Copertine e schede editoriali (241-250) – Sante Notarnicola, Daniele Orlandi, Andrea Bulgarelli, Costanzo Preve, Luca Grecchi, Mauro Magini, Valentino Bellucci, Beniamino Biondi, Chiara Guarducci, Gabriella Putignano, Salvatore A. Bravo, Raoul Vaneigem.

241-250

241
Sante Notarnicola, La farfalla. Versi rubati, a cura di Daniele Orlandi. ISBN 978-88-7588-151-1, 2015, pp. 64, formato 130×200 mm., Euro 5. In copertina: Marco Perroni, Prison, 2015.

242
Andrea Bulgarelli – Costanzo Preve, Collisioni. Dialogo su scienza, religione e filosofiaISBN 978-88-7588-153-5, 2015, pp. 96, formato 140×210 mm., Euro 10 – Collana “Il giogo” [64]. In copertina: Juan Gris, Libro, 1913.

243
Luca Grecchi, Discorsi sulla morte.  ISBN 978-88-7588-155-9, 2015, pp. 64, formato 140×210 mm., Euro 7 – Collana “Il giogo” [65]. In copertina: La ginestra sul Vesuvio.

244
David Ciolli, Infinito semplice. le storie del piccolo maestro wu daoISBN 978-88-7588-157-3, 2015, pp. 80, 105×155 mm., Euro 7 – Collana “lo spazio della vita” [3]. In copertina: David Ciolli, Il Maestro, disegno, 2015.

245
Mauro Magini, Il mio amico Platone. Riflessioni su società, religione, vita.  ISBN 978-88-7588-159-7, 2015, pp. 128, formato 140×210 mm., Euro 13. In copertina: Henri Matisse, Tempere ritagliate per la Cappella di Saint-Marie du Rosaire a Vence.

246
Valentino Bellucci, Da Pitagora a “Guerre Stellari”. Il sapere esoterico dei veri illuminati. ISBN 978-88-7588-161-0, 2016, pp. 98, formato 140×210 mm., Euro 15. In copertina: Leonardo da Vinci, Autoritratto, disegno a sanguigna su carta, 1515. Biblioteca Reale, Torino.

247
Beniamino Biondi, La disciplina giuridica del settore cinematografico in Italia. ISBN 978-88-7588-163-4, 2016, pp. 112, formato 140×210 mm., Euro 13. In copertina: Insegna e vecchio cinema comunale di Crespino (RO), Agosto 2005. Foto di Enrico Andreotti. L’insegna è caduta nel 2006.

248
Chiara Guarducci, Bye Baby Suite. Con uno scritto di Francesco Vasarri. ISBN 978-88-7588-165-8, 2016, pp. 64, 105×155 mm., Euro 8 – Collana “Antigone”. In copertina: ‘Mari Line’, di Laura Cioni.

249
Gabriella Putignano, Quel che resta di Raoul Vaneigem. ISBN 978-88-7588-167-2, 2016, pp. 64, 105×155 mm., Euro 8. In copertina: Dino Di Bonito, Singapore.

250
Salvatore Antonio Bravo, Foucault e la razionalità debole. ISBN 978-88-7588-171-9, 2016, pp. 80, 130×200 mm., Euro 8. In copertina: R. Magritte, Il volto del genio, 1926.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Copertine e schede editoriali (281-290) – Valeria Biagi, Giampaolo Abbate, Claudia Baracchi, Enrico Berti, Barbara Botter, Matteo Cosci, Annabella D’Atri, Andrea Falcon, Arianna Fermani, Luca Grecchi, Alberto Jori, Diana Quarantotto, Monica Ugaglia, Carmelo Vigna, Marcello Zanatta, Luigi Ruggiu, Massimo Bontempelli, Marco Vannini, Maura Del Serra, Daniele Orlandi, José Jorge Letria, Mario Vegetti, Lapo Ferrarese.

281
Valeria Biagi, La Valle Bianca. Appunti per una rilettura del romanzo di Sirio Giannini. ISBN 978-88-7588-194-8, 2017, pp. 64, formato 130×200 mm., Euro 8. In copertina: Cava, foto di Antonio Silenzi.

282
Giampaolo Abbate, Claudia Baracchi, Enrico Berti, Barbara Botter, Matteo Cosci, Annabella D’Atri, Andrea Falcon, Arianna Fermani, Luca Grecchi, Alberto Jori, Diana Quarantotto, Monica Ugaglia, Carmelo Vigna, Marcello Zanatta, a cura di Luca Grecchi, Immanenza e trascendenza in Aristotele.
ISBN 978-88-7588-190-0, 2017, pp. 384, formato 140×210 mm., Euro 25 – Collana “Il giogo” [79]. In copertina: Statua in bronzo di Aristotele collocata nel cuore di Piazza Aristotele nella città di Salonicco in Grecia.

283
Luigi Ruggiu, Tempo Coscienza e Essere nella filosofia di Aristotele. Saggio sulle origini del nichilismo. Prefazione di Emanuele Severino.
ISBN 978-88-7588-186-3, 2017, pp. 496, formato 170×240 mm., Euro 35 – Collana “Il giogo” [80]. In copertina: Mosaico dello zodiaco e delle Quattro Stagioni. Ostia Antica, Magazzini. Dalla Necropoli di Porto all’Isola Sacra, Tomba 101.

284
Massimo Bontempelli, Gesù di Nazareth. Uomo nella storia. Dio nel pensiero. Prefazione di Marco Vannini. Postfazione di Giancarlo Paciello. ISBN 978-88-7588-188-7, 2017, pp. 160, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [81]. In copertina: Henri Matisse, Icaro, tavola a pochoir, pubblicata nel 1947 sulla rivista Jazz.

285
Maura Del Serra, L’albero delle parole. Con uno scritto di Domenico Segna: Lettera ad una professoressa delle scuole medie. ISBN 978-88-7588-184-9, 2017, pp. 64, formato 130×200 mm., Euro 10. In copertina: Elaborazione grafica del fotogramma di Andreas Kassel, 3XTonino, dedicato a Tonino Guerra.

286
Daniele Orlandi, T. Lettera ad una madre sul primo amore. Disegni di Sara Prebottoni.
ISBN 978-88-7588-180-1, 2017, pp. 432, formato 140×210 mm., Euro 20. In copertina: Sara Prebottoni, Afonie emotive. Disegno e composizione fotografica, 2017. Elaborazione grafica di Sara Bolletta.

287
Giorgio Mazzanti, Edi Natali, Diego Pancaldo, Roberto Presilla, Francesco Ricci, Antonella Spitaleri, Fausto Tardelli, La città tra idealità e realtà. A cura di Edi Natali.
ISBN 978-88-7588-182-5, 2017, pp. 160, formato 140×210 mm., Euro 15. In copertina: Allegoria ed Effetti del Buono e del Cattivo Governo, ciclo di affreschi di Ambrogio Lorenzetti (1338-1339), Palazzo Pubblico di Siena.

288
José Jorge Letria, Il deserto innominabile. Poesie. Testo portoghese a fronte. Cura e traduzione di Simonetta Masin.
ISBN 978-88-7588-192-4, 2017, pp. 96, formato 130×200 mm., Euro 10. In copertina: Salin de Giraud, Camargue. Fotografia di Simonetta Masin.

289
Mario Vegetti, Il coltello e lo stilo. Animali, schiavi, barbari e donne alle origini della razionalità scientifica. ISBN 978-88-7588-228-0, 2018, pp. 192, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “Il giogo” [82]. In copertina: Affresco raffigurante gli Istrumenta sciptoria. In quarta: bassorilievo del tempio di Esculapio di Atene.

 290
Lapo Ferrarese, Progresso scientifico e naturalismo nella concezione di Larry Laudan.
ISBN 978-88-7588-226-6, 2018, pp. 208, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “Il giogo” [83]. In copertina: Disegno di Leonardo da Vinci.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Daniele Orlandi – Invito a un capolavoro. «Rosso Antico» di Simone Nebbia.

Simone Nebbia - Daniele Orlandi

Non regalate terre promesse
a chi non le mantiene.

Fabrizio De Andrè, Rimini

Ci incontrammo in un’assemblea alla Sapienza, alcuni anni dopo l’uscita del libro. Io ero seduto in prima fila e lui, passandomi davanti, mi fulminò con lo sguardo a mirino: “Asor, l’uomo che mi ha fatto più male nella vita”.

Alberto Asor Rosa, parlando di Pasolini


Inizierei alla maniera dei recensori autentici. Simone Nebbia, Rosso antico, per i tipi di Giulio Perrone Editore, I edizione gennaio 2021, nella collana “Fiamme”. Brossura in 8° con ali, pp. 204. In quarta di copertina è riportata una citazione da p. 59:

Vogliamo tutto. E lo vogliamo adesso. Ma vogliamo tutto o tutto quel che resta?

Nella prima parte il lettore riconoscerà il riferimento al romanzo di Nanni Balestrini, Vogliamo tutto, del 1971, che tentava, in una dimensione avanguardistica, un primo bilancio della stagione di lotte operaie alla fine degli anni Sessanta che sarebbe stata definita “autunno caldo”. Nella quaestio della seconda, Simone Nebbia, rovesciando l’assunto, introduce l’argomento di uno dei rari libri non banali che affollano gli scaffali delle librerie nell’anno in cui cade il centenario della fondazione del maggior partito comunista europeo, quello italiano. A bene vedere il mio discorso su Rosso antico potrebbe terminare qui se non fosse che tempo fa uno scrittore di successo, dopo aver avuto la fortuna di esaminare un manoscritto di Simone Nebbia, decretò: “Molto bene, ma il fatto è che ti sforzi di dire la tua sul mondo invece di raccontarlo”. Peccando di modestia, Nebbia incassò la lezione e si convinse che, in fondo, lo scrittore di successo avesse ragione. A me sembrò un vago pretesto d’uso per un rifiuto gentile, pescato magari da qualche pagina di I libri degli altri, di Italo Calvino, e mescolato con un po’ d’invidia perché lui, lo scrittore di successo, un libro così bello non lo aveva mai scritto. Ma non lo dissi a Nebbia, allora più giovane e suscettibile di adesso. Lo tenni per me confidando nella galanteria del tempo e in giudizi meno lividi. Era il 2009, mi pare, il manoscritto non era quello di Rosso antico e Simone Nebbia veniva da un periodo gravoso sul piano privato e sociale che cercava di scontare dentro una rivolta studentesca che gli aveva ispirato quelle pagine rifiutate. Da allora Nebbia ha fatto diverse cose, ha avuto e saputo sfruttare molte occasioni per “dire la sua” sul mondo attraverso testi e critiche teatrali, versi, canzoni, spettacoli, al punto che chiamarlo esordiente suona un tantino improprio.
Ad ogni modo, è bello aprire un libro e scoprire che non parli di pandemia o di camorra, di caporalato o di amori criminali, temi di per sé serissimi quando non vengano affrontati con quella morbosità cronistica – più per malafede dell’imprenditoria editoriale che per scelta libera degli autori – dalla narrativa contemporanea, quel fare le pulci a realtà che abbiamo sotto gli occhi ogni giorno, quel mostrarne il verso e il recto per poi, al momento opportuno, tirarsi indietro e avvertire: io vi ho solo mostrato ciò che accade, a voi il giudizio morale. No, non è così che si fa. Anzitutto perché se ti metti su quella strada e non sei Roberto Saviano rischi di diventarne uno stanco epigono; in secondo luogo perché romanziere e poeta non sono costretti ad essere anche sociologi, se è vero, come sosteneva qualcuno, che l’arte non ricerca la realtà ma pone le condizioni per ricrearla. E non c’è nulla di più artistico (e di più complesso) che creare la realtà dalla realtà stessa, vale a dire ingaggiando una strenua battaglia contro una micidiale forza centripeta.
Ecco che Simone Nebbia, volgendo le spalle a un passato storico che ha perfettamente assimilato e impastandosi al presente, crea in Rosso antico una realtà romanzesca dove il simile e il verosimile, la fonte e la sua messa in scena, si inseguono equiparandosi, alla maniera di un narratore onnisciente. Sì, perché la vicenda che trova spazio in Rosso antico è quanto di più antiévénementiel non si potrebbe immaginare. L’avvenimento è il Sessantotto, la braudeliana increspatura di superficie che un lento lavorio sottomarino ha preparato, ingigantito, e finito per sommergere del tutto generando una risacca vertiginosa (un tempo la si sarebbe detta lunga durata) che giunge fino al Duemilaotto, alle plaghe di una generazione, tra il dissoluto e il devoto ai paterni altari, impegnata in una mobilitazione studentesca ribattezzata “l’Onda” che ebbe il grande merito di arrivare dopo un lungo riflusso (intervallato da brevi esperienze, ricordiamo almeno la “Pantera” nel 1990) e il demerito (felix culpa) di non essere divenuta una òla per mancanza di ascolti, di credito, di sponde da parte di padri e quadri. Differenze, a volte, sottili.
Ma come raccontare un momento storico del quale tutti si sono sentiti in dovere di parlare, con cui tutti si sono misurati con esiti perlopiù deludenti, come mostrare l’essenza di un coriaceo rimosso che ha avuto il destino di rimanere sulla bocca di ognuno? Con grande finezza, Nebbia sceglie di affidare al Sessantotto il ruolo che gli compete nella storia italiana degli ultimi cinquant’anni, quello del Grande Assente o del Grande Incompreso, del mito per sopravvivere. A cosa? Alla sua contropartita storica. Il Sessantotto, certo. Ma pochi mesi dopo, il 1969 ci presentava già un altro Paese, un’altra storia: Piazza Fontana e lo slittamento della lotta dai cortei unificati di studenti e operai all’asfalto delle strade coi feriti a vita o i morti ammazzati, alla clandestinità, alle leggi speciali e agli ergastoli piovuti giù a pioggia e mitigati soltanto dalla dissociazione. Pochi mesi, quindi, e si era già in viaggio verso la fine delle rivendicazioni salariali e studentesche, in una parola: di “classe”. Fino alla pietra tombale di qualunque possibilità di cambiamento radicale degli assetti sociali e culturali rappresentata dalla marcia cosiddetta dei “quarantamila” alla Fiat. Era il 1980.

Per non parlare di coloro (veramente tanti) che verificata la propria coscienza civica sulle barricate sessantottesche, si ritrovarono, di lì a pochi anni, perfettamente integrati in quell’establishment che avevano avuto in animo di ribaltare, vincenti o ripescati di una lotta che si era fatta puramente individuale, tutta interna alla borghesia figlia della borghesia:

“Ma avevamo ragione! […] Lo sentivamo il bisogno di collettività, di incidere nella relazione, inventare contesti, mescolare classi diverse e finalmente uscire dai blocchi della provenienza culturale”.

“Tutto giusto, ma noi oggi invece? Cosa siamo diventati?” (p. 142)

Pochi sono quelli che, smarrito il senso di un’appartenenza nella quale hanno giocato tutta la propria vita, rimangono di colpo maestri senza allievi, afasici oratori o scrittori senza lettere. È ciò che accade al sessantenne Luca Salomè, primo protagonista del romanzo, ordinario di Storia contemporanea e autore di libri di riferimento per generazioni di militanti e studiosi. Una mattina dell’inverno più freddo del secolo, Salomè, dalla scrivania del suo comodo appartamento si accinge a vergare, su commissione dell’editore, le pagine definitive sulla stagione sessantottina accorgendosi di non essere in grado di cominciare. Le parole non arrivano, i pensieri urtano con un sentimento profondo d’inutilità, le idee restano disarticolate (termine tristemente in voga negli anni appena successivi a quel fatidico anno). Dov’è finita quella storia nostra – si chiede Salomè – se oggi, sempre più spesso, non mi riesce che pensarla come mia?

E dunque si trovò costretto a costatare la secchezza dell’inchiostro: la mano destra, pure inarcata a covare il foglio, non faceva nascere nulla, mentre la sinistra aveva smesso ogni arabesco lasciandosi prendere dalla stanchezza a centro pagina; il professor Salomè chiuse le penne e le lasciò, parallele a farsi coraggio, in schiera militare, chiuse nel loro mutismo. (pp. 97-98)

Inizia qui una ricerca che somiglia alla discesa agli inferi di una vita illusa di essere stata spesa al meglio, nella piena onestà intellettuale, a viso e mani aperte dentro un Partito un tempo forte e strutturato – ma, è il caso di sottolinearlo, tutt’altro che vicino al Movimento, nel ’68 come in seguito -, ora disciolto nel patteggiamento storico (in ritardo di trent’anni) con un’annichilente voglia di Centro. Come in una famiglia sopravvissuta alla perdita di un figlio e che ogni dodici mesi si ostina, nelle cene silenziose di televisione, a immaginarne il compleanno. Cos’altro, in fondo, le resta? Il secolo breve del comunismo italiano, livornese per nascita, non per costumi. Come quando Salomè visita la vecchia sede del Partito, ora cantiere ridipinto di “un bianco così bianco da abbagliare” (p. 72), e a terra calcinacci di voci, di riunioni fumose e di sogni collettivi. Il bianco, vuoto metaforico che contiene, assorbendoli, tutti i colori, bianco come lo sfondo di uno scudo crociato, bianco come la resa, come i morti sotto i lenzuoli.
Chi, al contrario, non si è fatto fagocitare dall’erpice del “centralismo democratico” è l’amico e sodale di gioventù Bartolomeo Zerilli, come Salomè docente di Storia ma nell’antinferno di color che son sospesi, il limbo dei liceali. Zerilli ha salvaguardato le sue idee dietro la pelta del disincanto metodico, accettando che ad uccidere la vecchia casa di giovanili militanze sia stata proprio la sua stessa covata di figli prediletti dietro cui non è difficile intuire la nomenklatura degli ultimi anni del PCI e dei primi anni della svolta socialdemocratica. Con l’amico di sempre, protetto dal suo amato stinto maglione rosso a collo alto, Salomè tenterà, in una estemporanea gita al mare, l’estremo recupero di una storia comune uscita fuori vena, per capire se davvero quella generazione abbia poi ottenuto qualcosa o solo il suo disavanzo, pagato in sovrapprezzo al botteghino di un futuro narciso e postideologico.

Dura meno di un giorno, quindi, il Sessantotto smarrito di Luca Salomè, dall’alba al tramonto, correndo verso un esito imprevedibile mentre a dare continuità a quell’increspatura di superficie, nel quarantesimo anniversario di Valle Giulia, è uno studente nostro contemporaneo, che sta tenendo un diario fratello discreto cui affidare frammenti di un discorso politico ed esistenziale durante l’Onda. Si chiama Giovanni Praga, un po’ Emilio scapigliato tardoromantico, un po’ Drogo attendente eterno di nemici che non arrivano:

Siamo una generazione formata per perdere, la nostra coscienza civile è ferma allo scambio delle figurine, ci hanno cresciuti a non accettare caramelle da nessuno, neanche da un parente o un vicino di casa, così adesso non sapremmo riconoscere un essere umano neanche in un documentario di Quark. (pp. 75-76)

Si resta impressionati dalla saggezza di questo ventenne, di sinistra senza partito, e pensiamo con dolore a quanti come lui abbiamo perso per strada, a quanti di lui eravamo noi, a quanto non lo siamo mai stati, alle scintille lasciate a spegnersi per stanchezza o disattenzione. Praga, che dalla pancia del corteo segue ne percorre le zone esterne, ne disegna i percorsi, ne tiene ancora un capo, ancora una coda, necessario come un filosofo che sussurra dubbi dove altri gridano certezze.

Com’era? Noi vogliamo tutto. E lo vogliamo adesso […] E per volerlo adesso bisogna andare chissà dove abbiano delocalizzato. Dispersivo seguire il lavoro che sguscia da tutte le parti come un pesce di fiume che proprio non ci vuole stare. Non è sparita la lotta, semmai – peggio – è sparito il campo di battaglia. (pp. 59-60)

La sua sul mondo, ricordate?
Praga e Salomè, destinati a sfiorarsi, nelle malebolge dello Studium Urbis, senza reciproca memoria, senza legittimazione o nell’ammirazione unilaterale del giovane per il maturo, tra l’abisso del reale e l’abisso dell’ideale, tra la pràxis e la theôrēsis, in una storia che consente asimmetriche sovrapposizioni ma mai saldature.
Leggevo il diario di Giovanni Praga, novello Chateaubriand a Waterloo, e ricordavo le mie peregrinazioni di tesista, in quei corridoi, secoli fa preposti alla discussione critica del sapere; leggevo e ricordavo, lì, al secondo piano della Facoltà di Lettere, un uomo mai visto né ascoltato (una stanzetta con targa annessa ne serba inadeguata memoria). Si chiamava Gustavo Vinay, emerito docente che nel 1967, alla fine di un’epoca storica, si rivolgeva ai suoi maestri degli anni Trenta e Quaranta, di un’università ancora imbevuta di quel crocianesimo sceso dall’alto come asserzione di verità, come religione, a quei professori amati e contestati ma certo infinitamente più grandi dei nostri: “Io ero sangue del vostro sangue, sangue della vostra storia-che-ha-un-senso e per voi io crepavo dentro prima di crepare fuori”.[1] A noi restavano invece quelli che volevano insegnarci l’Accademia coi figli sistemati nei migliori college statunitensi, quelli della ricreazione finita, quelli di Piazza Navona che “con questo tipo di dirigenti non vinceremo mai!”, quelli dello stringiamci a Coorte di assistenti e dottorandi di cui, forse, come diceva il celebre film, ne rimarrà soltanto uno, dietro i volti dei Salomè e dei tanti più tristi di lui poiché in carne e ossa. Gli intellettuali organici della dimenticanza. Non si leggono perciò senza saltare dalla sedia le parole che Giovanni Praga sembra aver strappato da ogni nostro silenzio di ex giovani ed ex lavoratori, ex studenti ed ex laureati:

Voi che occupate e gestite il potere, voi che conservate il vostro tempo come unico e ultimo degno, voi che pian piano morite non lasciando traccia, non siete che i figli rimasti, quelli che hanno conquistato posizioni dal disarmo degli altri, che hanno occupato posti che non gli spettavano, nutriti di sangue altrui. (p. 165)

Meditate che questo è stato. Davanti a cotanto inquisire solo il bacio di un cristo dostoevskiano potrebbe redimervi.
Ho toccato fin troppi punti, rapsodicamente e in modo confusionario. Me ne scuso ma Rosso antico è davvero un libro gremito come un termitaio, una di quelle opere che quando ne parli non sai come chiudere né vorresti. Dirò quindi che ciò che infine lo rende uno dei testi più originali degli ultimi anni è il linguaggio, l’ossessione di Giovanni Praga di “contemplare nella forma la bontà dei contenuti” (p. 89), lo strumento che gli scrittori usano per rimodellare il mondo, la guerra senza quartiere con le parole, il sacrificio di indietreggiare affinché vincano loro, o più semplicemente ciò che i critici chiamano stile. Simone Nebbia, come una forza del passato, raccoglie una tradizione sparita e si pone tra gli ultimi stilisti della narrativa novecentesca. Alto, immaginifico, raffinato fino alla poesia, ricercato senza cedere all’autocompiacimento e a quello “scrivere oscuro” di cui Manganelli tesseva l’elogio.
Un recensore, dalle colonne di un importante settimanale, ha parlato per Rosso antico di “una prosa lavorata”. Giungerei a dire fulgida, come mostra fin da subito quel Prologo vero e proprio pezzo di bravura, nel gioco elegante di citazioni implicite che vanno dall’incipit leopardiano: “Il vento è freddo in questa notte di mezzo inverno” (p. 9), alla descrizione di una metropoli che sdorme, avrebbe detto uno degli eteronimi di Pessoa, Bernardo Soares, quando Nebbia scrive della

realtà ululante dei supermercati chiusi ma con la luce ancora a giorno, telecamere nascoste, cimici, intercettazioni satellitari, i circuiti chiusi delle banche, grida nella notte questa città tappezzata di manifesti di propaganda elettorale, concerti, spettacoli, svuotacantine, oscuravetri attaccati ai semafori insieme con gli adesivi di battaglie perse prima ancora di essere combattute […] (pp. 10-11)

Un turbinio reso visibile dalla camera a schiaffo sulla penna di Nebbia, famelico e vigliacco brulichio di mosche che si riproducono per partenogenesi dalle crisi del capitalismo con evidente, sentito omaggio all’ultimo Paolo Volponi. Per chiudersi, e non è che l’inizio, con echi gaddiani ma spezzati come sul pentagramma di un verso:

 

Attorno la notte.
Sfinita, quasi l’alba. (p. 11)

 

Una scelta stilistica, sia chiaro, che non nasce dalla necessità (pur legittima) di mettersi in mostra da parte dello scrittore emergente ma che costituisce una consustanza del capolavoro e della materia di cui Nebbia s’è fatto scriba. Accettando, anzi, il rischio che tale partitura così impervia renda la lettura a tratti impegnativa.

Che questo pericolo venga recepito come valore aggiunto di un libro di cui si sentiva da troppo tempo il bisogno è infine mia speranza.

Daniele Orlandi

[1] G. Vinay, Pretesti della memoria per un maestro, Spoleto, CISAM, 1993, p. 125.


Simone Nebbia (1981) è un critico teatrale, e ha una formazione interamente letteraria. Animatore del quotidiano di informazione teatrale online www.teatroecritica.net, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de «I Quaderni del Teatro di Roma», periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume Il declino del teatro di regia (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa) e collaboratore della rivista Orlando (Giulio Perrone Editore) diretta da Paolo Di Paolo. Ha collaborato con il programma di Rai Scuola Terza Pagina. Nel 2013, per l’editore Titivillus, ha pubblicato il volume Teatro Studio Krypton. Trent’anni di solitudine. Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Copertine e schede editoriali (341-350) – Arianna Fermani, Marino Gentile, Maurizio Migliori, Luca Grecchi, Rodolfo Mondolfo, Salvatore A. Bravo, Claudia Baracchi, Diego Lanza, Carmelo vigna, Gherardo Ugolini, Massimo Stella, Daniele Orlandi, Roberto Fumagalli.

341-350

341
Arianna Fermani, «Senza la speranza è impossibile trovare l’insperato». La speranza “antica”, tra páthos e areté.
ISBN 978-88-7588-258-7, 2020, pp. 48, formato 140×210 mm., Euro 7 – Collana “Il giogo” [113]. In copertina: Joan Miró, La speranza, 1946.

342
Marino Gentile, Il problema della filosofia moderna.
ISBN 978-88-7588-260-0, 2020, pp. 144, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [114]. In copertina: Maurits Cornelis Escher, Mano con sfera riflettente (Autoritratto nello specchio sferico), 1935.

343
Maurizio Migliori, Luca Grecchi, Tra teoria e prassi. Riflessioni su una corsa ad ostacoli. Introduzione di Carmelo Vigna.
ISBN 978-88-7588-262-4, 2020, pp. 144, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [115]. In copertina: Paul Klee, Revolution des Viaducts (Rivoluzione del viadotto), 1937. Hamburger Kunsthalle, Amburgo.

344
Rodolfo Mondolfo, Alle origini della filosofia della cultura. Introduzione di Renato Treves.
ISBN 978-88-7588-264-8, 2020, pp. 224, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “Il giogo” [116]. In copertina: La Metopa di Atlante del Tempio di Zeus a Olimpia (460-450 a.C. circa). Olimpia, Museo Archeologico.

345
Salvatore A. Bravo, L’umanesimo integrale di Massimo Bontempelli. Filosofia Storia Pedagogia.
ISBN 978-88-7588-176-4, 2020, pp. 128, formato 170×240 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [117]. In copertina: Paul Klee, Einst dem Grau der Nacht enttaucht … (Dapprima innalzatosi dal grigiore della notte …), 1918, Berna, Kunstmuseum.

346
Claudia Baracchi, Filosofia antica e vita effimera. Migrazioni, trasmigrazioni e laboratori della psiche.
ISBN 978-88-7588-245-7, 2020, pp. 112, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [111]. In copertina: Scultura Gandhara.

347
Diego Lanza, Lo stolto. Di Socrate, Eulenspiegel, Pinocchio e altri trasgressori del senso comune. Prefazione di M. Stella: La storia incantata. Diego Lanza narratore e antropologo dello ‘stolto’. Postfazione di G. Ugolini: Del ridere e del conoscere: la stultitia secondo Diego Lanza.
ISBN 978-88-7588-255-6, 2020, pp. 448, formato 140×210 mm., Euro 35 – Collana “Il giogo” [118]. In copertina: Anonimo, Il mondo sotto il berretto del matto, 1600 ca. Norimberga, Germanisches Nationalmuseum.

348
Daniele Orlandi, Scrivere il risentimento. Su Jean Améry.
ISBN 978-88-7588-259-4, 2020, pp. 112, formato 130×200 mm., Euro 12. In copertina: Giuditta Tanese, Ritratto di Jean Améry, 2019.

349
Rodolfo Mondolfo, Moralisti greci. La coscienza morale da Omero a Epicuro.
ISBN 978-88-7588-266-2, 2020, pp. 192, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “Il giogo” [121]. In copertina: J.-L. David, La morte di Socrate (particolare), 1786-1787. New York, The Metropolitan Museum of Art.

350
Roberto Fumagalli, Carlo Michelstaedter. Filosofo, poeta e mistico.
ISBN 978-88-7588-232-7, 2020, pp. 344, formato 140×210 mm., Euro 30 – Collana “Il giogo” [119]. In copertina: Carlo Michelstaedter, Autoritratto.



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Daniele Orlandi – Lettera a una madre sul primo amore

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286 ISBN

Daniele Orlandi

T. Lettera ad una madre sul primo amore

Disegni di Sara Prebottoni

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La decisione era stata presa. La richiesta fu talmente accorata che non mi parve responsabile rifiutare né indagare oltre con imbarazzanti domande, del tipo: “Perché proprio a me?”. Una ragione esiste, ovviamente, ma è bene che resti privata.

Ho conosciuto Daniele alle materne e insieme abbiamo frequentato anche le scuole elementari. Avevamo entrambi il nitido ricordo del primissimo giorno, quando, attendendo timorosi e spaesati l’appello per la suddivisione delle classi, ci incontrammo nel cortile lanciandoci in uno di quei goffi abbracci tipici dei bambini. Ora che eravamo capitati nella stessa sezione, avevamo meno paura di abbandonare le mani delle nostre protettive mamme. All’inizio fummo molto uniti (siamo stati due competitivi consumatori di One O One e Kinder Cioccolato davanti a una balia di televisione). Successivamente, com’è naturale, questo legame tese a diluirsi nelle maggiori combinazioni di amicizie di una classe numerosa ma non si annacquò mai del tutto. Se parto da così lontano è anche per testimoniare della grazia di quella bambina che è qui indicata solo con la sua iniziale: per quanto non la conoscessi che di vista, T. era davvero bellissima.

Tuttavia, sebbene io abbia di quel periodo un ricordo felice, le mie memorie degli anni ’80 non raggiungono la precisione quasi patologica dell’amico Ferri (il cognome è fittizio). Lo chiamo amico, in senso lato. Come si evince da queste pagine, la nostra frequentazione era divenuta insieme occasionale e continuativa. In sostanza, il tempo ci avrebbe resi più che conoscenti e un po’ meno che amici. Ma sapevo abbastanza della sua storia familiare. Ricordo che la Pastorella ci ammoniva spesso sulla necessità di non prendere in giro i rispettivi parenti: “Non scherzate con le famiglie altrui, è un comportamento odioso! Daniele, ad esempio, ha il fratellino morto”. Conoscevo la madre, molto meno il padre ed ero al corrente anche dei suoi attacchi di panico, per quanto non così in dettaglio. Inoltre, ci legavano i medesimi studi che rappresentavano la base delle nostre chiacchierate, improvvisando lungo la via, davanti a un caffè o ai “giardinetti” di Via Giovanni Maggi, recensioni di libri amati o odiati, letti o da leggere. Magari chissà, da scrivere…

È il motivo per cui nel testo compaiono molti nomi di autori e di opere: per Ferri non erano soltanto libri ma veri e propri personaggi, avversari, bussole che lo avevano accompagnato fin da piccolo. Per agevolare il lettore, se ne dà notizia in nota esclusivamente laddove mi è parso opportuno. Questo poiché, sebbene il mio nome campeggi in copertina, l’autore di questa storia è in realtà Daniele Ferri di cui raccolsi le confidenze e una moleskine rossa a quadretti durante un tardo pomeriggio autunnale. “Non voglio farlo diventare un romanzo per due ragioni:”, diceva, “perché non ne sarei in grado e perché, come puoi immaginare, non lo è. È una lettera. In un doppio senso, se vuoi… Resta il fatto che come a scuola c’insegnavano che per un punto passano infinte rette, attraverso queste mie righe passa una e una sola lettera. Oltretutto, non sopporterei di figurare quale autore di una storia così sfacciatamente personale. Sarebbe ridicolo. Se proprio ci tieni, fammi tu da prestanome!”. E giù una secca risata ma con gli occhi che non sorridevano, com’era abitudine di Daniele. Finì che la condizione del prezioso regalo appena ricevuto fosse che avrei dovuto distruggerlo. Prima o dopo averlo letto, per lui non faceva differenza. Voleva vivere senza più l’assillo di quelle parole esistenti da qualche parte. Eppure, proprio lui che le aveva scritte per impellenza memorialistica, per terapia, per disperazione o che so io (si scrive per una spessa nube di motivi), non ne sarebbe stato capace. Non lo biasimo. Per un autore consapevole, ogni libro è un figlio destinato al ripudio e un rimorso senza termine. Ferri sapeva bene chi riesce davvero a lasciare dietro sé terra bruciata di solito agisce immediatamente o solo in punto di morte. Per questo la storia della letteratura è ingombra di agende, quaderni, fogli ritrovati per caso in cassetti, bauli, scaffali che il tempo ha custodito a tradimento. “D’accordo, Daniele, così sia”, dissi.

Ma non più tardi di un mese dopo l’impensabile era già accaduto e l’impegno di conservare quel taccuino senza aprirlo sfociò immantinente in una lettura tutta d’un fiato. Se taccio della sorpresa, dei rammarichi e di ogni altro sentimentalismo è perché non aggiungerebbero nulla al progetto di una pubblicazione senza scopo di lucro ma unicamente quale dono ai pochi intimi che, sapevo, avrebbero apprezzato con triste gioia. “Le due donne per cui ho estratto queste pagine dalla cava di marmo della memoria non le leggeranno mai”, scrive Ferri sul finale del libro. Mi rimorde, Daniele, non aver potuto nulla in tal senso. L’editore si disse favorevole, del resto, non temevamo nulla. Daniele stesso ci era venuto in soccorso: se si escludono gli elementi storico-geografici che fanno da cornice ai fatti narrati, questa – come si usa dire – è un’opera di fantasia dove ogni riferimento a persone realmente esistite è da considerarsi puro frutto del caso.

Io, dunque, sono soltanto il curatore di un manoscritto che si presentava datato 16 luglio 2016 e non più aggiornato ma i punti di discontinuità fra i temi trattati, l’incostanza grafica e stilistica, e le alternanze di biro blu e nera denunciavano una stesura rapsodica, bisognosa di assemblaggi, raccordi e fusioni. Finché ho potuto, non ho modificato una virgola del testo originale. Quando con frecce rimandanti al margine, Ferri appunta multiple opzioni lessicali o grammaticali si è proceduto cercando di snellire il più possibile ridondanze e indigeste ripetizioni. Laddove è stato opportuno intervenire per collegare due parti o dirimere un nodo della narrazione, ho fatto del mio meglio per mimare lo stile non invitante dell’autore. Redazionale è anche il sottotitolo: Lettera a una madre sul primo amore. Comprendo che non brilli in originalità ma l’ho scelto in quanto mi sembrava che realizzasse le intenzioni dell’autore: una lettera nella sua doppia accezione di missiva e d’iniziale, oltretutto inserendo quella di Ferri nel novero delle epistole che affollano la letteratura di ogni tempo e paese. Nondimeno confesso che non mi sarebbe affatto dispiaciuto chiamare questo libro Controsaggio sugli attacchi di panico o qualcosa di simile. L’impasto di saggistica e narrativa dello stile usato da Ferri mi ha infatti spesso ricordato l’ibridismo di alcune pagine di Jean Améry, di Primo Levi o di José Saramago, tra gli autori preferiti di Daniele e miei.

Nella tasca interna della moleskine ho rinvenuto un foglio a quadretti contenente un’annotazione autografa di Ferri. Ho ritenuto di riprodurla a mo’ di appendice fotografica in quanto suppongo che Daniele non avesse intenzione di inserirla nell’ambito narrativo eppure è proprio avulsa dal contesto che acquista il suo peso. Questo è stato, dunque, il mio lavoro nell’ultimo anno e mezzo. Se il lettore pensasse ad un’appropriazione indebita, avrebbe in parte ragione. Tuttavia, con i dovuti distinguo, daremmo del ladro a Max Brod che, contrariamente alle ultime volontà dell’amico Franz Kafka, nel 1925 curò l’edizione postuma di Il processo, regalando all’umanità uno dei capolavori della letteratura mondiale?

Vorrei infine aggiungere che se questo volume non fosse stato pubblicato la promessa fatta a T. dal protagonista nelle ultime righe del racconto non potrebbe dirsi del tutto onorata.

Adesso sì.

Questo “taccuino di un vecchio” non fa sconti al lettore. Non si lascia avvicinare facilmente e presuppone una minima conoscenza pregressa dei problemi che affronta. Ferri lo sapeva molto bene e aveva ragione a definirla una “scrittura privata”, come del resto può esserlo una lettera indirizzata a un interlocutore che ci conosce e che quindi avrà gli strumenti per farsene interprete (A quelli che sanno, avrebbe potuto essere una terza dedica all’inizio del volume). Per questo, laddove mi è parso che il testo avesse bisogno di un po’ di respiro ho comunque preferito non intervenire.

Il lavoro è stato lento ma estremamente istruttivo. Durante l’intera trascrizione ho molto ragionato su questioni che conoscevo solo marginalmente. Come il tema dell’agorafobia, ad esempio, le sue molteplici sfumature e complicanze, e della paura contraria ma sorella: la claustrofobia. Più volte mi sono chiesto dove mai l’agorafobico Ferri avesse trovato la forza di resistere nella ressa dei personaggi da lui evocati e come sia potuto accadere che una persona in grado di salire sull’ermetico montacarichi del passato per scendere a -1, -2, -3 e via via fino ai più bui sotterranei del dolore, possa portarsi dietro per così tanto tempo il terrore di prendere un comune ascensore. Resta per me un insopportabile paradosso.

Carissimo Daniele, dolce omonimo compagno, se solo tu avessi avuto nel vivere la vita il dieci per cento della determinazione mostrata nel raccontarla, oggi saresti un uomo risolto ed io non dovrei fare a meno delle nostre casuali e stimolanti passeggiate. Con quest’amarezza insolubile congedo la tua storia e il mio rimpianto.

Questo libro esiste grazie a tutti coloro che ne hanno supportato e sopportato il pigro parto. Concludo quindi ringraziando in particolare Sara Prebottoni, Sante Notarnicola, Carmine Fiorillo, Andrea Grottini, Sara Bolletta, Simone Nebbia, Paola Randazzo, Katia Gibertini e Elio Feliciani. Grazie a Luigi Orlandi, mio padre, che ha accettato di verificare i suoi ricordi sulle mie pressanti domande.

 

DANIELE ORLANDI

Roma, 25 novembre 2017

 


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Daniele Orlandi – Attraverso il prisma dostoevskijano, Camilla Migliori ci invita a considerare l’espressione artistica come un mezzo d’elevazione dell’uomo al di sopra dei suoi limiti.
Daniele Orlandi – Il Medioevo di Camilla Migliori. Invito alla lettura di «Un mondo di cronisti, inquisitori, castrati, sante».

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Daniele Orlandi – Il Medioevo di Camilla Migliori. Invito alla lettura di «Un mondo di cronisti, inquisitori, castrati, sante».

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Il Medioevo di Camilla Migliori

Invito alla lettura di
Un mondo di cronisti, inquisitori, castrati, sante,
Viterbo, Alter Ego, 2013.

 

 

copista   Se potessimo aggiungere una risposta alla celebre domanda di Marc Bloch: «Papà, spiegami a che serve la storia»[1], con cui il grande storico francese apriva il suo imprescindibile classico Apologie pour l’histoire, diremmo anzitutto: serve a portarci da lei. Guai, infatti, a credere il contrario. Era l’errore più frequente che facevamo a scuola, perseverando caparbiamente persino nelle aule universitarie. Capimmo poi che per comprendere il passato non esiste metodo più fallace che pretendere di trascinarlo da noi e indagarlo con le categorie del presente. La stessa affermazione di Benedetto Croce per cui ogni storia sarebbe storia contemporanea[2] rischierebbe di fuorviare, quando non opportunamente chiarita. Se la necessità della ricerca storica nasce sempre da un’esigenza attuale, le epoche remote, al contrario, restano tali poiché prodotto di fattori irripetibili, primo fra tutti la mentalità. No, la storia non si ripete mai: non ne ha possibilità né bisogno.

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Il Medioevo è l’emblema di questa alterità, nonostante le sue molteplici riattualizzazioni (folcloristiche, cinematografiche, ludiche e letterarie in genere). Sembra, infatti, che non esista periodo storico in cui l’uomo moderno e contemporaneo si sia specchiato maggiormente, riconoscendo nei secoli centrali ora l’affascinante esotismo ora la culla della sua civiltà e dei suoi riferimenti culturali. Medioevo come specchio e come alibi, si diceva un tempo tra gli studiosi[3]. Rebus sic stantibus, gli anacronismi si sprecherebbero fatalmente. Anche per questo il lavoro di Camilla Migliori – raffinata autrice e regista teatrale – ci ha particolarmente colpiti: poiché corazzata da una vasta ed eterogenea bibliografia (che va dalla scuola classica italiana all’erudizione tedesca passando per le suggestioni della nouvelle histoire francese) e soprattutto per la sua correttezza filologica. Si tratta di un libro composito che spazia dal XIII secolo (Un cuore che non trema. Enrico di Cornovaglia) all’epoca barocca di Urbano VIII Barberini (Io sono un virtuoso) fino alla Palermo settecentesca e agiografica (Il miracolo di Santa Rosalia), dipingendo un «affresco», scrive l’autrice, «in cui mettere in rilievo eventi e personaggi che, seppur ambientati in epoche diverse, parlano della violenza del potere, della prepotenza dell’uomo sull’uomo e dell’intolleranza di chi si pone al di fuori della norma e viene classificato come diverso» (148). Ecco sfilare una gamma di personaggi che incarnano la forma mentis di uomini di diverse stagioni storiche, come in un implicito Essai sur le moeurs. Osti e locandiere, pellegrini e mendicanti, frati e inquisitori controriformati (ricordiamo che ad accendere l’Europa di roghi non fu propriamente il Medioevo ma l’Età Moderna!). Dramatis personae calate in contesti disomogenei a fungere da reagenti per «afferrare una visione più ampia che ci riporta a una realtà tutta contemporanea» (ibid.). Non era facile. Il Novecento italiano si apriva col Medioevo a teatro ed era la Francesca da Rimini (1901) di Gabriele D’annunzio (con la Duse nel ruolo della celeberrima lussuriosa e Gustavo Salvini in quello del più muto della letteratura mondiale: Paolo Malatesta). Da Dario Fo a Umberto Eco i precedenti rischiavano di fare abbastanza ombra. Eppure, con sapienza, equilibrio e ironia (affidata, quest’ultima, alla saggezza popolare), Camilla Migliori riproduce a tinte ora fosche ora lievi, lo Zeitgeist dei periodi via via in questione.

TYP-416237-4161124-salimbene01gPotrebbe finire qui, il nostro “invito alla lettura”, se non fosse per la particolare attenzione che – da ex curiosi del Medioevo – abbiamo prestato alla pièce più corposa, ambientata per l’appunto nel Basso Medioevo. Un cuore che non trema. Qui, la storiografia è affidata alla figura del cronista medievale, vecchi e nuovi relatori universali poi sempre più annalistici, sulla scorta di Livio, ab urbe condita, fino ai giorni contemporanei all’autore. «Quelli che ne scrivevano con qualche intenzione artistica», afferma De Sanctis, «la dettavano in latino e la chiamavano storia»[4]. Ecco, non a caso, entrare in scena uno dei massimi cronisti del Duecento, frate Salimbene de Adam parmensis, autore della Cronica metà guelfa, metà ghibellina e coeva ai fatti narrati da Camilla Migliori[5].

 

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     Viterbo. Patrimonio di San Pietro. Il conclave più lungo della storia della Chiesa (1006 giorni), 1268-1271, sta tenendo col fiato sospeso fedeli e regnanti di tutta Europa. La Fazione filoangioina e quella ghibellina determinano lo stancante andamento della santa assemblea. Persino fra’ Bonaventura da Bagnoregio rifiuterà l’elezione. Ne deriva una rivolta popolare che sfocerà nella semisegregazione dei cardinali (clausi cum clave, sotto chiave) nel palazzo papale di Viterbo finché non avrebbero dato al soglio pontificio un successore. Sarà Tebaldo Visconti ad indossare la tiara col nome di Gregorio X che con la costituzione apostolica Ubi Periculum (1274) normalizzerà le nuove regole per l’elezione dei papi. Tratteggiato lo sfondo, l’autrice dà il via all’intrigo, ricordato per altro da Dante nel XII dell’Inferno sulle rive sanguinose del Flegetonte:

Mostrocci un’ombra da l’un canto sola,
dicendo: “Colui che fesse in grembo a Dio
lo cor che ‘n sul Tamisi ancor si cola
(118-120)

Montfort_smrt

  Il riferimento è a Guido di Montfort, vicario di Toscana per Carlo d’Angiò che durante il conclave si rese responsabile, insieme al fratello Simone, di «una laida e abominevole cosa»[6], per dirla con le parole impressionate di Giovanni Villani, il maggior cronista del Trecento: l’omicidio in chiesa di Enrico di Cornovaglia (reduce dall’ottava crociata), nipote di Enrico III d’Inghilterra per vendicare la morte del padre. Era il 13 marzo 1271. Personaggio tormentato che deve aver avuto un notevole ascendente su Camilla Migliori tanto da scolpirlo nella sua complessità in un dialogo intenso con una simbolica pellegrina in visita alle sacre reliquie romano-laziali. Tuttavia, a noi che forse indebitamente continuiamo a definirci medievisti, le figure che più colpiscono sono Carlo d’Angiò e Marghertita Aldobrandeschi, moglie del tiranno Guido di Montfort. Questo poiché, sia pure caricato dal polso appassionato dell’autrice, nel personaggio di Carlo compaiono due problemi centrali della politica medievale: quello del difesa del regno e della “ragion di Stato” che viene man mano arricchendosi di una sorta di machiavellismo cristiano: «È bene tenersi lontano dalle piccole, talvolta meschine manovre che agitano la mente degli uomini comuni e che non fanno la Storia» (47). Inoltre, emerge nella figura dell’angioino quella concezione della regalità sacra attribuita ai sovrani, francesi e inglesi in particolare, che costituisce un fenomeno di “lunga durata” nella vicenda storica. Che dire, infine, di Margherita? Camilla Migliori ne fa un ritratto di donna moderna – «Mio marito, un uomo che mi è estraneo» (31) –: una seconda Eloisa, sfortunata e scandalosa amante del maestro di teologia Pietro Abelardo (XII secolo). O il suo aspetto forse più squisito, quel dissidio romantico tra la realtà di un matrimonio politico e l’ideale di una vita al di fuori del gretto provincialismo che le diviene prigione («Sono una donna infelice!» [29]). È, mi si passi il periclitante paragone, una sorta di bovarismo avanti lettera.

     Ecco dunque, che un’opera dimostra come sia possibile andare oltre la semplice ricostruzione storica senza per questo cadere in incongruenze e anacronismi e rimandarci molti motivi della nostra contemporaneità dove la presunta e mitizzata oscurità dei “secoli bui” appare purtroppo davvero realizzata.

Daniele Orlandi


[1] M. Bloch, Apologia della storia, (1949), trad. it., Torino, Einaudi, 1969, p. 23.

[2] B. Croce, La storia come pensiero e come azione, Bari, Laterza, 1938, p. 5.

[3] Cfr, AA. VV. Medioevo: specchio e alibi, (Ascoli Piceno, 13-14 maggio 1988), a cura di Enrico Menestò, Spoleto, CISAM, 1997.

[4] F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Roma, Newton Compton, 1997, p. 86.

[5] Cfr., Monumenta Germaniae Historica, Scriptores, XXXII, Lipsia, 1905-1913, 775 S. 11 Taf.

[6] G. Villani, Nuova Cronica, a cura di Giuseppe Porta, Parma, Fondazione Pietro Bembo/Guanda, 1991, pp. 386-389.


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Dostoevskj

Camilla Migliori, Dostoevskij. Il destino di uno scrittore, la libertà di una coscienza, Aracne, 2016, pp. 270, € 12.

Ai vertici della letteratura universale si incontra l’opera di Fëdor Dostoevskij (1821-1881). Una letteratura tanto grande quanto enormi sono i temi – il tema, a ben vedere – che essa affronta: l’indagine spietata sul senso dell’esistenza, dal “sottosuolo” dell’animo umano fino all’eventualità (e, talvolta, al rimpianto) di Dio. I frutti della strenua ricerca vengono declinati in romanzi filosofici imperituri – da Povera gente (1846) a I fratelli Karamazov (1880), passando per Memorie dal sottosuolo (1864) e Delitto e castigo (1866), solo per citarne alcuni – dove il grandangolo dello scrittore russo si allarga via via ad inglobare l’intero enigma-uomo. Chiavi d’accesso ne sono la povertà e la ricchezza, la colpa e l’espiazione, la fede e l’ateismo, perenni irrisolvibili dicotomie.
Se fosse possibile comporre in un’unica degna citazione le molte anime che formano il «magma dostevskiano» (p. 181), sceglieremmo senza dubbio alcuno un luogo dell’intercessione di San Bernardo alla Vergine: «[…] Questi, che da l’infima lacuna/ de l’universo infin qui ha vedute/ le vite spiritali ad una ad una» (Dante, Par., XXIII 22-24).
Dopodiché, per pudore, più non diremmo.
Siamo invece chiamati a parlare di Camilla Migliori – regista teatrale, drammaturga e pittrice, con una quarantennale carriera alle spalle – e del suo coraggioso e appassionato confrontarsi con il creatore di Ivan Karamazov. Un dialogo ininterrotto che approda, per ora, a questa raccolta di tre testi teatrali basati sulla biografia e sulla poetica dell’autore. «Ne sono stata influenzata», confessa l’autrice, «coinvolta, a volte perseguitata e in ogni mio lavoro c’è una traccia che rimanda al pensiero del grande scrittore» (p. 5).
Dostoevskij. Il destino di uno scrittore, la libertà di una coscienza. Si tratta, ripercorrendolo di propria mano, del tentativo di illuminare il percorso spirituale dell’uomo Dostevskij riverso nelle opere fino a coincidere con esse. Vorremmo dire, fin da subito, che si è altresì davanti a un esempio pregevole non solo di costruzioni dialogiche da parte di Camilla Migliori ma anche di un’immersiva investigazione e trasposizione dell’autrice nell’autore, sia pure sotto le mentite spoglie di un narratore-personaggio. In questo senso, si potrebbe affermare che il contributo di Camilla Migliori alla comprensione del messaggio dostevskiano sia anche questo: Fëdor è destinato a divenire il doppio autobiografico di ogni artista che abbia un altissimo concetto dell’arte, impossibile da svilire in mere indagini di mercato.
Non è la prima volta che l’autrice va ingaggiando un corpo a corpo con classici che hanno scoraggiato (e spesso sconfitto) molti suoi colleghi. Abbiamo già avuto l’onorevole occasione di parlarne e di apprezzare la profondità dello scavo nonché l’eleganza del suo tocco prefando La carriera di Edipo (2015), mise en abyme della tragedia sofoclea. Allora parlammo di gioiello letterario. Nel presente caso rinnoviamo convintamente l’impressione.
Fotogrammi di una vita è il primo e più cospicuo capitolo di questa trilogia. Vi sono rappresentate, con fluido montaggio, le più significative stazioni della vicenda biografica dello scrittore, inesauribili fonti d’ispirazione per le sue opere. I lutti genitoriali in tenera età, le prime letture di Puškin e Turgenev, il tormento dell’epilessia, le difficoltà economiche, la morte di due adorati figli, il primo romanzo e l’avvicinamento – mai acritico – al socialismo utopistico di marca fourieriana, fino all’arresto e alla condanna a morte per attentato allo Stato poi commutata in quattro anni di lavori forzati nelle lande siberiane e cinque di esilio. Nasce in tal grembo quel grande affresco dell’universo concentrazionario che è Memorie di una casa di morti (1861-1862). Esperienza, quest’ultima, che costituisce uno spartiacque nella vita dell’autore, nell’esatto momento in cui il plotone d’esecuzione lo sta consegnando al nulla: «La consapevolezza che ciò è inevitabile. Questa è la coscienza del vero dolore» (p. 188).
Particolarmente pregnante è la messa in scena della differenza tra i due maggiori scrittori russi del tempo, Dostoevskij e Lev Tolstoj. Per l’autore di Anna Karenina, lo scontro tra Bene e Male può essere descritto solo oggettivamente, come frutto dei conflitti interni alle società mentre per Dostoevskij è il cuore umano l’unico vero «campo di battaglia» (p. 212) della guerra tra Dio e Satana. Siamo davanti a un Dostoevskij che ha abbandonato la poetica del realismo puro in favore di uno sguardo introspettivo nel pozzo della psicologia umana, «capace di riunire in sé tutti i possibili contrasti e di contemplare a un tempo i due abissi» (p. 216) dell’ideale e della degradazione.
In Dostoevskij. Un uomo, una moltitudine, secondo tempo del trittico, protagonisti sono lo scrittore e i suoi personaggi, in un momento scenico onirico e metaletterario di grande suggestione. Qui emergono in straordinaria sequenza i nuclei tematici maggiori del suo pensiero. Colpisce particolarmente l’interrogarsi sul problema del Male e segnatamente nei confronti degli innocenti, che sembra sconfessare o di certo mettere in discussione i disegni divini. E non può non venire in mente la domanda principe che Primo Levi pone al mondo, quasi al termine della sua lunga riflessione su Auschwitz, nel capitolo Vanadio del Sistema periodico: «Perché i bambini in gas?».
Infine, in Conversazione. Da Dostoevskij a Tarkovskij, Camilla Migliori mette in scena un dialogo tra un editore affarista e uno scrittore iconoclasta di se stesso e dedito alla difesa del supremo senso dell’arte e non sarà casuale il riferimento a Tarkoskij, regista inviso al regime stalinista per la scelta di seguire la libera ispirazione contro il diktat di un’arte asservita alla costruzione dell’uomo nuovo sovietico. Il cerchio dunque va chiudendosi dove l’abbiamo aperto seguendo la medesima circonferenza tracciata da Camilla Migliori. Attraverso il prisma dostoevskijano, l’autrice ci invita a considerare l’espressione artistica come un mezzo d’elevazione dell’uomo al di sopra dei suoi limiti, nel senso più nobile del termine. Se non negli abissi del cielo e della terra, certamente in quello della complessa, mutevole personalità di Fëdor Dostoevskij, luogo nel quale l’opera di Camilla Migliori fa, ancora una volta, da affidabile guida e lucerna.

DANIELE ORLANDI


I libri di Camilla Miglori

Un cuore che non trema

Un cuore che non trema

Noie, paranoie, piccole manie

Noie, paranoie, piccole manie

Narrativa in scena

Narrativa in scena

Le donne e il loro dòimon

Le donne e il loro dòimon

L'era del granchio

L’era del granchio

Effetto Mozart

Effetto Mozart

Crimini, finzioni, misfatti

Crimini, finzioni, misfatti

Coperta 233_ISBN

La carriera di Edipo

indicepresentazioneautoresintesi


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I sommersi e i salvati
I sommersi e i salvati

Per molto tempo non ci siamo occupati di Primo Levi. Poi, un giorno è morto. Più esattamente, si è ammazzato. Cinque minuti dopo lo abbiamo scoperto uno dei più importanti scrittori italiani. Abbiamo fatto con Levi come con le nostre coscienze: non appena scopriamo di averne una siamo pronti a giurare di esserne gli unici possessori. Così, dall’11 aprile 1987 sono andati via via aumentando amici, lettori, estimatori di Primo. Quasi tutti affermarono di averlo conosciuto, capito, analizzato. Financo di sapere le ragioni del suo suicidio. La critica è cresciuta di pari passo alla morbosità, non c’è dubbio, e in particolare un ristretto (ma agguerrito) gruppo di “esegeti” – che per lo più ruota intorno alla Einaudi e al “Centro Studi Primo Levi” di Torino – si distingue per purismo e settarismo culturale. La casa editrice che fu di Pavese e Ginzburg, di Calvino e Vittorini, e che oggi non esiste più, livellata dalla mediocritas del mercato, si è autoproclamata manutentrice della memoria del chimico scrittore dopo averlo non solo ignorato ma originariamente rifiutato quando il giovane reduce presentava timidamente in via Biancamano il manoscritto del futuro Se questo è un uomo. Era il 1946. Storia vecchia, discussa, demitizzata. Ma storia, appunto. E tale resta. Sopravvalutati che si ergono a portavoce postumi di un sottovalutato. Molta critica primoleviana è infatti composta da libri fotocopia e interpretazioni pretestuose, come a dire che nihil sub sole novum, sed renovata vides, il che non sarebbe affatto male se non fosse che a rompere le uova nel paniere ci ha pensato Levi stesso, con la sua continua opera autoermeneutica. La straordinaria edizione critica di Se questo è un uomo a cura di Alberto Cavaglion ne è l’esempio più concreto e completo. «Il critico», ammetteva Cesare Segre, «non può sbagliare molto con Levi, che si è già spiegato benissimo da solo»[1].
Non stupisce, dunque, che le riflessioni dell’intellettuale piemontese Costanzo Preve (1943-2013) intorno a Levi siano state snobbate dalla storiografia. Che questo filosofo, cresciuto come un fungo nella “sinistra-sinistra” italiana e volutamente ignorato – meglio sarebbe dire “evitato” – dall’accademia poiché «nel bene e nel male unico e non incasellabile»[2], incontrasse il concetto di zona grigia, come venne elaborato dall’autore di I sommersi e i salvati (1986), era fatale. Tra i due poli dello sfruttato e dello sfruttatore esiste, cinerina ed inevitabile, la sfera di collaborazione tra vittime e carnefici, tra bene e male, tra responsabilità opposte, non solo in Lager, ma in tutte le organizzazioni umane create al fine di dissanguare una parte maggioritaria a vantaggio dell’altra quasi sempre minoritaria.

Primo_LeviPtimo Levi

«Solo una retorica schematica», affermava Levi, «può sostenere che quello spazio sia vuoto: non lo è mai, è costellato di figure turpi o patetiche (a volte posseggono le due qualità ad un tempo), che è indispensabile conoscere se vogliamo conoscere la specie umana, se vogliamo saper difendere le nostre anime quando una simile prova si dovesse nuovamente prospettare, o se anche soltanto vogliamo renderci conto di quello che avviene in un grande stabilimento industriale»[3].

Accade lo stesso, vien fatto di pensare, negli ambienti culturali che fanno della filosofia un «chiacchiericcio esibizionistico da caffè letterario» mentre, ricordava Preve, «essa è un campo di battaglia, come ha giustamente detto Kant (Kampfplatz[4]. Grigio era anche quello spazio ideologico che si crea quando le due dottrine storicamente dicotomiche destra-sinistra, nel mondo attuale ormai prive di senso, vengono mantenute vive accanitamente e artificialmente per meri interessi di bottega, vale a dire la geminazione capitalistica. Formulazione mai perdonata a Costanzo Preve[5].
Nella sua mitezza, anche Primo Levi non era certo uno che le cose le mandava a dire. Ad esempio che non fosse un grande lettore di filosofia poiché, ritenendola un affare molto serio, dichiarava la sua difficoltà innanzitutto a padroneggiarne il linguaggio. Un primo parallelismo tra i due si potrebbe fare a partire dal concetto di complessità e comunicazione. Secondo Levi l’essere umano non è una monade e «salvo casi di incapacità patologica comunicare si può e si deve»[6], anche e forse soprattutto comunicare la complessità. In Lager questa era la prima lezione e la prima discriminante tra coloro che avrebbero avuto una minima possibilità di sopravvivenza e il resto, la gran massa anonima dei votati a morte certa. Costanzo Preve guardava alla realtà con lo stesso atteggiamento critico (diremmo analitico e combattivo) pur spostando il tutto sul piano filosofico. «“Complessità”», scriveva, è quella «paroletta che sta al posto di qualsiasi tentativo di interpretazione» della realtà storica e sociale e dunque della sua comunicabilità[7].
In un bel libro del 2000, Il Bombardamento Etico. Saggio sull’Interventismo Umanitario, sull’Embargo Terapeutico e sulla Menzogna Evidente, Preve si proponeva di analizzare «lo scandaloso atteggiamento di indifferenza o di complicità verso le decisive guerre imperiali del 1991 e del 1999»[8], vale a dire la prima guerra del Golfo e la guerra del Kosovo, le prime ad essere presentate con l’ossimoro di “umanitarie”, servendosi di una premessa storico filosofica che ne conteneva anche l’enigma:

«il trattamento differenziato di Auschwitz e di Hiroshima, o meglio, l’intreccio scandaloso di pentimento e di non-pentimento»[9].

costanzo-preve_mrCostanzo Preve

Non entreremo nel vivo del libro, che affronta una serie di problemi filosofici e politici anche slegati dal nostro contesto, e ci soffermeremo su Auschwitz poiché è qui che entrano in ballo Se questo è un uomo e I sommersi e i salvati. Nel primo, che Preve ricorda e sottolinea come libro inizialmente rigettato dal “politicamente corretto”, vale a dire dai grigi, vi era «già quasi tutto ciò che ci serve per inquadrare razionalmente quello che è avvenuto mezzo secolo fa»[10], mentre nel secondo, per l’esattezza l’ultima opera di Levi, il chimico compie un salto notevole dalla letteratura memorialistica alla filosofia suo malgrado (non certo alla maniera dell’altro grande testimone, Jean Améry), ripensando il Lager e l’urgenza della sua riconoscibilità. La chiave interpretativa era quella zona grigia in cui i confini del bianco e nero sfumano in una tragica e tristemente uniforme mistura.
Lo sterminio pepetrato dai nazifascisti ha dato origine, da parte dei vincitori del conflitto, all’amministrazione del pentimento collettivo – quando sappiamo che esso è un moto spontaneo che riguarda le singole coscienze – su scala quasi glabale. Lo sapeva bene Primo Levi quando rispondeva ad Améry che lo aveva accusato di essere un perdonatore:

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Jean Améry

«Non la considero un’offesa né una lode, bensì un’imprecisione. Non ho tendenza a perdonare, non ho mai perdonato nessuno dei nostri nemici di allora, né mi sento di perdonare i loro imitatori in Algeria, in Vietnam, in Unione Sovietica, in Cile, in Argentina, in Cambogia, in Sud-Africa, perché non conosco atti umani che possano cancellare una colpa; chiedo giustizia, ma non sono capace, personalmente, di fare a pugni né di rendere il colpo»[11].

Costanzo Preve, si badi bene, non giustifca in nessun modo il genocidio né cerca pretesti per sminuirne la portata storica. Egli si limita ad osservare come l’orrore di Hiroshima e il suo consapevole doppio a Nagasaki siano stati globalmente assolti con la motivazione di un male necessario, anzi, “etico”. La presunta “salvezza dei nostri ragazzi” è stato il pretesto col quale il governo degli Stati Uniti ha inaugurato l’era atomica, per la quale non è esistito pentimento alcuno.
Ma tornando ad Auschwitz. Qual è dunque la funzione filosofica che, secondo Preve, il racconto di Levi avrebbe avuto? Anzitutto che Shoah e Olocausto, già fuorivianti a partire dai termini impropri con cui sono stati usati, non sono eventi sacrificali mistico-religiosi o satanici ma un momento (il più terribile, probabilmente) di un progetto di dominio imperialista e gerarchico che in un dato arco cronologico ha previsto lo sterminio – non solo degli ebrei – come strumento essenziale al suo coronamento[12]. In secondo luogo, l’attenzione (o la denuncia) di Levi a quella cospicua parte di essere umani che «si lasciano invischiare nella doppia rete dell’inganno ideologico e del meccanismo aziendale di trasmissione degli ordini»[13]. Da qui, il monito: è accaduto, può riaccadere. Le guerre del Golfo e del Kosovo, che – lette con gli occhi di oggi – chiudevano barbaramente il Novecento e aprivano altrattanto disperatamente il nuovo secolo, ne sono diretta filiazione: non del Lager, non del pikadon su Hiroshima, ma del loro differenziato e regolamentato trattamento.
Primo Levi, non-filosofo, ci metteva in guardia contro simili derive. Preve carpiva l’essenza di quel messaggio e l’applicava alla contemporaneità geopolitica e militareEntrambi inascolati, quando era tempo di farlo. Smascherati tali meccanismi, ora che le profezie sembrano, da molti signa, avverarsi, alla politica, se non fosse composta da grigi, andrebbe il compito di fare proprie certe lezioni e vigilare.

     Ma, appunto, andrebbe.

Daniele Orlandi

04-12-2015

 

 

Note

[1] C. Segre, I romanzi e le poesie, in Primo Levi: un’antologia della critica, a cura di E. Ferrero, Torino, Einaudi, 1997, p. 92.

[2] G. Pezzano, Presentazione, in P. Zygulski, Costanzo Preve: la passione durevole della filosofia, Pistoia, Petite Plaisance, 2012, p. 5.

[3] P. Levi, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1997, pp. 27-28.

[4] C. Preve, Una nuova storia alternativa della filosofia. Il cammino ontologico-sociale della filosofia, Pistoia, Petite Plaisance, 2013, p. 456.

[5] Cfr. Idem, Destra e sinistra. La natura inservibile di due categorie tradizionali, Pistoia, C. R. T., 1998.

[6] P. Levi, I sommersi e i salvati, cit. p. 68.

[7] C. Preve, Il Bombardamento Etico. Saggio sull’Interventismo Umanitario, sull’Embargo Terapeutico e sulla Menzogna Evidente, Pistoia, C. R. T., 2000, p. 95.

[8] Ivi, 93.

[9] Ivi, p. 97.

[10] Ivi, p. 98.

[11] P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 110.

[12] C. Preve, Il Bombardamento Etico, cit. p. 100.

[13] Ibidem

 

 

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