Salvatore Bravo – La voce del padrone sulla scuola della sola “quantità”. In campo la «Fondazione Agnelli» ed «Eudoscopio».

Salvatore Bravo–Fondazione Agnelli - Eudoscopio

Salvatore Bravo

La voce del padrone sulla scuola della sola “quantità”.
In campo la «Fondazione Agnelli» ed «Eudoscopio».

Ogni anno “il sistema formativo” attende il giudizio della Fondazione Agnelli. Similmente all’Apocalisse la Fondazione Agnelli con Eduscopio emette il suo giudizio sui vinti e sui vincitori, stila elenchi e graduatorie delle scuole superiori con esiti positivi e performanti, taluni salva, altri boccia. I risultati, ampiamente pubblicizzati, diventano strumento del marketing annuale delle scuole superiori. Le graduatorie e gli esiti, voce per voce, sono usate dalle scuole secondarie vincenti per attrarre iscritti, per divorare e cannibalizzare i perdenti. Le “grandi scuole” diventano polo di attrazione e di speranze per famiglie ed alunni in cerca di “successo formativo”. In tal modo le scuole perdenti, anno dopo anno, sono prosciugate degli iscritti, perdono la dirigenza, sono assorbile dalle scuole vincenti e dunque scompaiono: divengono parte di un’altra storia che nessuno narra, la loro identità evapora, è cancellata in nome del successo di pochi.
Il clima competitivo che si inietta è naturalmente fatale alla cultura come alla crescita formativa dell’essere umano, poiché la competizione a colpi di progetti e spettacoli in vetrina diviene la legge della sopravvivenza, per cui ogni mezzo è lecito pur di mantenere iscritti. Si punta sul “fare”, sul numero di progetti, sulla cancellazione dei debiti, sulla promozione facile, sulla scuola che in quanto prodotto è esposto nelle vetrine della contemporaneità. La scuola è un campo da giochi senza frontiera. Si silenziano i professori e le professoresse stile tradizione, ovvero che vorrebbero che i voti e la formazione non fossero un’icona vuota al cui interno vi è poco o nulla, ma spessore culturale e formativo.

La scuola della sola quantità
La pedagogia ufficiale sostiene la scuola azienda dichiarandosi scientifica e moderna e condannando tutto ciò che è in odore di mondo classico con annessi metodi. Le scuole ricattate dalle regole della competizione liberista, sostenute dalla pedagogia ideologica del liberismo, sono trasformate in un non luogo: non formano, deformano psiche e passioni degli alunni in nome del successo del fare e mai del pensare, sono la palestra che plasma i futuri competitori, insegna loro ad essere individui astratti che disprezzano le scuole e le persone che vivono negli istituti dei perdenti. Si naturalizza la lotta, gli alunni sono pedine di un gioco strutturale incompreso ed incomprensibile. La superstizione diviene la legge che muove le vite degli alunni e di tutta “la comunità” scolastica. Nessuno mette in dubbio il giudizio universale che cade sulla “testa” di ogni scuola, ma fatalmente si è trascinati nel gorgo degli eventi e dei giudizi. Nessuno osa fare una lettura critica della Fondazione Agnelli, fondazione privata di stampo liberista che caldeggia la scuola azienda speculare al mercato deregolamentato. Il suo giudizio non solo impera in modo anonimo ed asettico, ma le voci che utilizza per giudicare le scuole divengono i parametri a cui le scuole si devono adeguare: la sostanza prima è la quantità spacciata per qualità, il successo misurato su crediti. La scuola ed i processi formativi sono ridotti a numeri, a statistiche, a proiezioni algebriche. La parola che campeggia è successo espresso mediante graduatorie numeriche. I numeri divengono la parvenza di un’oggettività indiscutibile. I numeri sono neutri nella propaganda della Fondazione Agnelli che mediante Eduscopio dichiara l’oggettività assoluta della propria indagine. Si educa alla superstizione dei numeri, l’alfabeto numerico è rappresentato come un linguaggio oggettivo che parla da sé senza il bisogno di mediatori umani. In tal modo parametri e numeri divengono le voci divine del giudizio della nuova pedagogia che, anziché formare l’essere umano, ha sposato la causa delle statistiche, della quantità, dei parametri spacciati come unici possibili e scientifici. La superstizione è così acefala, nessuno mette in discussione i dogmi della religione della quantità, anzi ci si inginocchia, si spera nella sua clemenza ogni anno, ci si sente colpevoli dinanzi al giudizio fatale che ogni anno incombe. Si è pronti a mettere in campo ogni energia competitiva, affinché l’anno successivo il giudizio possa essere migliore, perché si possa scalare di qualche posizione la graduatoria annuale. La tensione è in ogni scuola, si colpevolizzano i docenti per non essere stati sufficientemente innovativi (parola dietro la quale vi è l’immissione di tecnologie e capacità di vendita del prodotto scuola). La soluzione per attrarre iscritti è l’unico scopo dell’attività quotidiana: si sarà giudicati per il successo, per la carriera degli studenti, non certo per la qualità, per la capacità di trascendere il particolare per l’universale. Si inseguiranno le attività che vuole e prescrive il mercato, si imposterà la didattica su domande stile test per insegnare agli alunni a superare esami universitari delle facoltà scientifiche che spesso utilizzano tali modalità all’ingresso e durante il percorso.

Nel regno dell’astratto
L’astratto è la legge che guida il mondo della nuova religione con i suoi papi senza nome, senza volto: non è lecito sapere i nomi degli operatori, né vedere i loro visi, solo i numeri appaiono.
Anche la scelta universitaria è orientata dagli organismi privati, dalle università private, dai mezzi mediatici che continuamente inneggiano alla libertà nella forma dell’individualismo senza limiti, e nel contempo orientano alla scelta verso le facoltà richieste dal mercato. Il benessere psichico degli alunni, professori e dirigenti è ampliamente ignorato, la legge del mercato – con “il suo linguaggio oggettivo” – minaccia ed incalza,  e nessuno sembra rispondergli in modo critico. Non vi è epochè alcuna sul giudizio di tali enti, non vi è nessuna discussione, ma quotidiani e mezzi di informazione pubblicizzano i risultati delle scuole di successo aumentando il clima di tensione e mortificazione. Gli alunni delle scuole vincenti si sentono anime superiori, futura razza padrona destinata ad un grande futuro, mentre i perdenti acquisiscono un senso di inferiorità che li spinge verso la demotivazione o la frustrazione. Le gerarchie sociali si duplicano e si confermano: le scuole vincenti sono le scuole delle classi agiate, le scuole perdenti raccolgono un bacino meno fortunato.
Gli alunni imparano a dividere la realtà sociale secondo un confine invalicabile, i genitori spingono i figli ad iscriversi nei licei di successo, a fuggire i licei perdenti che a volte sono scuole di tradizione che di conseguenza si estinguono. Nessun senso sociale, ma ciascuno in un’ottica individualista pensa solo al proprio “particulare”. La tragedia appare in mille forme: la Fondazione Agnelli con Eduscopio è una delle sue voci. La situazione non sarebbe così grave, se l’intervento di Eduscopio non si inserisse in un contesto già segnato dalla competizione e dall’aziendalizzazione, paradigmi non messi in discussione da nessun partito e da nessun movimento. Anzi si accelera sempre più sull’autonomia e dunque sulla più dura competizione senza contenuti.
La formazione della persona è sostituita dalla formazione del competitore modulare che deve adeguarsi ai flussi del mercato. La fatale legge divora talenti e disposizioni emotive, è un olocausto silenzioso ed invisibile che non trova voce alcuna in una scuola che dev’essere votata al solo mercato. Sarebbe sufficiente applicare ad Eduscopio ed ai suoi parametri indiscutibili la lezione metodologica di Marx ed Hegel, poiché i licei che risultano in vetta per il successo formativo sono tali non per la eccezionale bravura dei contesti, che vi può anche essere, ma per il contesto materiale e sociale in cui sono inseriti. I licei primi nelle classifiche sono inseriti nelle grandi città, nei quartieri della borghesia benestante, la quale può attingere dal censo stimoli e possibilità formative in linea con il mercato, mentre i licei perdenti sono inseriti spesso in realtà periferiche la cui utenza è spesso problematica e, come sappiamo, risorse per gli ultimi non ci sono, anzi si dà a chi più, a chi ha successo formativo, con l’effetto di produrre l’immobilità sociale, la quale è poi santificata dalla liturgia annuale di Eduscopio che decreta i vincenti ed i vincitori che stranamente ogni anno sono sempre gli stessi: i licei del centro cittadino nei quali affluisce la borghesia agiata dei professionisti.

Il fato dell’economia
Nessuno pone il problema, così, la falsa scienza dell’oggettività continua ad emettere i suoi giudizi, a riprodurre le differenze che trovano complici gli istituti che, dinanzi al fato dell’economia, chinano le ginocchia con la rabbia inespressa di chi sa la verità. Ma la verità non è di moda: la doxa è la legge del mercato astratto. In questo modo una delle scelte più importanti della vita della persona, la scelta della professione, è oscurata dal gioco del mercato, dalla cecità della quantità che promette tanto, ma non mantiene nulla. Vorrei concludere con Pascal che aveva la chiarezza sulla questione che la scelta lavorativa non può passare per i parametri dell’oggettività o del caso determinato da forze superiori, ma per il rispetto dell’indole della persona:

«La cosa più importante di tutta la vita è la scelta di un lavoro, ed è affidata al caso. Muratori, soldati, conciatetti lo fanno per consuetudine. “È un eccellente conciatetti”, si dice, ma altri al contrario: “Niente è grande come la guerra, gli altri uomini sono vili”. A forza di sentir lodare fin dall’infanzia questi lavori e disprezzare tutti gli altri, si sceglie. Perché naturalmente si ama la virtù e s i disprezza la follia; sono queste parole a decidere; si sbaglia solo a metterle in pratica. Tale è la forza della consuetudine che, di quelli che la natura ha fatto semplicemente uomini, ne fa diversi tipi d’uomo. In certi paesi sono tutti muratori, in al tri tutti soldati, ecc. Non c’è dubbio che la natura non è così uniforme; dunque è la consuetudine che fa questo, perché costringe la natura, ma qualche volta la natura la supera e conserva l’uomo nel suo istinto, malgrado ogni consuetudine buona o cattiva». [1]

Il caso non può decidere di una comunità o del destino di una persona. Dove regna il caso, nel nostro caso il capriccio del mercato con i suoi flussi deregolamentati e variabili, non vi è che la violenza implicita e non riconosciuta che guida l’infelicità globale dei futuri cittadini che si vuole “schiavi del flusso tempestoso del mercato” che appare anonimo, casuale ed irrazionale e come tale impera sulle vite concrete delle comunità.

Salvatore Bravo

[1] B. Pascal, Pensieri, edizioni Acrobat pag. 80