Carlo Carrara – Essere e Dio in Heidegger

Carlo Carrara Essere e Dio in Heidegger

Carlo Carrara

Essere e Dio in Heidegger

ISBN 978-88-7588-234-1, 2020, pp. 200,  Euro 20
In copertina: Robert Ryman, Twin (1965).

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La questione centrale del pensiero di Martin Heidegger è la questione dell’essere, ma fin dall’inizio del suo cammino, nei sentieri percorsi, il suo pensare è aperto al problema di Dio e a ciò ad esso inerente.
Per il filosofo tedesco la metafisica occidentale, da Platone a Nietzsche, nasce e si sviluppa come oblio dell’essere, cosicché nulla ne è dell’essere stesso e della sua verità. Ne consegue che nella sua stessa essenza la metafisica è nichilismo.
Il Dio metafisico è il Dio causa sui, il Dio fondamento, ragione e supremo valore, le cui immagini e maschere costruite dall’onto-teologia lungo la storia hanno contraffatto il Dio divino, il Dio che può aver luogo secondo il suo tratto proprio solo in base, a partire ed entro l’orizzonte della verità dell’essere. Solo il Dio divino può salvare l’uomo, nel senso che può liberarlo per la sua essenza propria in quanto esser-ci, dal dominio dell’oblio dell’essere e dalle conseguenze della morte del Dio non divino.
Il favore della svolta nell’essere ancora non concesso, che la dimenticanza dell’essere si rivolti, mutandosi nella salvaguardia della sua essenza, nella disponibilità umana della custodia e dell’attesa, si presenta nel pensiero poetante, che dall’essere conduce al Dio, e nel poetare pensante, che si rivolge al sacro, come una luce nel tempo di povertà della notte del mondo, caratterizzato dall’assenza, dalla mancanza di Dio: «Quando si fa buio non vedo niente, e tuttavia (ci) vedo» (M. Heidegger).


Carlo Carrara è dottore in Filosofia e ha conseguito il Magistero in Scienze Religiose. Si occupa di filosofia contemporanea, antropologia filosofica e del pensiero di Martin Heidegger. Tra i suoi libri si segnalano: La domanda del senso dell’esistere (il nuovo me­langolo, Genova 2013); Solitudine ed esistenza. Kierkegaard, Nietzsche, Unamuno, Heidegger, Jaspers, Sartre, Camus, Marcel, Berdjaev, Abbagnano (Petite Plaisance, Pistoia 2015); In cammino verso il silenzio (Paoline, Milano 2015); L’uomo ancora non pensa. Nei sentieri di Heidegger (Petite Plaisance, Pistoia 2016).



Carlo Carrara
La domanda del senso. Per una filosofia del “ri-trovamento”

[Introduzione di Massimo Bontempelli. In appendice scritti di: Walter Kasper, Dario Antiseri, Luigi Giussani, Abraham J. Heschel, Juan Alfaro, Norbert Fischer, Bernhard Welte, Karl Rahner, Armando Rigobello, Günther Anders, Wolfhart Pannenberg, Norberto Bobbio].

ISBN 88-87296-74-X, 2000, pp. 176,

indicepresentazioneautoresintesi

Il sentiero qui percorso, muovendo i primi passi verso la necessaria chiarificazione della semantica e della polivalenza del termine «senso», seguirà la via del senso come domanda radicale, per poi proseguire sulla via del senso come problema fondamentale, per raggiungere il senso come mistero avvolgente. Tre vie con un unico intento: ri-passare la struttura ontologico-esistenziale ultima umana. Riallacciandosi poi alla situazione propria dell’uomo contemporaneo, il cammino ripercorrerà le tappe della perdita della domanda del senso, per arrivare alla mancanza del senso e all’insensatezza effettiva dominante. Tre vie con un unico intento: ri-levare l’odierna condizione umana. Gli ultimi passi volgeranno verso la ri-cerca responsabile del senso ultimo da parte di ogni singolo uomo, con la ri-proposta della domanda del senso, per un «ri-trovamento» di quanto di più umano vi sia nell’uomo. Infine, alcuni approfondimenti di noti e attuali studiosi, ricondurranno a ripercorrere in modo più particolareggiato i diversi aspetti della questione esaminata.

«[…] l’uomo contemporaneo, in genere, non sente neanche più la necessità di enunciare la scomparsa del senso ultimo, preoccupato com’è a dar vita ai «suoi» sensi; tanto è vero che il suo pensare al senso come mistero avvolgente dura per lo più quanto l’attimo di un lampo, che potrebbe comunque anche folgorarlo; il suo riflettere sul senso come problema fondamentale dura forse poco più di un’ora, giusto il tempo per supporre e dire qualcosa, per poi lasciare nuovamente il tutto sospeso nel vuoto o nel dubbio; il suo percepire il senso come domanda radicale sta invece alla circostanza che lo suscita come il sole sta a un giorno, che potrebbe tanto irradiare quanto accecare, o come la luna sta a una notte, che potrebbe tanto guidare quanto fuorviare, ma in qualunque modo stiano le cose, il domani sarà sempre un altro giorno e un’altra notte.  Per il resto del suo tempo, cioè, per tutto il tempo, l’uomo contemporaneo non fa che pensare, fare e dire «per» questo mondo, «con» questo mondo e «in» questo mondo, a se stesso, in unità con la felicità di questo mondo, da conquistare mediante la ricerca, il possesso e il godimento (per quanto frenetici, esasperati e inappagabili possano essere) di tutti quei beni che il menù del mondo gli offre (potere, denaro, successo, piaceri, divertimenti, ecc.), augurandogli “buon senso!”». «La domanda del senso rimanda al mistero della vita e del mondo che avvolge integralmente l’uomo. Non più risposte a domande, ma domande a risposte; non più soluzioni a problemi, ma problemi a soluzioni; e nemmeno tentativi di pensare qualcosa di ciò che è non ancora pensato, di aspirare a trovare qualcosa di ciò che è non ancora trovato; ma soltanto il mistero che avvolge e coinvolge l’uomo, che lo inonda con le sue imprendibili acque, tenebrose per la sua ragione, sorgente di speranza per il suo cuore» (Carlo Carrara).


 


Carlo Carrara, La domanda del senso dell’esistere, Il Nuovo Melangolo, 2014.

Il sentiero qui percorso, muovendo i primi passi verso la necessaria chiarificazione della semantica e della polivalenza del termine “senso”, seguirà la via del senso come domanda radicale, per proseguire sulla via del senso come problema fondamentale, per raggiungere il senso come mistero avvolgente. Tre vie con un unico intento: ripassare la struttura ontologico-esistenziale dell’uomo. Riallacciandosi poi alla situazione propria dell’esistere umano contemporaneo, il cammino ripercorrerà le tappe della perdita della domanda del senso, per arrivare alla mancanza del senso e all’insensatezza effettiva dominante. Tre vie con un unico intento: ri-levare l’odierna condizione umana. Gli ultimi passi volgeranno nella direzione di una responsabile domanda e ricerca del senso dell’esistere da parte di ogni singolo uomo.


Carlo Carrara, In cammino verso il silenzio, Paoline Editoriale Libri, 2015.

Il testo è strutturato in un centinaio di brevi pensieri sul tema dominante del silenzio. I pensieri, dal linguaggio a volte aforistico e poetico, seguono un percorso, un cammino, che parte dalla costatazione del predominio del rumore, prodotto alienante dell’odierno esistere inautentico dell’uomo, per inoltrarsi nella ricerca dell’autentico significato della parola, dell’ascolto, del dialogo e del rapporto interpersonale. Nel cammino si va via via chiarendo la molteplicità di forme e significati del silenzio, con la radicale distinzione tra le sue forme degenerative e spurie e il suo autentico e profondo significato. L’essere del silenzio si manifesta come la precondizione necessaria e imprescindibile dell’essere della parola, dell’ascolto, del dialogo e dell’altro. Il mondo del silenzio è il luogo del loro esistere autentico, nel bene e nel dono reciproco dell’amore accolto e vissuto concretamente. In questo luogo ogni singolo uomo è chiamato ad amare donandosi.


 


Carlo Carrara,

Solitudine ed esistenza

[Kierkegaard – Nietzsche – Unamuno – Heidegger – Jaspers – Sartre – Camus – Marcel – Berdjaev – Abbagnano]. Prefazione di Angela Ales Bello.

ISBN 978-88-7588-139-9, 2015, pp. 19

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Che cos’è la solitudine? Perché la solitudine è così inscindibilmente legata con l’esistenza umana? Quali e quante solitudini vive l’uomo di questo tempo? In che termini si può parlare di solitudine per l’autenticità e di isolamento dell’inautenticità? Come definire la solitudine in quanto isolamento positivo e l’isolamento in quanto solitudine negativa? Attraverso l’analisi delle opere fondamentali dei maggiori precursori e rappresentanti della filosofia contemporanea dell’esistenza, e con un linguaggio semplice e chiaro, questo libro offre la possibilità di riflettere sul problema e sull’esperienza della solitudine, profondamente connessi con le questioni del fondamento e del senso dell’esistenza umana, con la sua dimensione autentica e con quella inautentica, con il modo di essere individuale, personale, sociale e religioso dell’uomo, con la realtà della sua morte e con la verità del suo destino ultimo.


 


Carlo Carrara

L’uomo ancora non pensa. Nei sentieri di Heidegger.

ISBN 978-88-7588-200-6, 2016

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«La filosofia non è nata dal mito. Essa nasce solo dal pensiero e nel pensiero. Ma il pensiero è il pensiero dell’essere. Il pensiero non nasce. Esso è (ist) in quanto l’essere è (west)» (Il detto di Anassimandro). «Può il pensiero continuare a sottrarsi al compito di pensare l’essere, dopo che questo è rimasto nascosto in un lungo oblio e nello stesso tempo, nel momento attuale del mondo, si annuncia attraverso lo scotimento di tutto l’ente?» (Lettera sull’«umanismo»). «Il pensiero iniziale ha la sembianza della totale marginalità e dell’inutile. E tuttavia, se proprio si vuole pensare a un’utilità, che cosa è più utile della salvezza nell’essere?» (Contributi alla filosofia ‘Dall’evento’). (Martin Heidegger)

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

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Salvatore Bravo – I nuovi «dannati della terra» sono in grado di sfidare la paura. L’essere umano è pensiero, coscienza. per quanto forte sia il condizionamento, nessun potere potrà occupare lo spazio interiore dell’uomo, perché l’infinito è nell’essere umano.

Frantz Fanon 05
Pier Paolo Pasolini, Autoritratto

Salvatore Bravo

I nuovi «dannati della terra» sono in grado di sfidare la paura.
L’essere umano è pensiero, coscienza.
Per quanto forte sia il condizionamento, nessun potere potrà occupare lo spazio interiore dell’uomo, perché l’infinito è nell’essere umano.

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Colonialismi
Vi sono verità che assumono forme contingenti, ma che celano dietro il fenomeno storico l’essenza; lo sterminio degli Ebrei è stato l’anticipazione tragica e rimossa dell’esperienza neo-colonialista che diventava globale e si rendeva mondiale al punto che il fantasma genocidiario da secoli praticato nei paesi colonizzati si è materializzato nella casa europea. Il neo-colonialismo economico e politico – con l’intensificarsi della produzione, con l’instaurarsi della normalità dell’illimitato, incapace di correggere se stesso –, ha portato la sua parabola alle conseguenze estreme: il sistema neo-coloniale è diventato l’archetipo del dominio dell’Occidente al punto che le relazioni quotidiane sono vissute secondo logiche di sfruttamento e dominio. La guerra, diventata interna agli Stati, è il pane quotidiano del sistema globale. Il capitalismo ha la capacità di modificarsi ed adattarsi e, come le dune del deserto, avanza, riempie ogni spazio con la sua polvere, è atmosferico, si fa “respirare” quasi, si nasconde, si maschera, ma la sua essenza resta eguale: plusvalore, dominio, alienazione. Il nuovo totalitarismo assume differenti forme genocidarie, lascia la vittima viva al fine di permetterle di consumare: l’essere umano è solo il consumatore perenne ed instancabile nella cui testa martella l’economia. Ogni resistenza è piegata con l’eliminazione fisica, ma solo se è strettamente indispensabile; contemporaneamente il calcolo e la tattica agiscono secondo razionalità economica, glorificando l’eliminazione con nobili parole quali diritti umani, diritti universali. I gendarmi dell’economia mettono in atto un totalitarismo complesso e sincretico che opera simultaneamente con la normalità dei consumi – unica legge dell’agire –, ma nello stesso tempo opera per debellare ogni sacca di resistenza esplicita con l’omicidio legalizzato. La legge dell’economia e del consumo inducono a persuadere i renitenti che consumare è democratico, e non vi è alternativa; si cerca di conquistarli al mercato prima di eliminare il potenziale investimento. I genocidi tradizionali si concentravano su uno spazio geografico, le coscienze restavano parzialmente libere, malgrado la propaganda ed il terrore.
Nella contemporaneità solo la visione d’insieme, sostenuta dalla forza filosofica del concetto – capace di astrarre dal concreto il concetto stesso – riesce a rendere palese la strategia della nuova forma genocidiaria: essa agisce secondo molteplici e varie modalità e pertanto, mentre colonizza le menti con la religione atea del consumo, elimina ogni ostacolo politico, economico, ideologico alla propria colonizzazione, bombarda in nome dei diritti universali; le due strategie sono da collegare, poiché due volti della stessa medaglia. È il “polemos negativo eracliteo”, in cui una forma genocidiaria può continuare a sussistere se contemporaneamente vi è l’altra.

L’animalizzazione dell’altro
Frantz Fanon, in I dannati della terra, svela meccanismi di potere che prima erano applicati al solo colonialismo ed oggi sono la normale tattica del potere globale. I colonizzatori europei, per giustificare la colonizzazione, rappresentavano i colonizzati come animali, subumani vicini all’animalità e bisognosi del padrone per contenere la loro eccedente bestialità. Il linguaggio era il veicolo dell’animalizzazione, il colonizzato scompariva nella narrazione del colonialista per diventare semplice stereotipo, creatura astratta senza anima o logos. Lo stesso colonizzato si percepiva mediante la rappresentazione del padrone, si pensava inferiore, perché incapace di pensare con categorie che gli appartenevano. Si rendeva impossibile ogni processo dialettico, poiché i ruoli servo-padrone erano sclerotizzati dall’immaginario del potere:

«A volte tale manicheismo spinge fino in fondo la sua logica e disumanizza il colonizzato. A rigor di termini, lo animalizza. E, difatti, il linguaggio del colono, quando parla del colonizzato, è un linguaggio zoologico. Si fa allusione ai movimenti serpeggianti dell’indocinese, agli effluvi della città indigena, alle orde, al puzzo, al pullulare, al brulicare, ai gesticolamenti. Il colono, quando vuole descrivere bene e trovare la parola giusta, si riferisce costantemente al bestiario».[1]

L’animalizzazione è oggi applicata ai nuovi colonizzati, agli occidentali “liberi e benestanti”; il veicolo di trasmissione dell’animalizzazione sono gli innumerevoli mezzi dell’economia tecnocratica con la conseguente riduzione della persona a corpo pulsionale da soddisfare con l’effetto di mortificare la prassi. Così la persona ridotta a solo corpo da misurare e quantificare non concepisce la possibilità della prassi, regredisce ad uno stato puerile che fa del corpo, dei suoi istinti e meccanismi l’unico centro di interesse. Giordano Bruno ci ha insegnato il significato di infinito, ha mostrato quanto l’universo infinito invitava ad un nuovo modo di pensare, mentre l’animalizzazione cancella le grandi conquiste del pensiero per contrarlo alla sola attività somatica, al solo finito corporale, il quale è continuativamente stimolato dal mercato che, mentre cancella il pensiero, invita al desiderio acquisitivo senza confini. I colonizzati sono ora ovunque: nessuno sfugge alla rete dei colonialisti che fanno di ogni mente un mercato, di ogni corpo il territorio dove impiantare le proprie bandiere coloniali.

L’intellettuale
In tale contesto l’intellettuale ha perso aureola e missione; dominato tra i dominati, è solo oratore, molto spesso consapevole, sovente inconsapevole del potere. L’intellettuale colonizzato, fa notare F. Fanon, utilizza lo stesso linguaggio dei coloni, anche quando si fa portavoce della liberazione nazionale. Resta così all’interno del recinto dei coloni e, usando il loro linguaggio, prepara il ritorno dei coloni in forme nuove:

«L’intellettuale che ha, per parte sua, seguito il colonialista sul piano dell’universale astratto, si batterà perché colono e colonizzato possano vivere in pace in un mondo nuovo. Ma quello che egli non vede, proprio perché il colonialismo s’è infiltrato in lui con tutti i suoi modi di pensare, è che il colono, appena il contesto coloniale sparisce, non ha più interesse a rimanere, a coesistere».[2]

L’intellettuale dell’universale astratto rinuncia a capire la verità della realtà storica, poiché occulta i dati materiali delle vite delle persone, le quali sono giuridicamente eguali, ma materialmente diverse, perché i rapporti gerarchici si riproducono per l’ineguale distribuzione del potere, della cultura, delle ricchezze. La normalità con cui i sudditi del passato e di oggi giudicano la condizione che vivono svela la verità di una classe intellettuale che ha abdicato al suo ruolo emancipativo collettivo, per essere parte della strategia di rabbonimento delle masse omologate che trovano negli intellettuali non più guide critiche, pensatori autonomi organici con il popolo, ma solo la cinghia di trasmissione della colonizzazione.
L’intellettuale invece deve impegnarsi a condurre un’opera di sensibilizzazione ed organizzazione contro le strutture mentali che impediscono la prassi e che non risiedono solo nella testa, nelle parole, nelle azioni dei colonizzatori, ma sono anche nei colonizzati. Senza tale attività ogni lotta non può che essere annichilita dagli stessi colonizzati che desiderano essere i nuovi coloni. La forza dei coloni è nella consapevolezza che il colonizzato, il suddito globale, è il suo clone povero, il suo doppio che ambisce ad essere eguale all’originale, la finanza è immaginata come l’iperuranio platonico dai “dannati della globalizzazione”:

«L’intellettuale colonizzato tuttavia, presto o tardi, si renderà conto che non si legittima la propria nazione a partire dalla cultura, ma la si manifesta nella lotta che il popolo conduce contro le forze di occupazione. Nessun colonialismo trae la sua legittimità dell’inesistenza culturale dei territori che domina. Non si disonorerà mai il colonialismo spiegando davanti al suo sguardo tesori culturali mal noti. L’intellettuale colonizzato, nel momento stesso in cui si preoccupa di far opera culturale, non si rende conto che impiega tecniche e una lingua presa a prestito dall’occupante».[3]

Lessico dei dominatori e liberazione
La dispersione dei popoli e delle persone si mette in atto mediante la cancellazione delle identità, ciò che si può concretizzare con l’eliminazione fisica o con l’eliminazione culturale. I coloni parlavano le lingue dei colonizzatori, la loro storia è scomparsa nella narrazione dei colonizzati, oggi la lingua dei popoli è sostituita dalla lingua della cultura vincente: l’inglese. I colonizzati non sono più popoli, ma plebe che parla la lingua del vincitore, pensa come il vincitore. L’esproprio non riguarda solo le risorse naturali, la storia, le identità, ma anche le singole coscienze, poiché con l’intensificarsi delle tecnologie l’asse di attenzione agisce sul macro e sul micro e le coscienze sono irrigidite dal lessico dei dominatori:

«Il dominio coloniale, perché totale e semplificante, ha fatto presto a disgregare in modo spettacolare l’esistenza culturale del popolo sottomesso. La negazione della realtà nazionale, i rapporti giuridici nuovi introdotti dalla potenza occupante, la cacciata alla periferia da parte della società coloniale, degli indigeni e dei loro usi, l’esproprio, l’asservimento sistematizzato degli uomini e delle donne, rendono possibile questa cancellazione culturale».[4]

È necessario riconoscere il nuovo totalitarismo con il suo tatticismo deviante. In questo momento i popoli sono soli davanti al nuovo che avanza, al deserto che assume nuove forme per confondere. Ma la coscienza è dinamica, è il luogo del possibile dove il pensiero prepara i suoi concetti, la sua consapevolezza. La natura pensante dell’essere umano resta, malgrado la diffusione capillare ed infiltrante nelle coscienze del potere. La violenza capitale può ribaltarsi in pensiero dialettico, la pressione continua genera disagio che necessita di “parole nuove” per capire la mortificazione malinconica della globalizzazione.
L’essere umano è pensiero, coscienza che, per quanto condizionabile, nessun potere potrà occupare, perché l’infinito è nell’essere umano. Ricordiamo il frammento 45 di Eraclito nel riprendere la prassi da vivere nel quotidiano: «Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via, tu potresti mai trovare i confini dell’anima: così profondo è il suo lógos».
Non è consolatorio, ma il logos in ogni circostanza della storia ha mostrato di saper riemergere dalle lunghe notti del pensiero. La condizione servile si rafforza con la paura della lotta, con la fuga dal conflitto. Hegel nella Fenomenologia dello Spirito attraverso la figura servo-padrone ci ha insegnato che per decolonizzare la coscienza dalla servitù bisogna vincere la paura.
Il timore del possibile è continuamente indotto dal sistema capitale che orienta le scelte contro ogni “salto nel buio”. Vivendo nella paura gli esseri umani contribuiscono a rafforzare le catene che li tengono avvinti perpetuando appunto il sistema della paura che impigrisce le coscienze ed allontana l’infinito, lo spazio libero del pensiero.

Contro la paura del nuovo ed i suoi rischi diventa fondamentale un nuovo senso critico che ponga al centro l’infinito della coscienza ed i limiti della struttura economica che costringe la coscienza entro una visuale delimitata dai muraglioni dell’economicismo.

Salvatore Bravo

[1] Frantz Fanon, I dannati della terra, Einaudi, Torino 2007, p. 9.

[2] Ibidem, p. 11

[3] Ibidem, p. 153

[4] Ibidem, p. 164



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