«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
363 Maura Del Serra, In voce. 55 poesie lette dall’autrice. Il libro è in vendita con CD allegato.
ISBN 978-88-7588-302-7, 2020, pp. 64, formato 130×200 mm., Euro 12. In copertina: Foto di Maura Del Serra.
364 Costanzo Preve, Luca Grecchi, Marx e gli antichi Greci. Dialogo sulla progettualità, ovvero su come cambiare il mondo. Introduzione di Giulia Angelini. Seconda Edizione riveduta e ampliata.
ISBN 978–88–7588-299-0, 2020, pp. 320, formato 140×210 mm, Euro 27 – Collana “Il giogo” [125]. In copertina: Rilevo votivo di Atena pensosa, 460 a.C., marmo pario. Atene, Museo dell’Acropoli.
365 Diego Lanza, Il tiranno e il suo pubblico. Introduzione di Gherardo Ugolini: La tirannide come “ideologia” secondo Diego Lanza. ISBN 978–88–7588-303-4, 2020, pp. 400, formato 140×210 mm, Euro 30 – Collana “Il giogo” [126]. In copertina: Frammento di vaso attico a figure nere di Sophilos, VI sec. a.C., Museo Archeologico Nazionale di Atene.
366 Marco Gallo, Santiago Express. Appunti di viaggio. A cura di Ilaria Rabatti.
ISBN 978–88–7588-304-1, 2020, pp. 120, formato 130×200 mm, Euro 10. In copertina: Verso Santiago.
367 Costanzo Preve, Il Bombardamento Etico. Saggio sull’Interventismo Umanitario, sull’Embargo Terapeutico e sulla Menzogna Evidente. Seconda Edizione ISBN 978-88-7588-265-5, 2020, pp. 240, formato 140×210 mm., Euro 20 – Collana “Divergenze” [70]. In copertina: Paul Klee, Maske der Furcht [Maschera di paura] (1932).
369 Giulia Angelini, Alberto Giovanni Biuso, Salvatore A. Bravo, Michele Di Febo, Alessandro Dignös, Lorenzo Dorato, Arianna Fermani, Alessandra Filannino Indelicato, Marco Guastavigna, Claudio Lucchini, Fernanda Mazzoli, Giancarlo Paciello, Franco Toscani, Tempi covid moderni. A cura di Alessandro Dignös.
ISBN 978–88–7588-273-0, 2020, pp. 256, formato 170×240 mm, Euro 25 – Collana “Il giogo” [127]. In copertina: René Magritte, Golgonde, olio su tela, 1953, The Menil Collection, Houston.
370 Sergio Rinaldelli, Solo l’irraggiungibile. Frammenti di cronaca interiore. ISBN 978-88-7588-277-8, 2021, pp. 208, formato 130×200 mm., Euro 15. In copertina: Sergio Rinaldelli, I fiori del silenzio, 2006, olio su tavola, 97,5 x 67,5.
321 Luca Grecchi, Scritti brevi su politica, scuola e società. ISBN 978-88-7588-209-9, 2019, pp. 192, formato 140×210 mm., Euro 15 – Collana “Il giogo” [101]. In copertina: Volta dell’Eremo di San Galgano, sec XII, Chiusino, Siena.
322 Gabriella Putignano, Flash di poesia, dipinti di versi. Prefazione di R. Pellegrino. Postfazione di F. Malizia. ISBN 978-88-7588-213-6, 2019, pp. 88, formato 140×210 mm., Euro 10. In copertina: Tommy Ingberg, Reveal.
324 Arianna Fermani, Divorati dal pentimento. Sguardi sulla nozione di metameleia in Aristotele. ISBN 978-88-7588-246-4, 2019, pp. 64, formato 170×240 mm., Euro 7 – Collana “Il giogo” [103]. In copertina: William A. Bouguereau,The Remorse of Orestes (1862). In quarta di copertina: Michelangelo Merisi da Caravaggio, La Maddalena penitente, 1594-1595, Galleria Doria Pamphilj, Roma.
328 Margherita Guidacci, Sibille. Seguito da Come ho scritto “Sibille”. A cura di Ilaria Rabatti. ISBN 978-88-7588-238-9, 2019, pp. 88, formato 140×210 mm., Euro 12 – Collana “Filo di perle”. In copertina: Luca Lucherini, Sibilla (2019).
330 Koinè, L’essere della libera comunità e l’amore. ISBN 978-88-7588-233-4, 2019, pp. 48, formato 140×210 mm., Euro 7 – Collana “Il giogo” [106]. In copertina: Henri Matisse, La danza, olio su tela, 1909. Ermitage di San Pietroburgo.
351 Arianna Fermani, Daniele Guastini, Alberto Jori, Giulio A. Lucchetta, Maurizio Migliori, Angelo Tonelli, Il futuro dell’antico. Filosofia antica e mondo contemporaneo. ISBN 978-88-7588-263-1, 2020, pp. 272, formato 140×210 mm., Euro 30 – Collana “Il giogo” [120]. A cura di Elena Bartolini, Andrea Ignazio Daddi, Alessandra Filannino Indelicato. Atti del Convegno di Studi «Il futuro dell’antico. Filosofia antica e mondo contemporaneo», Università degli studi di Milano Bicocca, 27-28 Marzo 2019. Moderatori: Claudia Baracchi, Luca Grecchi.
352 Giancarlo Paciello, Piccola storia dell’Irlanda. ISBN 978-88-7588-270-9, 2020, pp. 112, formato 140×210 mm., Euro 12, Collana “Divergenze” [63]. In copertina: Arpa irlandese. Emblema della Society of United Irishmen.
354 David Ciolli, Le porte del silenzio. Il libro degli insegnamenti di Imdah. ISBN 978-88-7588-272-3, 2020, pp. 104, formato 105×155 mm., Euro 8 – Collana “lo spazio della vita” [4]. In copertina: Giovanna Incoronata Ghini, Selon que … (particolare), 2018
355 Salvatore A. Bravo, L’animalizzazione dell’essere umano nel capitalismo. ISBN 978-88-7588-274-7, 2020, pp. 192, formato 170×240 mm., Euro 20 – Collana “Divergenze” [66]. In copertina: Hieronymus Bosch, Giardino delle delizie, trittico a olio su tavola, 1480-1490, particolare dell’Inferno, Museo del Prado di Madrid.
356 Fernanda Mazzoli, Di argini e strade. Un racconto di pianura. ISBN 978-88-7588-276-1, 2020, pp. 128, formato 130×200 mm., Euro 12. In copertina: Marc Chagall, La passeggiata, olio su tela, 1917-1918, Museo di San Pietroburgo.
«L’albero della conoscenza del bene e del male» e «L’albero della vita»
L’uomo storico è costretto, proprio perché è elevato al di sopra della vita meramente biologica da una divina capacità di conoscenza, a mantenere tale elevazione anche attraverso quel distacco dall’immediatezza vitale che è costituito dalla coscienza della certezza della morte. Sapere il bene e il male e sapere la morte sono dunque due lati indisgiungibili di una stessa realtà, che non è né animale né divina, ma specificamente umana.
«Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, ad oriente […]. Il Signore Dio vi fece germogliare ogni sorta di alberi gradevoli alla vista e pieni di frutti buoni da mangiare, tra cui l’albero della vita e l’albero della conoscenza del bene e del male […]. Il Signore Dio prese quindi l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché ne godesse e lo tenesse in custodia. Gli diede questo comando: “Saranno tuoi tutti i frutti del giardino, ma non dovrai mai mangiare quello dell’albero della conoscenza del bene e del male, perché quando lo mangiassi, ne moriresti”. […] Il serpente era la più astuta delle bestie fatte dal Signore Dio. Egli disse alla donna: “È vero che Dio non vuole che mangiate i frutti del suo giardino?”. Gli rispose la donna: “Dei frutti degli altri alberi possiamo cibarci, ma Dio ci ha detto che non dobbiamo mangiare e non dobbiamo toccare il frutto dell’albero che sta nel mezzo del giardino, altrimenti moriremo”. Replicò però il serpente: “Non morirete affatto! Al contrario, se lo mangiaste, i vostri occhi si aprirebbero, e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male”. Allora la donna, vedendo come il frutto era bello e desiderabile per acquistare la sapienza, lo prese e lo mangiò, dandone un pezzo anche al marito, che era con lei […]. Poi udirono il Signore Dio che passeggiava nel giardino, e si nascosero in mezzo agli alberi. Ma il Signore Dio chiamò l’uomo dicendogli: “Dove sei?”. Quegli rispose: “Ho udito il tuo passo, e ho avuto paura, perché sono nudo, per cui mi sono nascosto”. E Dio: “Chi ti ha fatto sapere che sei nudo? Hai dunque mangiato dall’albero dal quale ti avevo comandato di non mangiare?”. Rispose l’uomo: “La donna che mi hai posto accanto mi ha dato quel frutto, ed io l’ho mangiato”. […] Disse allora Dio: “Ecco l’uomo è diventato come uno di noi, avendo acquistato la conoscenza del bene e del male. Devo ora fare attenzione a che non stenda la mano per prendere anche il frutto dell’albero della vita, e mangiandolo viva per sempre”. Il Signore Dio scacciò perciò l’uomo dal giardino di Eden».
Questi sono, all’inizio della Bibbia, i passi salienti di un celebre e antichissimo mito, che gli Ebrei avevano ereditato, attraverso i Babilonesi, dalla più antica di tutte le civiltà conosciute, quella dei Sumeri. Il nome stesso del luogo in cui il mito è ambientato, Eden, non è originariamente ebraico, ma deriva dal termine sumerico edin, con il quale veniva indicata una pianura non irrigata. L’Eden biblico è certamente la Mesopotamia preistorica, dato che il testo menziona espressamente il Tigri e l’Eufrate come appartenenti alla regione. Nella sua zona più meridionale, dove i due fiumi si avvicinavano, creando spazi irrigui ricchi di vegetazione, i primi coloni sumeri dovettero trovare diversi angoli di terra dove pochi abitanti potevano vivere senza fatica, semplicemente raccogliendone i frutti spontanei, a cominciare dai gustosi e nutrienti datteri. Qualcuno di questi angoli di terra, particolarmente incantevole, fu certamente considerato un giardino piantato dagli dèi, e immaginato come dimora felice dell’uomo e della donna primigenio Il testo biblico conserva la memoria del politeismo sumerico, originariamente connesso con la raffigurazione del giardino di Eden, in uno dei termini che usa per designare Dio, e cioè Elhoim, che è un plurale. E Adamo è un nome tratto da una espressione della lingua sumera, ada-mu, che vuol dire “padre mio”.
I più antichi miti religiosi, oltre a contenere i relitti mnestici di remotissime esperienze storiche, condensano anche, nei loro racconti storicamente più inverosimili, grandi verità umane, sia pure espresse in forma non razionale, e nascoste sotto il velo della pura immaginazione. Ben lo sapeva Platone, quando parlava del mito come narrazione menzognera nella quale si trovava tuttavia una verità. E ben lo sapeva Hegel, quando definiva il livello più autentico e profondo della religione come comprensione dell’Assoluto nella forma della rappresentazione mitica, anziché in quella del concetto razionale.
Una maniera di cominciare a riflettere sulla natura della verità umana nella sua dimensione assiologica può dunque essere quella di interrogare il mito biblico del giardino di Eden. Ciò di cui esso essenzialmente ci parla è infatti la conoscenza del bene e del male, rappresentata dal frutto di un albero posto in mezzo al giardino paradisiaco di Dio. Tutti i momenti in cui la sua narrazione si articola riguardano questo frutto, che è oggetto prima della proibizione divina, poi del discorso tentatore del serpente, quindi della disobbedienza umana, ed è successivamente causa della paura dell’uomo, della preoccupazione di Dio, e della cacciata della coppia primigenia dal giardino di Eden. Può dunque essere interessante capire quale intreccio di significati si celi nell’immaginaria rappresentazione dell’albero del giardino di Eden.
La fondamentale questione interpretativa concerne, in proposito, il perché il frutto proibito da Dio sia proprio quello che pende dall’albero della conoscenza del bene e del male. Perché, cioè, il mito presenta il desiderio umano di comprendere la natura della distinzione tra il bene e il male come tentazione da evitare?
La risposta usuale a questa domanda è che la conoscenza del bene e del male a cui si riferisce la narrazione biblica indica in realtà il potere di stabilire cosa sia bene e cosa sia male. L’uomo che mangia il frutto proibito sarebbe dunque l’uomo che rifiuta il riconoscimento di una tavola di valori precostituita da Dio, e che pretende di farsi lui stesso creatore del suo proprio ordinamento morale. Si tratta di una risposta che emerge quasi naturalmente da una lettura moderna del testo biblico, sia perché è suggerita, in maniera magari inconsapevole, da una tradizione culturale sul peccato originale che percorre tanta parte della nostra storia, sia perché risulta per un verso tranquillizzante per la coscienza cristiana, e per un altro verso corrispondente alle inclinazioni dell’odierno pensiero post-metafisico. Il sacrificio redentore di Cristo, che è al centro della coscienza cristiana, appare infatti necessario proprio sulla base di un originario rifiuto, da parte dell’uomo, del fondamento divino dell’ordine morale. E la morte di Dio avviene, nell’orizzonte post-metafisico dei nostri tempi, proprio nella misura in cui l’uomo si pensa creatore autonomo di ogni sua norma.
L’albero del giardino di Eden racchiude davvero questi significati? Nel mito originario certamente no. Essi sono stati proiettati sul mito soltanto da una sensibilità culturale formatasi in epoche successive. Nel mito originario, infatti, la condizione umana prima della tentazione non è quella di un obbediente riconoscimento della distinzione tra il bene e il male voluta da Dio. È piuttosto uno stato anteriore ad ogni coscienza etica, tanto è vero che Dio si accorge che l’uomo ha ceduto alla tentazione proprio perché lo trova impaurito della sua nudità. La narrazione biblica non dice affatto, poi, che, mangiato il frutto proibito, l’uomo ha rifiutato il fondamento divino dell’ordine morale, ed ha preteso di stabilire lui stesso cosa sia il bene e cosa sia il male. Essa dice bensì che l’uomo si è reso simile a Dio, non però per la creazione, ma per la conoscenza dell’ordine morale. Nel mito, cioè, la distinzione tra il bene e il male sussiste senza essere creata, neppure da Dio, e Dio è divino perché ne conosce la natura, cosicché l’uomo stesso diventa divino quando arriva a conoscerla, cibandosi del frutto dell’albero del giardino di Eden. Non dimentichiamo che nella narrazione biblica Dio esclama, una volta saputo che l’uomo ha mangiato il frutto proibito: «Ecco l’uomo è diventato come uno di noi, avendo acquistato la conoscenza del bene e del male». È dunque la conoscenza del bene e del male, non la sua creazione, non la sua statuizione, che appartiene alla sfera divina.
Torna a questo punto, ancora inevasa, la questione fondamentale. Perché il frutto che pende dall’albero della conoscenza del bene e del male è proibito da Dio? Perché il desiderio umano di comprendere la natura della distinzione tra il bene e il male è quindi raccontato come una tentazione da evitare? Se la conoscenza dell’ordine etico appartiene alla sfera divina, non è forse la cosa più bella che l’uomo, potendolo, si renda divino acquisendo tale conoscenza?
Gli dèi degli antichi miti religiosi sono spesso gelosi degli uomini, perché temono le grandi potenzialità della specie umana. Essi temono, cioè, che alcuni uomini possano utilizzare tali potenzialità per usurpare il loro superiore rango divino. Perciò proibiscono agli uomini la piena utilizzazione delle facoltà umane, cosicché la mitica umanità primigenia deve confrontarsi con la tentazione proibita di rendersi divina. Se essa cede a questa tentazione, gli dèi la puniscono con una mutilazione permanente, che la allontana per un altro verso dal rango divino. Nasce così la natura umana attuale, che incorpora in se stessa un aspetto divino, acquisito seguendo la tentazione originaria, ma riequilibrato da un elemento dissolutivo di ogni perfezione, che costituisce la punizione per la colpa originaria dell’uomo di aver voluto diventare dio. La mitica vicenda della tentazione, della colpa e della punizione è quindi esplicitamente riferita ad una umanità non più esistente, e non ancora umana nel senso attuale del termine. Essa rappresenta dunque un puro giuoco dell’immaginazione, costruito come presupposto narrativo, come genesi fantastica degli elementi formativi della natura umana attuale.
Perché allora nel mito del giardino di Eden il frutto proibito da Dio è quello che pende dall’albero della conoscenza del bene e del male? Perché la comprensione della natura del bene e del male si colloca al di sopra della vita biologica, in una sfera divina. L’uomo che comprende la natura del bene e del male possiede quindi un dono divino, ovvero diventa lui stesso divino in questa sua conoscenza. Ma Dio è personificato dal mito in un essere creatore che non tollera alcuna condivisione della sua divinità da parte delle sue creature. Il mitico frutto che dona la conoscenza del bene e del male è dunque un frutto proibito per l’uomo, perché cibarsi di esso significa sfidare la gelosia di Dio, elevandosi al suo stesso piano divino, e attirando perciò la sua punizione.
L’uomo a cui il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male è proibito non è però, nel mito, l’uomo storicamente esistente, bensì l’uomo primigenio. Quando comincia la storia umana fuori dal giardino di Eden, infatti, l’uomo ha ormai mangiato quel frutto, e si è già attirato la punizione di Dio. All’uomo storicamente esistente, quindi, non è più interdetta la sfera divina della conoscenza del bene e del male, dato che essa fa ormai parte della sua natura, già irreversibilmente elevata al di sopra della vita biologica. Questa capacità divina, che era proibita all’uomo primigenio, e che invece l’uomo storico è chiamato ad esercitare, non rende tuttavia divina la persona umana, in quanto è sempre imprescindibilmente connessa ad un elemento che l’uomo è stato costretto ad incorporare nella sua natura come punizione per la colpa originaria, e che ristabilisce una distanza abissale tra la persona umana e quella divina.
L’elemento riequilibratore che fa risprofondare nella biologia animale anche l’aspetto divino acquisto dalla natura umana, vale a dire la mutilazione permanente inflitta all’essere umano come punizione per la colpa originaria, è nel mito biblico la mortalità dell’uomo. La verità che quel mito esprime e cela nella vicenda immaginaria della sua narrazione è dunque la connessione indissolubile, nella natura umana, tra il suo destino di morte e la sua possibilità di comprendere il bene e il male. La morte, cioè, si prospetta anticipatamente all’uomo come necessità ineludibile della sua esistenza perché l’uomo sa cosa sono il bene e il male.
È questo ciò che il mito del giardino di Eden essenzialmente ci dice. In tutto il corso della sua narrazione, infatti, l’albero della conoscenza del bene e del male si trova in relazione con un altro albero speciale, quello della vita. Di questo secondo albero non ci viene detto inizialmente nulla se non che si trova anch’esso nel giardino di Eden. Ma quando Dio si accorge che l’uomo ha ormai mangiato il frutto proibito, esclama: «Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi, avendo acquistato la conoscenza del bene e del male. Devo ora fare attenzione a che non stenda la mano per prendere anche il frutto dell’albero della vita, e mangiandolo viva per sempre». Il senso è come si vede molto chiaro: l’uomo non può mangiare il frutto dell’albero della vita, cioè allontanare la morte dal suo orizzonte, perché è diventato come un dio attraverso l’acquisto della conoscenza del bene e del male. Prima di tale acquisto, ovvero in un immaginario tempo anteriore alla storia, l’uomo aveva a sua disposizione, in mezzo al suo giardino, l’albero della vita, il cui frutto non gli era stato proibito. La sua evoluzione era quindi ancora in bilico, perché avrebbe potuto, mangiando quel frutto, ricadere in una totale immedesimazione con l’immediatezza della sua vita, retrocedendo così al livello degli altri animali, che vivono al di fuori di ogni rapporto con la morte. Ma l’uomo primigenio, dice il mito, non ha avuto l’occasione di mangiare il frutto dell’albero della vita prima di essere stato spinto a mangiare quello dell’albero della conoscenza del bene e del male. Si è così avuto il salto evolutivo che lo ha portato definitivamente oltre la restante animalità. Ne è derivato l’uomo storico, elevato al di sopra della vita meramente biologica da una capacità di conoscere non più animale, bensì divina. La parte conclusiva del mito narra come proprio per questa sua capacità divina l’uomo storico sia stato condannato a percorrere la sua storia fuori dal giardino di Eden. All’ingresso di quel giardino, narra il mito, Dio ha posto due cherubini con le spade fiammeggianti, incaricati di tenere l’uomo per sempre lontano dall’albero della vita. L’uomo storico è così costretto, proprio perché è elevato al di sopra della vita meramente biologica da una divina capacità di conoscenza, a mantenere tale elevazione anche attraverso quel distacco dall’immediatezza vitale che è costituito dalla coscienza della certezza della morte. Sapere il bene e il male e sapere la morte sono dunque due lati indisgiungibili di una stessa realtà, che non è né animale né divina, ma specificamente umana. Questo ci dice il mito. Si tratta ora di vedere quanto questa verità del mito rimanga vera alla luce della ragione.
Massimo Bontempelli,La conoscenza del bene e del male, Petite Plaisance, Pistoia 1998- 2001, pp. 11-18.
La realtà non è la semplice esistenza, ma è l’esistenza che si inscrive nelle condizioni dell’azione reciproca tra gli esseri umani, diventando così sostanza possibile del loro mutuo riconoscimento.
Quando l’epoca in cui si vive non lascia esprimere la realtà a ben definiti percorsi storico-sociali, l’imperativo, per conservare dignità umana e non lasciarsi invecchiare dalla morte, è quello di costruire esperienze di riconoscimento e di manifestazione della realtà.
Il nichilismo di cui è impregnato l’orizzonte storico nel quale siamo immersi viene qui criticato al suo alto livello di espressione, quello tematizzato dal dispositivo teorico di U. Galimberti. C’è un nichilistico filo teoretico che unisce M. Heidegger, U. Galimberti ed E. Severino: l’oscuramento del capitalismo nello scenario della tecnica. Come Heidegger, Galimberti presenta uno sviluppo della tecnica planetaria mosso esclusivamente da una sua intrinseca spinta all’autopotenziamento ininterrotto. Come Severino, egli si raffigura un capitalismo che, avendo nella tecnica la condizione indispensabile per raggiungere il proprio fine, tende a subordinarlo al potenziamento della tecnica, e tende quindi a perdere, con esso, la propria specifica natura. Severino, infatti, parla dell’attuale sistema mondiale come di un modo di produzione scientifico-tecnologico, più che capitalistico. Per Galimberti non c’è dunque varco pensabile nell’orizzonte dell’epoca presente, ed offre solo una filosofia (teoreticamente povera) dell’impotenza che adatta il pensiero al tempo storico (ecco il suo nichilismo). Il sistema capitalistico tecnicizzato non è la fine della storia. Il compito più degno della filosofia oggi è quello di tematizzare le forme ontologiche oscurate dall’orizzonte della tecnica, e mettersi in cammino verso la realtà nel criticare il nichilismo, al duplice scopo di suscitare la consapevolezza della sua valenza distruttiva delle basi stesse della convivenza umana, e di illuminare la possibilità di percorsi di vita sottratti al suo peso disumanizzante. Un compito che ha perciò risvolti e riferimenti sociologici ed esistenziali, economici e psicologici, ma la sua prospettiva è di natura teoretica. Si tratta appunto, infatti, di un discorso filosofico, e la cui base sta nel presupposto che non si possa capire il nichilismo se non sul piano trascendentale, e quindi filosofico. Ciò in quanto il nichilismo è individuabile come tale soltanto come negazione della realtà umana dell’uomo, e dunque occorre, per individuarlo, un concetto filosofico di realtà. La realtà non è la semplice esistenza, ma è l’esistenza che si inscrive nelle condizioni dell’azione reciproca tra gli esseri umani, diventando così sostanza possibile del loro mutuo riconoscimento. Quando l’epoca in cui si vive non lascia esprimere la realtà a ben definiti percorsi storico-sociali, l’imperativo, per conservare dignità umana e non lasciarsi invecchiare dalla morte, è quello di costruire esperienze di riconoscimento e di manifestazione della realtà.
Massimo Bontempelli (1946-2011), si è occupato prevalentemente di storia antica e di dialettica platonica e neoplatonica. Ha pubblicato, tra gli altri: Il senso dell’essere nelle culture occidentali (con F. Bentivoglio), 3 voll., 1992; Storia e coscienza storica, 3 voll., 1993; Antiche strutture sociali mediterranee, 2 voll., 1994; Percorsi di verità della dialettica antica (con F. Bentivoglio), 1996; Nichilismo, Verità, Storia. Un manifesto filosofico della fine del XX secolo (con C. Preve),1997; Gesù di Nazareth. Uomo nella storia. Dio nel pensiero, 1997-2017; La conoscenza del bene e del male, 1998; La disgregazione futura del capitalismo mondializzato, 1998; Tempo e memoria. La filosofia del tempo tra memoria del passato, identità del presente e progetto del futuro, 1999; L’agonia della scuola italiana; Il respiro del Novecento. Percorso di storia del XX secolo (1914-1945), Filosofia e realtà. Saggio sul concetto di realtà in Hegel e sul nichilismo contemporaneo.
Sommario
Il nichilismo contemporaneo va criticato nel suo più alto livello di espressione
Il discorso filosofico di Galimberti è prigioniero del suo presente storico avendolo pensato come assoluto
Il dispositivo teorico di Galimberti è derivato dalla filosofia heideggeriana
Nel dispositivo teorico heideggeriano non c’è varco pensabile nell’orizzonte dell’epoca presente
L’heideggerismo è una filosofia dell’impotenza che adatta il pensiero al tempo storico
Il dispositivo teorico hedeggeriano è devastante delle poche risorse culturali non ancora avvelenate dal nichilismo
L’errore capitale di Hedigger appare come verità alle intelligenze di oggi
Il filo teoretico che unisce Heidegger, Galimberti e Severino
La tecnica non è il fondamento dell’attuale orizzonte storico
Il sistema capitalistico tecnicizzato non è la fine della storia
Non è vero che non si dia essenza dell’uomo al di là del condizionamento tecnico
Il compito più degno della filosofia oggi è quello di tematizzare le forme ontologiche oscurate dall’orizzonte della tecnica
Il principio hegeliano secondo il quale il reale è razionale rappresenta una posizione culturale niente affatto prefigurante la razionalità tecnica, ma una posizione del tutto alternativa
La povertà filosofica di Umberto Galimberti in ordine a: conoscenza, verità, anima, cultura e valori spirituali
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Appendice
In cammino verso la realtà
La realtà non è la semplice esistenza, ma è l’esistenza che si inscrive nelle condizioni dell’azione reciproca tra gli esseri umani, diventando così sostanza possibile del loro mutuo riconoscimento.
Quando l’epoca in cui si vive non lascia esprimere la realtà a ben definiti percorsi storico-sociali, l’imperativo, per conservare dignità umana e non lasciarsi invecchiare dalla morte, è quello di costruire esperienze di riconoscimento e di manifestazione della realtà.
Il 31 luglio 2011 a Pisa veniva a mancare Massimo Bontempelli (Pisa, 26 gennaio 1946 – Pisa, 31 luglio 2011). La Filosofia ha perso un uomo silenzioso e caparbio che ha vissuto la filosofia come esperienza totale e concreta. Secondo l’opinione corrente Massimo Bontempelli potrebbe essere definito un autore minore. Il giudizio del circo mediatico è dominato dalla chiacchiera, innalza sugli altari i nichilisti organici al sistema che hanno perso non solo la misura, ma specialmente il fondamento ontologico del bene. È inevitabile allora che autori radicali come Massimo Bontempelli non appaiano, ma ciò malgrado sono essenziali per comprendere il presente, decodificarne la matrice nichilista per elaborare percorsi alternativi. Dal nichilismo non si esce che con la verità, con la teoria che si coniuga con la prassi, ma ancor più con la testimonianza che un altro modo di esserci e vivere lo studio, l’impegno politico e sociale è possibile. La forza del nichilismo è nella capacità di convincerci che l’omologazione regna e dunque non vi è speranza, perché la verità è solo un gioco di parole, un’illusione fugace e pronta a svanire al tocco del principio di realtà. La trasvalutazione dei valori dei nichilisti nella forma dell’economicismo coltiva la disperazione per rafforzare il potere costituito, per annichilire ogni speranza. Il serpente sibila che niente ha senso, per cui tutto è possibile, rilevante è solo l’immediatezza, la certezza sensibile da afferrare e consumare. Massimo Bontempelli dinanzi alla violenza del nichilismo non solo ha argomentato il suo “no”, demistificandone i fondamenti ed i dogmatismi, ma specialmente ne ha colto la trasversalità, mostrando che dietro i grandi paraventi della propaganda, nella destra come nella sinistra, alligna lo stesso male che agisce e dissolve ogni programma politico in clientelismo, in logica crematistica ed asservimento dei popoli. Ha guardato con gli occhi della mente, con l’acutezza della civetta filosofica, le convergenze della destra e della sinistra. Dinanzi al disincanto non ha reagito, ma ha agito con l’esodo silenzioso e proficuo da categorie vetuste e dunque irrazionali per cercare la verità, per rifondare una nuova metafisica umanistica.
Filosofare con lo scandaglio Filosofare con lo scandaglio, secondo la nota metafora di Hegel, è pericoloso. Massimo Bontempelli è andato fino in fondo, per dimostrare con la sua ricerca che solo la metafisica può riportare il senso dove vige l’irrazionale nella forma della categoria della sola quantità senza qualità. L’antiumanesimo è la verità tragica e terribile del capitalismo nella sua fase attuale. La destrutturazione delle autocoscienze scientemente programmata dai potentati economici, si realizza mettendo in pratica processi di derealizzazione. Sembra un paradosso, ma nell’epoca della realtà aumentata, Massimo Bontempelli ha dimostrato che reale non è il virtuale o il godimento dell’attimo che fugge via, ma saper cogliere mediante processi di astrazione la verità che dà senso all’empirico. Senza la razionalità oggettiva l’essere umano è travolto dalle stesse dinamiche che governano gli enti. Si vive, così, in un mondo irreale e muto. Solo il concetto può umanizzare, riportare con la verità la razionalità, strappare l’essere umano dalla passività dei processi di derealizzazione per riportare la prassi al centro della storia e della vita. È stato questo il senso della sua vita come filosofo, storico ed educatore. L’intreccio di filosofia, storia e paideia lo avvicina ai grandi della filosofia. La specializzazione in campo filosofico è depauperamento della filosofia che per suo statuto è disciplina olistica, capace di avere una visione generale per coglierne le connessioni logiche, le cesure ed astrarne il senso. Senza l’abitudine a pensare non vi è essere umano, ma solo un simulacro di esso. Filosofare è un viaggio, in cui si può naufragare o approdare alla verità per ricostruire percorsi di senso, altrimenti si affonda nella palude dell’immanenza. Non l’ho conosciuto di persona, ma dai suoi testi traspare la sofferenza di colui che constata quotidianamente come l’umanità si disperda nelle paludi delle mercificazioni. Il suo lavoro di ricerca è stato finalizzato ad uscire dalla tempesta del nichilismo economicistico. Hegeliano per preparazione e convinzione, ha scelto il percorso più difficile. Ovvero dinanzi ad un mondo che ha rinunciato alla metafisica, ha testimoniato la necessità del ritorno ad Hegel, non per idolatrare, ma per capire, poiché la filosofia elabora categorie ermeneutiche eterne, ma che necessitano di essere mediate con la concretezza della realtà storica. Verità e storia non sono in antitesi, ma la verità vive nella storia. L’aziendalizzazione della vita in ogni espressione, dalle istituzioni alle relazioni umane, è la prova vivente che Massimo Bontempelli ha colto il problema nella sua drammaticità, lo ha trasformato nel senso della sua vita. Dobbiamo rimetterci alla giustizia del tempo, perché autori che hanno vissuto la verità come processo logico e dimostrativo, non periranno, saranno fonte di ispirazione per studiosi e filosofi del presente e del futuro. Sembra poco credibile, i tempi ingrati i cui siamo immersi, ci insegnano che la menzogna e la chiacchiera trionfano, ma ciò malgrado l’essere umano ha bisogno di senso, verità e bene. È stata la sua speranza, è il messaggio che ci lascia. Si può essere eredi della sua filosofia, solo se si riprende il cammino nella verità e verso la verità.
Contro i pregiudizi La solitudine del filosofo è causata dalla sua lotta contro i pregiudizi, nel trasgredire all’ordine del discorso. Lo scientismo laicista non è scienza, ma visuale unidirezionale, pregiudizio socialmente accettato senza inquietudine mediante la derealizzazione in atto. Massimo Bontempelli ci rammenta il pericolo di un mondo senza qualità, in cui l’umano non dona la sua teleologia alla quantità: questo è causa di un infausto destino che disumanizza fino a rendere impossibile la vita. Il filosofo, dinanzi ad un pericolo tanto immenso, non può tacere. Massimo Bontempelli è stato funzionario dell’umanità, poiché ha denunciato con la profondità logica del concetto che la scienza senza metafisica è esiziale:
«Quantità, dice Hegel, significa qualità tolta, ovvero indica l’essere reso indifferente alle sue determinazioni. Grandezza significa quantità limitata dal limite qualitativamente indifferente, ripetizione identica di una medesima identità astratta. La matematica è la conoscenza delle relazioni necessarie della grandezza, secondo una necessità puramente tautologica nei suoi gradi più elementari, e secondo la necessità della mediazione sintetica costruita tra diversi elementi di un oggetto quantitativo nei suoi gradi superiori. Essa ha dunque una base obiettiva universale nella logica della quantità, mediante la quale elabora le sue costruzioni. Le scoperte matematiche sono indipendenti dalle contingenze storiche semplicemente perché l’oggetto del lavoro matematico è dato da entità astratte da ogni qualità contingente. La matematica è dunque una scienza. Ma la quantità, nella cui logica essa ha la sua base ontologica, è soltanto una delle sfere logico-ontologiche che il pensiero possiede nella sua interna strutturazione. Essa non può quindi avere in se stessa la misura della propria verità, perché la verità della quantità si compie soltanto nella sua connessione dialettica con tutte le altre sfere della realtà. L’isolamento della sfera logico ontologica della quantità è la ragione per cui la matematica non può fondare se stessa. Negli spazi vuoti delle pure grandezze quantitative tace, scrive Hegel, ogni esigenza che possa ricollegarsi all’individualità vivente: qui sta la mancanza di verità della matematica».[1]
La memoria dà senso alla vita ed all’impegno di coloro che ci hanno preceduto, e specialmente consolida il radicamento positivo e plastico nella storia. Affinché ciò possa essere abbiamo bisogno di maestri, Massimo Bontempelli lo è stato.
Salvatore Bravo
[1] Massimo Bontempelli, Il pregiudizio antimetafisico della scienza contemporanea, Petite Plaisance, Pistoia, pp. 5 6.
Storia e coscienza storica (3 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1983.
Storia (3 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1984. [Per il triennio]
Civiltà e strutture sociali dall’antichità al medioevo (2 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1984.
Antiche civiltà e loro documenti (3 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1993.
Civiltà storiche e loro documenti (3 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1994
Storia e coscienza storica. (nuova edizione, 3 voll.), con Ettore Bruni, Milano, Trevisini, 1998. [Per il triennio]
Il senso dell’essere nelle culture occidentali (3 voll.), con Fabio Bentivoglio, Milano, Trevisini, 1992.
Il tempo della filosofia (3 voll.), con Fabio Bentivoglio, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici PRESS, 2011. [riedito nel 2016 in versione aggiornata dalle edizioni Accademia Vivarium Novum]
Eraclito e noi, Milazzo, Spes, 1989.
Percorsi di verità della dialettica antica, con Fabio Bentivoglio, Milazzo, Spes, 1996.
Nichilismo, verità, storia, con Costanzo Preve, Pistoia, CRT, 1997.
Gesù. Uomo nella storia, Dio nel pensiero, con Costanzo Preve, Pistoia, CRT, 1997.
La conoscenza del bene e del male, Pistoia, CRT, 1998.
La disgregazione futura del capitalismo mondializzato, Pistoia, CRT, 1998.
Tempo e memoria, Pistoia, CRT, 1999.
Filosofia e realtà. Saggio sul concetto di realtà in Hegel e sul nichilismo contemporaneo, con prefazione di Costanzo Preve, Pistoia, CRT, 2000.
L’agonia della scuola italiana, Pistoia, CRT, 2000.
Per conoscere Hegel. Un sentiero attraverso la foresta del pensiero hegeliano, Pistoia, CRT, 2000.
Eraclito e noi. La modernità attraverso il prisma interpretativo eracliteo, CRT, 2000.
Diciamoci la verità, “Koiné” n.6, Pistoia, CRT, 2000.
Le sinistre nel capitalismo globalizzato, Pistoia, CRT, 2001.
Un nuovo asse culturale per la scuola italiana, CRT, Pistoia 2001.
L’arbitrarismo della circolazione autoveicolare, Pistoia, CRT, 2001.
Il sintomo e la malattia. Una riflessione sull’ambiente di Bin Laden e su quello di Bush, con Carmine Fiorillo, Pistoia, CRT, 2001 [ristampato nel 2017 dalla casa editrice Petite Plaisance]
Diciamoci la verità, CRT, Pistoia 2001.
Il respiro del Novecento. Percorso di storia del XX secolo. 1914-1945, Pistoia, CRT, 2002.
Il mistero della sinistra, con Marino Badiale, Genova, Graphos, 2005.
La Resistenza Italiana. Dall’8 settembre al 25 aprile. Storia della guerra di liberazione, Cagliari, CUEC, 2006.
La sinistra rivelata, con Marino Badiale, Bolsena, Massari, 2007.
Il Sessantotto. Un anno ancora da scoprire, Cagliari, CUEC, 2008. [ristampato nel 2018]
Civiltà occidentale, con Marino Badiale, prefazione di Franco Cardini, Genova, Il Canneto, 2010.
Marx e la decrescita, con Marino Badiale, Trieste, Abiblio, 2011.
Platone e i preplatonici. Morale e paideia in Grecia, con Fabio Bentivoglio, introduzione di Antonio Gargano, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici PRESS, 2011.
Un pensiero presente. 1999-2010: scritti di Massimo Bontempelli su Indipendenza, Roma, Indipendenza – Editore Francesco Labonia, 2014.
Capitalismo globalizzato e scuola, con Fabio Bentivoglio, Roma, Indipendenza – Editore Francesco Labonia, 2014.
La sfida politica della decrescita, con Marino Badiale, prefazione di Serge Latouche, Roma, Aracne, 2014.
Gesù di Nazareth, con prefazione di Marco Vannini, Pistoia, Petite Plaisance, 2017
A cura di) Il respiro del Novecento, “Koiné” n.6, Pistoia, CRT, 1999
(A cura di) Metamorfosi della scuola italiana, “Koiné” n.4, Pistoia, CRT, 2000
(A cura di) Visioni di scuola. Buoni e cattivi maestri, “Koiné” n.5, Pistoia, CRT, 2000
(A cura di) Scienza, cultura, filosofia, “Koiné” n.8, con Lucio Russo e Marino Badiale, Pistoia, CRT, 2002.
I cattivi maestri, in I Forchettoni Rossi, a cura di Roberto Massari, Bolsena, Massari, 2007.
Può Heidegger andare oltre il “solo un Dio ci può salvare” ?
Una ennesima descrizione dell’esistente non sembra utile. Ci sono molte fonti critiche a proposito per chi ne è interessato. È più interessante cercare di andare oltre la consueta denuncia lamentevole, che in un contesto di nichilismo assoluto (vale a dire: capitalismo assoluto) rischia di assumere il contorno di voce che grida nel deserto o, nel migliore dei casi, di essere ascoltata distrattamente e rimanere irrilevante.
Dal canto mio, mi limito a elencare fatti solo in vista della elaborazione di concetti. Solo un cenno su tre tuttora ricorrenti impedimenti logici.
1) L’impossibilità apparente di una fuoriuscita dal capitalismo per suo movimento dialettico interno.
2) La mancanza di un soggetto rivoluzionario con precise caratteristiche sociologiche.
3) Il mito salvifico dello sviluppo delle forze produttive, che porta con sé il collasso ecologico del pianeta, ricordando che perfino Marx studiò la possibilità per la Russia di un passaggio al comunismo direttamente dalla comune agricola senza attraversare la fase industriale. Un recente devastante esempio: la diga in costruzione in Etiopia su un affluente del Nilo, che darà l’indipendenza energetica a quel paese, ma metterà in condizione critica l’Egitto con il rischio di una guerra. E quanti lavoratori della terra strapperà alla loro secolare economia di sussistenza gettandoli nel mercato mondiale? E l’istmo del Nicaragua fra i due oceani, anche se attuato dai sandinisti, con l’esponenziale aumento della circolazione di merci che ne conseguirà, quale vantaggio porterà alla causa dell’emancipazione umana?
Esaurite telegraficamente queste argomentazioni, ci si concentra su quell’aspetto antropologico che appare ormai ben più decisivo. Qui ci viene in aiuto Pier Paolo Pasolini, che fu profondamente colpito dalla cesura storica avvenuta con lo sviluppo industriale fra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento e che portò con sé il consumismo, imposto dalla televisione, dalla pubblicità e dai supermercati. La mentalità millenaria contadina-artigiana-piccolo borghese (in senso positivo) del popolo italiano, con la sua identità anche formatrice di cultura, scompare di colpo sotto l’urto di una forza gigantesca, ma non per essere sostituita da un “qualcos’altro” in qualche modo evoluto, bensì da un nulla riempito da un fantasma “sensibilmente sovrasensibile”: la merce. Conseguenza ne fu anche il tramonto del ruolo storico della Chiesa, che aveva la sua ragion d’essere nel forgiare la coscienza di quell’antico mondo e il suo relegamento ad azienda capitalistica fra le altre. Clamoroso esempio fu il caso della pubblicità dei jeans Jesus, che all’epoca suscitò una (peraltro già stanca) protesta della Chiesa. Ebbene, di recente uno spot ha chiamato in causa direttamente la voce di Dio non per parlare a Mosè dal roveto ardente a dettare le tavole della Legge, bensì come agente pubblicitario di una merce. Un ecclesiastico da me chiamato in causa nel manifestare la mia indignazione, perché ci vedevo un’offesa non tanto alla teologia, ma al Sacro in generale, ha mostrato indifferenza, e, anzi, la positività del fatto che così, comunque, … «si parlava di Dio».
Come se Dio avesse bisogno di pubblicità televisiva.
Pasolini era impressionato dalla potenza pervasiva del “Carosello” (pochi minuti a sera disciplinati da rigide regole etiche) su un’unico canale TV, mentre oggi è tutto un gigantesco Spot su centinaia di canali, inframezzato da qualche misero minuto di produzioni di evasione nordamericane, col telecomando ormai inutilizzabile a scopo di fuga, o da “approfondimenti” confusionari e menzogneri, che fungono da canovaccio.
L’antropologia pre-consumistica non era stata intaccata minimamente nemmeno dall’enfasi fascista e una traccia se ne può notare nel film Amarcord di Federico Fellini. Certi errori di valutazione di Pasolini non inficiano questa sua intuizione fondamentale, che lo disperò senza rimedio, ma purtroppo con illusioni paradossali come essersi lasciato ingannare dalle esibizioni di un Marco Pannella, che nascondevano l’intento di costui di allargare totalitariamente tutte le libertà di mercato fra cui appunto l’estensione di quei supermercati deprecati dall’intellettuale friulano.
Con tutto ciò non si vuol certo dire che precedentemente al “boom economico”, il capitalismo non avesse già profondamente inciso (narcisisticamente) sulle coscienze. Volendone fare un esempio, il più facile, fra gli italiani, dovrebbe essere Benito Mussolini, il duce del fascismo. Ma, personalmente, considero ancora più significativo il caso del Maresciallo (“d’Italia Capo di Stato Maggiore Generale”) Pietro Badoglio … sulla cui figura e sulle cui “gesta” rimando agli scritti storici di Massimo Bontempelli. Ovviamente ci sono altri grandiosi esempi in tal senso, come gli spietati generali del Regio Esercito Roatta e Robotti, e massacratori vari dei popoli yugoslavo e greco, molto opportunamente “dimenticati” dagli attuali teorici delle “foibe”, che sono, per inciso, i veri negazionisti.
Tuttavia, e questo è il punto fondamentale, questa tipologia di personaggi si poté ancora combattere in base ai principi del grande idealismo classico, secondo la linea di pensiero che va da Parmenide a Hegel, passando per Platone, Aristotele, Spinoza, Kant. Questo pensiero, con la sua esigenza di Giustizia, implicita anche negli incolti, fu la radice che fece nascere la Resistenza, il canto del cigno del popolo italiano.
Nel frattempo, cos’è successo, a livello macroscopico, con la distruzione antropologica, ulteriormente degradata in sussunzione totale della personalità alle esigenze sistemiche crematistiche? Una storica sentenza-ordinanza del giudice Guido Salvini, negli anni Novanta, sancì ufficialmente il coinvolgimento dei servizi segreti nordamericani nella strage di piazza Fontana. Cosa succede? Nulla. Non solo i governi italiani nemmeno si sognano di avviare una procedura di chiusura delle basi militari straniere, ma anche a livello di “opinione pubblica” non c’è nessuna reazione. Lo scrivente, allora illusoriamente iscritto a un partito sedicente comunista, compilò un volantino indignato sul caso, per vedersene rifiutare la stampa dai suoi dirigenti «perché non era il caso di suscitare vespai» … Oggigiorno studenti liceali, interrogati a proposito, o non sanno di che si parla o si dicono convinti essere colpevoli … le Brigate Rosse. Per quanto riguarda l’assassinio di Aldo Moro, numerose contro-indagini fanno parimenti apparire sullo sfondo una trama atlantica, nonché puro fumo negli occhi un “attacco allo Stato” eseguito da malvagi “comunisti”.
Che altro? 11 settembre, distruzione della Yugoslavia, Palestina, Ucraina … l’elenco delle menzogne che non suscitano indignazione e rivolta generalizzata è lungo. E se l’impunità dei criminali di guerra italiani si dovette al quadro generale di lotta al comunismo sovietico, ma comunque suscitò indignazione e polemiche, in seguito l’impunità dei crimini atlantici in Italia nel dopoguerra affoga nell’indifferenza e nelle code ai McDonald’s.
E per quanto riguarda la personificazione individuale di questo inedito stato di cose, non c’è che l’imbarazzo della scelta. Alla breve galleria di personaggi significativi al passo con questi tempi illustrata da Massimo Bontempelli ne I forchettoni rossi (Massari editore, 2007) fra cui spicca Massimo D’Alema, ineffabile bombardiere, ma “amante della pace”, e oltre al picconatore-gladiatore Francesco Cossiga, paradossalmente chiamato a presiedere le istituzioni della repubblica come prima carica dello Stato, aggiungerei il senatore a vita Giorgio Napolitano, che come esponente dell’ala “destra” più filosovietica del PCI nel 1968 accetta l’invasione della Cecoslovacchia decisa da Breznev, e, in seguito, cambiato il vento della storia, lega il suo nome alla legge Turco-Napolitano del I° governo Prodi (altro eroe dei nostri tempi), che “crea” gli immigrati come clandestini ricattabili e come Presidente della Repubblica si mostra rigoroso garante di fedeltà atlantica.
Cosa si vuol dire ricordando tutto questo? Che il senso della Giustizia (apparentemente scomparso) è certamente eterno, come afferma Massimo Bontempelli nel suo fondamentale Filosofia e Realtà (C.R.T. – Petite Plaisance, 2000), ma esclusivamente finché esiste l’Uomo, con il suo concetto elaborato in origine dalla filosofia greca in poi. Questa dimensione umana è stata però intaccata dalle esigenze di riproduzione del Modo di Produzione Capitalistico e le sue fondamenta ideali offuscate dal nichilismo conseguente. Ma quale potrebbe configurarsi come un possibile aiuto?
Contrariamente a versioni ormai consolidate nel mondo della filosofia ufficiale, lo scrivente guarda a Martin Heidegger non come a un pensatore nichilista, a un portatore di depressione, o a un misticheggiante poeta del Nulla e rifiuta una eventuale etichetta di marxista heideggeriano (definizione di ardua interpretazione: allora fra gli amanti della filosofia dovrebbero essere riportati i marxisti aristotelici, i marxisti platonici, i marxisti spinoziani, ecc.?). Vediamo.
Costantino Esposito, nel suo saggio Il fenomeno dell’essere (Dedalo, 1984, pag. 221 e ss.), opera una decisiva distinzione fra la soggettività, attribuita da Heidegger all’Esserci, e il soggettivismo, tipico del filone di pensiero nato con Cartesio e avente il suo culmine con Kant, con la sua fondazione “riflessa” dell’io nell’attività conoscitiva dell’ente. Invece, secondo Heidegger, l’“intenzionalità”, il rivolgersi sensato all’ente secondo l’atteggiamento “fenomenologico” studiato a lungo negli anni Venti del Novecento ed espresso compiutamente in Essere e tempo, comporta un “sè stesso” ontologico di tipo esistenziale (ovviamente non si tratta dell’esistenzialismo noto come corrente filosofica). Se l’Esserci è un “essere nel mondo”, dotato di una progettualità a-veniente fondata su un passato ri-veniente dell’esser stato, con le sue possibilità da esprimere dotate di tutta la ricchezza dell’intenzionalità, ebbene tutta questa dimensione risulta annichilita dalla distruzione antropologica capitalistica. In altre parole, il capitalismo rappresenta una minaccia non solo per gli ideali e i principi “tradizionali”, ma per lo stesso “essere nel mondo” fenomenologico dell’Esserci.
Ciò si evidenzia nell’attuale disagio profondo e più o meno inconscio di ogni singolo individuo, privato a monte non solo di ogni senso di appartenenza e di comune origine con i propri simili, ma impossibilitato a estrinsecare ogni possibilità umana che non sia sussunta a priori alla forma-merce, cioè nel rischio di una risoluzione a un “nihil absolutum” della forma-uomo. E la distruzione capitalistica della scuola, privando i giovani di una memoria storica, secondo la temporalità originaria di Heidegger toglie loro anche un futuro.
Qui forse consiste il nocciolo incomprimibile dell’essere umano, la sua impossibile riduzione ad animale, il punto di convergenza con la tesi di Costanzo Preve sulla insopprimibilità totale della natura umana. Che non significa un qualche superamento dei valori classici, ma una loro “epoché”, tenendo presente che Heidegger considera la stessa tradizione classica come avente sullo sfondo un inespresso senso dell’essere come differenza. E una ontologia di questo genere non ha la caratteristica di poter essere demolita con metodo nietzscheano, rivolto unicamente contro la metafisica classica.
Certamente sono al corrente delle obiezioni svolte da Massimo Bontempelli alla temporalità heideggeriana nel saggio Tempo e memoria (C.R.T. – Petite Plaisance 1999), secondo le quali le pur grandi acquisizioni del filosofo di Friburgo sono dominate da un “essere per la morte” connesso ontologicamente alla dissoluzione e dunque al Male, che rende disperata e nullificata ogni scelta di vita. E Bontempelli concede che questo atteggiamento sia stato generato dal particolare clima imperante in Germania durante la Grande Guerra, inteso a enfatizzare la morte in guerra come dimensione necessaria per una esistenza dotata di autenticità interiore (si veda a questo proposito, anche il saggio di Domenico Losurdo La comunità, la morte, l’Occidente: Heidegger e l’ideologia della guerra, Bollati Boringhieri,1991).
Tuttavia penso che queste considerazioni siano riduttive: l’infezione della morte, la sua irruzione contaminante la vita, prende certamente la guerra come ragione immediata di comparsa, ma sullo sfondo campeggia la sua vera causa: la devastazione capitalistica. Heidegger non sfugge al destino decretato per la grande filosofia: essere il proprio tempo espresso in pensieri, e non è sua responsabilità se il suo “tempo” è quello che abbiamo compiutamente dispiegato sotto gli occhi ogni giorno con tutto il suo orrore.
Quanto a interpretazioni negative, Heidegger è in buona compagnia. Se il filosofo tedesco è accusato di avere introdotto il nazismo in filosofia con la sua presunta “ideologia della morte”, ignorando tra l’altro la sua biografia, allora Platone si vede incolpato di essere il precursore, con la sua Repubblica, delle dittature novecentesche, oltre a notare che la sua dottrina degli universali logici, che ne fa forse il più grande filosofo di tutti i tempi, è ridotta al mito iperuranico e a una dialettica bimondana, dunque facilmente attaccabile, mentre la sua autentica natura è di essere monomondana quanto quella di un Hegel. Non parliamo poi di Marx e di tutti i fraintendimenti di cui è stato vittima da parte di presunti amici e l’odio di cui è avvolto da parte dei filistei.
Detto questo, sono convinto che debba essere una scelta individuale, e non una esegesi filologica dei testi, l’interpretare Heidegger nel senso disperante e nullificante attribuitogli da Bontempelli o, al contrario, prenderne spunto e ragione per una reazione di vita e rivolta nei confronti della “barbarie che viene”.
Antonio Fiocco
Antonio Fiocco
Ideare il futuro comunitario per viverne l’essenza nel presente
Petite Plaisance, 2019, pp. 80
Il problema in discussione, la quistione, consiste se concepire una progettualità in quanto tale. Sembra non ci siano problemi nell’accettarla in linea di principio, ma permane l’idea che occorra indirizzare le forze su obbiettivi pratici immediati. Questo punto di vista, in apparenza ragionevole, vanifica lo scopo principale di migliorare realmente il mondo in cui viviamo e, invece di una reale progettualità comunitaria, si preferisce l’immediatezza della contingenza. Dunque, a quel se, di fatto, si oppone un no. La post-modernità (cioè la fase flessibile a tutti i livelli della modernità) per l’Autore non elabora spontaneamente una sua idea di comunismo, perciò si rende imprescindibile la progettualità. Per essere scoperte, utilizzate e verificate, le possibilità devono essere prima di tutto inventate. In questo senso, ogni uomo è progetto, creatore, poiché inventa ciò che è già a partire da ciò che non è ancora.
Indice
Incipit contingente-empirico
Gesù di Nazareth
Paolo di Tarso e la figura teologica del Cristo risorto
Giovanni l’evangelista e la nascita del Cristo-Dio
L’anti-pensiero di Max Weber
Hegel: il legame fra elaborazione del pensiero e prassi materiale
Lettori di Hege
Lenin non era un vero hegeliano
Pensando a Lenin, in cammino con György Lukàcs
Sartre e la sua svalutazione dell’essenza
L’uomo è essenzialmente progetto
Antonio Fiocco, nella più profonda indignazione per le ingiustizie e le falsità geo-politiche che devastano il mondo, e di cui sono piene le cronache e la storia del Novecento, con spirito dialogico-socratico si è impegnato fin dagli anni giovanili in studi filosofici e politici. Ma, proprio per non fare dello studio della filosofia una normale, ordinaria e rituale professione, a suo tempo si risolse a scegliere una facoltà scientifica. L’amore per le scienze dello spirito ha continuato ad animare la sua ricerca accrescendo l’interesse anche per le discipline estetiche, la musica, la letteratura (le sue passioni: Shakespeare e Proust) e l’arte figurativa.
Incipit contingente-empirico
Il problema in discussione, la quistione, consiste se concepire una progettualità in quanto tale. Sembra non ci siano problemi nell’accettarla in linea di principio, ma permane l’idea che occorra indirizzare le forze su obbiettivi pratici immediati. Ci si sforzerà di indicare che questo punto di vista, in apparenza ragionevole, vanifica lo scopo principale di migliorare realmente il mondo in cui viviamo e a quel se, di fatto oppone un no, sia chiamando in aiuto esempi materiali che ricorrendo alle elaborazioni di alcuni grandi pensatori che hanno fatto la storia della religione e della filosofia. Impiegando concetti hegeliani, ci si propone di operare una contrapposizione fra sapere immediato e ragione filosofica.
In sintesi, indipendentemente dalle condizioni strutturali, una elaborazione teorica carente o incompleta porta comunque a risultati materiali insufficienti o controproducenti. Certo si tratta di una tesi non nuova,1 ma che è sempre utile corroborare. Si sono scelti alcuni nomi e argomenti, ma l’intendimento qui svolto è estensibile all’intera storia della filosofia, e con la convinzione che occorre non essere innovativi (chi ha cercato di esserlo in epoca recente, secondo chi scrive, ha fallito), bensì sia necessario cercare di ben interpretare quanto in essa filosofia è stato già elaborato.
Cominciamo da esempi concreti. Il giornalista e scrittore Giulietto Chiesa da una parte chiede il rispetto della Costituzione del 1948, ma poi propone improbabili soluzioni economiche compatibili con il sistema, senza porsi la questione del capitalismo e vorrebbe non uscire dall’Europa dell’euro, ma “cambiarne le regole”, ignorando che questa “Europa” è nata proprio per la volontà di imporre le sue regole iugulatorie. In altre parole, si vuole conciliare l’inconciliabile: indipendenza e subordinazione al tempo stesso. Per inciso ciò è plasticamente e schizofrenicamente espresso nella moneta da 2 euro coniata per commemorare la nostra Costituzione, che ne è la negazione assoluta! Comunque, non c’è niente da negoziare, niente da ridiscutere e non deve importare nulla di competere “capitalisticamente” con Cina o Giappone, quando il problema è il capitalismo in quanto tale. Anche se le proposte di Chiesa venissero praticate, si perpetuerebbero l’estrazione di plus-valore e il “sovrasensibile” balletto fra le merci nel mentre si usano gli esseri umani come strumenti per il loro spettrale dialogo. Qui comincia già a lampeggiare una carenza filosofica di fondo, una trascuratezza degli scomodi principi comunitari di Platone, Aristotele, Hegel. Del resto, è sufficiente leggere i libri di autori come Roberto Flamigni, Stefania Limiti, Paolo Cucchiarelli, e altri, per rendersi conto che l’infernale governo-ombra di “questi” U.S.A., con tutte le sue ragnatele mondiali, se si rimane all’interno dell’attuale sistema geo-strategico, non permetterà mai alcuna reale politica contraria ai propri interessi di preteso centro dominante e coordinatore del capitalismo globale. Nobili personalità che hanno cercato di fare gli interessi della nazione ne abbiamo avute, da Enrico Mattei ad Aldo Moro, e sappiamo quale destino sia stato loro riservato. Non è un paradosso pensare sia meno utopica una rottura radicale con l’intero attuale modo di produzione. Illusione? Ma qui ci viene in aiuto il precedente storico incancellabile della Rivoluzione d’Ottobre, ovviamente e sapientemente vittima di una damnatio memoriae.
Abbiamo un pullulare di movimenti, associazioni, piccoli partiti (dal destino “ultra-minoritario”, direbbe Costanzo Preve), che si prefiggono l’uscita dal sistema-euro e il ripristino delle prerogative dello stato nazionale, nonché, concetto inespresso, ma sottinteso, il ritorno, dunque, a un capitalismo “regolato”, con le zanne limate. Ma questa fase economica, con il welfare, ecc., è storicamente esaurita, come spiega Massimo Bontempelli nei suoi testi,2 e questi minimalisti anti-euro ricordano quanti, in altra epoca, all’alba tragica della “dittatura della borghesia”, ebbero nostalgia del vecchio ordine feudale, certamente meno disumano. Atteggiamento che Karl Marx si guardò bene dal condividere, poiché egli guardava avanti, alle prospettive future di socializzazione aperte dal nuovo modo di produzione, per quanto non iscritte necessariamente nella storia. Per cui, forzando l’estensione di una categoria temporale heideggeriana dalla analitica dell’esserci agli eventi storici, non sono da considerare “ad-venienti” le leggi e gli ordinamenti sociali, pur venerabili e mai abbastanza rimpianti, dei “trent’anni gloriosi 1945-1975”, bensì, più in profondo, il senso della comunità, ora estinto, che, sia pure in forme parziali, organicistiche, spesso coercitive, caratterizzò le epoche trascorse, prima del trionfo del modo di produzione capitalistico. Finalmente un senso comunitario da realizzare integralmente, secondo l’indicazione hegeliana, come frutto di libera scelta della libera individualità.
D’altra parte, quei movimenti e associazioni di cui sopra, anche quando non sono in aperto contrasto fra di loro, sembra non riescano comunque a coagularsi in una forza unica, tale da riunire le scarse disponibilità. Ciò ricorda irresistibilmente la frammentazione rivaleggiante dei gruppi extra-parlamentari di sinistra figli del Sessantotto, che pure, in linea di principio, sembravano tutti rifarsi agli stessi intendimenti generali. A questo proposito Costanzo Preve ci ricorda come questo fenomeno fosse dovuto (oltre che al narcisismo già individualistico-capitalistico di capi e capetti) alla debolezza della teoria di fondo, cioè il “marxismo” comune sia a ortodossi che a eretici, il quale, oltre alla inconsistenza degenerativa della fondazione kautskyano-engelsiana, pativa, ancora più a monte, anche una mancata elaborazione filosofica esplicita nel pensiero di Karl Marx. Per inciso, come ben sanno i lettori del compianto Costanzo Preve, egli ha evidenziato in Marx una matrice idealistica implicita, con argomenti difficilmente contestabili e che va ben oltre il semplice impiego del cosidetto metodo dialettico da parte dell’estensore del Capitale.
Ma permettiamoci una digressione. Martin Heidegger, nelle lezioni universitarie del 1925-1926,3 studiando Aristotele, dice (enigmaticamente?): “Il mettere insieme che fa vedere quel che è sempre separato deve allora necessariamente coprire; esso fa vedere qualcosa […] che non può mai essere in quel modo. Qui la simulazione è fondata necessariamente […] nel senso dell’impossibilità della composizione di quel che è sempre separato”. A cosa potremmo tranquillamente riferire questo criptico concetto, apparentemente banale? Per es., nella pubblicità abbiamo l’accostamento stridente (e offensivo per l’intelligenza) fra Amore, Amicizia, Libertà, Tradizione, Natura, Rivoluzione e … la forma merce. Ma, per rimanere nel nostro tema, abbiamo dei rimedi riformistici da sempre e per sempre separati dalla vera soluzione. Basterebbe questo per comprendere come la filosofia sia negletta e disprezzata, in quanto, se presa sul serio costituisce un tribunale inesorabile per il mondo capitalista e la debordiana società della spettacolo. Un altro esempio di cose che non possono stare insieme è costituito da una parte dalla dichiarata intenzione di pensare altrimenti e dall’altra dalla esposizione alla pubblicità mediatica e pseudo-politica, benevolmente e astutamente consentita dal sistema.
La televisione abbonda infatti di spot pubblicitari che invitano a finanziare la lotta contro le malattie rare, a contribuire economicamente a favore dei figli dei poveri e dei disoccupati, o per combattere la povertà in Africa, ecc., colpevolizzando l’uomo della strada e deresponsabilizzando le potenze sociali autrici dei mali in questione, facendone così un problema di beneficenza e generosità individuale e proponendo iniziative “aventi le apparenze della pietà, ma prive di quanto ne forma l’essenza”.4 Oltretutto c’è il fondato sospetto che il Capitale osservi l’entità di queste contribuzioni, al fine di studiare l’eventualità di ulteriori riduzioni al salario globale della classe lavoratrice. E questo si può considerare anche un interessante esempio di quel “dono omeopatico”, a piccolissime dosi, emerso in una bella trasmissione radiofonica,5 quale antidoto del capitalismo per esorcizzare l’autentico Dono Gratuito, il quale, se appunto generalizzato, distruggerebbe l’intero sistema. In particolare, per quanto riguarda la disoccupazione – a parte la questione primaria, strutturale, dell’esercito industriale di riserva, necessario per concetto al modo di produzione capitalistico –, basti pensare alla partecipazione italiana alle sanzioni economiche contro la Russia per via della crisi ucraina, la quale, per chi voglia davvero informarsi, risulta di totale responsabilità occidentale. Queste sanzioni, imposte dagli U.S.A. ai Quisling nostrani, hanno comportato un danno enorme all’economia italiana con proporzionale perdita di posti di lavoro. Ma, e rientro nel tema, c’è la certezza che qualunque forma di capitalismo, anche se “sovrano” e “indipendente”, porti a queste storture e sia inemendabile rimanendo al suo interno.
Scorrendo le immagini de Il trionfo della volontà – film documentario della grande cineasta tedesca Leni Riefenstahl sul congresso del partito nazista a Norimberga del settembre 1934 –, si osserva che ormai tali immagini hanno fortunatamente perso la loro immediata attualità. Infatti il nazismo storico si estingue nel 1945 (per quanto ne pensino in contrario i ragazzi dei centri sociali e altri meno ingenui, ma interessati a una legittimazione ideologica per la linea e l’esistenza stessa di partiti e sindacati che ormai hanno perso il loro originario ruolo storico), e non solo perché sconfitto militarmente, bensì perché non sussistono più le condizioni che lo fecero sorgere e prosperare. Ebbene …, la televisione italiana (più precisamente RAI 4), domenica 30 luglio 2017 manda in onda tale Tomorrowland (e già l’uso di un termine inglese la dice lunga), trasmissione diretta di un concerto rock di molte ore, con folla oceanica di giovani dall’entusiasmo fanatico simile a quello dei giovani in uniforme di Norimberga, con l’immagine di migliaia di volti stereotipati in una ininterrotta estasi, sublimata nell’adorazione di una personificazione-individuazione musicale della forma-merce, con annessa ideologia consumistica nell’illusorio individualismo di massa. Nel 1934 la Germania era reduce dalla faida interna al partito nazista della Notte dei lunghi coltelli e nel campo di Dachau erano imprigionati migliaia di comunisti dopo l’incendio del Reichstag: l’uniformità di massa era conseguente a una coercizione diretta. Invece il conformismo del falso anticonformismo “rock” è frutto di catene interiori e dunque infinitamente più efficace e pericoloso: è l’immagine-simbolo di un nuovo nazismo che non si lascia sconfiggere militarmente. In questo contesto, come la guerra di posizione politico-culturale dei decenni scorsi è paragonata da Costanzo Preve alla linea Maginot crollata in pochi giorni, non resta che pensare, quale principio gramsciano sempre valido, l’ottimismo della volontà, sebbene non abbia nulla di teorico. Ma se si pensa che la bruttezza e pericolosità sociale della musica rock siano qui esagerate, vale la pena riportare qualche parola del grande G. Anders a proposito della musica jazz, ma estensibile perfettamente al rock, anche se si dovrebbe leggere l’intero capitolo: “L’estasi è genuina, i ballerini, invece di essere se stessi, sono realmente ‘fuori di sé’, ma non già per sentirsi tutt’uno con le potenze ctonie, bensì con il dio della macchina: culto del Dioniso industriale […] ciò che il ballerino balla è una pantomima entusiasta della propria totale sconfitta […] che questo rito abbia l’effetto di ‘liquidare ‘realmente i ballerini e di far loro smarrire del tutto il loro ‘io’ è documentato da un fenomeno impressionante: cioè dal fatto che durante l’orgia perdono la loro faccia […] già più o meno stereotipa […] e non ci sarebbe nemmeno da meravigliarsi se durante l’orgia nascesse una nuova varietà di vergogna: la vergogna della faccia, la vergogna del ballerino di possedere una faccia in sé e per sé: di essere ancora sempre condannato a portare in giro con sé questo stigma della egoità quale dotazione coatta (corsivi di Anders)”.6
In queste tristi condizioni, lo scopo minimo immediato è l’assumere un ruolo storico simile a quello degli antichi conventi benedettini, quali isole di preziosa e futuribile civiltà in un contesto di circostante barbarie e tenendo presente, parafrasando Hegel, che nella situazione attuale la pianticella della filosofia (a dettare la prassi) si può innestare solo su singoli individui. A scanso di fraintendimenti, Domenico Losurdo ci ricorda che “l’atteggiamento del filosofo (Hegel) non si può certo dire elitario; è costante la sua tendenza a misurare la validità delle idee, non sulla base della loro astratta eccellenza interna, ma sulla base della loro capacità di informare di sé il reale, quindi anche di penetrare nella massa del popolo; ciò caratterizza Hegel in tutto l’arco della sua evoluzione”.7 Per inciso, ciò funge da risposta anche a quanti pensano che il grande filosofo abbia sostituito un mondo immaginario alla realtà, in linea con la distruzione della ragione idealistica imperversante dopo la morte di Hegel.
Conclusa questa parte introduttiva di critica “contingente-empirica” si inizia a corroborare la tesi centrale di queste pagine. Ogni evoluzione o frattura nella storia è stata preceduta o accompagnata da una giustificazione teorica. Ogni progetto di pensiero non cade dal cielo, ma è necessariamente calato nella realtà. Del resto, è facile trovare immediatamente un elemento d’aiuto per questa tesi nella imponente bibliografia del grande storico delle idee Domenico Losurdo, recentemente scomparso. Ci si propone di indicare alcuni esempi di questa apparente ovvietà, che tuttavia, a quanto pare, non è tenuta nel debito conto.
Antonio Fiocco
1 Basti pensare a C. Preve, Il convitato di pietra, Vangelista, 1991.
2 M. Badiale – M. Bontempelli, Il mistero della sinistra, Graphos, 2005; M. Badiale – M. Bontempelli, La sinistra rivelata, Massari, 2007; M. Bontempelli – F. Bentivoglio, Capitalismo globalizzato e scuola, ed. Labonia-Indipendenza, 2016.
3 M. Heidegger, Logica, il problema della verità, Mursia, 2015, p. 124.
4IIa Lettera a Timoteo.
5Oikonomia. Meditazioni sul capitalismo e il sacro, uomini e profeti, di Luigino Bruni, 17 marzo 2019.
6 G. Anders, L’uomo è antiquato, Bollati Boringhieri, 2006, pp. 84-86.
7 D. Losurdo, Hegel e la Germania, Guerini e Associati, 1997, pp. 365-366.
In copertina: Paul Klee, Einst dem Grau der Nacht enttaucht … (Dapprima innalzatosi dal grigiore della notte …), acquarello, inchiostro e matita su carta argentata, 1918, Berna, Kunstmuseum.
Il titolo dell’opera fa riferimento all’incipit di una poesia scritta probabilmente da Klee: Dapprima innalzatosi dal grigiore della notte poi grave e prezioso e reso forte dal fuoco … Infine etereo avvolto di blu, si libra su campi innevati, verso cieli stellati.
Massimo Bontempelli, professore di liceo, è stato filosofo olistico: l’originalità della sua teoretica è nel tenere assieme filosofia, storia e pedagogia, al fine di orientare la paideia sul fondamento veritativo che coniuga l’asse ontologico-assiologico all’azione educativa. Ha avvertito l’incombere plumbeo del nichilismo sul destino dell’Occidente, guardando con gli occhi della mente il dramma in cui è impigliata la cultura occidentale ormai planetaria. Trascendere il nichilismo ha significato per lui interpretarlo, inseguirlo nei meandri della sua genealogia, per sfidarlo, e quindi, ricostruire il percorso verso la verità. La sofferenza teoretica per lo stato presente, si è sublimata in pensiero e pratica educativa. Filosofo dalla passione intellettuale per il presente, con l’impegno rivolto fortemente al futuro, ha teorizzato l’alternativa al nichilismo consumistico dei nostri giorni. Ha rielaborato il pensiero teoretico e politico di Hegel mediandolo col pensiero di Marx. Con Hegel ha condiviso l’urgenza della metafisica, senza la quale il soggetto è lasciato alla sua accidentalità e dissolto nel pulviscolo del conflitto economico. Il suo stile filosofico ed educativo ha un significato simbolico e sostanziale: l’essenziale è la parola, veicolo della qualità contro la quantità. Ci ha lasciati eredi non solo della sua attività teoretica, ma della sua esperienza umana vissuta fuori dalla caverna della società dell’immagine e della pornografia mediatica spacciata per trasparenza.
Questi i temi discussi
Prologo / L’uroboro / Nichilismi / La tirannia del presente: l’isola di Pasqua / Il verme nel nocciolo / Il pensiero debole / Massimo Bontempelli / L’olismo come paradigma irrinunciabile / La bicicletta di Bontempelli / La metafora della caffettiera / Concreto ed astratto / Lo sguardo contro il nichilismo / Destra-Sinistra / Pedagogia della passività / Le categorie della quantità e della qualità / La categoria della quantità e la morte / Modelli metafisici / Il regno dei lupi / La libertà / La derealizzazione / La sussunzione / Il bene / Il narcisismo-derealizzazione / Perché educare? / A scuola di nichilismo / Filosofia e Storia / La storia come necessità / Tempo e memoria / Msssimo Bontempelli/Costanzo Preve / Narcisismo, concretismo e arbitrarismo / Le miserie dell’abbondanza / La metafora della valle / Verità e libertà / “Ex ducere” / Mutazione antropologica / La Storia come asse culturale / Il Gesù di Bontempelli / La società del disprezzo di sé / Bontempelli interprete di Marx / Marx ed Hegel / L’esperienza della decrescita / Umanesimo integrale.
Tanta fretta. Perché? Per prendere la barca che non va da nessuna parte. Amici miei, tornate! Tornate alla vostra sorgente!
Non abbandonate l’anima nel bicchiere della morte.
Federico Garcia Lorca
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L’EPILOGO DELLA RAZIONALIZZAZIONE IRRAZIONALE
[…] C’è stato […] nell’Occidente degli ultimi secoli un processo direzionalmente univoco, anche se differentemente articolato nei differenti tempi e luoghi, e variamente accidentato da ritorni e deviazioni, di razionalizzazione irrazionale delle forme di conoscenza. Le forme di conoscenza, cioè, si sono gradualmente ristrutturate in relazione alla ridefinizione dei loro oggetti teorici. Questa ridefinizione è sempre andata nella direzione di un restringimento e di un isolamento dell’oggetto teorico. Ad esempio la nozione di moto, diventando oggetto teorico della nuova fisica galileo-newtoniana, subisce un restringimento di significato rispetto alla cornspondente nozione platonico-aristotelica: ora i processi di germinazione, di invecchiamento, di alterazione qualitativa non rientrano più nel moto fisico. Questo moto è ora solo spostamento nello spazio nel corso del tempo. Ad esempio la nozione di ricchezza, diventando oggetto teorico della nuova economia di Quesnay, va a designare uno spettro molto più ristretto di fenomeni: ora è ricchezza soltanto il prodotto netto economico di una società, e non sono una sua ricchezza i livelli di intelligenza e di moralità dei suoi membri. Ad esempio le nozioni di rivoluzione e di reazione acquistano con Constant un significato molto più ristretto che in passato: ora esse indicano soltanto un mutamento forte delle istituzioni che organizzano la società. La costituzione di un oggetto teorico dal significato più ristretto e maggiormente separato dagli altri, rispetto ad un precedente oggetto da cui è derivato, rappresenta un progresso nel possesso razionale del mondo, è cioè un momento di razionalizzazlone delle cose. Definire un oggetto teorico attraverso il restringimento e il maggiore isolamento di un oggetto anteriore significa infatti migliorare la precisione con cui esso identifica un aspett.o della realtà. Quando ad esempio Quesnay restringe il significato della ricchezza a quello del prodotto netto sociale, fa emergere una nozione di ricchezza meno vaga e meglio identificabile che in passato. D’altra parte ragionare è distinguere, come spiegava Croce, e per distinguere occorre astrarre. Il restringimento e l’isolamento dei significati sono il processo stesso dell’astrazione, e per questo costituiscono sempre un momento di razionalizzazione. La rivoluzione scientifica cinque-seicentesca ha rappresentato un formidabile salto in avanti nello sviluppo dei procedimenti razionali proprio perché ha ridefinito gli oggetti teorici attraverso nettissime astrazioni dai significati dell’esperienza comune. Inoltre, ogni riduzione e maggiore separazione di un oggetto teorico accresce la sua efficacia come strumento di previsione, e quindi di azione. Ciò è mostrato, a livello molto banale, da qualsiasi esperienza pratica quotidiana, in cui quanto più numerose e indiscriminate sono le cose che si vedono, tanto minore è l’efficacia con cui le si possono controllare. Nella scienza ciò è ancora più vero: quanto più un oggetto teorico è ritagliato dal suo sfondo, e quanto più sono isolate le sue singole relazioni con gli altri oggetti, tanto più risultano prevedibili e riproducibili determinati suoi effetti particolari. La consapevolezza della crescente precisione ed efficacia che la ragione può ottenere frammentando e separando i suoi oggetti è molto antica. Già Platone, infatti, nel Sofista e nel Politico guida il lettore in faticose e progressive scomposizioni e separazioni di concetti. In età moderna Hegel ha scritto, nella famosa Prefazione alla Fenomenologia dello Spirito, che «il fatto che ciò che è legato ad altro ed è reale solo in connessione ad altro ottenga un’esistenza propria ed una libertà separata, tutto ciò costituisce l’immane potenza del negativo, che è l’energia del pensiero». L’energia del pensiero è definita negativa perché consiste, per così dire, nell’irrealizzare la realtà, scindendone la totalità in elementi teorici separati, resi irreali, cioè estranei alla totalità che sola è reale, appunto dalla loro separazione. Ma, osserva Hegel, «l’elemento scisso e irreale è tuttavia essenziale: il concreto, infatti, è automovimento solo perché si scinde e si fa irreale». La negatività dell’astrazione, dunque, è positività razionale nella prassi. Platone ed Hegel sapevano, però, che la negatività che frammenta il campo teorico e separa i suoi oggetti tra loro scissi, pur generando l’analisi, la precisione, l’efficacia e la potenza della razionalità, è in se stessa irrazionale. Perciò Platone, nel Fedro, pone accanto alla divisione la sinossi, come momento essenziale di un equilibrato sviluppo della facoltà razionale. Perciò Hegel, nella Scienza della logica, fa valere l’esigenza che, accanto ad un intelletto «astraente e con ciò separante, che permane nelle sue separazioni», operi una ragione che riunifichi l’intero campo teorico mediante la congiunzione dialettica dei concetti separati. Là dove l’oggetto teorico è costituito in modo da poter essere pensato soltanto dall’intelletto astraente, e non anche dalla ragione dialettizzante, allora, scrive Hegel nella Introduzione alla Scienza della logica, «in questa rinuncia della ragione a se stessa il concetto della verità va perduto, la ragione viene ristretta a conoscere una verità soltanto soggettiva, a conoscere cioè soltanto qualcosa cui la natura dell’oggetto non corrisponda. Il sapere torna ad essere l’opinione» . Questo è stato appunto l’epilogo della razionalizzazione irrazionale della modernità. Si tratta di un epilogo di non facile lettura, sia perché vi siamo ancora completamente immersi, e ci manca quindi quella distanza cronologica ed ideale che consentirebbe di metterlo meglio a fuoco, sia perché è costituito dalla massima intensificazione di elementi intrinsecamente antinomici. Abbiamo simultaneamente raggiunto, in primo luogo, il massimo della razionalità ed il massimo della irrazionalità storicamente prodotte, ed alla ragione non risulta facile pensare congiuntamente, come deve, entrambi questi aspetti della situazione. D’altra parte, se essa non comprende l’irrazionalità delle attuali forme di conoscenza, si condanna a sottomettersi alle corrispondenti forme di vita come ad una fine della storia, a pensare come inconoscibile ciò che è più importante per la condizione umana, a veder emergere questo inconoscibile come sentimento primitivo, disperato, nichilistico. Se non comprende, invece, la razionalità delle attuali forme di conoscenza, si condanna ad una critica antiscientifica, regressiva ed impotente della modernità. È dunque importante capire che la modernizzazione delle idee è stata […] un’opera simultaneamente di razionalizzazione e di irrazionalizzazione. La costituzione di oggetti teorici sempre più astratti, tipizzati, parziali e separati ha potenziato al massimo la razionalità come precisione, previsione, calcolo ed efficacia settoriale. Ma questa stessa costituzione ha potenziato al massimo anche l’irrazionalità come incapacità di dialettizzare concetti separati, come impotenza di fronte al movimento della totalità sociale, come demente rinuncia alla razionalità degli orizzonti di senso, come perdita della conoscenza del bene e del male. Questo epilogo è antinomico anche perché da un lato esalta al massimo l’individualità, separandola come non mai nella storia da ogni matrice socializzante, e dall’altro la deprime al massimo con la serializzazione dei comportamenti e degli stessi pensieri. Ed è antinomico perché porta a compimento e invera la modernità, abbandonando nello stesso tempo tutte le sue promesse emancipatrici, tanto che si è parlato, in contrapposizione al moderno, di un postmoderno. Il processo di razionalizzazione irrazionale è stato alimentato […] dai processi sociali di generalizzazione della fonna di merce e di universalizzazione delle relazioni tecniche. Anzi, è stata proprio la razionalizzazione irrazionale progressivamente diffusasi nelle relazioni sociali che ha generato quegli snodi nelle idee. […] Ebbene: il modo di produzione moderno, la cui logica si dispiega nella circolazione delle merci, è sempre più penetrato, nel corso degli ultimi secoli, nello spazio sociale. Negli ultimi decenni lo spazio sociale ne è stato quasi interamente pervaso, cosicché oggi viviamo, per fare un paragone fisico anziché biologico, in un universo le cui masse interagenti sono merci e galassie di merci. Dove tutto è merce, tutto è quantificabile, e, su scala locale, tutto diventa calcolabile, prevedibile, manovrabile: la razionalità trionfa. Ma il movimento globale, frutto di innumerevoli interazioni, diventa incontrollabile, e valori, vincoli e sentimenti perdono qualsiasi visibilità: l’irrazionalità trionfa. L’universalizzazione delle relazioni tecniche è l’altro processo sociale che ha prodotto e plasmato la razionalizzazione irrazionale. Tecnica è, in senso proprio, una capacità di produzione data dall’uso di determinati strumenti in conformità a determinate regole. Si parla più specificamente di tecnologia quando le regole, o addirittura gli strumenti, della tecnica, sono la concretizzazione di nozioni scientifiche. Lo sviluppo dei mezzi tecnici e dei concetti scientifici nel corso dell’età moderna ha dato un’impronta sempre più tecnica, e tecnologica, alle relazioni sociali. Oggi viviamo infatti in un universo tecnico. Ciò significa non tanto che viviamo in mezzo ad apparecchi tecnici, quanto piuttosto che le regole tecniche da un lato sono condizioni di efficacia di tutte le nostre azioni, e dall’altro non sono estrinseche agli strumenti, ma sono incorporate in strumenti, i quali sono a loro volta semplici articolazioni di un apparato complessivo. Questo apparato scientifico-tecnologico è dunque l’apparato di comando dell’azione sociale, che determina la divisione sociale del lavoro e i corrispondenti rapporti sociali. […] In un siffatto universo tecnico si realizza il paradigma, proprio della razionalità, dell’unità della molteplicità. Innumerevoli interazioni sociali hanno infatti un unico apparato come luogo di coordinamento (sia pure di un coordinamento che amplifica, invece di comporre, gli antagonismi). Ogni azione, inoltre, viene esattamente predeterminata dalla tecnica, in conformità al criterio razionale della precisione e del rigore. Infine si determina la prevedibilità di catene, lunghe quanto mai in passato, di cause e di effetti. La razionalità, insomma, trionfa. Nell’universo tecnico, d’altra parte, il soggetto non è più sorgente di azioni, in quanto le azioni si trovano già prescritte nel complessivo apparato scientifico-tecnologico. La libertà, quindi, perde di significato, e con essa la ragione. Prendersi la libertà di compiere un’azione contraria alle prescrizioni implicite nelle relazioni tecniche significa farla scadere dall’efficacia all’inefficacia, e quindi spogliarla del suo carattere attivo. Un’azione inefficace, cioè, non è più un’azione. Né è possibile farle attribuire un valore di altro genere, perché il riconoscimento di un valore presuppone l’accoglimento di un messaggio, e nell’universo tecnico gli unici messaggi di cui è possibile la trasmissione sono quelli conformi alle regole tecniche delle relazioni sociali, sono cioè quelle regole stesse. Nell’universo tecnico, dunque, cade la distinzione, paradigmatica della ragione, tra valore ed efficacia, perché il valore viene a coincidere con l’efficacia. L’irrazionalità, insomma, trionfa. Una razionalità irrazionale non è affatto, come potrebbe sembrare, una contraddizione in termini. Si tratta, invece, di un modello di razionalità, che possiede, cioè, caratterizzazioni proprie della ragione (precisione, rigore, calcolabilità, prevedibilità, efficacia), ma che non ha scopi, e che perciò include tutte quelle caratterizzazioni in un orizzonte di irrazionalità. Nell’universo tecnico la razionalità non può che non avere scopi, ed essere perciò irrazionale, in quanto la tecnica appartiene per definizione alla sfera dei mezzi, non degli scopi. Finché dunque la tecnica è subordinata ad altre istanze sociali, essa è ancora compatibile con una razionalità connessa a scopi. Ma in un universo tecnico lo scopo è lo stesso apparato scientifico-tecnologico, cioè un mezzo senza alcun intrinseco scopo che non sia la sua natura di mezzo. Inoltre, il nostro universo è anche un universo di merci, e la circolazione delle merci ha come scopo l’accrescimento senza limite del denaro, che è un altro mezzo senza alcun intrinseco scopo che non sia la sua natura di mezzo. La storia degli ultimi secoli, dunque, da un lato ha potenziato ininterrottamente la razionalità, e dall’altro ci ha condotto, per la prima volta nella storia, ad una razionalità che non ha scopi, che è cioè irrazionale. Il terreno a questo epilogo è stato preparato, sul piano delle idee, da tutti quegli autori che hanno dissociato la ragione dal valore degli scopi della esistenza umana. […] Il modello di una razionalità divenuta priva di scopi, a cui è approdato il processo di razionalizzazione irrazionale degli ultimi secoli, annulla qualsiasi possibilità di distinguere la vita dalla morte, il bene dal male. Abbiamo visto infatti, nel secondo capitolo, come la vita e la morte, il bene e il male, siano connessi alla intrinseca natura teleologica dell’esistenza. Un modello di razionalità come quello dell’attuale epilogo della razionalizzazione irrazionale, costruito separando la ragione dalla teleologia, è perciò necessariamente cieco di fronte alla vita e al bene. Esso si rispecchia, quindi, in uno stile di vita e di pensiero in cui l’orizzonte della morte è rimosso, oppure nichilisticamente contemplato, in cui l’operare della morte è scambiato per espressione di vita e di conoscenza, in cui il bene è ineffabile, e sostituito in pratica dall’efficacia.
L’universo sociale contemporaneo, risultato dal processo di razionalizzazione irrazionale della modernità, è realmente l’inferno dello spirito. Dirlo non è elegante, non fa fare buona figura nell’ambiente sedicente colto della sinistra intellettuale e dell’intellettualità accademica e mediatica, e suscita il sarcasmo riservato, da ogni buon scientista o detentore del potere culturale, alle nostalgie premoderne e alle visioni apocalittiche. Lo si deve però dire, se si vuol dire la verità. Come altrimenti definire un mondo in cui la produzione economica, cresciuta e “razionalizzata” al punto da avvelenare sempre più la terra, l’acqua e l’aria con i suoi rifiuti, tiene tuttavia i tre quarti del genere umano in una penuria superiore a quella dei secoli precedenti?
Massimo Bontempelli, La conoscenza del bene e del male, Petite Plaisance, 1998, pp. 115-125.
Il 31 luglio 2011 veniva improvvisamente a mancare, a Pisa, Massimo Bontempelli. Chi ha avuto la fortuna di leggere i suoi libri, sa che, con lui, è venuto a mancare uno dei pensatori italiani più originali, autore di opere filosofiche, storiche e politiche che trovano raramente degli uguali fra quelle più note ai contemporanei; essendo pensatore critico verso il modo di produzione capitalistico, ed estraneo alla università, né in vita né in morte i suoi meriti gli sono (almeno per ora) stati adeguatamente riconosciuti. Queste pagine non ripagano il debito, né ne ricostruiscono l’opera, ma vogliono semplicemente essere un ricordo filosofico.
L’irrazionale-razionale del capitalismo si palesa
con la legge della “nuova civiltà”: l’arbitrarismo
L’irrazionale razionale del capitalismo
La legge della “nuova civiltà” è l’arbitrarismo Il concetto di «arbitrarismo» False soluzioni Città senza cittadinanza La verità del traffico veicolare La funzione “dis-educativa” del traffico veicolare Riforma del paradigma privatistico Conclusione
L’irrazionale razionale del capitalismo L’irrazionale razionale è la cifra del capitalismo assoluto. La definizione è del filosofo Massimo Bontempelli. L’irrazionale-razionale del capitalismo assoluto lo si può cogliere in ogni aspetto del quotidiano: è sufficiente seguire il filo d’Arianna della categoria della totalità per mostrare quanto la “razionalità” del capitalismo assoluto, se ricondotta al concreto, palesi la sua irrazionalità. Nell’immediato, la razionalità comporta il calcolo delle azioni da effettuare per ottenere il plusvalore. In realtà, se il cono di luce allarga il suo raggio di visuale, l’irrazionalità del razionale capitalistico si svela nella sua violenza: il consumo diviene dispendio di risorse umane ed ambientali, l’accumulo si ribalta in irrazionalità, perché nega il fine per il trionfo del mezzo. Il capitalismo è irrazionale perché antimetafisico.
Il capitalismo speculativo è la realizzazione compiuta della logica del plusvalore, il quale si muove in due direzioni per occupare ogni spazio fisico e mentale. Il plusvalore relativo è finalizzato ad occupare ogni spazio della coscienza saturandola con l’intromissione di parole per il solo calcolo e rappresentazioni di sole merci, la mente si trasforma in semplice specchio dell’immediato, mentre il plusvalore assoluto sfrutta la forza lavoro, precarizza. Il plusvalore relativo, con i suoi sogni mediatici addomestica le masse, il popolo da demos (δῆμος) consapevole e disposto all’agire della prassi è sostituito dal laos (λαός), ovvero dalla massa depauperizzata della coscienza che si rimette alle parole del “ministero della verità” perennemente in azione con il fine di sussumere e reificare. Il popolo, privo e deprivato di domande, si rimette al capo, inneggia all’uomo forte, è pronto a seguirlo, “educato” ad essere oggetto della storia.
La legge della “nuova civiltà” è l’arbitrarismo La guerra è lo stato perenne dei popoli proni al “ministero della verità”. Si manifesta, in modalità esponenziali, in circostanze che necessitano l’abbattimento del nemico che si oppone al nuovo ordine del discorso. Ma la guerra è la condizione quotidiana delle nuove plebi. Essa si manifesta nella competizione senza limite, nell’ossessione individualista e narcisista, nel riduzionismo generalizzato. L’io minimo è perennemente belligerante, poiché sostituisce la ricerca di sé con le operazioni di acquisizione. I popoli sono in guerra, perché senza domande. Ogni epochè dell’agire acquisitivo è messo alla pubblica berlina. Alla parola che unisce dev’essere sostituita la violenza della parola che divide, alla relazione umana il libero scambio quale religione unica ed assoluta della globalizzazione. La legge della “nuova civiltà” è l’arbitrarismo, come l’ha definita Massimo Bontempelli. In assenza di vincoli comunitari ed assiologici, ogni esperienza umana e luogo di condivisione sono sussunti alla logica acquisitiva.
Il concetto di «arbitrarismo» Attraverso il traffico veicolare e lo spazio che esso occupa Massimo Bontempelli denuncia l’arbitrarismo, una nuova forma di nichilismo acquisitivo e proprietario con il quale lo spazio pubblico è svuotato del suo senso per essere occupato dai privati, fino ad essere pubblico in senso formale, ma di fatto è privatizzato a spese del pubblico:
«Basta ragionare, per capire quale sia questo presupposto: è quella forma di nichilismo che abbiamo chiamato arbitrarismo, qui espressa nella concezione secondo cui è un diritto della persona libera quello di usare a piacere lo spazio pubblico per spostarvisi con un proprio privato abitacolo semovente».[1]
Lo sfruttamento si concretizza per sottrazione: erodere ogni spazio pubblico e sostituirlo con il mercato, che in modo capillare cancella nel concreto lo spazio pubblico per eliminare dalla comunità la disposizione alla condivisione. Si opera sulla percezione concreta dello spazio vissuto che dev’essere occupato dal traffico veicolare per essere anche mercato espositivo gratuito perennemente in azione delle auto. I veicoli nelle pubbliche strade muovono al desiderio di acquisto irriflesso dei pedoni e non. Lo sfruttamento del popolo si manifesra anche nella forma dell’occupazione dello sguardo che essendo esposto al traffico veicolare in modo continuo, introietta l’acquisto e l’uso delle auto come una necessità irrinunciabile. Lo spazio si deforma, in quanto è vissuto come oggetto da conuistare e non da conoscere e vivere. Lo sguardo, l’udito, il tatto diventano i canali in cui la merce penetra ed occupa il corpo vissuto. Ci si abitua alla normalità del rumore come dei gas di scarico, si naturalizza l’artificiale. Il traffico occupa lo spazio come l’aria, anche quest’ultima è al servizio degli esiziali interessi privati, è “occupata” dai gas come dall’inquinamento sonoro. Si deve mutare l’olfatto e l’udito, affinchè l’innaturale sostituisca le condizioni che consentono la socializzazione e la dialettica del pensiero. Lo spazio cittadino da agorà dell’incontro diventa mercato totale.
La violenza del traffico è l’espressione immediata del capitalismo speculativo, risponde ad esigenze immediatamente razionali, ma in realtà ha l’effetto – nel suo moltiplicarsi incontrollato – di occupare ogni spazio fisico e mentale fino al loro annichilimento.
False soluzioni Il traffico può procurare fastidio in alcuni, si possono denunciare gli effetti immediati, ma tali critiche non colgono la profondità del problema, restano all’interno dell’empirico, registrano i dati dell’inquinamento, ma non colgono la verità del fenomeno traffico, gli interessi privati che si celano dietro l’occupazione del suolo pubblico:
«Un po’ tutti si lamentano del cosiddetto traffico, sia pure a livelli diversi, corrispondenti a diversi gradi di sensibilità. Le persone di più consistente spessore umano non sopportano il sequestro allucinante di tutte le strade in tutte le ore alla socialità comunicativa, ad opera dei veicoli che invadono ogni spazio, lo percorrono spesso in modo pericoloso, lo ammorbano di gas, lo rendono costantemente pericoloso». [2]
Le critiche, le lamentale, non turbano i poteri, in quanto esse non producono alternative, poiché non sono estranee al problema nella sua abissale profondità, e non conducono alla prassi, anzi, le critiche impotenti sono sollecitate, perché sono l’orpello della democrazia formale.
Si cerca di risolvere il problema senza cambiare gli equilibri sociali, senza mettere in discussione la struttura economica e la sovrastruttura culturale. Si sposta il traffico in altre zone della città, si libera una parte minuscola della città rappresentandola come svolta green, come l’inizio di un nuovo modo di vivere e di abitare la città per lasciare tutto inalterato, anzi si ammorbano maggiormente parti della città, spesso abitate dai ceti meno abbienti subiscono gli effetti del dirottamento ecologico. Il consumo del territorio, l’inurbamento di aree sempre più ampie, in presenza di calo demografico, comporta la costruzione di strade su cui percorrere distanze sempre più ampie. Le strade attraggono auto, sono il segno che invita al loro uso, alla cultura del dominio e della sottomissione del suolo:
«Succede, però, che l’ampliamento degli spazi a disposizione delle automobili attira nuove automobili, ed i problemi di scorrevolezza si riproducono con il passare del tempo identici, ma con quantità maggiori di veicoli, e quindi con più devastanti effetti ecologici». [3]
Lo spazio liberato dal traffico è diversamente sussunto alle logiche acquisitive: si eliminano le auto per sostituirle con il traffico dei consumatori. Lo spazio di vita dev’essere sotto l’imperio della reificazione, per cui le zone liberate dal traffico sono occupate dalla medesima logica acquisitiva: nessuno spazio deve sfuggire allo scambio mercantile.
Città senza cittadinanza Le soluzioni propagandate come ecologiche ed innovative, riproducono la struttura gerarchica dell’integralismo economico, la città è divisa in due strati: la superficie per gli automobilisti, sotto terra – con la costruzione delle metropolitane – i pedoni. La divisione degli spazi spesso coincide con la subalternità dei pedoni all’automobilista. Si gerarchizzano gli spazi: le auto sempre più costose per il loro mantenimento sono dei più ricchi, di coloro che non sono ancora del tutto precarizzati, mentre i pedoni chiusi nel loro buio orizzonte, nella caverna metropolita giudicano naturale la propria condizione:
«Per migliorare la circolazione urbana, si sono costruite metropolitane, ma in questo modo, dirottando i pedoni sotto terra , si è resa più forte l’idea che le città appartengono agli automobilisti, e si sono creati nuovi flussi di traffico da e per le stazioni delle metropolitane». [4]
Il traffico educa all’isolamento gli automobilisti rinchiusi ed al sicuro nell’abitacolo del veicolo imparano l’atomistica delle solitudini, i pedoni subiscono l’occupazione dello spazio pubblico, si abituano alla privatizzazione dello Stato. La città – curvata al solo valore di scambio – è città senza agorà e dunque è lo spazio realizzato del nichilismo, poiché lo spazio non è per gli esseri umani, ma è finalizzato allo scambio mercantile, alla violenza del plusvalore. Le violenze che attraversano le città contemporanee sono l’epifenomeno della negazione della città come convivialità e comunità, al suo posto non vi è che la violenza sulle ruote e del cemento. Il cittadino non è parte della comunità cittadina, ma assiste e serve la bestia selvaggia del mercato. Si assiste alla costruzione della spazialità piena, ingombra di merc. Il traffico diviene modello spaziale, per cui l’unico spazio possibile e vivibile è nella sola pienezza delle merci.
La verità del traffico veicolare L’auto è la cinghia di trasmissione della privatizzazione. L’automobilista occupa lo spazio pubblico in modo diretto, e ne è separato, chiuso e racchiuso in un abitacolo che lo divide e che gli impedisce il contatto percettivo con il mondo esterno, lo guarda velocemente alla ricerca della sua meta, la quale è sempre funzionale ai suoi calcoli privati: il mondo intero è cancellato in nome dei personalissimi intendimenti privati:
«L’automobile, invece, essendo un abitacolo chiuso, sposta l’individuo attraverso lo spazio pubblico mantenendolo estraneo. Essa, cioè non è soltanto un mezzo privato di circolazione nello spazio pubblico, ma è anche uno spazio privato nello spazio pubblico, come fosse una piccola casa semimovente, o una stanza distaccata della casa spostabile nelle strade. […] L’automobile, quindi, determina la privatizzazione dello spazio pubblico non in quanto è un mezzo di proprietà privata, ma in quanto è uno spazio privato che si mantiene tale nello spazio pubblico. La privatizzazione dello spazio pubblico determinata dall’automobile ha creato modelli di comportamento collettivo che sono aberranti, e tuttavia generalmente accettati come normali».[5]
Lo spazio sotto l’effetto del traffico manifesta la verità della città nel tempo del capitalismo assoluto: non è più luogo della dialettica dell’incontro, ma è nella sua interezza valore di scambio, mercificazione totale degli spazi i quali sono occupati in nome della violenza del valore di scambio. La città non è più abitata, non ha più storia, ma è solo un immenso spazio espositivo per consumatori senza speranza.
Il gigantismo delle auto, inoltre, è l’espressione dell’onnipotenza del privato sul pubblico: auto dall’aspetto sempre più minaccioso palesano la potenza del privato. Il corazzamento veicolare causa l’espulsione dalla strada del pedone, che si ritrae dinanzi alla possibilità d’essere schiacciato dalla potenza automobilistica, la quale perde la sua funzione di spostamento veicolare per sottolineare la tracotanza sociale dei nuovi padroni sui normali pedoni. La minaccia è anche nel rumore assordante, vero strumento di inibizione del pensiero libero. Le città si estendono divorando suolo e spingendo folle umane verso la marginalità urbana. La violenza del sistema capitale si svela e nel contempo si struttura come abitudine intrascendibile.
La funzione “dis-educativa” del traffico veicolare Il sistema del capitalismo assoluto si regge sulla divisione, sulla deformazione dei sensi come dei sentimenti: si deve imparare ad inseguire solo gli interessi privati ed a cancellare il pubblico. L’automobilista rappresenta il microcosmo del capitalismo assoluto, egli è astratto dalla realtà concreta e sfrutta la strada pubblica per fini privati. Gli automobilisti “rischiano” di diventare il mezzo con cui il capitalismo estende le sue logiche:
«L’automobilista, in realtà, è una figura la cui logica di comportamento replica su scala di massima quella dell’imprenditore capitalistico, caratterizzata dall’uso privato di risorse pubbliche (nel caso dell’automobilista dello spazio stradale), e dell’esternalizzazione dei costi della sua attività (nel caso dell’automobilista la circolazione), che diventano così da privati costi sociali».[6]
La privatizzazione della vita negli ultimi anni si è estesa con mezzi ulteriori. Si pensi ai telefoni cellulari, allo sguardo perennemente rapito da immagini e messaggi, spesso vacui, che corrono sulle linee telefoniche. Anche il pedone non guarda la strada, ma costantemente resta legato alla catena della sua vita astratta, separata dalla collettività. Le nuove catene invisibili si moltiplicano, ed in esse ci si avvolge con la stessa normalità con cui si respira. L’auto prepara l’imprenditore, poiché forma all’occupazione del suolo pubblico, al suo sfruttamento, mentre il pedone prepara il precario, poiché formato alla passività ed alla naturalizzazione delle gerarchie sociali.
Riforma del paradigma privatistico Risolvere il problema del traffico è possibile solo se si cambia paradigma di lettura del reale. Le soluzioni messe in atto in nome della svolta ambientale, stile Greta, hanno il fine solo di perpetuare lo stato di cose attuale. Il paradigma può cambiare solo se la consapevolezza, sempre collettiva (Geist), diviene motore di un cambiamento della struttura e della sovrastruttura. Si assiste invece a cambiamenti parziali per occultare il macrodato che il pianeta non regge a tali logiche arbitraristiche. Massimo Bontempelli propone, così, la sostituzione del traffico con il rafforzamento dei mezzi pubblici espressione di un senso della comunità ritrovata:
«I problemi creati dall’automobile, cioè, non possono essere sensatamente affrontati se non con nuovo paradigma di pensiero che legittimi livelli progressivi di interdizione e penalizzazione del mezzo automobilistico. Occorre, in primo luogo, contrariamente, a quanto suppone il senso comune, smettere subito di potenziare la rete stradale, e sviluppare invece il trasporto su rotaia. […] Alle crescenti difficoltà di usare le automobili si dovrebbe rispondere con l’offerta di migliori e più convenienti trasporti pubblici». [7]
Conclusione L’analisi del traffico veicolare denota e connota il capitalismo assoluto, capace di produrre ricchezza e nel contempo di distruggere – con la sua irrazionale razionalità – l’ambiente e la socialità.
Le miserie del capitalismo speculativo sono innumerevoli, producono miseria materiale nelle nazioni che subiscono il neocolonialismo, ma anche forme di miseria ambientale ed etica che non rientrano nei pubblici dibattiti nei paesi ad economia avanzata. L’integralismo economico è per sua istituzione e storia adialettico al punto che il silenzio di ogni opposizione è oggi denominata inclusione:
«Il modo di produzione capitalistico ha ormai storicamente svelato la sua natura spaventosamente distruttiva su molteplici piani. Esso ha creato ricchezza economica ad un livello mai raggiunto da alcun sistema precedente. Ma la creazione capitalistica di nuova ricchezza ha dimostrato di essere, allo stesso tempo, creazione di nuove povertà, distruzione della socialità degli esseri umani, della loro sanità psichica, dell’ambiente naturale adatto alla loro vita biologica, delle risorse per il loro futuro. Esso è ormai la maledizione del genere umano, che è condannato, per creare e distribuire ricchezza secondo i rapporti di produzione capitalistici, in maniera sufficiente a mantenere un minimo di equilibrio sociale, a vivere in modo sempre più distruttivo nei confronti della natura e di se stesso».[8]
Il breve scritto di Bontempelli, dunque, non è solo una riflessione sul traffico, ma insegna a filosofare, ad assumere un comportamento antidogmatico, a pensare per agire e vivere diversamente. L’attività filosofica consiste nell’interrogare il noto, per scoprire che è sconosciuto. Tale processo implica il passaggio da uno stato di passività ad uno di attività consapevole e concettuale.
Se i tempi paiono lontani dalla rivoluzione del paradigma, i testi di Bontempelli consentono comunque di far rimanere in vita idee e concetti che possono essere ritrovati e avere nuova fioritura, in quanto ciò che ora appare come intrasmutabile con la propagandata «fine della storia» ideologicamente onnipresente nei ministeri della (falsa) verità del capitalismo, già lavora per il suo superamento anche se in tempi non profetizzabili.
Salvatore Bravo
[1] Massimo Bontempelli, L’arbitrarismo della circolazione autoveicolare, C.R.T.- Petite Plaisance, Pistoia 2001, pag. 7.
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