Salvatore Antonio Bravo – L’industria culturale capitalistica utilizza solo autori che interpretino K. Marx in senso riduttivo, proprio per evitare possibilità di sviluppo teorico progettuale con una conseguente prassi rivoluzionaria.

Marx e la divisione del lavoro
  • MarxEngels tondo  «E infine la divisione del lavoro offre anche il primo esempio del fatto che fin tanto che gli uomini si trovano nella società naturale, fin tanto che esiste, quindi, la scissione fra interesse particolare e interesse comune, fin tanto che l’attività, quindi, è divisa non volontariamente ma naturalmente, l’azione propria dell’uomo diventa una potenza a lui estranea, che lo sovrasta, che lo soggioga, invece di essere da lui dominata. Cioè appena il lavoro cominci a ad essere diviso ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore, o pastore, o critico, e tale deve restare se non vuol perdere i mezzi per vivere; laddove nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico».

 L’idelogia tedesca, 1846.

 

 

L’epoca ideologica per antonomasia è proprio l’epoca attuale, nella quale il dicitur mediatico – a tambur battente – ci annuncia che le ideologie sono morte. Da tale postulato si deduce che viviamo nell’epoca dell’oggettivo, la verità è stata svelata e dunque è inutile sporgersi oltre l’orizzonte attuale.
Marx ci aiuta, con i suoi fendenti dialettici e con il suo apparato concettuale, a non cadere nella trappola ideologica: ogni produzione culturale è condizionata dalla struttura e, in ragione di tale necessitato condizionamento, è finalizzata ad occultarne la storicità. La produzione culturale è interna ai rapporti (Verkehr) di produzione. L’odierno successo del pensiero di Hannah Arendt dovrebbe muovere al sospetto che tale successo, malgrado la pensatrice, sia tutto interno ad una postura ideologica del turbocapitalismo: è una delle formule dell’adaequatio ad rem. L’opera della Arendt assimila, in un’unica categoria interpretativa, il Totalitarismo, sia l’esperienza sovietica che nazista. La semplificazione, o meglio, il riduzionismo interpretativo messo in atto, favorisce l’uso ideologico del pensiero della Arendt. Nei suoi scritti inoltre, al riduzionismo esemplificante della categoria di Totalitarismo, si aggiunge la sua discutibile interpretazione del pensiero di Marx. Nell’opera Le origini del Totalitarismo non è messo in opportuna evidenza la relazione tra i totalitarismi e l’economia liberista, ovvero l’arretramento dello Stato dinanzi alla crisi economica del 1929. L’atomismo su cui avrebbero agito i totalitarismi sono l’effetto delle politiche internazionali volte al saccheggio finanziario ed umano dei popoli. I totalitarismi sono l’effetto di una malattia, il suo epifenomeno. La malattia è il liberismo capitalista  con le sue sperequazioni e contraddizioni che si acuiscono nei periodi di crisi economica. Le crisi economiche mostrano la sostanza del liberismo, è il regno animale dello Spirito (G.W. Hegel, Fenomenologia dello Spirito), nel quale si perseguono unicamente gli interessi particolari a discapito della comunità: è il regno dell’atomismo sociale. Ciò che appare come “male minore”, il liberismo, se si effettua un’operazione di cambio di prospettiva mediante la quale i fenomeni storici sono letti in modo olistico, può svelarsi come la causa del problema, piuttosto che la soluzione. Come non legare l’ascesa del nazionalsocialismo all’austerità del governo Bruning e lo stalinismo come la corrente fredda favorita dall’aggressione internazionale verso il comunismo sovietico. La genetica della storia dimostra scientificamente l’azione annichilente del liberismo, novello e perverso Prometeo scatenato, che lasciando i popoli alla mercé violenta dell’economia, induce a reazioni di difesa estrema. È il sistema della paura, delle solitudini dinanzi al precariato ed alla flessibilità.

Pifferaio-Magico-Vetrata

Il Pifferaio Magico.

La contemporaneità è segnata dai neologismi ideologici del regno animale dello Spirito, allo scopo di occultare il vero, mediante una sovrastruttura di false rappresentazioni. Il cittadino globale è dato in olocausto al liberismo: si pensi all’emigrazione forzata, allo sradicamento di intere generazioni dai luoghi di origine, così come dal proprio futuro. Le vite dei cittadini globali sono paradigmatiche, caratterizzate come sono dall’eterno presente del precariato. La vita materiale di ciascuno diviene il luogo dove si annidano paure ed aggressività pronte a seguire il pifferaio magico di turno che intona motivi di ideologica ir-razionalità: si fa appello ad un modello di pseudo razionalità presentato nello splendore della sua oggettività, ma che in realtà è solo ideologia. Si induce a seguire un percorso predeterminato negli interessi di pochi, ma rappresentato come universale: e ciò nell’applicazione di una razionalità (irrazionale) sempre strumentale e mai veramente oggettiva. Terrorizzare, diffondere un senso di insicurezza, è una manovra per impedire percorsi alternativi e congelare la dialettica democratica:

«Intervistato recentemente dalla televisione britannica, un alto funzionario dei servizi di sicurezza sudafricani ha messo le carte in tavola: l’A.N.C. costituisce un pericolo reale, a suo parere, non per i propri atti di sabotaggio – per quanto spettacolari o dannosi – ma perché potrebbe indurre la popolazione nera, o gran parte di essa, a trasgredire “la legge e l’ordine”; se ciò avvenisse, anche i migliori servizi di informazione e le più potenti forze di sicurezza sarebbero impotenti (una previsione confermata di recente dall’esperienza dell’Intifada). Il terrore resta efficace finché la bolla d’aria della razionalità non viene squarciata. Il più sinistro, crudele, sanguinario dei tiranni deve restare un devoto predicatore e difensore della razionalità, o perire. Nel rivolgersi ai propri sudditi egli deve “parlare alla ragione”. Deve proteggere la ragione, lodare le virtù del calcolo dei costi e degli effetti, difendere la logica dalle passioni e dai valori che, irragionevolmente, non tengono conto dei costi e si rifiutano di obbedire alla logica. Tutti i governanti possono contare, in buona misura, sul fatto che la razionalità è dalla loro parte. I nazisti, inoltre, manipolarono la posta in palio in modo che la razionalità della sopravvivenza rendesse irrazionali tutte le altre motivazioni dell’azione umana. All’interno del mondo creato dai nazisti la ragione era nemica della morale. La difesa razionale della propria sopravvivenza richiedeva la non resistenza alla distruzione dell’altro. Questa razionalità spingeva i perseguitati gli uni contro gli altri e cancellava la loro comune umanità. Inoltre, li trasformava in una minaccia e in un nemico per tutti coloro che non erano ancora stati condannati a morte e ai quali veniva garantito, momentaneamente, il ruolo di spettatori. Il nobile credo della razionalità assolveva benevolmente sia le vittime sia gli spettatori dall’accusa di immoralità e dal senso di colpa. Avendo ridotto la vita umana al calcolo dell’autoconservazione, la razionalità la derubava della sua umanità»[1]

Bauman coglie appieno il falso dispositivo di razionalità, utilissimo a cementare sistemi con la paura ed il terrore dell’alternativa. Il pensiero della Arendt è interno al dispositivo di potere, è divenuto uno dei mezzi con i quali si chiude la discussione sull’alternativa a tale sistema. Serve ad omaggiare il liberal-liberismo come unica possibilità pensabile; il resto, è stato solo Terrore, pertanto non vi è alternativa al presente. Lo stivale sul volto dei popoli è anche l’industria della cultura, gli autori utilizzati come mezzo per necrotizzare il pensiero divergente. Si orientano le scelte facendole apparire come fatali, ritagliando lo spazio d’intervento dell’attività della mente. Si omette quanto il secolo precedente sia stato una possibilità non realizzata, perché in esso hanno convissuto una pluralità di potenziali modelli economici che oggi appaiono stigmatizzati tutti sotto la voce “utopici” o “male assoluto”.
La Arendt fa dunque parte dell’industria ideologica del capitalismo, “cultura di regime”. Si presta a tale logica l’analisi che la Arendt fa del pensiero di Marx. Sostiene infatti – e mi soffermo solo su questo punto – che Marx ha posto le condizioni per l’abbrutimento dell’uomo, poiché ha posto l’essenza dell’uomo nel lavoro, nella trasformazione della natura, in tal modo ha fatto dell’uomo una parte della natura, lo ha sottoposto ai cicli naturali, necrotizzando l’agere, la libertà, la creazione ex novo. Il materialismo dialettico nasce con un peccato originale, nega la libertà del genere umano, e dunque si presta ad essere lo sgabello ideologico di ogni dittatura. Una tale erratissima visione, spiega la motivazione del successo della Arendt, la quale educa ad associare al comunismo il Totalitarismo. Così si esprime la Arendt:

«Marx e le conseguenze. Poiché la scoperta centrale di Marx consiste nella descrizione dell’uomo come essere che lavora – da cui la posizione centrale della classe dei lavoratori e del cosiddetto materialismo (metabolismo con la natura), egli concepisce l’uomo come essenzialmente isolato. Colui che lavora, concepito e descritto secondo l’antico modello greco del fabbricante, in effetti è in linea di principio solo con ciò che produce; gli altri appaiono unicamente come aiutanti (mastro e assistente). Le categorie di mezzo-fine, che sono pienamente adeguate all’uomo alla fabbricazione, nel processo lavorativo si estendono all’uomo; da nessuna parte è tanto evidente e in un certo senso legittimo trattare gli uomini come mezzi quanto nl processo lavorativo»[2].

Si comprende quanto sia stata ribaltata la realtà. Per Marx l’essenza dell’uomo è generica: qui invece diventa strettamente legata alla produzione, in modo atemporale e meccanico. Marx, nel Frammento sulle macchine, ipotizza l’uso delle tecnologie per liberare gli uomini dal bisogno, per permettere l’espressione delle potenzialità infinite della mente di ciascuno. Ciò che secondo Marx è l’essenza dell’uomo, diviene nel discorso della Arendt unicamente e soltanto il lavoro legato alla necessità economica. Trasforma e rappresenta così il materialismo storico in un un materialismo adialettico ed acefalo. Marx, invece, concepisce la storia come dialettica evolutiva; pertanto, al di là di alcune derive naturalistiche e positivistiche, si struttura per una trasformazione progressiva quantitativa e qualitativa: la storia si evolve da uno stato di necessità ad uno di libertà mediante la mediazione dell’evoluzione storica, dalla legge della giungla produttivista e dello sfruttamento al regno dell’umano. Il genere umano pone nella storia le condizioni per la propria liberazione, per la scoperta consapevole di sé. La verità dunque si svela con una processualità che porta alla libertà, al superamento dell’estraniamento di sé. Il genere umano è parte della natura come della storia, ma non appartiene completamente ad esse, si rende libero con la processualità dialettica, la quale vuole il lavoro sociale come condizione imprescindibile per un processo evolutivo di liberazione del genere umano. Anzi, è in tale processo che si svela gradualmente quanto l’essere umano non abbia, come gli altri esseri viventi, una natura specifica, ma poliedrica, per cui il fine dell’evoluzione materialistica è la concretizzazione di tale disposizione tarpata dai processi di sfruttamento e di necessaria sopravvivenza. Marx è esplicito nell’affermare che la natura umana è generale e creativa:

karl marx  «regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi viene voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico»[3].

La Arendt afferma che l’essere umano ridotto a fabbricante, a homo faber, diviene un essere isolato. Il fraintendimento è qui notevole poiché per Marx la natura sociale dell’essere umano è libertaria e sociale. Non è un caso che nel Capitale, l’autore più citato è Aristotele. La tesi di laurea dello stesso Marx, Differenze tra le filosofie delle nature di Democrito ed Epicuro, è una contrapposizione tra il determinismo e l’indeterminismo, a favore di quest’ultimo. In tale tesi ricorre frequentemente il termine “autocoscienza”: nel linguaggio idealistico utilizzato da Marx, tale termine è speculare non all’homo faber ma alla libertà ed alla prassi.

Costanzo Preve, autore non utilizzabile a livello ideologico, delinea nei suoi testi lo spessore libertario ed emancipativo della natura generica e sociale di Marx:

 

Costanzo   «La socialità dell’uomo, che viene appunto alienata da questo processo di espropriazione, viene così delegata alle merci ed allo scambio sul mercato. Il rapporto sociale tra le persone si presenta per così dire rovesciato, come rapporto sociale fra le cose e non più fra gli esseri umani (reificazione, Verdinglichung). La merce assume così il ruolo di feticcio (feticcio delle merci, Warenfetizismus), in quanto appare dotata di valore autonomo ed originario, rimanendo così occulti i rapporti sociali umani che tale valore hanno prodotto (cfr. Il Capitale, I, La merce, 4), il che comporta un programma pratico di rovesciamento “dialettico” di questa situazione storica»[4].

Costanzo Preve coglie il pensiero di Marx nella sua pienezza emancipativa (ed ecco allora perché si tende a “silenziare l’elaborazione teorica di C. Preve, in quanto disfunzionale rispetto all’industria culturale). L’esame critico delle fonti deve educarci a vagliare, ancor più in tale contesto, l’uso ideologico degli autori.

Malgrado la contemporaneità sia presentata come laica e razionale, viviamo in un’epoca non solo fortemente ideologica, ma specialmente superstiziosa, poiché l’educazione alla passività, alla sudditanza ideologica totemica, diseduca al pensiero come attività consapevole di verifica. L’industria culturale, o a voler usare il linguaggio di Preve, il clero orante ed ideologico, utilizza i suoi spazi per diseducare alla prassi come alla speranza.

Marx è un autore che inquieta, che ci pone dei problemi, ed ipotizza soluzioni al plurale. Nell’industria culturale odierna pertanto sono utilizzati solo autori che lo interpretino in senso riduttivo, proprio per evitare possibilità di sviluppo teorico progettuale con una conseguente prassi rivoluzionaria. Alla Miseria dello Storicismo di Popper, altro autore utilizzato in senso ideologico, dovremmo contrapporre le miserie ideologiche dell’attuale sistema superstizioso e feticistico. In contrapposizione alla cultura conformista ed ideologica, dovremmo mettere in atto un’epochè culturale sostenuta dagli autori che svelano e rilevano la densità ideologica dei nostri giorni. In Ateismo nel cristianesimo, E. Bloch riporta l’aneddoto metaforico dei baffi di Hindenburg, il quale non avendo consistenza pilifera sul labbro superiore, cercava di coprire la pochezza pilifera con la messa in scena di baffi sempre più teatrali, rivolti verso l’alto[5]. Ora l’industria culturale asservita, alla stessa maniera, copre il vuoto con la vendita massiccia di taluni autori, che servono a coprire il volto truce e violento del nulla dei giorni del mero presente.

Salvatore Antonio Bravo

***

[1] Z. Bauman, Modernità ed Olocausto, Il Mulino, 1992, p. 198.

[2] H. Arendt, Nel deserto del pensiero, Beat, 2015, p. 70.

[3] K. Marx, Ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1983, p. 24.

[4] C. Preve, Storia della dialettica, Petite Plaisance, Pistoia, 2006, pp. 102-103

[5] E. Bloch, Ateismo nel cristianesimo, Feltrinelli, 1968: «I poveri che non possono parlare ad alta voce sono costretti a farlo in disparte; mentre invece quei ricchi, che pur non avendo nulla voglio tuttavia rappresentare qualcosa, agiscono sempre a voce spiegata […]. Estendendo, migliorando, talvolta anche falsificando tutto quanto hanno a disposizione e facendolo apparire tutt’altro, essi lo ricoprono delle penne di un pavone che nel migliore dei casi non c’entra per nulla. Un esempio, se si vuole un po’ sciocco ma pur sempre allegorico, lo abbiamo nei baffi di Hindenburg. Costui volendo essere baffuto ed essendo troppo scarsa la forza pilifera nel suo labbro superiore, convogliò in quella zona una parte dei peli delle guance, spazzolandoli verso l’esterno per meglio ingannare. Ecco nato così un surrogato, qualcosa che certo non fu succhiato col latte materno, un abbellimento esterno che ricorre ad elementi estranei. E per liberarci di Hindenburg, dissolvendo nel contempo la patria tradizione in una rossa realtà un tempo antitetica, dobbiamo ricordare che il surrogato è utile solo quando sia vuota del tutto l’antica culla che certo è artistica, ma manca pur sempre di sogni e di visioni. Abbiamo così il vantaggio di illuminare e comprendere sinceramente, lasciando apparire le cose come sono, il giusto che si è fatto sciocco».


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Salvatore Antonio Bravo – Evald Ilyenkov e la logica dialettica. Occorre studiare il pensiero come un’attività collettiva, in cooperazione. Il capitalismo è profondamente anticomunitario, trasforma tutto in merce, disintegra le comunità, smantella la vita nella sua forma più alta: il pensiero comunitario consapevole.
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Marco Penzo – Alle origini del concetto di “comunismo”

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Rappresentando per Marx comunismo la realizzazione di una società nella quale vale l’affermazione «a ognuno secondo i suoi bisogni»,[1] questo presupposto ci può portare a riflettere più dettagliatamente al pensiero comunista ai tempi a noi remoti dei Greci e dei Romani e in generale di quel mondo che definiamo antico: convenzionalmente il mondo antico si conclude con la deposizione di Romolo Augustolo e la caduta dell’Impero Romano d’Occidente (476 d.C.), e, seguendo il Musti,[2] con la chiusura della Scuola di Atene (529 d.C.), che segna effettivamente la fine della grande storia del mondo greco antico, già debilitato dal 146 a.C., anno della distruzione di Corinto e fondazione della provincia di Acaia da parte dei Romani.[3] Ricordiamo però la storia greca manualistica si chiude in genere con la battaglia di Azio e la morte di Marco Antonio e Cleopatra nel 30 a.C.[4] Sta di fatto che un ordine “stabile” successivo alla fine dell’Impero Romano d’Occidente non si ha fino alla caduta dei Longobardi e la vittoria decisiva di Carlo Magno tra il 774 e il 776 d.C., che riporta in auge il concetto di Impero Romano, subentrando come figura legittima del potere imperiale (vedi la sua incoronazione a imperatore nell’800 d.C.) e come naturale successore dei Romani, e ufficiale avviatore di una nuova fase: ecco il Medioevo, quello che era nato con l’arrivo di popoli come Ostrogoti, Visigoti e Longobardi, ma che ha trovato autentica legittimazione e realizzazione con l’ascesa di Carlo Magno, guida dei Franchi.[5]
Ma, tornando al concetto di comunismo, forse dobbiamo riprendere i passi proprio dal mondo greco e così proprio dalla grande scuola di Atene, il pantheon della filosofia antica.
Pensando a Raffaello e alla sua opera della Scuola di Atene, ci ricordiamo dell’enumerarsi di figure storiche che hanno fondato il pensiero filosofico antico, con al centro della scena i due padri della filosofia antica (senza dimenticare il padre putativo, l’Ungaretti per gli ermetici, il Baudelaire per i simbolisti, del pensiero razionale greco, cioè Socrate): Platone e Aristotele.
Proprio questi due avrebbero creato “involontariamente” quella divisione che ben espresse l’ottimo Coleridge tra “platonici” e “aristotelici”, come ricorda ad esempio Pugliese Carratelli [6]: e mai come altri questi due pionieri del pensiero sono stati alla base del futuro pensiero di Marx, a mio dire uno degli ultimi grandi allievi di questi pensatori.
Bisogna però sottolineare che la concezione di comunismo nasce ben prima dell’evoluzione del pensiero della Trinità della filosofia greca Socrate-Platone-Aristotele.
Se vogliamo guardare molto lontano, Pettinato ci chiarisce che nell’arcaico periodo assiro sotto il regno di Ur III, fondato da Ur-Nammu e poi riformato da Shulgi si venne ad organizzare una società con principi che si possono definire comunisti (2100 a.C).[7]
Sta di fatto che nel mondo greco, e più precisamente nel VI secolo a.C., si fa risalire la prima e singolare esperienza del mondo classico: Pentatlo, uomo di Cnido che, trascinandosi nell’onda della colonizzazione greca dell’Italia, in particolare di Sicilia e Magna Grecia, tentò l’impresa di conquistare Lilibeo e Erice e sostenne Selinunte contro Segesta in una lotta che lo vide morire per mano degli Elimi, abitanti la Sicilia occidentale. I seguaci di Pentatlo in quest’avventura colonizzatrice si rifugiarono nelle isole Eolie e, probabilmente sulla base dei principi della loro guida, stabilirono una società di stampo comunista, dove Lipari era l’epicentro, mentre Stromboli, Vulcano e Salina le zone agricole. Seguendo il Musti[8] possiamo riassumere come fossero organizzate le terre, secondo una gestione di proprietà comuni o che venivano rese private limitatamente nel tempo: ogni 20 anni doveva avvenire una redistribuzione delle terre.
L’esperienza di Lipari non è però un caso così singolare: è lo stesso Musti[9] a sottolineare l’influenza dorica nella gestione “comunista” delle terre…
A proposito, viene da pensare a come i Dori in Laconia gestivano le terre, dividendole in parti uguali per la coltivazione e mantenendo il pascolo comune, sempre con la preoccupazione di gestire l’uguaglianza tra le genti “pari” e si ricorda come a Sparta si evitava l’uso di materiali preziosi come l’oro per la coniazione di monete, il tutto per scacciare quella sorta di ὓβρις tanto temuta dai Greci. Questo riporta Plutarco su Licurgo, lo storico legislatore spartano: «Licurgo si preoccupò di dividere le proprietà in modo che ogni sentore di irregolarità e di non eguaglianza potesse essere rimosso […]. Fece ritirare tutte le monete in oro e argento e impose l’uso delle sole monete di ferro. Di conseguenza a un peso e una massa grandi diede un valore insignificante, cosicché per 10 mine fosse necessario un largo ripostiglio in casa, e un giogo di buoi per trasportarle. Quando le monete ebbero corso, molti tipi di iniquità furono cacciati da Sparta».[10]
Questo concetto di moderazione, di limite, è fondamentale nel mondo antico: “in medio stat virtus” è il motto per eccellenza del mondo antico, e l’Etica Nicomachea di Aristotele il testo per eccellenza della ricerca dell’ἀρετή nella medietas. E grande fautore di questa moderatio fu il filosofo del numero, quel Pitagora che tanti conoscono per le formule matematiche, ma che forse non conoscono sotto l’ambito politico-sociale: per lui il numero è armonia, equilibrio, essenziale metro di valutazione della verità (in questo Platone, soprattutto quello più vecchio, si rifarà al pensiero pitagorico…). Il numero è il simbolo dell’ordine, quindi la società deve essere ordinata secondo questo metodo di armonizzazione. La società ideale è comunitaria, una società composta da “amici”: l’amicizia è fondamentale per una società di uguali e il “comunismo” diventa la filosofia della πόλις della Magna Grecia per eccellenza, Crotone, dove l’élite pitagorica assumeva forme certamente non prettamente o propriamente democratiche, ma comunque aristocratiche nel loro significato più nobile.[11]
Gli ἄριστοι sono nel mondo greco i “migliori”, coloro che hanno le competenze e le conoscenze per gestire la res publica: è ispirandoci a tali concezioni che arriviamo a Platone, che non solo è il massimo teorico del mondo antico sotto l’ambito politico, ma è in lui che il concetto di λόγος assume le sfumature più complete, da parola a dialogo, da ragionamento a numero. L’armonia delle idee, dei numeri porta a una concezione in cui l’uomo deve ricercare la felicità, e felicità per Platone è sapere: il mito della caverna riportato nella Repubblica[12] è l’esempio non solo gnoseologico della scoperta del Bene, ma anche uno dei primi manifesti politici sul compito dell’uomo, che nella sua pienezza è filosofo, amante della σοφία.
Tutti hanno la potenzialità di arrivare al Bene, ma molti di essi necessitano di una spinta, hanno bisogno della “discesa” al mondo della δόξα del filosofo, che rischia di essere disprezzato o ucciso dagli uomini[13], ma che fa del “comunismo della Verità” il suo scopo di vita. Il mito della caverna è grande perché dà la dimostrazione essenziale del valore non solo gnoseologico, ma anche e in un certo senso soprattutto morale del cammino del filosofo sganciato dalla δόξα.
Ed è per questo che mi permetto di definire Platone il “filosofo della libertà” del mondo antico, così come Marx lo è per il mondo contemporaneo.
Tornando a teorici di società con principi comunisti, Aristotele nella Politica parla di Falea di Calcedone, vissuto nell’età della sofistica, il quale voleva dividere in parti uguali i possedimenti per dare la maggior giustizia possibile;[14] così anche di Ippodamo di Mileto, famoso organizzatore della città e del Pireo basandosi sulla geometria pitagorica di cui fu grande sostenitore, il quale divise la società in 3 parti (soldati, artigiani, contadini) così come il territorio (comune, privato, sacro), seguendo il fatto che il 3 era il numero perfetto per i Pitagorici, tutto per ritrovare quell’armonia comunista di stampo pitagorico di cui abbiamo già parlato.[15]
E’ Aristotele a riportare le differenti teorie “comuniste” del mondo greco, ma mentre Falea e Ippodamo danno un senso tecnico più vicino alla realtà, per Aristotele il nostro Platone ha cogitato una società irrealizzabile[16]: si tratta del primo vero esempio di Utopia, nome dell’opera poi scritta da Thomas More e pubblicata nel 1516.[17]
Ma in cosa consiste questa società che per prima ha dato l’idea sì di utopia, ma anche l’idea di un mondo migliore? In Platone c’è il desiderio, la pretesa di portare un mondo ideale sulla Terra: in questo senso è un filosofo idealista, che vede nelle Idee dell’Iperuranio delle formule perfette che devono riportare la verità.
Una simile posizione non poteva essere apprezzata da un filosofo liberale come Karl Popper, il quale vide appunto in Platone (e in un certo senso, per ovvie ragioni, Socrate), ma anche in Hegel e Marx, gli ideologi del “totalitarismo”[18]: questa visione limita notevolmente la profondità del pensiero platonico e l’ambizione sociale di Hegel e Marx, che (e soprattutto il secondo), contrariamente a quanto possa pensare Popper, hanno cercato di dare un senso alla società umana intera. Per Hegel la storia si concludeva nel presente, “giustificando” il potere prussiano, mentre per Marx la storia è un processo da analizzare per cogitare una società più ugualitaria, in cui appunto il comunismo è il termine “ultimo”, il tipo di società dove ognuno ha la potenzialità di arrivare al Bene (volendo riprendere Platone) secondo, in fondo, quel principio successivo di Gramsci secondo il quale «tutti gli uomini sono “filosofi”».[19]
E in questo senso, ritornando a Platone, criticato da certa scuola marxista di essere antidemocratico,[20] contro cioè gli interessi dei più poveri e deboli, si può leggere una corretta visione platonica della società, che pure Aristotele ammette rifarsi alla democrazia oltre che all’oligarchia[21], o, meglio, all’aristocrazia di stampo pitagorico. Platone divide in 3 parti (vedi Ippodamo) la società: filosofi-guide, guerrieri, lavoratori. E’ una sorta di democrazia a piramide, dove per guidare uno stato-πόλις bisogna avere le competenze (ecco l’allievo di Socrate) e chi meglio di chi ha voluto affrontare l’uscita dalla caverna e salire al Sole, al Bene, può guidare la πόλις… E’ però lo stesso Platone ad intendere la potenzialità di ogni individuo ad arrivare all’Idea del Bene, l’ἀλήθεια per eccellenza: ritorna ancora fondamentale il mito della caverna, forse il più complesso di Platone.
Accusare Platone di antidemocrazia è fuorviante e sbagliato. Per sostenere questa posizione si può riportare la critica di Platone al possedimento smisurato della proprietà privata, che a maggior ragione i filosofi devono lasciar stare, perché contrastante con quel principio di medietas essenziale nel mondo greco e romano.
Il limite: ecco il comandamento dell’uomo antico. Platone fa valere più degli altri questo principio, che poi Aristotele esemplificherà benissimo nella differenza tra economia e crematistica, l’amministrazione della casa contro l’abuso di ricchezze,[22] e nell’affermazione di uomo come animale politico, cioè sociale.[23]
Per Platone non c’è spazio per il profitto, soprattutto nel Platone delle Leggi[24], e, se c’è, tale deve essere incamerato dallo Stato per l’amministrazione saggia e a favore del bene comune.
Se di comunismo dei beni si può parlare con Platone, quindi sotto un ambito prettamente economico, questo non si può propriamente dire nell’ambito sociale nel suo senso più esteso: tema centrale, soprattutto del mondo greco, è la schiavitù, e difatti lo schiavo per Aristotele, ad esempio, è pari a «un oggetto che respira»[25] (più tardi Varrone avrebbe utilizzato la formula «strumento che parla»[26]). Saranno gli Stoici, soprattutto quelli vicini all’ambiente romano, a rivalutare la figura dello schiavo. In particolare Seneca ed Epitteto dettero il via a un maggiore rispetto per questa classe sottomessa. Ma fu il pensiero e l’azione di Blossio di Cuma, maestro e sostenitore di Tiberio Gracco,[27] a risaltare questo atteggiamento impegnato a favore dei più disagiati: esaltò gli schiavi e si schierò dalla loro parte nella rivolta di Aristonico avvenuta nella seconda metà del II secolo a.C., il quale attirò a sé, più o meno legittimamente, più o meno onestamente, il favore degli schiavi nella lotta contro l’imperialismo schiavistico romano e nella sognata fondazione di Eliopoli, la Città del Sole che richiama verosimilmente all’Isola del Sole di Giambulo[28] e che potrebbe essere stata formulata grazie proprio alle teorie democratiche di Blossio.[29]
La Città del Sole[30] è anche il titolo dell’opera di Tommaso Campanella del 1602 che probabilmente si rifece, oltre che a Platone, anche a una simile vicenda.
Accanto a questa pretesa di giustizia sociale ante litteram, si affiancava in grandi intellettuali dell’epoca tardo-repubblicana la critica all’avidità di denaro (Sallustio[31]), ma anche un rivisitazione della condizione dello schiavo (soprattutto tramite gli storici Agatarchide di Cnido e Posidonio di Rodi[32]).
Sotto Roma lo schiavo poteva affrancarsi dal padrone e diventare liberto (cosa che non accadeva nel mondo greco): ecco quindi emergere i grandi Stoici del periodo imperiale romano, cioè Seneca, maestro di Nerone e sognatore, come prima Platone, di una società dove doveva regnare la giustizia, ed Epitteto, appunto liberto.
Pensiero affine a quello stoico era il pensiero cinico, al quale il fondatore delle Stoà, Zenone di Cizio, si ispirò per portare avanti i suoi precetti. Per i cinici, contrariamente alla visione del Greco classico, il lavoro, soprattutto manuale, era un valore: gli schiavi potevano avere dignità umana come i liberi. Ecco in quale ambiente culturale si sviluppò la manumissio dello schiavo, la sua emancipazione: il II e il I secolo a.C. furono appunto anche i periodi dove emersero le famose rivolte servili, due in Sicilia, e una, l’ultima, la più famosa e clamorosa (praticamente contemporanea alla guerra mitridatica, dove ci furono elementi servili sotto la guida di Mitridate…[33]), con Spartaco, il Trace che tra il 73 e il 71 a.C. ha scombussolato le file dell’esercito romano. Sempre con Spartaco, particolarità che ci collega agli Spartani e a Licurgo, si evitò l’uso di materiali come oro e argento a favore di bronzo e ferro[34]: in questo caso non c’era l’interesse per la coniazione di monete, ma vi era l’obbiettivo pratico di costruire armi per difendersi dai Romani (senza poi escludere una “superiorità morale” riportata da Urbainczyk[35]).
Anche nell’organizzazione della banda di Spartaco c’era un certo comunismo tra schiavi ribelli: l’intento era respingere l’imperialismo romano a favore della libertà comune.
Il comunismo non fu un elemento così fortuito, ma non era sviluppato al pensiero socialista di tipo “scientifico” marxiano: non si può parlare propriamente di rivoluzione in questo senso nel mondo antico, anche se, per concludere con Spartaco, ci furono delle avvisaglie di questa, tanto che lo stesso Marx nello scrivere a Engels, il caro amico, non nascondeva il fascino che scaturiva da Spartaco, risultando una delle figure più grandiose del mondo antico.[36]
D’altro canto, il comunismo assunse nel passato delle connotazioni particolari anche in ambito religioso: rimanendo soprattutto nell’ambito monoteistico, Giuseppe Flavio ci dice che gli Esseni (della cui comunità faceva probabilmente parte anche Gesù di Nazareth) erano un popolo che viveva in confraternite comunitarie dove vigeva la proprietà collettiva;[37] così i primi Cristiani, seguendo i precetti dei Padri della Chiesa, dovevano condividere i beni e disprezzare le ricchezze superflue:[38] non è un caso che dalla divisione del pane (corpo di Cristo) deriva il termine tanto caro ai sinistrorsi “compagno”…
Ma più di ogni altro fu Marcione che portò avanti quello che Mazzarino definisce «comunismo della carità»,[39] promuovendo uno stile di vita molto radicale sotto l’ambito dell’astinenza alimentare e libero dal matrimonio, a causa del quale secondo Marcione era vietato ricevere battesimo; comunque non c’era una pura e severa divisione tra battezzati e catecumeni durante le cerimonie, cosa che accadeva invece nel rituale del cattolicesimo primordiale.
Mazdak, figura importante del mondo persiano vissuta tra il V e il VI secolo d.C., portò avanti teorie in campo religioso, ma soprattutto in ambito sociale, dove si prevedeva la comunione dei beni per evitare cupidigia e inimicizia nella comunità.[40]
Come conclusione si può affermare che il comunismo fu presente sin dal mondo antico, ma naturalmente non nella formula marxiana: ovviamente Marx è un uomo della storia contemporanea, un filosofo che però fece del pensiero antico della Trinità greca Socrate-Platone-Aristotele un punto di riferimento fondamentale. In particolare Platone fu il vero riferimento ideologico del filosofo di Treviri, ma anche l’Ateniese non fu un innovatore ex-novo del comunismo, o più propriamente della comunione di beni: gli esempi soprariportati ci danno l’idea dello sviluppo di un pensiero, di un’azione che aveva origini precedenti alla nascita di Platone, così come società o ideologie di stampo comunista si ebbero successivamente avvicinandoci al Medioevo… Sarà con Marx che ci sarà la svolta decisiva, ma siamo in una società guidata dal capitale, che porta alla reificazione e all’alienazione dell’uomo: è il filosofo tedesco a svelare l’inganno del capitale e a lanciare contro di esso l’accusa definitiva.

 

Marco Penzo

Marco Penzo – nato a Sinalunga (SI) nel 1988, diplomato presso il Liceo Classico “F. Petrarca” di Arezzo e laureato presso la facoltà di “Lettere e Filosofia” dell’Università “Alma Mater Studiorum” di Bologna, si dedica con passione alla scrittura passando da poesia a saggistica.

Note

[1] K. Marx-F. Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma, 19692, p. 962. Questa citazione viene dalla Critica del programma di Gotha (1875). Cf. Atti degli Apostoli (At. 4, 35).

[2] Cf. D. Musti, Storia Greca, Laterza, Bari, 20063, pp. 849-850.

[3] Cf. E. Ciccotti, Storia Greca, Vallecchi, Firenze, 1922.

[4] Cf. G. Giannelli, Trattato di storia greca, Tumminelli, Roma, 19675.

[5] Per lo studio del passaggio al Medioevo cf. H. Pirenne, Mahomet et Charlemagne, PUF, Paris, 1937. Il testo è fondamentale perché spiega come l’economia europea fu “bloccata” dall’espansionismo islamico del VII secolo e come ci fu il successivo emergere di Carlo Magno, elementi che segnarono per l’autore definitivamente il passaggio dal mondo antico a quello medioevale.

[6] Cf. Platone, Discorsi sull’amicizia e sull’amore, introduzione di G. Pugliese Carratelli, a cura di E. Totti, Opportunity Book, Milano, 1995, p. 7.

[7] Cf. G. Pettinato, I Sumeri, Rusconi, Milano, 1994, pp. 283-289.

[8] Cf. D. Musti, op. cit., p. 193.

[9] Cf. Ibidem, p. 194.

[10] Plu. Lyc. 9.

[11] Come osservazione sul pensiero politico-sociale di Pitagora cf. C. Fiorillo-L. Grecchi, Il necessario fondamento umanistico del “comunismo”, Editrice Petite Plaisance, Pistoia, 2013, pp. 22-25.

[12] Cf. Pl. R. 514 a-517 a.

[13] Cf. Ibidem 517 a.

[14] Cf. Arist. Pol. II, 7, 1266 a-b.

[15] Cf. Ibidem II, 8, 1267 b.

[16] Cf. Ibidem II 1-6, 1260 b-1266 a.

[17] Cf. T. More, Utopia, Penguin, London, 2012.

[18] Cf. K. Popper, The Open Society and Its Enemies, Routledge, London, 1945.

[19] A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino, 2007, vol. II, p. 1375.

[20] Sull’argomento cf. C. Fiorillo-L. Grecchi, op. cit., pp. 25-26.

[21] Cf. Arist. Pol. II, 6, 1266 a.

[22] Cf. Ibidem I, 9, 1256 b-1258 a.

[23] Cf. Ibidem I, 2, 1253 a.

[24] Cf. Pl. Lg. 741 E.

[25] Arist. E.N. VIII, 13, 1161 b.

[26] Varr. R. R. I, 17, 1.

[27] Cf. Plu. T. G. 20, 7.

[28] Cf. D. S. II, 55, 1-2.

[29] Su Blossio cf. D. R. Dudley, Blossius of Cumae, “Journal of Roman Studies”, 31 (1941), pp. 94-99.

[30] Cf. T. Campanella, La Città del Sole, Arnoldo Mondadori, Milano, 1991.

[31] Cf. Sall. Cat. XI.

[32] Cf. K. Meister, La storiografia greca, Laterza, Bari, 20078, pp. 179-183, 198-204.

[33] Cf. Plu. Sull. 18, 8-10.

[34] Cf. App. B. C. I, 117, 547.

[35] Cf. T. Urbainczyk, Spartacus, Bristol Classical Press, London, 2004, p. 64.

[36] Cf. K. Marx-F. Engels, Opere XLI Lettere Gennaio 1860-Settembre 1864, Editori Riuniti, Roma, 1973, p. 176.

[37] Cf. J. B. J. II, 122.

[38] In merito cf. C. Fiorillo-L. Grecchi, op. cit., pp. 35-56.

[39] S. Mazzarino, Trattato di Storia Romana – L’Impero Romano, Tumminelli, Roma, 1956, p. 202.

[40] Cf. C. Fiorillo-L. Grecchi, op. cit., p. 18 nota 18.