchi, Una prima conclusione sulla progettualità


Una rivista ha bisogno di tempo per nascere e per crescere

Ha bisogno soprattutto di un particolare complesso di elementi spirituali, culturali, sociali nel cui seno l’idea stessa possa germinare e trovare alimento per il suo sviluppo. Occore poi uno stimolo, un impulso capace di attivare sensibilità intelletuali, offrendo prospettive culturali capaci di intercettare le autentiche domande di senso e di tentare risposte originali e pertinenti. Per cercare di costruire nuovi orizzonti di senso occorre in primo luogo non accettare quanto sostengono i profeti dell’avvento di un mondo senza Spirito, un mondo cioè di individui non più formati dalla memoria di tradizioni e culture anteriori, e perciò in totale balìa dell’immediatezza degli eventi, senza un’identità etica e sociale ed una struttura morale a cui riferirli. Mentre lavoriamo intorno alla definizione di ogni numero di Koinè, impariamo abbastanza da trovarla insufficiente. Impariamo quanto sia inadeguato oggi anche il più vasto sapere se rimane esclusivamente specialistico. In ogni libro è racchiusa una scommessa contro l’oblio, una sfida contro il silenzio.


Il bisogno di progettare, nell’uomo,

non è un fatto accidentale, ma essenziale,

in quanto corrisponde alla sua originaria natura

«Il bisogno di progettare, nell’uomo, non è un fatto accidentale, ma essenziale, in quanto corrisponde alla sua originaria natura. Il progettare è possibile ed ha senso solo in presenza e in vista del futuro. La “fame di futuro” è fame di progettualità […] L’uomo è un essere progettuale. Il progetto spinge a impegnarsi per cambiare lo stato di cose presente. La carenza di progettazione sociale è segno di fuga dalla vita, perché realizzare il fine richiede impegno, dedizione, pazienza, sofferenza, sacrificio. […] Non può costruirsi una società comunitaria senza un’azione parallela mirante a trasformare contemporaneamente le condizioni esterne e le coscienze. Perché vi sia autentica comunità occorre sviluppare una coscienza comunitaria. Il principio fondamentale che regge l’intero edificio comunitario […] è proprio l’humanitas, ossia la coscienza del valore e della dignità degli uomini, di tutti gli uomini, e del loro comune destino».

Cosimo Quarta

 


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Cosimo Quarta – Non può costruirsi una società comunitaria senza un’azione parallela mirante a trasformare contemporaneamente le condizioni esterne e le coscienze. Perché vi sia autentica comunità occorre sviluppare una coscienza comunitaria. Il principio fondamentale che regge l’intero edificio comunitario di Utopia è proprio l’humanitas, ossia la coscienza del valore e della dignità degli uomini, di tutti gli uomini, e del loro comune destino.

Utopia 036 copia

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edizioni-dedalo-1416793867

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«Tommaso Moro [nella Utopia] supera e rovescia l’impostazione che certi Padri della chiesa avevano dato al problema della proprietà: secondo tale impostazione […] il male non sta nella proprietà in sé, nel possesso delle ricchezze, ma nell’attaccamento morboso ad esse da parte dell’uomo. Ciò significa che la causa dei mali sociali è posta solo all’interno dell’uomo, ossia nel peccato del singolo. […] Moro, come s’è appena visto, capovolge tale schema e fa della trasformazione radicale delle strutture esterne la condizione necessaria, anche se non sufficiente, per la costruzione di un’umanità e di una società autenticamente virtuose e felici. Con Moro, la destinazione universale dei beni cessa di essere, com’era avvenuto per secoli, un astratto principio etico-religioso, per assumere una chiara e incontestabile valenza politica.
Ho parlato di trasformazione necessaria ma non sufficiente delle strutture, perché se ad essa non s’accompagna anche un mutamento delle coscienze, la costruzione di una società giusta e fraterna non sarà possibile. Puntare tutto e unicamente sulle strutture significa commettere un errore non meno grave di coloro che puntano tutto e unicamente sulle coscienze. Se la via della “sola coscienza” s’è rivelata chiaramente ideologica, dal momento che per millenni non è riuscita non dico a mutare ma nemmeno a scalfire le strutture di male su cui si reggono le nostre società, non meno mistificante s’è rivelata la via della “sola struttura”, la quale, nel periodo pur relativamente breve della sua applicazione, ha prodotto uno stato di cose che, per molti aspetti, è ancora più ingiusto, oppressivo e aberrante delle vecchie strutture cui s’è sostituito. Ma il problema non si risolve nemmeno attraverso la via che, pur riconoscendo la necessità d’intervenire tanto sulle strutture quanto sulle coscienze, tenta di stabilire tra i due ambiti un rapporto di prius-posterius.
Se si ritiene d’intervenire prima sulla struttura e poi sulla coscienza (o viceversa) non si fa altro che ricadere nell’errore che ho testé denunciato. Poiché è nell’indeterminatezza dell’intervallo tra il prima e il poi che s’annida il pericolo. Può accadere infatti, come storicamente è accaduto, che se si considera come prius la coscienza, si può attendere secoli e perfino millenni prima che arrivi il posterius, ossia il mutamento della struttura; se invece si considera quest’ultima come prius, si corre il rischio di non vedere mai il posterius, ossia il momento della coscienza; perché nel frattempo quest’ultima può essere, nonché mutata, semplicemente distrutta dalla violenza degli eventi che necessariamente accompagnano l’instaurarsi di nuove strutture, quando ciò avvenga contro o al di sopra delle coscienze dei singoli. Per queste ragioni, struttura e coscienza non vanno viste in termini di prius-posterius, né tanto meno in termini di separatezza e contrapposizione. Coscienza e struttura devono procedere di pari passo nel processo di trasformazione; devono cioè essere in grado di interagire dialetticamente, altrimenti si creeranno inevitabilmente quelle enormi sfasature storiche cui dianzi accennavo. Se è vero dunque che la condizione prima per la costruzione di una società giusta, fraterna e comunitaria risiede nel raccordo dialettico tra struttura e coscienza, allora l’Utopia, dove tale condizione è soddisfatta, si rivela anche per questo, oggi più che mai, come un prezioso paradigma per l’azione politica.

Ma il contributo di Moro al principio comunitario non finisce qui. Egli infatti non solo conferisce una valenza politica all’istanza cristiana della destinazione universale dei beni, ma va anche oltre la stessa istanza platonica, cui pure, come s’è già detto, s’ispira. Occorre infatti notare che la comunanza dei beni, così com’è sviluppata nell’Utopia, assume aspetti e significati suoi propri, rispetto alla Repubblica.
Intanto perché […] More prende “l’aristocratico” principio comunitario istanziato da Platone e lo trasforma da “privilegio di pochi in diritto di tutti”. L’estensione del principio comunitario all’intero corpo sociale costituisce di per sé un salto qualitativo. Quello di Utopia, dunque, è ben lungi dall’essere un “comunismo signorile”, come alquanto frettolosamente lo giudicò Croce […]
Un secondo elemento che differenzia la proposta moriana da quella platonica sta nel fatto che mentre per il filosofo greco la comunanza dei beni aveva una finalità essenzialmente politica (in quanto mirava alla coesione della classe dirigente e alla saldezza ed unità dello stato), per l’umanista inglese, invece, il principio comunitario era diretto principalmente a sradicare i mali sociali. Finché ci sarà la proprietà privata, dice Itlodeo, continuerà a gravare sulle spalle della gran parte dell’umanità, che è poi anche la migliore, “l’angoscioso e inevitabile fardello della miseria e delle tribolazioni”. Platone aveva affermato con forza, attraverso la comunanza dei beni tra i custodi e i reggitori, il primato della politica sull’economia. Moro fa un passo innanzi e sottomette non solo l’economico al politico, ma anche il politico al sociale. Nell’Utopia viene istanziato, forse per la prima volta nella storia, il primato del sociale. […]
Un terzo tratto eli differenziazione tra i due autori può essere ravvisato nel fatto che mentre la polemica di Platone contro la proprietà privata si svolge prevalentemente sul piano dei principi e, in quanto tale, può apparire, per certi versi, astratta e piuttosto sommaria, Moro, invece, come s’è visto, muove alla proprietà una critica puntuale, serrata e storicamente situata, a tal punto che la sua Utopia (e in particolare il primo libro) costituisce non solo uno dei più lucidi e significativi attacchi teorici che siano mai stati portati all’istituto della proprietà privata, ma anche un prezioso documento storico che lo stesso Marx utilizzò per disvelare “l’arcano dell’accumulazione originaria”. A ciò si aggiunga, infine, che mentre nella Repubblica il principio comunitario riguarda solo i beni di consumo, nell’Utopia, invece, […] tale principio si applica anche e soprattutto ai mezzi di produzione. In tal modo Moro non solo supera Platone, ma precorre anche Marx, ponendosi d’imperio nel solco del socialismo moderno, di cui egli fornisce la prima traccia.
Sia chiaro che riconoscere questo non significa limitare o ridurre il debito di More nei confronti di Platone. […] Del resto, che l’Utopia fosse andata oltre la Repubblica non sfuggì agli amici di Moro, e forse egli stesso ne ebbe coscienza. Queste precisazioni nulla tolgono a Platone, che resta per Moro un punto di riferimento costante e una delle fonti principali a
cui egli attinse per elaborare il suo principio comunitario.
[…]
Certamente, il vero limite della comunanza dei beni proposta da Moro, ciò che fondamentalmente lo differenzia, in negativo, dal “socialismo scientifico”, è costituito dall’inadeguatezza dei mezzi rispetto al fine. L’ordinamento comunitario di Utopia non è infatti, come per Marx, il risultato della lotta di classe, della vittoria del proletariato sulla borghesia, ma è scaturito dalla volontà buona di un conquistatore illuminato, Utopo, appunto. Moro credeva che la società giusta potesse nascere dall’alto, per volontà dei governanti e non del popolo, in cui pure, come si vedrà, riponeva la sua fiducia. E ciò era, evidentemente, un’illusione. Egli si piegò sulle miserie del popolo, ne scorse le cause e, soprattutto, ne indicò quello che a lui sembrava l’unico, reale, duraturo rimedio: la società comunitaria. Ma qui si fermò.
Non riuscì a scorgere il realizzatore storico del suo progetto, la forza capace di provocare un mutamento così radicale. Il proletariato non esisteva come “classe”, come forza storica su cui puntare per costruire la nuova società, in quanto non si erano ancora prodotte le condizioni storiche per la sua nascita, ossia lo sviluppo del capitalismo e la grande industria. In ogni caso, anche se si fossero date le condizioni oggettive, se ci fosse stata cioè una classe adeguatamente motivata e abbastanza forte da sovvertire l’ordine esistente per instaurarne uno nuovo, Moro non vi avrebbe fatto ricorso, perché aborriva i tumulti, le sedizioni, le violenze. Egli pensava che la trasformazione della società potesse avvenire attraverso un intervento dall’alto. Donde il ricorso al “legislatore saggio”, l’esigenza di un “fondatore”, la ripresa della non mai troppo lodata istanza platonica del “re filosofo”. Questa profonda illusione, che è, al tempo stesso, come si vedrà poi, una grave incongruenza nel pensiero politico di Moro, costituisce il vero grosso limite della sua istanza comunitaria. Che è però un limite comune a tutti i maestri del pensiero utopico occidentale fino a Marx; col quale la tensione realizzativa si fa più forte, avendo egli individuato nel proletariato industriale il portatore storico del progetto universale di liberazione umana. Che poi le cose, nella realtà storica concreta, siano andate in una direzione per molti versi opposta a quella sperata da Marx è un altro discorso.
Qui tuttavia mi preme mettere in evidenza un altro elemento che differenzia, questa volta in positivo, la proposta comunitaria di More dal comunismo di Marx. E cioè il fatto […] che nell’Utopia, la trasformazione delle condizioni esterne venga considerata come necessaria, ma non sufficiente, per la costruzione della nuova società. Marx riteneva, com’è noto, che la trasformazione della struttura economica, ossia dei rapporti di produzione, fosse di per sé sufficiente a cambiare la sovrastruttura, ossia l’insieme dei rapporti politici, sociali, etici, giuridici, religiosi, culturali ecc.
Questo aspetto della concezione storico-materialistica tendente a considerare, deterministicamente, la coscienza come un mero riflesso del modo di produzione, questo abbaglio economicistico – dovuto forse più ai marxisti che a Marx –  è una delle principali cause della crisi del marxismo e dello scacco ch’esso ha subito nell’URSS e nei paesi dell’Europa orientale. Dal modo in cui è strutturata Utopia si evince invece che non può costruirsi una società comunitaria senza un’azione parallela mirante a trasformare contemporaneamente le condizioni esterne e le coscienze.
[…] Ma dallo scritto di Moro si può ricavare almeno un’altra lezione non meno importante della precedente. Infatti, come da un lato Moro si sforzò di superare la concezione spiritualistica tipicamente cristiano-medievale, che credeva di poter arginare le iniquità umane facendo presa soltanto sulla coscienza, allo stesso modo, egli si guardò bene dal credere che le radici dei mali sociali fossero solo esteriori e d’ordine esclusivamente economico. […] Di qui il ruolo primario, fondamentale, che in Utopia viene assegnato all’educazione, alla crescita culturale e spirituale di tutti i cittadini.
Perché vi sia autentica comunità non è sufficiente mettere in comune ciò che si possiede individualmente o, peggio ancora, accentrare nelle mani dello stato tutti i beni dei singoli. Occorre anche e soprattutto sviluppare una coscienza comunitaria, a cui si può pervenire soltanto se si adotta una nuova scala di valori, all’interno della quale, gli “altri” vengano considerati non più come antagonisti o nemici, né alla stregua di meri “produttori associati”, ma semplicemente come uomini, come propri simili, ossia come esseri protesi ad espandere, con la propria, l’altrui libertà e umanità. Non è un casose, com’è stato opportunamente sottolineato, il principio fondamentale che regge l’intero edificio comunitario di Utopia è proprio l’humanitas, ossia la coscienza del valore e della dignità degli uomini, di tutti gli uomini, e del loro comune destino».

Cosimo Quarta, Tommaso Moro. Una reinterpretazione dell’«Utopia»,
Edizioni Dedalo, 1991, pp. 190-197.

 

 

ncisione di Ambrosius Holbein per l'edizione del 1518 dell'Utopia di Tommaso Moro

Incisione di Ambrosius Holbein per l’edizione del 1518 dell’Utopia di Tommaso Moro.

Titolo originale:
Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia

 

Risvolto di copertina
L'Utopia di Tommaso Moro costituisce un punto di riferimento imprescindibile nella storia del pensiero moderno. L'opera, tuttavia, nel corso dei secoli e fino ai nostri giorni, è stata fatta oggetto di gravi fraintendimenti. Questo libro, oltre a spiegare le razioni di tali fraintendimenti, tenta di enucleare, sulla base di incontrovertibili dati storici e filologici, gli aspetti più significatlvi del progetto utopico moriano. All'antropologia pessimistica dell'"homo homini lupus", Moro contrappone la suamite e cristiana concezione dell'"homo homini salus", contro l'insorgente e deteriore machiavellismo, egli afferma l'unicità, cui devono conformarsi tanto gli individui quanto gli stati; alla prassi rapace del capitalismo nascente, egli oppone una societàsolidale e comunitaria, contro la nobiltà frivola e oziosa egli indica nel lavoro il primo dei doveri sociali. Istanza, inoltre la sovranità popolare, la rotazione delle cariche pubbliche, la tolleranza religiosa, la centralità della famiglia, il sacerdozio delle donne, il divorzio, l'etica del piacere, l'eutanasia la pace universale. Purtroppo, molti di questi problemi sono ben lungi dall'essere risolti. In un epoca come la nostra, caratterizzata da un forte disorientamento teorico e pratico, l'Utopia può costituire un valido aiuto per affrontare la crisi in atto.

 

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Laura Tundo Ferente – Il pensiero utopicamente connotato ha saputo esercitare costantemente la critica e l’opzione etica per la società giusta.

Utopia 009 copia

Per un Manifesto della «Nuova Utopia»,

Per un Manifesto della «Nuova Utopia»

«[…] l’utopia propone riflessioni, idee, forme istituzionali, modalità operative molto consapevoli, impegnate a ridisegnare il senso e perimetro storico del principio ideale di riferimento che resta la giustizia;  […] l’utopia non conosce se non questa via: rende più acuto lo sguardo sulla realtà, sulle sue mancanze, sulle inadempienze, sulle distorsioni e ineguaglianze, sulle contraddizioni; elabora un’idea di ciò che considera buono, giusto […]; progetta forme della prassi che traducono in modi di vivere e in istituti sociali e politici quelle idee e indicazioni; immagina, propone, sperimenta (anche con l’esperimento mentale) modalità operative corrispondenti al loro evolvere. In questo presentare soluzioni, che sono però soltanto tentativi, l’utopia ha svolto uno straordinario ruolo di anticipazione e prefigurazione. Ha saputo leggere i vizi del tempo presente e svelarne il vero aspetto fuori da qualsiasi ineluttabilità, ha individuato le responsabilità, ha riflettuto su cosa si dovesse intendere per società “buona” e “felice”. Rispetto alla generale riflessione filosofica, non di rado raffinata, ma attenta ad altre grandi questioni, o talvolta anche cointeressata alle medesime visioni dei poteri emergenti, il pensiero utopicamente connotato ha saputo esercitare costantemente la critica e l’opzione etica per la società giusta, ha coltivato il terreno dell’immaginario sociale; per questa via ha saputo cogliere il bisogno e il desiderio in relazione alla giustizia, ha saputo indicare vincoli etici e un orizzonte di senso obbligante diversi da quelli in atto».

Laura Tundo Ferente, Utopia ed etica. Il desiderio e il vincolo,
in Per un Manifesto della «Nuova Utopia»,
a cura di Cosimo Quarta, Mimesis,, 2013, p. 78.

 

 

Quarta di copertina

I saggi che compongono questo volume, scritto a più mani, costituiscono un prezIoso contributo in ordine all’elaborazione di un Manifesto della “nuova utopia”, ossia di un documento a carattere interdlsclplinare, che ha tra i suoi fini anzitutto quello di ridare all’utopia il suo senso autentico, liberandola dai fraintendimenti che per secoli l’hanno banalizzata, deturpata e falsata. L’espresslone “nuova utopia” si è resa necessaria proprio per fare emergere la complessità e la rlccheua del fenomeno utopia, che non riguarda solo il fatto letterario, come da secoli si è creduto, ma abbraccia l’intera sfera dello scibile e della prassi umana, in quanto tale fenomeno si configura non come qualcosa di meramente “fantastico” e, meno che mai, di “bello ma impossibile”, bensì come il progetto della storia. E ciò perché l’uomo, fin dal suoi primordi, si caratterizza come un essere progettante, proteso cioè, sul piano personale, a diventare, attraverso l’educazione, quel che ancora non è, mentre, sul piano sociale, attraverso l’impegno etico-politico, si sforza di progettare e realizzare un ambiente di vita in cui possa vivere bene, ossia una società in cui regni la libertà, la giustizia, l’uguaglianza, la solidarietà, la pace, il benessere, l’amore. Un altro fine del Manifesto – e di questo volume che lo prepara – è quello di proporre l’utopia, intesa in senso nuovo, come antidoto alle paure e alle angosce che affliggono l’uomo del nostro tempo. In un contesto di perdurante crisi ed incertezza, che spesso sfocia nella disperazione, l’utopia, infondendo nell’animo umano la straordinaria e positiva forza emotiva della speranza, lo spinge ad uscire dalla mortificante condizione di passività e lo impegna a progettare e costruire una società più giusta e fraterna.

Scritti di: Lidia Caputo, Roberto Cipriani, Arrigo Colombo, Marina D’Amato, Carla Danani, Marianna Forleo, Vita Fortunati, Daniela Martina, Luigi Punzo, Gianpasquale Preite, Cosimo Quarta, Jean-Michel Racault, Christian Rivoletti, Giuseppe Schiavone, Eleonora Sparano, Laura Tundo Ferente, Francesco Totaro, Paul-André Turcotle.

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Cosimo Quarta – Se manca solo uno di questi momenti (critico, progettuale, realizzativo), non si dà coscienza utopica, e anzi, non si dà coscienza autenticamente umana.

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«[… Il] processo formativo della coscienza critica si evince distintamente dall’opera di More. La dimensione critica è infatti chiaramente presente nel primo libro dell’Utopia, che costituisce, com’è noto, una severa e serrata critica alle istituzioni e ai costumi dell’epoca. Ma anche il secondo libro, in cui è concentrata la parte propriamente progettuale dell’opera, contiene elementi di critica tutt’altro che trascurabili. Sicché è davvero sorprendente notare come, pur in presenza di una critica così puntuale, rigorosa e, a tratti, radicale, molti studiosi abbiano potuto assimilare l’Utopia di More e, tramite essa, il fenomeno utopico tout court, all’irrealtà, al sogno, al gioco, all’illusione, all’astrattezza.
L’aggancio alla realtà storica è talmente forte ed evidente che soltanto dei lettori accecati dal pregiudizio possono non scorgere quel che invece i contemporanei di More e, in primis, Erasmo, davano per chiaro e scontato. Dovrebbe pur dire qualcosa, all’immenso stuolo di critici frettolosi, il fatto che il “principe degli umanisti”, in uno dei
suoi – peraltro rarissimi – giudizi sull’opera moriana, abbia riferito che More pubblicò l’Utopia “al fine di mostrare quali fossero le cause dei mali degli Stati; ma si soffermò a descrivere soprattutto l’Inghilterra, di cui aveva una più diretta e approfondita conoscenza” [Lettera di Erasmo a Ulrich von Hutten, in Erasmo da Rotterdam, Opus epistolarum Desiderii Erasmi Roterodami, Oxford, 1906-1958, vol. IV, p. 21].
Questo dimostra che anche l’utopia letteraria, lungi dal vagare nel sogno e nella fantasia, si trova invece profondamente radicata nella realtà storica. Essa nasce infatti dall’acuta coscienza, che è insieme critica ed etica, dei mali sociali e della volontà di superarli. Ed è appunto da questa volontà di bene che si origina il progetto di una società fondata sulla libertà, sulla giustizia, sull’eguaglianza, sulla pace.
Nasce cioè la coscienza progettuale, cui si connette l’impegno, o meglio, la tensione realizzativa. In More non solo la coscienza critico-progettuale, ma anche la tensione realizzativa è talmente forte da presentarci l'”ottimo Stato” come già realizzato. Senza dire che nell’hexastichon, come si è visto, è proprio tale tensione a marcare la differenza, ossia a sancire la superiorità dell’Utopia sulla Repubblica platonica

È opportuno sottolineare che, se manca solo uno di questi momenti (critico, progettuale, realizzativo), non si dà coscienza utopica, e anzi, non si dà coscienza autenticamente umana. Una coscienza, infatti, priva del momento critico rischia di essere fagocitata dalla dimensione onirica dell’esistenza; mentre, senza il progetto, l’uomo, invece di governare gli eventi, resta in balìa del loro caotico fluire, ossia è alla mercé di una storia che non ha direzione né senso né fine; una coscienza, inoltre, priva della tensione realizzativa rischia di sfociare in sterile velleitarismo, vale a dire in incapacità di produrre effetti positivi sul piano della prassi storica.
L’impegno etico, il dovere di realizzare il progetto è parte integrante della coscienza utopica. La quale, proprio perché conosce i suoi limiti, sa bene che vi sarà sempre uno scarto tra il pensiero e l’azione, tra la teoria e la prassi. E quindi è una coscienza sempre vigile, attenta a non scambiare per assoluto ciò che è relativo e caduco (compreso, ovviamente, il proprio progetto).
Il fatto poi che il progetto utopico sia definito “ottimo” non significa che lo sia in senso assoluto, ma solo relativamente alla coscienza che l’ha espresso. Via via che la coscienza storica matura, cambiano le aspirazioni dell’uomo e mutano, perciò, anche i suoi progetti.
La coscienza utopica è, per definizione, una coscienza aperta, in quanto non solo è protesa sul futuro (sul “non ancora”), ossia su ciò che di buono i nuovi tempi porteranno, ma è attenta anche a ciò che di buono il presente contiene, cercando il meglio ovunque esso si trovi. Questa protensione sull'”ora” e sull'”altrove” sfugge ai detrattori dell’utopia, quando accusano gli utopisti di progettare “società chiuse” e di sacrificare il presente al futuro. Eppure, More aveva più volte sottolineato l’estrema disponibilità degli Utopiani a mettere in discussione i propri ordinamenti, nel caso ne avessero scorti di migliori altrove».

Cosimo Quarta, Homo utopicus. La dimensione storico-antropologica dell’utopia,
edizioni Dedalo, 2015, pp. 124-125.

 

 

Risvolto di copertina

L’utopia non è solo un concetto letterario, come spesso erroneamente si pensa, bensì un carattere originario ed essenziale della specie umana: analizzandone per la prima volta la dimensione storica e antropologica, questo libro ci consente di capire che l’uomo non è solo sapiens, ma anche utopicus. L’utopia alimenta la speranza progettuale ed è una potente forza di mutamento sociale che, sia pure in forme diverse, è sempre presente nella storia umana.  Attraverso un’analisi originale della genesi della parola e un confronto puntuale con alcu­ni concetti similari (come mito, paradigma, ideale, ideologia) si arriverà a una definizione dell’utopia e del suo rapporto con alcuni tra i più importanti fenomeni socio-storico-culturali, come la rivoluzione, la scienza, la religione e l’ecologia. In questa nuova luce, si vedrà quindi come l’utopia possa costituire un valido antidoto culturale alle paure e al nichilismo del nostro tempo.

Indice del volume

Introduzione - I. IL FONDAMENTO ANTROPOLOGICOE STORICO DELL’UTOPIA - Capitolo 1 - L’utopia: una storia di fraintendimenti - 1. L’utopia non coincide con il fatto letterario - 2. Equivoci derivanti dall’assimilazionedell’utopia al fatto letterario - 3. Ulteriori fraintendimenti - Capitolo 2 -Homo utopicus. L’utopia come carattereoriginario della specie umana - 1. Sulla presunta fine dell’utopia - 2. L’utopia come fenomeno umano originario - 3. Homo utopicus - Capitolo 3 -Utopia e storia - 1. Genesi e prime forme dell’utopia storica - Il bisogno di cambiamento - 2. L’utopia delle origini: la preistoria, il mito - 3. Utopia e storia nel mondo antico - 4. L’utopia storica nel Medioevo cristiano - II. L’UTOPIA: IL TERMINE E IL CONCETTO - Capitolo 4 -Utopia. La genesi straordinaria e complessadi una parola-chiave - 1. La lunga gestazione: l’ipotesi di un Elogio della saggezza - 2. Il problema del nome: da Abraxa a Nusquama - 3. Da Nusquama a Utopia - 4. Il nesso ou-topia/ eu-topia - 5. L’utopia come coscienza critico-progettualee tensione storico-realizzativa - Capitolo 5 -Delucidazione concettuale I:paradigma, ideale, utopia - 1. Sul concetto di paradigma - 2. Sul concetto di ideale - 3. L’utopia - Capitolo 6 -Delucidazione concettuale II:ideologia e utopia - 1. Il contributo (e la responsabilità) di Karl Mannheim - 2. Capitalismo e marxismo versus utopia - 3. Per un risveglio della coscienza utopica - III. IL RUOLO DELL’UTOPIA IN ALCUNI TRA I PIÙ IMPORTANTIFENOMENI SOCIO-STORICO-CULTURALI - Capitolo 7 -Utopia e rivoluzione - 1. La rivoluzione - 2. Utopia e rivoluzione - 3. L’istanza utopica della rivoluzione non violenta - Capitolo 8 -Scienza e utopia - 1. Scienza versus utopia? - 2. La scienza nell’utopia letteraria - 3. Utopia e scienza in dialogo - Capitolo 9 -Utopia e trascendenza - 1. Sul rapporto utopia-trascendenza - 2. Homo utopicussivetranscendens: la scoperta dell’«oltre» - 3. Dall’utopia alla Trascendenza - Capitolo 10 -Ecologia e utopia - 1. Crisi ambientale e modernità: dalla Weltanschauungmeccanicistica all’esplosione dei consumi - 2. Carattere utopico della progettualità ecologica - Indice dei nomi

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Cosimo Quarta – L’uomo è un essere progettuale. Il progetto spinge a impegnarsi per cambiare lo stato di cose presente. La carenza di progettazione sociale è segno di fuga dalla vita, perché realizzare il fine richiede impegno, dedizione, pazienza, sofferenza, sacrificio.

Uomo utopico copia

homo-utopicus

«[…] il genere Homo si caratterizza, fin dalle origini, per la sua inquietudine, per la ricerca di nuove possibilità […], dimostrando così la sua capacità di non fermarsi al puro dato sensibile, ossia di andare oltre la percezione immediata, e quindi di pre-vedere quel che ancora non è fisicamente visibile, cioè percepibile dai sensi. L’inquietudine e l’angoscia sono legate […] alla scoperta della libertà, alla possibilità di scegliere tra due o più comportamenti.
Ma il prevedere – che è un’attitudine propria della ragione – implica la coscienza del tempo, o meglio, la temporalità, la quale […] rende possibile il  costituisce cioè la conditio sine qua non del progettare. Sullo spazio aperto dalla previsione s’innesta così […] la progettualità, che è un fatto specificamente ed essenzialmente umano. E poiché l’uomo non è un individuo isolato, ma, in quanto coessere, nasce, vive e opera sempre in un determinato contesto storico-sociale, ecco che il suo progettare si carica di storicità, di socialità, di politicità, caratterizzandosi, immediatamente, come utopico, dal momento che l’utopia può essere definita come il progetto della storia, come progetto e impegno di costruire la “società giusta”; quella società, cioè, in cui a ciascuno venga finalmente riconosciuto il proprio diritto: il diritto dell’uomo in quanto uomo. Da ciò discende che l’utopicità non è un fatto accidentale e transeunte, ma un carattere essenziale della specie umana» .

«Lo dimostra il fatto che, ancora oggi, l’uomo si presenta come l’essere che, per sua natura, si protende e proietta verso il suo dover essere. E ciò perché è in gioco l’originaria potenzialità della persona, il suo oscillare tra il nulla e il tutto, la sua capacità di costruire liberamente (dunque, anche sbagliando) quel se stesso che ancora non è. Il progetto […] non è una delle tante opzioni, ma costituisce l’opzione fondamentale, poiché solo per mezzo di esso il genere Homo attinge quella che viene chiamata dignità umana.
Senza il progetto, cui si connette il dover essere e quindi il vincolo etico – che lo obbliga a realizzare, per quanto è possibile pienamente, l’umanità che è in lui – l’uomo decade a bestia. Ciò che rende la vita umana degna di essere vissuta è anzitutto quest’opera […] che richiede l’impegno e lo sforzo di tutta una vita, proprio perché l’uomo, in quanto essere finito, è soggetto alla caduta e allo scacco, ma è anche capace, ogni volta, di rialzarsi, per riprendere il cammino […].
Ora, questo impulso a protendersi verso il dover essere,  […] questa profonda aspirazione a diventare quel che non è ancora fanno, appunto, dell’uomo un essere essenzialmente progettuale, cioè utopico. In altre parole, l’utopicità è un carattere che ha segnato l’uomo in maniera indelebile. È il carattere distintivo per eccellenza, da cui tutti gli altri derivano, compreso, forse, lo stesso attributo di sapiens. La “sapienza”, infatti, non è un dono, bensl una dura conquista […]. Ma non vi sarebbe sapienza senza il desiderio, o meglio, il bisogno di conoscere, […] ricerca di nuove possibilità […]» (pp. 50-51).

«Il progetto utopico […] nasce da una profonda coscienza etica, la quale spinge l’uomo a impegnarsi per cambiare lo stato di cose presente, ritenuto ingiusto e insostenibile. Il progetto utopico, quindi, non è solo un modello teorico, bensì, in quanto è proteso, per sua natura, alla realizzazione, richiede un forte impegno anche sul piano della prassi. Lungi dall’essere qualcosa di “astratto”, esso è estremamente concreto […]. Invero, ogni progetto, per sua natura, nasce da un bisogno, ossia dal bisogno di mutare la realtà che, così com’è, risulta carente, inadeguata a soddisfare le esigenze dei singoli o della società in generale.  […] Storicamente è accaduto che le società e le epoche maggionnente dinamiche sono state quelle che hanno espresso un maggiore bisogno di progettualità e quindi un maggiore bisogno di utopia. In questo senso, si può dire che l’utopia si rivela come il motore della storia» (pp. 56-57).

«L’affievolirsi della tensione utopica deve essere considerato come un campanello d’allarme per l’umanità. […] Senza utopia non v’è progettazione, non v’è immaginazione, non v’è speranza e, quindi, non v’è futuro. […] In altre parole, privare l’uomo dell’utopicità significa privarlo della sua stessa umanità» (pp. 58-59).

«Il progetto utopico nasce anzitutto dalla consapevolezza che le condizioni storiche di fatto esistenti (a livello sociale, politico, economico, ecc.) sono profondamente ingiuste; donde l’istanza delle trasformazioni sociali. […] Alle origini del progetto utopico v’è dunque, in primo luogo, la presa di coscienza critica sulla realtà di fatto […].
La coscienza utopica sarebbe però irrimediabilmente monca, se si configurasse solo nella duplice dimensione critico-progettuale. La progettazione, infatti, perché possa dirsi autenticamente utopica, deve essere orientata verso il bene, ossia deve essere sorretta da una volontà di bene, la quale ha come suo fondamento la coscienza etica.
A generare l’utopia è quindi una profonda spinta morale, che si manifesta concretamente non solo come “ansia del giusto” […], ma anche come volontà di pace, di libertà, di uguaglianza, di solidarietà, di amore fraterno. Senza la coscienza etica, che è anche coscienza del limite, la progettazione finirebbe con il degenerare nella hyhris, nell’arroganza, nel delirio di onnipotenza, si trasformerebbe, in altri termini, in volontà di male, ossia in distopia. […] Ecco perché la coscienza morale è una dimensione essenziale, fondamentale della progettazione utopica.
La coscienza etica svolge un ruolo importante, decisivo, non solo nella fase critico-progettuale, ma anche nel momento realizzativo dell’utopia; infatti, è proprio grazie alla vigilanza morale che l’utopia evita di degenerare nel suo opposto, evita cioè di cadere nella
distopia. Il dovere di realizzare il fine, ossia il progetto della “società buona e giusta”, deve essere sempre sotteso dall’impegno di ricercare e scegliere i mezzi, che siano non solo efficaci, ma anche “buoni”, cioè rispettosi della dignità umana e dell’intera ecosfera.
Quando nella coscienza umana comincia a farsi strada l’idea che un fine buono, come ad esempio la giustizia, può essere realizzato compiendo ingiustizie, sopraffazioni e ogni altro genere di violenza, allora si può essere certi che si è abbandonata la strada lunga, stretta e faticosa dell’utopia, per imboccare quella più corta e ampia, ma assai più pericolosa, della distopia.  […] E ciò accade, appunto, per una carenza di spirito utopico, da cui l’uomo spesso rifugge, perché la realizzazione del fine richiede impegno, dedizione, pazienza, sofferenza, sacrificio.
Concepita in tal modo, l’utopia […] riesce a dar conto della straordinaria ricchezza e complessità della progettazione sociale […]» (pp.65-67).

Cosimo Quarta, Homo utopicus. La dimensione storico-antropologica dell’utopia,
edizioni Dedalo, 2015.

 

 

Risvolto di copertina

L’utopia non è solo un concetto letterario, come spesso erroneamente si pensa, bensì un carattere originario ed essenziale della specie umana: analizzandone per la prima volta la dimensione storica e antropologica, questo libro ci consente di capire che l’uomo non è solo sapiens, ma anche utopicus. L’utopia alimenta la speranza progettuale ed è una potente forza di mutamento sociale che, sia pure in forme diverse, è sempre presente nella storia umana.  Attraverso un’analisi originale della genesi della parola e un confronto puntuale con alcu­ni concetti similari (come mito, paradigma, ideale, ideologia) si arriverà a una definizione dell’utopia e del suo rapporto con alcuni tra i più importanti fenomeni socio-storico-culturali, come la rivoluzione, la scienza, la religione e l’ecologia. In questa nuova luce, si vedrà quindi come l’utopia possa costituire un valido antidoto culturale alle paure e al nichilismo del nostro tempo.

Indice del volume

Introduzione - I. IL FONDAMENTO ANTROPOLOGICOE STORICO DELL’UTOPIA - Capitolo 1 - L’utopia: una storia di fraintendimenti - 1. L’utopia non coincide con il fatto letterario - 2. Equivoci derivanti dall’assimilazionedell’utopia al fatto letterario - 3. Ulteriori fraintendimenti - Capitolo 2 -Homo utopicus. L’utopia come carattereoriginario della specie umana - 1. Sulla presunta fine dell’utopia - 2. L’utopia come fenomeno umano originario - 3. Homo utopicus - Capitolo 3 -Utopia e storia - 1. Genesi e prime forme dell’utopia storica - Il bisogno di cambiamento - 2. L’utopia delle origini: la preistoria, il mito - 3. Utopia e storia nel mondo antico - 4. L’utopia storica nel Medioevo cristiano - II. L’UTOPIA: IL TERMINE E IL CONCETTO - Capitolo 4 -Utopia. La genesi straordinaria e complessadi una parola-chiave - 1. La lunga gestazione: l’ipotesi di un Elogio della saggezza - 2. Il problema del nome: da Abraxa a Nusquama - 3. Da Nusquama a Utopia - 4. Il nesso ou-topia/ eu-topia - 5. L’utopia come coscienza critico-progettualee tensione storico-realizzativa - Capitolo 5 -Delucidazione concettuale I:paradigma, ideale, utopia - 1. Sul concetto di paradigma - 2. Sul concetto di ideale - 3. L’utopia - Capitolo 6 -Delucidazione concettuale II:ideologia e utopia - 1. Il contributo (e la responsabilità) di Karl Mannheim - 2. Capitalismo e marxismo versus utopia - 3. Per un risveglio della coscienza utopica - III. IL RUOLO DELL’UTOPIA IN ALCUNI TRA I PIÙ IMPORTANTIFENOMENI SOCIO-STORICO-CULTURALI - Capitolo 7 -Utopia e rivoluzione - 1. La rivoluzione - 2. Utopia e rivoluzione - 3. L’istanza utopica della rivoluzione non violenta - Capitolo 8 -Scienza e utopia - 1. Scienza versus utopia? - 2. La scienza nell’utopia letteraria - 3. Utopia e scienza in dialogo - Capitolo 9 -Utopia e trascendenza - 1. Sul rapporto utopia-trascendenza - 2. Homo utopicussivetranscendens: la scoperta dell’«oltre» - 3. Dall’utopia alla Trascendenza - Capitolo 10 -Ecologia e utopia - 1. Crisi ambientale e modernità: dalla Weltanschauungmeccanicistica all’esplosione dei consumi - 2. Carattere utopico della progettualità ecologica - Indice dei nomi

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