Marco Revelli – Oggi è improponibile l’idea secondo cui lo sviluppo tecnologico trainerebbe con sé, in quanto tale, anche lo sviluppo sociale. L’ideologia del progresso non ha nessuna universalità e nessun universalismo

Marco Revelli 01
Savatore Bravo
Oggi è improponibile l’idea secondo cui lo sviluppo tecnologico trainerebbe con sé,
in quanto tale, anche lo sviluppo sociale.
L’ideologia del progresso non ha nessuna universalità e nessun universalismo

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Destra Sinistra
Ricostruire l’identità della sinistra e della destra non è operazione teoretica semplice: affermazione banale, ma vera.
La teoria non è scissa dalla prassi, anzi interagisce con essa secondo il paradigma osmotico. Pertanto non vi è ricostruzione che non possa non tener nel debito conto la cornice storica in cui siamo situati. Ogni fuga all’interno di semplicismi integralistici – o nostalgie verso un passato che non ritornerà – non può che rallentare i processi di più corretto riposizionamento. La storia del comunismo ci insegna che a mutate circostanze storiche è necessario salvare i principi attraverso “adeguamenti al contesto storico”. Esempio ne sono state la NEP (1921-1928) di Lenin, come pure le innumerevoli declinazioni del comunismo alle contingenze storiche nazionali. Viviamo, dunque, come direbbe Gramsci, in un interregno: il nuovo non nasce, il vecchio non muore. In questa sospensione si consolida il Regno animale dello Spirito al punto da apparire come la “fine della storia” che coinciderebbe con la negazione dell’umano. Ma fin quando l’essere umano vivrà la storia non avrà concluso la sua corsa, sarà apertura alla speranza, corrente calda che muove verso il futuro. La distopia liberista si è strutturata anche grazie all’eclissarsi della sinistra e del comunismo, non solo come esperienza storica realizzata, ma anche come opposizione ideologica.
La sinistra è preda di processi di auto-dissolvimento, in quanto imita per opportunismo le destre, e specialmente, nega la sua identità politica. In tali circostanze gli spazi per il dibattito risultano limitati, o meglio la sinistra di potere rifiuta il confronto con se stessa per abbracciare la causa del capitalismo a cui dà sostegno nel timore di scomparire dalle scene mediatiche e, specialmente, per conservare posizioni di potere. Salva il corpo per salvare l’anima; la realtà è che ha perso entrambi, in quanto il compromesso è diventato complicità, fino a trasformarsi nella testa d’ariete del capitale: taglia i diritti sociali per divenire l’araldo dei soli diritti individuali, e incentiva la “cultura” del privato contro il pubblico. Non difende il suo popolo, ma lo consegna alle multinazionali, alla finanza ed alla cultura anglosassone. Porta a termine un’operazione filosofico-politica iniziata con il contratto di Hobbes, in base alla quale l’individuo astratto riduce ogni ente a solo mezzo compreso, lo Stato. Lo slittamento della cultura liberale nella sinistra è palese, si fa portatrice delle istanze liberiste con un mutamento privo di razionalità critica, ma che punta solo all’utile ed al risultato immediato. La sinistra post crollo muro di Berlino (1989) ha scelto la via più breve e più semplice, si è adattata al nuovo corso della storia, rimuovendo la sua ingombrante identità e ritirandosi dai territori e dalla storia. Non restano che slogan e nomi continuamente cangianti ad occultare il nichilismo nelle parole di mediocri politicanti che hanno come unica causa veloci carriere che si consumano nella ridda sempre più accelerata nel nichilismo senza prospettive. Le passioni tristi, di conseguenza, sono la normalità di un’epoca senza vitalità e senza memoria. Per poter ricostruire la sinistra bisogna congedarsi dal presente, sempre più simile ad una palude con i suoi opportunismi e “pensare il proprio tempo”, come Hegel ha insegnato.
L’attualità storica si connota per la sua temporalità vorticosa; la globalizzazione con i suoi scambi commerciali e finanziari interconnessi ha messo in atto una temporalità senza concetto ed immediata, e spesso frammentata, nella quale i soggetti politici si disperdono e mutano:

«In particolare nell’idea di temporalità che ‘divora se stessa’ che consuma la propria dimensione di ‘durata’ man mano che aumenta la propria velocità di trasformazione e finisce per destituire di senso tutte le diverse forme di consapevolezza umana basate sulla percezione del tempo (memoria, esperienza, aspettativa, identità personale e sociale ecc.), sembra ritrovarsi il tema stesso dell’auto-contraddittorietà del moderno: di una ‘modernità’, appunto, che radicalizzandosi si nega o comunque si ‘rovescia’. Così come nell’immagine di un tempo parossisticamente accelerato tanto da decostruire ogni struttura stabile dell’esperienza, e nella possibilità stessa di concepire una ‘storia’ (un racconto temporalmente ordinato), si concentra buona parte della sensazione di incertezza, volatilità, sradicamento e paura che costituisce la ‘materia prima’ delle riflessioni recenti».[1]

 Accelerazione temporale
L’accelerazione provoca dispersione e passività, ma è pur vero che questo stato di cose è favorito dal nichilismo globale e trasversale. Senza paradigmi ideologici, spogli di ogni processualità logica e concettuale ed esposti ad una temporalità divoratrice, le identità si annichiliscono, e i popoli non hanno così i mezzi per capire e riorientarsi nella precarietà strutturale del postmodernismo. Tale condizione non è una fatalità storica, ma una condizione creatasi, anche a seguito dell’omogeneizzazione della sinistra con la destra. La categoria della merce e del libero scambio senza limiti hanno inciso anche nell’organizzazione-percezione spaziale, la quale è ora senza confini e senza identità. Le frontiere si aprono ad un flusso ininterrotto di merci e di eccedenze del capitale (veri protagonisti del ‘nuovo corso della storia’) che trascinano con sé popoli ormai divenuti plebi senza volto, in quanto costretti alla migrazione perenne. Lo spazio diviene un luogo nel quale convivono sincreticamente e senza stabilità individualità plurime in disgregazione. La sinistra tace, anzi sostiene i flussi in nome dell’accoglienza umanitaria da donare al capitale ad ai capitalisti pronti a sfruttarne la disperazione.

Spazio globale e iperluogo
Lo spazio globale diviene l’inferno perenne, dove il capitale con il sostegno delle destre e delle sinistre raccoglie i suoi frutti. L’indebolirsi dello stato nazionale stigmatizzato come la fonte di ogni male, è in realtà la rifeudalizzazione su scala planetaria. Lo Stato e la nazione sono sostituiti da potentati economici che assoldano la politica per utilizzarla ai loro fini. Lo Stato come garante di diritti sociali ed identità è perennemente oggetto di pubblico ludibrio, in quanto pone dei limiti al degrado dei popoli: l’identità è il male assoluto di cui bisogna liberarsi per consegnarsi al flusso della globalizzazione, si associa l’identità comunitaria e patria al nazionalismo per strutturare pregiudizi e rifiuti emotivi non mediati dalla ragione critica:

«In effetti, nel proprio processo vertiginoso di costruzione di uno ‘spazio globale’, essa sembra imporre alla precedente ‘spazialità nazionale’ lo stesso trattamento che questa aveva a sua volta riservato alla ‘spazialità feudale’: la travolge e dissolve, ne forza i confini e li relativizza, infine, nella sostanza, la delegittima e svuota».[2]

 L’iperluogo rappresenta la nuova spazialità della globalizzazione, in cui in un solo punto sono compresenti “mondi diversi” che appaiono per dileguarsi nella globalizzazione. La sinistra che verrà deve essere capace di rispondere a tale nuova complessa condizione. Il problema è se bisogna sostenere i flussi, regolamentarli secondi i desideri del capitale, o se invece prospettare una diversa soluzione al problema. L’iperluogo è l’effetto del capitalismo finanziario che agisce per polverizzare istituzioni, lingue ed identità nazionali secolari, al loro posto vi è solo l’antiumanesimo. Il soggetto umano è preda di forze fatali che lo soverchiano, le quali “accadono” e non hanno soggetto, ma sono ipostatizzate e naturalizzate. La nuova sinistra se vuole smarcarsi dalle destre dovrebbe porre distanza concettuale, etica e politica dalla religione del capitale o continuerà ad essere parte integrante della tragedia nell’etico:

«Si spiegherebbe così – con questa trasformazione – della città da luogo di flusso o, se si preferisce, in ‘iperluogo’, in spazio in cui precipitano in un punto solo molti luoghi prima separati- l’intrinseca instabilità delle consolidate identità politiche qualificate spazialmente, come appunto ‘Destra/Sinistra’: quel loro mutare di segno, rovesciarsi nel proprio opposto, cambiare posizione relativa pur restando immobili, cui ci ha abituato l’esperienza quotidiana, così come allo sradicamento esistenziale di chi, nella liquefazione dei luoghi, sperimenta ormai sempre più spesso lo spaesamento dell’ubiquità (ciò che si prova quando a dirla con Gogol, “senza essere partiti, non si è già più là”) e l’irriconoscibilità del proprio paesaggio».[3]

 

Religione del progresso
Uno dei dogmi a cui la sinistra deve rinunciare, non senza problematizzarlo, è il dogma del progresso. La religione del progresso tecnologico, della liberazione da ogni vincolo comunitario ed etico e dell’aumento del PIL ha comportato un abbassamento inquietante della qualità delle relazioni umane. La competizione disintegra comunità e famiglie ed offre ai vincitori come ai perdenti solo una diversa solitudine. La riduzione di ogni ente a puro fondo di investimento sta rendendo il pianeta inospitale alla vita ed incentiva un individualismo astratto incapace di pensare e sentire il senso della comunità senza la quale non vi è che l’alienazione globale. La tecnica al servizio dell’accrescimento del capitale e del tenore di vita nell’Occidente in estensione all’intero globo mina ogni relazione autentica inaugurando l’antiumanesimo come nuova religione della violenza planetaria legalizzata:

«Ma così è accaduto anche per la sua variante ‘materialistica’: per il concetto di ‘sviluppo’ cui risulta sempre più difficile, per lo meno sul piano razionale (perché invece la sua apologetica continua a dominare sul piano della dogmatica ideologica), associare, com’era naturale fino a ieri, un’effettiva idea di benessere non misurato in puri termini di reddito, mentre si vanno moltiplicando le letture che tendono a coniugare, in forma finora impensabile, crescita dell’economia e diffusione del malessere sociale ed esistenziale, sviluppo economico e disgregazione sociale, aumento quantitativo della ricchezza e aumento qualitativo del disagio nelle forme insidiose dell’incertezza, della precarizzazione e improgrammabilità della propria vita, della crescente fragilità delle ‘biografie personali’ e nell’improponibilità di quelle collettive: in sostanza l’insieme di quegli elementi fattuali, ormai ben visibili nella nostra quotidianità, che spezzano irrimediabilmente la tradizionale identificazione di ‘progresso tecnico e progresso sociale’, o meglio, che rendono oggi improponibile l’idea – che era stata, fino a ieri, alla base del “consenso culturale-normativo di fondo” sull’idea di progresso e sulla politica del tecnologie da essa univocamente e acriticamente orientata – secondo cui lo sviluppo tecnologico trainerebbe con sé, in quanto tale, anche lo sviluppo sociale».[4]

Lo spazio ed il tempo della globalizzazione si trasformano sotto l’effetto della religione del progresso ultimo baluardo ideologico di una sinistra di governo complice dell’ordinaria violenza quotidiana. La nuova sinistra per rispondere a tali urgenze non può limitarsi a semplici dichiarazioni, ma deve rifondarsi su fondamenta metafisiche, deve uscire dai falsi miti ormai consunti per rimettere in atto processi razionali divergenti. Ritornare al logos e abbandonare i miti per discernere e rifondare sull’esperienza storica degli ultimi decenni comporta la necessità di introdurre nuovi fondamenti metafisici senza i quali ci si consegna al fatalismo della globalizzazione, alla religione stadiale del progresso senza prospettiva e senza umanità. L’anno zero della sinistra può essere l’inizio per uscire dall’abisso della coazione a ripetere, per intraprendere un percorso di ricostruzione critica adeguata ai tempi, ma nel solco di un’identità che non può essere granitica, ma neanche un nulla dai mille volti interscambiabili. Le facili e false dicotomie devono essere sostituite da valutazioni sui contenuti senza negare i principi costitutivi, solo in questo modo è possibile un nuovo inizio in nome della complessità consapevole:

«L’intelletto astratto ama le dicotomie, vive di dicotomie, si nutre di dicotomie, e la ragione sta in ciò, che per loro natura le dicotomie sono paralizzanti, portano a ciò che si chiama in filosofia “antinomie”, in modo che la manipolazione classista dell’irrigidimento antinomico porta alla conclusione che non c’è niente da fare in pratica, in quanto qualunque azione sarebbe unilaterale, e porterebbe da Scilla a Cariddi. Una di queste antinomie è l’opposizione frontale fra il progressismo ed il tradizionalismo. Se il comunitarismo vuole essere qualcosa, deve cominciare ad essere un superamento reale della dicotomia Progresso/Tradizione. L’ideologia del progresso era estranea agli antichi ed ai medioevali, almeno come la conosciamo noi, ed è un prodotto integrale delle origini della egemonia borghese e del mondializzarsi del mercato capitalistico. L’ideologia del progresso non ha nessuna universalità e nessun universalismo, ma nel suo insieme rappresenta la razionalizzazione falsamente universalistica delle pretese di estensione a tutto il mondo dell’occidentalismo individualistico e capitalistico. Il fatto che il movimento operaio, socialista e comunista abbia adottato l’ideologia del progresso, limitandosi a collocare il capitalismo alla penultima stazione ed il comunismo all’ultima, con la conseguenza di assorbire la secolarizzazione messianica della fine della storia, deve essere visto come un sintomo della inguaribile subalternità filosofica di questo soggetto sociale. Ed a sua volta la subalternità ideologica, politica e storica. Il secolo 1890-1990 è stato purtroppo lo scenario teatrale di questa incurabile subalternità. Rispondere a questa subalternità presuppone la coerentizzazione e la rigorizzazione di una concezione comunitaria del comunismo, a sua volta esito della comprensione del fatto che il semplice collettivismo (coatto) si rovescia necessariamente in individualismo (anomico)».[5]

 

L’atto di nascita di un’ipotetica sinistra è fondamentale per comprenderne destini e programmi. La sinistra di cui necessitiamo dev’essere partecipata, deve riattivare la potenza del concetto contro la tecnocrazia che produce movimenti e partiti all’occorrenza per scioglierli in base agli interessi dei nuovi signori feudali. L’imprinting iniziale determinerà la storia della sinistra che, ora, non c’è.

Salvatore Bravo

[1] Marco Revelli, Sinistra Destra. L’identità smarrita, Laterza, Bari 2009, pag. 173.

[2] Ibidem, pag. 184.

[3] Ibidem, pp. 198-199.

[4] Ibidem, pp. 154-155.

[5] Costanzo Preve, Filosofia e politica del comunitarismo. Riforma, rivoluzione e conservazione, pag. 3.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Amedeo Cottino – C’è chi dice di no. Cittadini comuni che hanno rifiutato la violenza del potere. Poniamoci dunque dalla parte di Antigone nella Grecia di oggi, e non da quella di Creonte.

Amedeo Cottino

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«Attraversiamo la vita
con gli occhi semichiusi, 
e orecchie insensibili
e la mente dormiente»

Joseph Conrad
«E poco più di una constatazione affermare che, a fronte delle atrocità del mondo, è il silenzio la nostra risposta più frequente. Per dirla con le parole di Joseph Conrad, noi “attraversiamo la vita con gli occhi semichiusi, le orecchie insensibili e la mente dormiente”. Esiste cioè un’insensibilità diffusa tra la maggioranza degli umani (anche se questa insensibilità varia da cultura a clitura, da epoca a epoca, da persona a persona). Ciò avviene per svariate ragioni […]» (p. 15).
«Il presente è fosco e ha un nome: l’Impero della paura. Precisamente la visione che gli Stati Uniti, attraverso le loro guerre e grazie alla servile complicità dell’Occidente, hanno esportato in tutto il mondo. Ora, di questa “esportazione” stiamo cogliendo i frutti, e la raccolta è appena all’inizio.
Le decine di migliaia di corpi di migranti che compaiono ogni giorno sulla Scena della Violenza, non sono né il prodotto del cinismo senza scrupoli dei trafficanti di uomini, né, tanto meno, del mare, e ancor di meno della fatalità. Se fossimo colti da un’urgenza di verità, potremmo risalire senza particolari difficoltà la catena causale che ha portato a queste stragi, ripercorrendo le tappe […] – e sulla sua sommità ne troveremmo i Mandanti, i veri responsabili.
Essi sono i capi di governo dei vari Paesi – gli Stati Uniti in testa – che hanno presieduto alle guerre che da anni devastano il Medio Oriente e il Nord Africa. Ma […] la Violenza Strutturale è, per sua natura, acefala e il diritto, nella sua ricerca di responsabilità, fatica a concepire un rapporto causa-effetto che vada di là dai primi anelli della catena causale. E poi […] dobbiamo fare i conti con il più generale processo di Normalizzazione della Violenza.
[…]
È dunque possibile alzare la soglia della compassione affinché le occasioni […] non vadano perdute. Ben consapevoli […] che per poterle, o saperle cogliere, bisogna già avere compiuto un tratto di cammino […].
Abbiamo bisogno che tra noi monocoli emergano nuovi consapevoli, singoli e movimenti, al fine di iniziare un lavoro di base: quello di ripristinare i sentieri sempre meno praticati del disvelamento. Ma la transizione “dal mondo della menzogna a quello della verità” non può essere semplicemente il frutto di un “cuore informato”. È necessario un quotidiano sforzo individuale e collettivo che non dia tregua alla Violenza Culturale che incombe su di noi. Che si opponga alla diffusa cultura dell’indifferenza.
È necessario riappropriarci dei conflitti perché i conflitti […] sono una nostra proprietà, e porci dalla parte di Antigone nella Grecia di oggi, e non da quella di Creonte; dalla parte di Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa, […] e non da quella di Viktor Orban, primo ministro ungherese; dalla parte di Vittorio Arrigoni e non da quella del colonialismo israeliano.
Dobbiamo imporre la nostra definizione della situazione, ché non è vero che i condannati a morte in Cina o in Iraq o negli Stati Uniti vengono giustiziati: essi sono uccisi. Ché non è vero che l’operazione Piombo Fuso e “Margine protettivo” contro Gaza sono state azioni difensive da parte di Israele, ma un’aggressione a una popolazione civile con il dichiarato intento di distruggerne le infrastrutture.
Ché non è vero che le guerre sono umanitarie …» (pp189-191).
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 Amedeo Cottino, C’è chi dice di no. Cittadini comuni che hanno rifiutato la violenza del potere, Prefazione di Marco Revelli, Zambon Editore, 2015.

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L'ingannevole sponda

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L’Autore
Amedeo Cottino. Dopo una laurea in giurisprudenza presso l’Università di Torino (1957), ha intrapreso lo studio delle Scienze Sociali in Svezia, dove ha conseguito il Master in Social Sciences presso l’Università di Stoccolma (1963), e la Licenza in Filosofia (1970) e il Dottorato in Sociologia (1972), presso l’Università di Umeaa. Professore associato di Sociologia presso questa università dal 1970 al 1972, viene nominato, nello stesso anno, incaricato di Sociologia del Diritto presso l’Università di Torino, Facoltà di Scienze Politiche, dove, dal 1980 al 2004, ricopre la cattedra di professore ordinario nella stessa disciplina, fino al 2004, anno della pensione. È stato Preside della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Torino, dal   1985-1988,Vice Presidente della Società Italiana di Alcologia, 1994-1996, e Presidente del Comitato scientifico del GERN (Groupe Européen de Recherche sur les Normativités) presso il CNRF, dal 1997 al 2000. Ha diretto l’Istituto italiano di cultura di Stoccolma, ed è stato Consigliere culturale presso l’Ambasciata italiana di Svezia dal 1999 al 2001. È attualmente Vice Presidente dell’Osservatorio ‘Giovani ed Alcol’. Si è occupato di diritto internazionale umanitario in qualità di esperto della Croce Rossa Internazionale. Ha scritto sul lavoro nero nell'edilizia e sulla criminalità dei colletti bianchi. Ha studiato il tema dell'ugaglianza di fronte alla legge e ha affrontato il tema della responsabilità individuale di fronte alla violenza.

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Quarta di copertina

«Come tutti i libri veri, che vanno nel profondo e toccano nervi scoperti del nostro tempo [...] anche questo, [...] ci chiama in causa in prima persona. [...] Uomini comuni, nelle tante "scene della violenza" che ci mostra, ognuna delle quali con i suoi "dilemmi mortali", le sue occasioni colte o perdute, [ci interroga] su che cosa regoli il livello di quella "soglia della compassione" che, sola, ci permette di rimanere "uomini" [malgrado] la pervasività di un potere mediatico totale. [...] Nell"'informazione" viviamo immersi, rischiando l'opposto inverso all'assenza, la sovraesposizione alle "notizie". Noi che le immagini, che gli orrori di Abu Ghraib ce li siamo visti servire all'ora di pranzo e di cena, e a malapena abbiamo sollevato gli occhi dal piatto. E la mattanza della scuola Diaz – Genova 2001 [...] l'abbiamo sopportata senza nemmeno riuscire a ottenere [...] una Commissione d'inchiesta. Di tutto questo – di noi – parla Uomini comuni, attraverso la straordinaria galleria di "casi" che percorre il lungo Novecento [. .. ] ma approda, ogni volta, alla nostra quotidianità. Per questo la sua lettura è inquietante e straordinariamente salutare» (dalla Prefazione di Marco Revelli).

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Antonio Fiocco – Cenni sulla ristrutturazione del sistema orgaizzativo-produttivo d’impresa: da Taylor a Ohno

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Premessa introduttiva

Questo breve saggio fu scritto nel 1994, nella fase epocale in cui, negli ambienti della residua resistenza anti-capitalista, era forte l’interesse per il tramonto del sistema storico di produzione di massa, con la sua determinata organizzazione della società , che consentiva prospettive di moderato miglioramento sociale ed economico (il “Welfare”), e l’evoluzione verso un nuovo scenario, che poi altro non era che l’adeguamento del capitale al suo concetto, e il totale disorientamento che ne conseguì su come riorganizzare una risposta efficace. Il saggio, a fronte dei fiumi d’inchiostro versati in proposito e della confusione che regnava in tal senso, aveva lo scopo di riassumere la questione nei suoi minimi termini. Se si ritiene che questo modesto obbiettivo sia stato forse raggiunto, e per questa ragione queste pagine vengono riproposte, il gigantesco problema che ci si proponeva di contribuire a razionalizzare, vale a dire una adeguata prassi emancipativa dell’essere umano nei confronti della furia crematistica, è a tutt’oggi molto lontano dalla risoluzione (n.d.a.).

Testi di riferimento

Daniel Nelson, Taylor e la rivoluzione manageriale, Einaudi, 1988.
Taiichi Ohno, Lo spirito Toyota, Einaudi, 1993.
Carla Filosa – Gianfranco Pala, Il terzo impero del sole, Synergon, 1992.
Antonio Gramsci, Americanismo e fordismo, Editori Riuniti, 1991.
“Marx Centouno”, n° 15.

Principi di Taylor

L’industria prima di Taylor
L’attività di ingegnere, consulente e inventore di Frederick W. Taylor (1856-1915) si può a grandi linee dividere in tre grandi periodi: fino al 1898 abbiamo una fase di lenta formazione e rivelazione, poi vi fu la grande affermazione fra gli anni 1898-1901 ed infine la rinuncia al lavoro attivo, da parte di Taylor, per fondare, assieme ad alcuni fedelissimi, una scuola di consulenza e di pensiero manageriale, la quale, tramite una accorta ed instancabile opera di autopromozione, avrebbe ben presto diffuso i semi della nuova concezione organizzativa in America e in Europa.
Per comprendere il contesto in cui Taylor formò la sua cultura e iniziò a operare, occorre pensare che a quell’epoca l’industria, in fondo, era ancora un fenomeno recente ed inedito nella storia umana: era cresciuta senza regole, disordinatamente, basandosi su criteri di gestione rozzamente empirici. Era inevitabile che sorgesse – allargandosi sempre più la scala produttiva – il problema di una radicale riorganizzazione.
Nella seconda metà del diciannovesimo secolo le aziende avevano vita breve e afflitta da una brutale competizione. Taylor infatti – appartenente alla aristocrazia quacchera di Filadelfia – si pose come problema fondamentale quello di ridurre i costi e aumentare la produttività delle piccole e media imprese impegnate in un contesto di aspra concorrenza e nutrì sempre una profonda diffidenza – se non ostilità – verso il nascente fenomeno della concentrazione e centralizzazione capitalistica. Disprezzava, inoltre, i capitalisti finanziari, perché costoro, assetati di guadagni immediati, gli impedirono, nelle aziende in cui prestò la sua opera, di realizzare integralmente le sue idee organizzative, la cui applicazione sistematica avrebbe potuto dare i suoi frutti migliori in un periodo più lungo di quanto mai accordatogli. Si potrebbe dire che Taylor sia appartenuto a quelle «potenze mentali della produzione» che secondo Marx avrebbero dovuto congiungersi alla classe operaia per formare quel «lavoratore collettivo», che, a sua volta, avrebbe dovuto costituire il vero soggetto rivoluzionario.
Nell’epoca pre-taylorista l’organizzazione di fabbrica si fondava su due figure-chiave. La prima era il caporeparto, vero dirigente industriale, cui erano delegati il potere e l’autorità e che vigilava a sua discrezione sulla produzione, il controllo qualità, i costi, le assunzioni, i licenziamenti, le promozioni, l’addestramento, la tariffa individuale o il cottimo. La seconda era costituita dagli “appaltatori”, cioè i lavoratori più esperti e fidati, cui erano affidati le materie prime, l’energia e l’attrezzatura e questi producevano a prezzi concordati. «Il loro profitto, la differenza fra il prezzo contrattato e il costo di produzione, dipendeva quindi dalla loro abilità di innovare e controllare i costi; per massimizzarlo essi pretendevano il controllo completo del processo produttivo, compresa la selezione e la direzione della forza lavoro» (D. Nelson, op. cit., pag. 8). Per quanto riguarda i lavoratori, siamo di norma abituati, dall’alto delle conquiste sociali del Novecento, peraltro in via di liquidazione accelerata, a considerare quei tempi come un’epoca di sofferenza indicibile, forse anche influenzati dalle immagini dei film di C. Chaplin, che esprimono potentemente un senso di emarginazione, feroce divisione in classi e sofferenza operaia, ma che comunque si riferiscono a un momento storico già “taylorista”, se pensiamo a Tempi moderni. In realtà, nel periodo in questione, i lavoratori americani formavano una classe combattiva, organizzata in sindacati tutt’altro che arrendevoli o subalterni, anche se, secondo Gramsci, questi erano «più la espressione corporativa della proprietà dei mestieri qualificati che altro […]». Comunque, scioperi, violenze, tensioni, resistenze sistematiche alle pretese dei datori di lavoro erano una costante nella vita sociale degli anni 1880-1890, anche se questa situazione di conflitto non era destinata a durare a lungo. Gli operai si mostravano anche tutt’altro che sprovveduti, perché spesso rifiutavano il cottimo, senza lasciarsi ingannare dall’eventuale maggior guadagno. In particolare, i lavoratori degli impianti governativi di armamenti avevano una tale influenza che nel 1911, tramite i loro rappresentanti al Congresso, fecero presentare un disegno di legge che richiedeva un’indagine sul sistema a incentivi salariali di Taylor. Si sviluppò una controversia che si poté considerare un vero processo allo stesso Taylor e che portò il Congresso, nel 1915, a vietare la pratica dello studio dei tempi (preludio all’introduzione del cottimo, come vedremo) negli impianti dell’esercito. D’altra parte, per la mentalità di Taylor, i sindacati «erano accettabili soltanto se non rivendicavano salari troppo elevati, non organizzavano boicottaggi, non utilizzavano ‘la forza o le minacce’, non forzavano in alcun modo i lavoratori non sindacalizzati, né incoraggiavano la limitazione della produzione» (D. Nelson, op. cit., pag. 146).
Ma esiste un altro aspetto interessante. Di fronte alla necessità di riconsiderare i rapporti con il mondo del lavoro, la stessa classe dirigente era divisa. Da una parte c’erano gli “ingegneri”, sensibili esclusivamente ai problemi produttivi e indifferenti nei confronti delle esigenze dei lavoratori: di essi faceva parte anche Taylor. Gli ingegneri erano convinti che gli operai mirassero esclusivamente a guadagnare di più e potessero essere coinvolti nel soddisfacimento delle esigenze aziendali semplicemente con l’introduzione di salari individuali a cottimo, rendendo residuale la presenza dei sindacati. Ma si sviluppò, per un breve periodo, anche una tendenza che teorizzò e mise in pratica un progetto finalizzato a migliorare le condizioni fisiche e morali dei lavoratori. I fautori di questa tendenza, che fu detta “welfare work”, erano fiduciosi che anche le aziende ne avrebbero tratto beneficio. Il caso più interessante fu quello della National Cash Register Company, un’industria in cui, verso la metà degli anni ’80 del 1800, il proprietario John H. Patterson, introdusse «un articolato programma di assistenza; quest’ultimo, destinato soprattutto alle lavoratrici, comprendeva un programma assicurativo, un reparto per l’assistenza sanitaria, dei bagni, uno spazio pranzo e una ‘sala riposo’ per le donne, una biblioteca e una sala lettura, una Scuola Domenicale, l’organizzazione di un coro e di gruppi musicali, un teatro, un giardino d’infanzia e un circolo per i lavoratori; venne inoltre stabilito che le donne lavorassero soltanto otto ore […]» (D. Nelson, op. cit., pag. 19).

Lo “scientific management”
Ma quali furono, in sintesi, le novità “rivoluzionarie” introdotte da Taylor e dai suoi seguaci, tenendo presente che la base di partenza era la situazione “arcaica” precedentemente descritta?
1) Controllo sugli acquisti e sul magazzino, standardizzazione degli utensili e istituzione di un deposito degli attrezzi. Sviluppo di un sistema contabile più rigoroso e perfezionato.
2) Rigido controllo dall’alto sulla produzione, con l’istituzione di un dipartimento pianificazione separato e deputato a trasmettere le istruzioni, con fogli dettagliati e un apposito nucleo di funzionari.
3) L’introduzione di una nuova figura di caporeparto, con funzione di supervisore e ormai totalmente soggetto agli ordini superiori.
4) Lo studio cronometrico dei tempi medi di produzione per ogni determinato pezzo o di svolgimento di una certa mansione, al fine di applicare il cosidetto cottimo differenziale.
Fu stabilita una tariffa-premio elevata per quei lavoratori che riuscivano a finire un compito assegnato in un tempo stabilito e una tariffa di penalizzazione bassa per tutti gli altri. «Per esempio, su un certo tipo di lavoro l’addetto alla macchina riceveva una tariffa di 50 centesimi per pezzo, e generalmente ne produceva quattro o cinque al giorno. Dopo lo studio dei tempi, Taylor concluse che un operaio avrebbe potuto produrre dieci pezzi al giorno, e stabilì una nuova tariffa di 35 centesimi per pezzo se l’addetto completava dieci pezzi ben fatti al giorno, e di 25 centesimi se completava nove pezzi o meno» (D. Nelson, op. cit., pag. 48).
Questo permetteva di raddoppiare e a volte triplicare la produttività, innalzando i salari in percentuale inferiore. In apparenza il lavoratore era libero di produrre nella stessa quantità di prima, ma in realtà chi non riusciva a guadagnare le tariffe superiori veniva licenziato. Una volta eliminati l’”ozio” e la “pigrizia”, l’azienda disponeva di un gruppo di lavoratori ormai costretti al limite delle capacità umane, in cambio di un salario, in proporzione, inferiore.
La ferocia di questa fase di lotta di classe e di brutale sperimentazione appare evidente nella “riorganizzazione” della Simonds Company, una fabbrica di cuscinetti a sfera, iniziata nel 1896. Per evitare che la fretta di raggiungere la tariffa peggiorasse la qualità del prodotto, il lavoro degli operai fu sottoposto a un controllo ogni 15 minuti e separato rigidamente da quello degli altri. Un campione individualizzato di prodotto veniva inoltre sottoposto giornalmente a un “minuzioso controllo”. Tutto questo in aggiunta alle normali ispezioni preesistenti. La pura e semplice prontezza di riflessi divenne l’unica qualità richiesta, mentre molte lavoratrici, pur «tra le più intelligenti, assidue e di maggior fiducia» (sono parole di Taylor) venivano licenziate. Si tratta niente di meno che del passaggio cruciale dalla figura dell’operaio professionale a quella di operaiomassa, passaggio osservato da Gramsci in Americanismo e fordismo. Appare chiaro come questa moltiplicazione della produttività e del saggio di profitto potessero dare un grande vantaggio alle aziende che adottavano questo sistema di organizzazione rispetto alle altre.
Peraltro, come a dire che la mistificazione ideologico-demagogica non è una prerogativa della nostra epoca post-moderna, negli ultimi anni della sua vita Taylor poté passare per un illuminato riformatore della società. Infatti, nel periodo precedente la prima guerra mondiale, fu attivo negli U.S.A. un movimento ”progressista”, che interessò l’opinione pubblica contro i mali della società, identificati non nel modo di produzione capitalista, bensì negli sprechi e nell’inefficienza del sistema economico, i quali dovevano essere rimossi senza mettere in discussione, naturalmente, i fondamenti politico-economici della società stessa. Questo movimento, dunque, ben si sposò con l’ideologia dello “scientific management” taylorista- complice l’interesse di Taylor a diffondere i suoi principi manageriali – cioè un tipo di gestione considerato applicabile in tutte le istituzioni e in tutti gli ambiti della società. I “tecnici”, pragmatici e apolitici, con la loro conoscenza scientifica rivolta a scopi concreti, avrebbero risolto tutti i mali e le contraddizioni del mondo moderno. Certo si era ancora molto lontani dal concepire apertamente lo Stato come un’azienda e la politica come economia…

Lo spirito Toyota

Il toyotismo: le origini
Per comodità di linguaggio si userà l’ormai invalso termine di “toyotismo”, per quanto, limitatamente all’organizzazione di fabbrica in senso stretto, sarebbe più corretto parlare di “ohnismo”. Comunemente si ritiene che il cosidetto toyotismo sia di molto posteriore al fordismo-taylorismo e sia il frutto di un recente ripensamento del modello di produzione industriale. In realtà non è così.
Certamente fu la crisi petrolifera del 1973, con il crollo del mercato mondiale dell’automobile, a proiettare il “modello giapponese” verso la diffusione globale, ma occorre ricordare che Sakichi Toyoda, il fondatore della Toyota, fece il suo primo viaggio in America (al cui ritorno decise che nel medio periodo si sarebbe lanciato nella produzione automobilistica) nel 1910, cioè in un momento in cui la scuola di pensiero di F. Taylor stentava ancora ad affermarsi e aveva una diffusione limitata a pochi industriali “coraggiosi”. Nella mente dell’imprenditore e inventore nipponico era già chiaro che quanto aveva visto negli Stati Uniti a proposito della produzione di massa non poteva essere importato in Giappone, dove il potenziale mercato era molto più ristretto. Nel 1936 Kiichiro Toyoda, figlio di Sakichi e suo successore alla guida dell’azienda, in un lungo articolo esprimeva già in modo compiuto quella “filosofia” (ci si perdoni il termine) produttiva che, poi, una volta pienamente realizzata, sarebbe stata detta “toyotismo”. Il principio del “just in time”, che rappresenta il fondamento di tutto il sistema, fu concepito da Kiichiro e non, dunque, da Taiichi Ohno, mentre è vero che a questi (dirigente della Toyota scomparso nel 1990) spetta il merito di averlo sviluppato coerentemente. Si può dunque dire che il “metodo di progettazione” toyotista ha seguito come un’ombra il “fratello maggiore” americano per tutto il ‘900, prima confinato in un ambito locale (il Giappone), per essere poi destinato a divenire il punto di riferimento obbligato in una fase di crescita lenta e/o di recessione lunga estesa a tutto l’Occidente, cioè una volta che le peculiari condizioni del Giappone fossero divenute un problema generalizzato di tutto il mondo industriale evoluto.
Marco Revelli, nell’introduzione al libro di Ohno (Lo spirito Toyota, riportato fra i riferimenti), della nuova organizzazione mette in luce gli elementi di continuità con il passato (il sogno fordiano finalmente realizzato di una fabbrica sincronica a flusso continuo e la tayloriana saturazione della giornata lavorativa, ormai purgata di movimenti inutili e di momenti di “ozio”), ma sono soprattutto gli elementi di diversità i più gravidi di conseguenze.
Si parte dal postulato che la produzione non deva più avere un carattere “di massa”, bensì possa seguire quanto consuma il mercato. Questo comporterebbe la rinuncia ad ottenere il margine di profitto tramite la distribuzione dei costi su un numero sempre maggiore di pezzi prodotti. Di conseguenza il profitto dovrebbe trarsi da una inesausta (donde il concetto di miglioramento infinito del processo produttivo, in cui sono coinvolti anche gli operai ) compressione dei costi “a monte”, preventiva e selettiva. Questa ardua operazione in precedenza non era condotta alle estreme conseguenze perché resa non indispensabile dall’esistenza di un mercato in continua espansione.
Ohno è chiaro in proposito: «Nel sistema di produzione Toyota, pensiamo all’economia in termini di riduzione della manodopera e di riduzione dei costi. Il legame tra i due elementi si comprende meglio se si considera una politica di riduzione della manodopera come mezzo per realizzare la riduzione dei costi, che è chiaramente la condizione principale per la sopravvivenza e la crescita dei Profitti» (T. Ohno, op. cit., pag. 77). Dunque, a fianco dell’azzeramento delle scorte e della estrema e raffinata razionalizzazione dell’organizzazione d’azienda, la vittima designata di tutto il sistema doveva essere, ed è stata, il fattore umano.
L’ideologia che circonda questo sistema organizzativo – analogamente al precedente – occulta ciò che ne costituisce il motore primo, il lavoro vivo fornito dall’uomo. E questo, invece, è un aspetto di cui Taylor-come abbiamo visto- e ancor più Ohno, hanno avuto piena coscienza: «Il problema è che prima di ottimizzare gli impianti, deve essere ottimizzato il lavoro umano, perché i miglioramenti del lavoro, da soli, possono abbassare il totale dei costi dal 30 al 50 per cento […]. Voglio ricordare ancora una volta che si deve fare molta attenzione a non confondere miglioramenti nel lavoro e miglioramenti nell’attrezzatura, e che se si interviene prima su di essa, pur migliorandola, i costi non possono che salire, e certamente non scenderanno» (T. Ohno, op. cit., pag. 96).
Nel suo scorrevole libro, Ohno svela la concezione-Toyota con entusiasmo e quasi con candore, per cui sembra di avere a che fare non con un grande dirigente industriale, ma con un vecchio saggio orientale che parla di una religione esotica o di un’arte marziale. Nel suo operato vede solo aspetti positivi, come lo spettacolare aumento di produttività dei primi anni, la migliore qualità dei prodotti, la capacità di adattamento ai periodi di crisi come di sopportare aumenti di domanda senza variare il numero di addetti o accumulare scorte. Ma quanto non dice, né ci si poteva aspettare che dicesse, il massimo teorico del sistema, ovviamente impegnato in un lavoro apologetico non diverso da quello dei testi scritti da Taylor sul suo “scientific management”, lo svela, come vedremo, il libro di C. Filosa e G. Pala.

Il toyotismo: le caratteristiche essenziali
Come abbiamo visto, l’organizzazione taylorista aveva spazzato via ogni traccia di professionalità operaia autonoma, imponendo un rigido controllo da parte della direzione aziendale su tutto il processo produttivo e riducendo la funzione del lavoratore alla ripetizione paranoica di uno stesso gesto o di una breve sequenza di gesti e tale da ridurlo- secondo la celebre espressione di Taylor – al ruolo di “gorilla ammaestrato”. La produzione infinita per un mercato infinito è l’essenza di questa concezione. Ma le cose si rivoltano completamente se il mercato è saturo e occorra semplicemente riprodurre le merci il cui valore d’uso sia ormai esaurito (per semplicità accontentiamoci di questa spiegazione). L’impresa toyotista elabora, tramite raffinate ricerche di mercato, un piano di produzione annuale, semplicemente approssimato, da cui trae i piani mensili e giornalieri. Ma, a seconda delle fluttuazioni nelle vendite, questi piani possono essere cambiati praticamente in tempo reale. «L’ordine di produzione (istruzioni d’assemblaggio) è emesso per ogni vettura nel momento in cui entra in questa zona» (cioè la zona di assemblaggio finale). Ogni automobile ha una “storia a sé” e può differire da quella che le sta davanti o dietro nella catena per un particolare anche minimo. Tutte le informazioni relative sono portate da un semplice cartellino – il famoso kanban – che poi viene spedito alle stazioni produttive precedenti ( e dunque fa sì che venga riprodotto quel tipo di paraurti o quel tipo di cerchioni esattamente nel numero consumato) e ogni pezzo deve giungere al posto giusto nella quantità richiesta (just in time) con un sicronismo perfetto. Se una linea produttiva sforna un prodotto difettoso essa si ferma automaticamente (autonomazione) e l’operaio ha l’obbligo di scoprire il difetto, per impedire che venga riprodotto in centinaia di pezzi, come avveniva prima. Inoltre, non esiste più un reparto per la tornitura, uno per la fresatura, e così via, all’interno dei quali il relativo prodotto debba essere prima accumulato e poi trasportato altrove per l’operazione successiva. Ora il tornio è messo a fianco della macchina fresatrice, ecc., e lo stesso operaio segue tutte le operazioni in sequenza. Così cade anche la necessità di avere squadre di operai specializzati in una sola mansione.

Il toyotismo: le mistificazioni
Da questa ridotta descrizione si può comprendere come siano sorte alcune gravi mistificazioni.
1) Erronea identificazione fra “modello giapponese” e tecnologia “tout court”. Dice Ohno: «Spesso, una buona parte delle informazioni fornite dai computer non è assolutamente necessaria alla produzione. Inoltre, un’informazione ricevuta troppo presto induce a un precipitoso trasporto di materie prime, causando perdite. A mio parere, troppe informazioni gettano la produzione nella totale confusione» (T. Ohno, op. cit., pag. 70). E più avanti: «Il valore intrinseco di una macchina non viene determinato dagli anni di lavoro o dalla sua età, ma dipende essenzialmente dalla quantità di profitto che continua a offrire” (op. cit., pag. 92).
2) L’entusiasmo sindacale per un presunto recupero della «multiprofessionalità operaia» non è cosciente che essa non è che un iper-sfruttamento e non ha niente a che fare con la conoscenza del mestiere dell’epoca manifatturiera pre-macchinista. L’operaio non decide niente ed è anzi continuamente pungolato e ricattato non più da una direzione aziendale cui sia teoricamente possibile resistere, ma dalle “oggettive” quanto imperscrutabili e quasi metafisiche leggi di mercato. Così, tende a scomparire la lotta di classe non perché superata da una superiore armonia sociale, ma perché, in realtà, ormai stravinta dal capitale, in un contesto in cui l’operatore è posto in psicanalitico conflitto non con una controparte sociale, ma con la propria capacità lavorativa, portata all’estremo non solo fisicamente come nel taylorismo, ma anche mentalmente.
3) Un dominio del consumatore, in realtà, non esiste, poiché si ha a che fare sostanzialmente con una strategia di adattamento a una lunga crisi di sovraproduzione. Inoltre, non sono certo prodotti “personalizzati” quelli forniti dalla fabbrica toyotista! Differiscono per un certo numero di particolari, ma non per l’essenziale. Non si può certo entrare in un concessionario Toyota o Nissan e chiedere un modello del 1940: si può semplicemente scegliere fra una gamma di opzioni predeterminate, per quanto numerose.

Il “Paradiso giallo”
In questo modello organizzativo-produttivo non può esservi posto per una classe operaia portatrice di una soggettività autonoma. La sua alterità, che pure permaneva e anzi era un presupposto, nel fordismo, scompare. Marco Revelli mette in chiaro quanto ignorato da politici e sindacalisti: «Dalla natura dualistica, conflittuale, della produzione aveva tratto origine la concezione della politica come mediazione che aveva dato vita ai modelli di democrazia di massa europei e a quel sostanziale compromesso sociale che ha rappresentato la costituzione materiale del welfare state […]. Gli stessi modelli organizzativi del “partito di massa “ e del “sindacato generale” erano fortemente tributari della filosofia produttiva fordista-taylorista, del suo carattere burocraticoimpositivo […]. Ora tutto questo viene, per certi aspetti, eroso alle radici». La stessa cittadinanza politica perde significato nei confronti di una inedita «cittadinanza aziendale». E quali ne siano le conseguenze lo osserviamo da come sono strutturati la società e il mondo del lavoro giapponesi, secondo il quadro riportato da Carla Filosa e Gianfranco Pala, autori del libro riportato fra i riferimenti e redattori della rivista marxista La Contraddizione: «In Giappone le ore annue lavorate per occupato sono 2150, contro una media degli altri centri capitalistici di 1650». Dunque, rispetto al collega europeo, l’operaio o impiegato giapponese lavora 500 ore l’anno in più, cioè il 30%. Già per contratto c’è un 20% in più e il resto è dato dagli straordinari. Il quadro è completato dalla scarsità di ferie (7-8 giorni l’anno) e dalla totale mancanza di assenteismo. Secondo un calcolo approssimato, queste 500 ore danno un prodotto aggiuntivo di 300000 miliardi (di vecchie lire) annui.
I lavoratori che fruiscono di un impiego fisso, in Giappone, detti “regolari”, rappresentano i 2/3 della forza lavoro. I rimanenti – circa 20 milioni – sono un’enorme massa fluttuante a disposizione delle esigenze dei capitalisti. Tra i regolari solo la metà fruisce di un impiego sicuro, “a vita”, e della possibilità di carriera (sistema che si sta estendendo anche fuori del Giappone), privilegi per giunta ottenibili solo nelle grandi aziende e solo nella stessa azienda. Si può avere questa possibilità fatale una sola volta nella vita, cioè quando le imprese “pescano” i candidati nelle scuole o nelle università (totalmente asservite alle esigenze del sistema) e le donne, che percepiscono la metà del salario rispetto agli uomini, ne sono escluse. In cambio della sicurezza dell’impiego il lavoratore assicura una fedeltà fanatica e ridotte pretese economiche.
Le oscillazioni del mercato si scaricano sul serbatoio di riserva del lavoro precario, che, nel caso è il primo ad essere escluso dall’occupazione. Ciò si verifica nelle fabbriche dell’indotto – il cuscinetto ammortizzatore principale del sistema – le quali, inoltre, in caso di necessità devono accettare in prestito i lavoratori della casa madre momentaneamente in soprannumero. Il salario è diviso in tre parti: la paga base (l’unica sicura) costituisce meno di 1/3 del totale; premi di produzione (più di 1/3) ; straordinari. I premi di produzione, cioè il grosso dello stipendio, sono stabiliti secondo un giudizio annuo sull’operato dell’interessato, giudizio insindacabile, che si cumula con quello degli anni precedenti e assegnato dal proprio superiore diretto, che ne subisce uno a sua volta e così via fino ai vertici aziendali. Dunque il compenso stesso ne consegue estremamente individualizzato e condizionato da un continuo ricatto al servilismo e all’autosfruttamento. «Tutto ciò spiega l’alta ‘produttività’ – che produttività non è, ma solo prolungamento, intensificazione e condensazione della giornata lavorativa – del lavoro in Giappone” (C. Filosa, G. Pala, op. cit., pag. 65). In tal modo cade anche l’odiosa mistificazione sulla declamata partecipazione agli utili d’impresa, che non sussiste, perché i lavoratori non hanno alcuna forma di proprietà sui mezzi di produzione e, in subordine, perché i salari e gli stipendi continuano a crescere meno dell’aumento di questa falsa produttività estorta dal sistema.
Fra le esotiche parole giapponesi che si possono trovare nel testo di Ohno, ne manca rigorosamente una, ricordata, invece, in quello dei due autori italiani: karoshi, mistico sacrificio supremo per l’azienda, morte che sorprende i dipendenti anche giovani dopo terribili giornate di lavoro, autentico male sociale ormai temuto da un giapponese su tre.
Infine, l’attuale situazione sindacale è il frutto di una tremenda fase di scontro e di repressione bestiale avvenuta negli anni Cinquanta, in concomitanza con la guerra di Corea. Dopo di allora il sindacato fu rigorosamente “giallo”, totalmente corporativo e finanziato dai capitalisti. Per quanto possa apparire paradossale, la sottomissione sociale che ne emerge è più intensa e desolante che non sotto lo stesso nazismo tedesco. «La vittoria del capitalismo nipponico sui sindacati di classe può forse trovare un precedente storico nella tradizione del sostanziale fascismo democratico U.S.A. che portò alla distruzione degli Iww e del movimento socialista americano prima della prima guerra mondiale, e al corporativismo roosveltiano dopo. (Non a caso furono proprio queste le caratteristiche del trionfo dell’imperialismo americano sul mercato mondiale, nei decenni a venire)» (C. Filosa, G. Pala, op. cit., pag. 68). In sintesi, solo i dipendenti “regolari” sono iscritti d’ufficio al sindacato, da cui sono invece esclusi rigorosamente tutti gli altri. Chi diventa dirigente deve uscire obbligatoriamente dal sindacato (uso non infrequente anche presso i sindacati italiani). Inoltre, i supervisori che operano le valutazioni annuali da cui dipende il destino del lavoratore, sono anche, per statuto, i suoi rappresentanti sindacali, eletti “democraticamente” dagli operai con voto palese e sotto stretta sorveglianza fisica…
Ma, inevitabilmente, spuntano allievi zelanti, ansiosi di superare i maestri. Infatti, già Auschwitz, fra i molti modi in cui si può considerare, fu anche una fabbrica fordista, i cui veri fondatori e dirigenti, cioè gli industriali del gigante chimico IG Farbenindustrie – rimasti praticamente impuniti al crollo del nazismo – si presero la libertà di eliminare il capitale variabile, cioè il salario, dalla formula marxiana del saggio di profitto, mentre la guerra provvedeva … a eliminare le giacenze.
Forse il toyotismo non ha (ancora) generato un simile mostro, ma certo negli anni ’70-80 già è comparso lo “hyundaismo” (con i tempi di lavoro più lunghi del mondo, trattamento disumano, salari infimi, intensità di lavoro estremamente alta), ricetta che ha permesso all’industria automobilistica sud-coreana, partita da zero, di divenire il nono produttore di auto al mondo.

Americanismo e fordismo

La situazione italiana
Ma rapportiamoci finalmente al contesto italiano. Come abbiamo visto, già il taylorismo generava “alti salari” e a quale prezzo. Analogamente, i salari dell’arcipelago giapponese sono tra i più alti del mondo, almeno per quanto riguarda i lavoratori regolari. Tuttavia Marco Revelli ricorda che nel nostro paese a suo tempo si sviluppò un fordismo “all’italiana”, cioè la versione fascista, «caratterizzata dalla standardizzazione, ma non dagli ‘alti salari’, dalla dequalificazione senza consumo opulento». Analogamente, tutto il quadro che si va delineando nella nostra società porta a configurare un toyotismo “all’italiana”, incompleto, rispettoso in parte delle vecchie gerarchie, privo di compensi salariali nei confronti della forza-lavoro, privata nel contempo anche di ogni garanzia sociale. In altre parole, dalla ristrutturazione capitalistica in atto, di cui fanno parte integrante il neocorporativismo sindacale e la precarizzazione del lavoro, i lavoratori italiani, rispetto al modello originale, avranno tutti gli svantaggi e nessun beneficio, come già a suo tempo fu nei confronti dell’esempio americano.
Questo è il quadro cui dobbiamo ormai rapportarci e non far capo ad analisi politico-economiche centrate su soggetti sociali in declino, come la tradizionale classe operaia taylorista, ma anche senza le improbabili fughe in avanti di certi discutibili “maestri di pensiero” oggi di moda. Gramsci, a suo tempo, senza preconcetti, considerò il nuovo modello organizzativo-produttivo proveniente dall’America come un ineluttabile fattore di progresso, allo stesso modo in cui Marx vedeva il rapporto tra il capitalismo emergente e l’epoca precapitalistica, cioè indipendentemente dai conseguenti e tragici costi umani. Infatti, secondo Gramsci, il “fordismo”, troppo ottimisticamente, una volta approdato in Italia, avrebbe causato un rivolgimento sociale tale da spazzare via le classi parassitarie sedimentate dai secoli precedenti e avrebbe dovuto dare impulso a quella socializzazione delle forze produttive considerata come condizione essenziale per il superamento del modo di produzione capitalistico. Il toyotismo, secondo un’ottica di questo tipo, da parte sua si potrebbe ulteriormente avvicinare al concetto di produzione cooperativa sociale, per il coinvolgimento delle risorse mentali del lavoratore che induce e perché permette di produrre con più flessibilità e facilità solo nella quantità considerata utile. Come sempre, è l’uso di questa organizzazione di lavoro ad essere alienato e separato rispetto a chi la pratica materialmente. Infatti il toyotismo, nella realtà concreta, per le condizioni di lavoro che impone, per le implicazioni sociali e soprattutto per la concezione di mercato che lo determina (cioè un mercato dominato da differenziali sempre più marcati di proprietà e di reddito), appare la formula produttiva più adatta in un contesto sociale che esclude dal consumo masse crescenti di popolazione (paradossalmente in apparente contraddizione con una “situazione” che fa del consumismo l’unica dimensione umana consentita) e in accordo con le esigenze di ricapitalizzazione (cioè di rafforzamento del capitale) delle classi dominanti impegnate nell’attuale fase di sfrenata concorrenza a livello mondiale.
In conclusione, per offrire uno spunto minimale per una possibile strategia oppositiva, occorre ricordare che il “nuovo” sistema organizzativo è sostanzialmente dipendente dallo spirito di collaborazione dei lavoratori; vale a dire che ciò che costituisce la sua forza è potenzialmente ragione di debolezza. Questa dipendenza è il fattore che sta sullo sfondo di una possibile rivincita da parte del mondo del lavoro. In ogni caso «non è dai gruppi sociali ‘condannati’ dal nuovo ordine che si può attendere la ricostruzione, ma da quelli che stanno creando, per imposizione e con la propria sofferenza, le basi materiali di questo nuovo ordine: essi devono trovare il sistema di vita ‘originale’ per far diventare libertà, ciò che oggi è necessità» (Antonio Gramsci).

Antonio Fiocco

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