William Morris (1834-1896) – Ci sono due generi di lavoro, uno buono e uno cattivo. Nell’uno è insita la speranza, nell’altro no. È degno dell’uomo fare il primo genere di lavoro, e degno dell’uomo è rifiutare il secondo. Nella speranza, vivremo da uomini: né il presente può darci ricompensa maggiore.

Williama Morris, Lavoro buono e cattivo

Il lavoro dell’uomo non deve produrre nulla che non sia degno di essere fatto, o che debba essere prodotto per mezzo di un lavoro degradante per chi lo fa.

W. Morris

William Morris

Lavoro utile
e
inutile fatica

Ci sono due generi di lavoro, uno buono e uno cattivo.
Nell’uno è insita la speranza, nell’altro no.
È degno dell’uomo fare il primo genere di lavoro,
e degno dell’uomo è rifiutare il secondo.
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È una triplice speranza:
la speranza del riposo, la speranza del prodotto, e quella del piacere derivante dal lavoro medesimo.
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Un lavoro degno significa quindi
speranza del piacere del riposo,
speranza del piacere di usare il prodotto,
speranza infine del piacere che trarremo dall’uso quotidiano delle nostre facoltà creative.
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Ogni altro lavoro è privo d’ogni valore;
è lavoro da schiavi, significa faticare per vivere e vivere per faticare.
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Ricchezza è quello che la natura ci dà
e che un uomo ragionevole può trarre dai doni della natura
per il proprio ragionevole uso.
La luce del sole, l’aria fresca, il volto intatto della terra […] l’accumulazione di conoscenze;
la libera comunicazione tra uomo e uomo;
le opere d’arte,
la bellezza che l’uomo crea quando maggiormente è uomo,
quando nutre le più alte aspirazioni e pensieri:
tutte cose che possono procurare piacere a gente libera, degna e incorrotta.
Questa è ricchezza.
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Una vera educazione si propone di individuare le inclinazioni delle diverse persone,
di aiutarle a compiere il cammino che sono portate a percorrere.
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Qualunque possa essere la natura della nostra lotta,
se sapremo tendere con costanza e con unità d’intenti a quest’unico scopo,
nella speranza, vivremo da uomini: né il presente può darci ricompensa maggiore.


Questo titolo potrà sembrare strano ad alcuni miei lettori. La maggior parte della gente al giorno d’oggi è convinta che ogni lavoro sia utile e la maggior parte della gente agiata ritiene ogni lavoro desiderabile. La maggior parte della gente, agiata o meno, pensa che, anche quando fa un lavoro apparentemente inutile, un uomo si guadagna da vivere, è «occupato» come suol dirsi, e la maggior parte della gente agiata si congratula con il fortunato lavoratore e lo loda, se soltanto è abbastanza industrioso e si priva di qualsivoglia piacere e riposo in nome della sacra causa del lavoro. In breve è diventato un articolo di fede dell’etica moderna che ogni lavoro è buono in sé, un principio che conviene molto a quelli che vivono del lavoro degli altri. Ma per quanto riguarda coloro alle cui spalle essi vivono, debbo avvertirli di non dare la cosa per scontata, ma di riflettere un poco più attentamente all’intera questione.
Supponiamo in primo luogo che l’uomo non abbia altra scelta che fra la fatica o la morte. La natura non ci concede gratuitamente i mezzi di sussistenza, dobbiamo guadagnarceli con una fatica di un certo genere e grado. Vediamo allora se per caso non ci conceda qualche compenso in cambio di questa costrizione alla fatica, visto che per ogni altro rispetto è sua cura rendere gli atti necessari alla perpetuazione della vita, dell’individuo come della specie, non solo sopportabili ma addirittura piacevoli.
Non v’è dubbio che lo faccia, e che sia naturale per l’uomo che non sia malato trarre piacere dal lavoro, in determinate condizioni. E tuttavia, a smentita dell’ipocrita lode, cui mi riferivo prima, del lavoro quale che sia, bisogna dire che ci sono lavori così lontani dall’essere una benedizione da configurarsi come il suo opposto, una maledizione; e che sarebbe meglio per la comunità e per il lavoratore se quest’ultimo incrociasse le braccia e rifiutasse di lavorare a costo di dover scegliere tra lasciarsi morire o farsi portare all’ospizio o in prigione, come preferite.

Ci sono, vedete, due generi di lavoro, uno buono e uno cattivo; uno, molto simile a una benedizione, sollievo della vita; l’altro, simile invece a una maledizione, della vita pesante fardello.
Ebbene, che differenza c’è tra i due? Questa: che nell’uno è insita la speranza, nell’altro no. È degno dell’uomo fare il primo genere di lavoro, e degno dell’uomo è rifiutare il secondo.

Qual è la natura della speranza che, se è presente nel lavoro, lo rende degno di essere compiuto?

È una triplice speranza, io credo: la speranza del riposo, la speranza del prodotto, e quella del piacere derivante dal lavoro medesimo, in quantità e qualità apprezzabili: riposo sufficiente e piacevole quanto basta perché valga veramente la pena di goderne; un prodotto desiderabile per chiunque non sia uno sciocco o un asceta; un piacere tale da esserne coscienti mentre siamo all’opera, non una mera abitudine, la cui perdita potremmo avvertire quanto l’uomo nervoso avverte la perdita del pezzetto di spago con cui sta giocherellando.

Ho messo al primo posto la speranza del riposo perché è la forma piu naturale ed elementare della nostra speranza. Qualunque sia il piacere che alcuni lavori possono darci, essi comportano sempre una parte di sofferenza, la sofferenza animale che è nel mettere in moto le nostre sopite energie; la paura animale di un cambiamento quando le cose ci vanno bene, insieme con la compensazione di questa sofferenza animale nel riposo animale. Dobbiamo sentire mentre stiamo lavorando che verrà il momento in cui non dovremo lavorare. E il riposo stesso, quando giunge, deve essere abbastanza lungo da paterne godere, più lungo dello stretto necessario al recupero delle forze spese nel lavoro, e deve essere riposo animale anche nel senso che non dev’essere turbato da ansia, ché altrimenti non saremmo in grado di goderne. Se avremo questa quantità e qualità di riposo, non staremo, perciò stesso, peggio delle bestie.

C’è poi la speranza del prodotto. Dicevo che la natura ci costringe a lavorare in vista di questo. A noi spetta poi di riuscire a produrre davvero qualcosa piuttosto che nulla, o per lo meno nulla di ciò che desideriamo o possiamo usare. Se questo sarà il nostro scopo e impegneremo in esso la nostra volontà, saremo, perciò stesso, migliori delle macchine.

La speranza del piacere nel lavoro in sé: quanto deve sembrare strana questa speranza ad alcuni dei miei lettori, anzi alla maggior parte! E tuttavia ritengo che tutte le creature viventi traggano un qualche piacere dall’esercizio delle proprie energie e che perfino le bestie godano di essere agili e veloci e forti. Ma un uomo che lavora, che fa una cosa sapendo che essa esisterà perché lui la sta producendo e la vuole, esercita le energie della mente e dell’animo oltre a quelle del corpo. La memoria e l’immaginazione lo aiutano nel lavoro. Non solo i suoi pensieri, ma anche i pensieri degli uomini delle trascorse età guidano le sue mani, egli crea in quanto parte del genere umano. Se lavoreremo in questo modo saremo uomini e le nostre giornate saranno felici e ricche di eventi.

Un lavoro degno significa quindi speranza del piacere del riposo, speranza del piacere di usare il prodotto, speranza infine del piacere che trarremo dall’uso quotidiano delle nostre facoltà creative.

Ogni altro lavoro è privo d’ogni valore; è lavoro da schiavi, significa faticare per vivere e vivere per faticare.

Perciò, visto che abbiamo, per così dire, due misure con cui valutare il lavoro che si fa attualmente al mondo, usiamole. Esaminiamo il lavoro che facciamo dopo tante migliaia d’anni di fatica, dopo tante differite promesse di speranza, dopo l’illimitato esultare per il progresso della civiltà e la conquista della libertà.
Ora la prima, più immediata osservazione da fare sul lavoro nelle società civilizzate, è che esso è distribuito in maniera molto ineguale tra le diverse classi sociali. In primo luogo c’è gente, e non poca, che non lavora e non fa nemmeno finta di lavorare. Poi c’è la gente, e molta, che lavora abbastanza duramente, anche se con molti vantaggi e periodi di riposo, richiesti e concessi; e infine la gente che lavora in modo talmente duro che si può dire che non faccia altro, e viene di conseguenza chiamata «classe dei lavoratori», per distinguerla dalla borghesia e dai ricchi, o aristocrazia, di cui parlavo sopra.
È evidente che questa disuguaglianza grava pesantemente sulla classe dei «lavoratori» e tende, secondo ogni evidenza, a distruggere per lo meno ogni loro speranza di riposo, facendoli stare, per questo rispetto, peggio degli animali dei campi; ma la nostra follia di voler trasformare il lavoro utile in fatica inutile non finisce qui, anzi questo è solo il principio.
In primo luogo consideriamo i ricchi che non fanno alcun lavoro: sappiamo tutti che consumano moltissimo senza produrre nulla. Ne consegue che debbono evidentemente essere mantenuti a spese di coloro che lavorano […].
La borghesia, che nella nostra società comprende i commercianti, gli industriali e i professionisti, di regola sembra lavorare parecchio e potrebbe quindi a prima vista apparire di aiuto e non di peso alla comunità. Ma la stragrande maggioranza di queste persone, per quanto lavori, non produce, e se producono – come nel caso di coloro che si occupano (e davvero senza alcuna utilità) della distribuzione delle merci, o i dottori, o i (veri) artisti e letterati – consuma in maniera sproporzionata rispetto a quello che gli spetterebbe. Gli industriali e i commercianti, la parte piu potente della borghesia, spendono tutte le loro energie e l’intera vita a lottare tra loro per impadronirsi delle rispettive porzioni di quella ricchezza che costringono i veri lavoratori a fornirgli; gli altri membri della borghesia ne sono quasi tutti clienti, non lavorano per la comunità ma per una classe privilegiata; sono i parassiti della proprietà, talvolta scopertamente, come nel caso degli avvocati; talaltra, come nel caso dei dottori e degli altri che abbiamo nominato sopra, con la pretesa di essere utili, anche se troppo spesso sono utili solo al sistema di follia, frode e tirannide di cui fanno parte. E tutti quanti, non dobbiamo dimenticarlo, hanno di regola un solo scopo, che non è la produzione di beni, ma la conquista di una sinecura, per sé o per i loro figli, che gli consenta di non lavorare affatto. L’ambizione e lo scopo di tutta la loro vita è di conquistare, se non per sé almeno per i figli, la nobile condizione di parassiti dichiarati della comunità. Quanto al loro lavoro, malgrado l’apparenza di dignità di cui lo circondano, non gliene importa niente, fatta eccezione per alcuni entusiasti, uomini di scienza, arti o lettere, che, se non sono il sale della terra, sono almeno (purtroppo) il sale del miserabile sistema cui sono asserviti e che continuamente li ostacola e intralcia e talvolta addirittura li corrompe.
C’è poi un’altra classe, questa volta molto numerosa e onnipotente, che produce pochissimo e consuma in maniera enorme, e quindi – come i mendicanti – è in gran parte mantenuta dai reali produttori della ricchezza. La classe che ci rimane da prendere in esame produce tutto quanto viene prodotto e mantiene se stessa e le altre classi, nonostante sia posta in posizione di inferiorità rispetto a quelle; attenzione, inferiorità reale, un’inferiorità che comporta degradazione dell’animo e del corpo. Ma necessaria conseguenza di questa tirannide e follia è che, di nuovo, molti di questi lavoratori non sono produttori. Vasta parte di costoro sono una volta di più puri parassiti della proprietà, alcuni apertamente, come i soldati di terra e di mare che vengono mantenuti al fine di perpetuare le rivalità e inimicizie tra paesi diversi e garantire la porzione nazionale del prodotto di un lavoro non retribuito. Oltre a questo ovvio fardello che grava sulle spalle dei lavoratori e a quello quasi altrettanto ovvio della categoria dei domestici, c’è in primo luogo l’esercito degli impiegati, commessi e così via che lavorano al servizio della guerra privata per impadronirsi della ricchezza; guerra che, come dicevo sopra, è la vera occupazione della borghesia agiata. È un corpo di lavoratori più vasto di quanto non si pensi, perché comprende, tra gli altri, tutti coloro che sono impegnati in quello che chiamerei vendita concorrenziale, o, per usare un termine meno nobile, sbandieramento delle merci, un settore che ha assunto proporzioni tali che oggi in molti casi costa più vendere che produrre.
C’è poi tutta la massa delle persone impiegate a produrre articoli lussuosi e stravaganti la cui domanda è legata all’esistenza delle classi ricche e improduttive, oggetti che chi conduce una vita degna e non corrotta non si sognerebbe neppure di volere. Sono cose che, mi contraddica chi vuole, mi rifiuterò sempre di chiamare ricchezza, non sono ricchezza, ma spreco.

Ricchezza è quello che la natura ci dà e che un uomo ragionevole può trarre dai doni della natura per il proprio ragionevole uso. La luce del sole, l’aria fresca, il volto intatto della terra, cibo, abiti e alloggio conformi a necessità e decenza; l’accumulazione di conoscenze e il potere di diffonderle; i mezzi atti a garantire la libera comunicazione tra uomo e uomo; le opere d’arte, e cioè la bellezza che l’uomo crea quando maggiormente è uomo, quando nutre le più alte aspirazioni e pensieri: tutte cose che possono procurare piacere a gente libera, degna e incorrotta. Questa è ricchezza.

Non riesco a immaginare nulla che meriti di essere posseduto, che non rientri nell’una o nell’altra di queste categorie. Ma pensate, vi prego, alla produzione dell’Inghilterra, l’«officina del mondo»[1] e rimarrete, come me, sbalorditi al pensiero della massa di cose che nessun uomo sano di mente potrebbe desiderare e che la nostra inutile fatica produce: produce e vende.
C’è poi un’industria ancora più trista, cui sono costretti molti, moltissimi dei nostri lavoratori: la produzione delle merci necessarie a loro e alla loro prole, in quanto classe inferiore. Infatti, dato che molti uomini vivono senza produrre, anzi conducono vite così vuote e stolte da forzare una gran parte dei lavoratori a produrre merci di cui nessuno, neppure il ricco, ha bisogno, ne consegue che la maggior parte degli uomini è costretta alla miseria. Inoltre vivendo, come vivono, dei salari che ricevono da coloro che essi stessi mantengono, non possono procurarsi i beni che ogni uomo naturalmente desidera, ma debbono contentarsi dei miserabili surrogati espressamente destinati a loro: rozzo cibo che non nutre, stracci che non vestono, case talmente abiette da indurre l’abitante d’una città civile a rimpiangere la tenda della tribù nomade o la caverna del selvaggio preistorico. Ma non basta, i lavoratori debbono perfino contribuire a quella grandiosa invenzione dell’industria contemporanea che è l’adulterazione e per suo mezzo produrre per il proprio uso pretenziose e ridicole imitazioni del lusso dei ricchi; e questo accade perché i salariati debbono vivere come vuole il padrone, e finanche le abitudini di vita sono loro imposte da questo.
Ma è una perdita di tempo cercare di esprimere a parole tutto il disprezzo che meritano i tanto lodati bassi costi di produzione della nostra epoca. Basti dire che essi son parte integrante del sistema di sfruttamento su cui è fondata la moderna industria manifatturiera. In altre parole la nostra società comprende una grande massa di schiavi che debbono essere nutriti, vestiti, alloggiati e divertiti da schiavi e cui il bisogno impone di produrre i beni da schiavi il cui uso perpetua la loro schiavitù.
Per riassumere questo discorso sul lavoro nelle nazioni civilizzate, diremo che esse sono composte di tre classi: una classe che non fa nemmeno finta di lavorare, una classe che ostenta di lavorare ma non produce nulla, una classe che lavora ma è costretta dalle altre due a fare un lavoro spesso improduttivo.
Di conseguenza la civiltà spreca le sue stesse risorse e lo farà fintanto che durerà questo sistema. Ma le parole non bastano a descrivere la tirannide che ci opprime: proviamo dunque a vedere cosa significano nei fatti.
Al mondo c’è una certa quantità di materie prime e di energie naturali e una certa quantità di forza-lavoro negli uomini che lo abitano. Gli uomini, spinti dalle loro necessità e desideri, hanno lavorato per alcune migliaia di anni per domare le forze della natura e ridurre al proprio uso le materie prime. Questa lotta con la natura appare ai nostri occhi, che non possono vedere il futuro, prossima alla sua conclusione e la vittoria della razza umana sembra quasi completa. Se volgiamo gli occhi indietro ai tempi in cui la storia ha avuto inizio, vediamo che il ritmo di quella conquista s’è accelerato in modo sorprendente negli ultimi duecento anni. Ed allora noi che apparteniamo ai tempi moderni dovremmo stare sotto ogni rispetto molto meglio di tutti coloro che ci hanno preceduto. Tutti e ognuno di noi dovremmo essere agiati, ben forniti delle buone cose che abbiamo conquistato grazie alla nostra vittoria sulla natura.
Ma qual è la realtà? Chi oserà negare che la grande maggioranza degli uomini civili è povera? Tanto povera che è addirittura puerile mettersi a discutere se per caso in qualche modo non stia un pochino meglio delle precedenti generazioni. Gli uomini civili sono poveri, e la loro povertà non può essere commisurata a quella di un selvaggio privo di risorse, perché questo non conosce nulla di diverso: avere freddo, fame, essere senza casa, sporco, ignorante, è per lui naturale come avere il corpo rivestito di pelle. Ma la civiltà ha alimentato in noi, nella maggior parte di noi, desideri che poi ci proibisce di soddisfare, per cui essa non è soltanto avara con noi, ma anche crudele.
È così che siamo stati derubati del frutto della nostra vittoria sulla natura e il naturale impulso a lavorare nella speranza del riposo, del guadagno e del piacere s’è mutato in costrizione, impostaci da altri uomini, a lavorare nella speranza di che cosa? di vivere per lavorare.

Cosa possiamo fare allora? Possiamo trovare una soluzione?
Ebbene, ricordatevi una volta di più che non sono stati i nostri remoti progenitori a conseguire la vittoria sulla natura, ma i nostri padri, anzi noi stessi. Sarebbe davvero una strana follia se ce ne restassimo inerti e senza speranza: siate certi che possiamo metterci riparo. Qual è allora la prima cosa da fare?
Abbiamo visto che la società moderna è divisa in due classi, una delle quali ha il privilegio di farsi mantenere dal lavoro dell’altra. In altre parole costringe l’altra a lavorare a proprio beneficio e prende dalla classe inferiore tutto quello che può, usando la ricchezza cosi ottenuta per mantenere i propri membri in una posizione superiore, per farne i membri di un rango più elevato di gente che vive più a lungo, è più bella, più onorata, più raffinata degli altri. Io non dico che questa classe si preoccupi a che i suoi membri siano in assoluto più longevi, belli o raffinati, ma fa sì che tali siano in relazione alla classe inferiore. Alla stessa maniera, non potendo adeguatamente usare la forza-lavoro della classe inferiore per produrre ricchezza reale, ne spreca il potenziale nella produzione di cenciume.
È questo furto e spreco esercitato da una minoranza che costringe la maggioranza alla povertà; se si potesse dimostrare che la società per la propria sopravvivenza deve sopportare tutto questo, non ci sarebbe molto da aggiungere, se non che la disperazione della maggioranza oppressa finirebbe prima o poi per distruggere la società stessa. Ma è stato al contrario dimostrato, sia pure in forme incomplete di sperimentazione, come, per esempio la (cosiddetta) cooperazione, che l’esistenza di una classe privilegiata non è in alcun modo necessaria per la produzione della ricchezza, ma lo è per il «governo» dei produttori delle ricchezze, o, in altre parole, per la conservazione del privilegio.
Il primo passo da compiere è quindi quello di abolire una classe di uomini che gode del privilegio di sottrarsi ai propri umani doveri, costringendo così gli altri a fare il lavoro che essi si rifiutano di fare. Tutti debbono lavorare secondo le proprie capacità e produrre così quello che consumano, e cioè ogni uomo dovrebbe lavorare meglio che può per produrre il necessario al proprio fabbisogno, e quest’ultimo dovrebbe in cambio essergli garantito, dovrebbero cioè essergli garantiti tutti i vantaggi che la società può produrre per tutti e per ognuno dei suoi membri.
Così prenderebbe finalmente vita una società vera, fondata sull’uguaglianza delle condizioni. Nessuno potrebbe essere torturato a beneficio di un altro, nessuno potrebbe essere torturato a beneficio della società. Né a buon diritto può chiamarsi società quella che non è intesa al beneficio di ognuno dei suoi membri. Ma se gli uomini vivono, per quanto male, adesso che tanta gente non produce affatto e tanto lavoro va sprecato, è evidente che, se tutti fossero tenuti a produrre e non ci fossero sprechi, non soltanto tutti lavorerebbero nella certezza di guadagnarsi con il lavoro la parte di ricchezza che gli è dovuta, ma anche la debita parte del riposo. Questi sono due aspetti della triplice speranza che indicavamo prima come qualità intrinseca d’un lavoro degno garantito al lavoratore. Quando il furto di classe sarà abolito, ognuno coglierà i frutti del proprio lavoro, ognuno avrà il dovuto riposo, e cioè l’agiatezza. Alcuni socialisti potrebbero dire che tanto basta: basta che il lavoratore ottenga il pieno frutto del suo lavoro e che possa riposarsi quanto vuole. Certo, la costrizione della tirannide umana sarebbe in tal modo abolita; ma persisto nel chiedere un indennizzo per la costrizione esercitata su di noi dalle necessità naturali. Fintanto che il lavoro sarà ripugnante, sarà un fardello di cui dovremo caricarci ogni giorno, e la nostra vita ne sarà comunque amareggiata, anche con un limitato orario di lavoro. Quello che vogliamo è l’accrescimento della nostra ricchezza senza diminuzione del nostro piacere. La natura non sarà definitivamente vinta fintanto che il nostro lavoro non diventerà parte del piacere di vivere.
Questo primo passo, la liberazione dell’uomo dalla costrizione alla fatica inutile, ci consentirà se non altro di imboccare la strada del nostro lieto fine, perché avremo allora tempo e modo perché esso si avveri. Stando come stanno attualmente le cose, divise tra lo spreco di forza-lavoro nel puro ozio e il suo spreco nel lavoro improduttivo, è evidente che il mondo civile va avanti solo grazie a una piccola parte della sua popolazione; se tutti lavorassero in maniera utile in vista di ciò la parte di lavoro che ognuno dovrebbe fare sarebbe piccola, anche nel caso che il nostro livello di vita fosse all’incirca quello che gli agiati e i raffinati considerano desiderabile. Avremmo forza-lavoro d’avanzo e in breve saremmo ricchi quanto vogliamo. Facile sarebbe la vita. Se, nell’attuale sistema, ci dovessimo svegliare una di queste mattine e scoprire la «vita facile», il sistema ci costringerebbe a metterci subito al lavoro per rendere la vita difficile; lo chiameremmo «sviluppo delle nostre risorse» o gli daremmo qualche altro bel nome. La moltiplicazione del lavoro è diventata per noi una necessità e, fintanto che le cose vanno così, non ci sarà ingegnosa invenzione di macchine che possa esserci di reale vantaggio. Ogni nuova macchina porterà un po’ più di miseria tra i lavoratori nel cui particolare settore creerà problemi: molti saranno declassati a operai non specializzati, poi le cose rientreranno gradualmente nei loro naturali binari e tutti lavoreranno in maniera apparentemente normale; e, se non fosse che tutto questo sta preparando la rivoluzione, per la maggior parte degli uomini le cose resterebbero tali e quali erano prima della meravigliosa nuova invenzione.
Ma, quando la rivoluzione avrà fatto «la vita facile», quando tutti lavoreranno armoniosamente insieme e non ci sarà più nessuno a rubare al lavoratore il suo tempo, cioè la sua vita, in quei giorni che verranno non saremo più costretti a continuare a produrre cose che non vogliamo o a faticare per nulla; saremo in grado di riflettere con calma e attenta considerazione che cosa fare della nostra ricchezza di forza-lavoro. Per parte mia ritengo che il primo uso che dovremmo fare di quella ricchezza, di quella libertà, dovrebbe essere di rendere tutto il nostro lavoro, anche il più comune e il più necessario, piacevole per chiunque perché riflettendo attentamente alla questione, mi rendo conto che l’unico modo di rendere la vita sicuramente felice, ad onta di tutti gli incidenti e guai che possano capitare, è un gioioso interesse a tutti i dettagli della vita stessa. E, a che ciò non vi sembri un’asserzione troppo scontata perché valga la pena di ripeterla, consentitemi di ricordarvi come la civiltà moderna renda la cosa completamente impossibile; di quali particolari sordidi e perfino terribili essa circondi la vita del povero; che vita meccanica e vuota imponga al ricco, e quanto sia raro per tutti un giorno di festa in cui ci sia dato sentirei parte della natura, in cui possiamo senza fretta, ma in raccoglimento e felicemente seguire il corso delle nostre vite nel quadro di tutti i piccoli legami degli accadimenti che le saldano alla vita degli altri e costituiscono la grande sfera dell’umanità.
Eppure tutta la nostra vita potrebbe essere una simile festa, se fossimo decisi a rendere il nostro lavoro ragionevole e piacevole. Ma dobbiamo essere molto decisi, perché le mezze misure non ci potranno essere d’aiuto. Abbiamo già detto che il nostro lavoro privo di gioia, la nostra vita assillata da paure ed ansie come quella d’un animale braccato, ci son imposte dall’attuale sistema di produzione subordinata al profitto delle classi privilegiate. Cerchiamo di capire che cosa questo significa. Con l’attuale sistema di lavoro salariato e capitale l’industriale «manifatturiero» (dizione assurda quant’altre mai, visto che manifatturiero significa una persona che lavora con le mani), il quale possieda il monopolio dei mezzi atti a utilizzare ai fini della produzione la forza-lavoro insita nel corpo di ogni uomo, è padrone di coloro che non godono di questo privilegio; lui e lui soltanto può usare questa forza-lavoro, che d’altra parte è la sola merce che può rendere produttivo il suo «capitale», e cioè il prodotto accumulato di opera precedentemente prestata. Egli quindi compra la forza-lavoro di coloro che sono privi di capitale e che sono costretti a vendergliela per poter vivere; il suo fine in questa transazione è di accrescere il suo capitale, farlo fruttare. È evidente che, se pagasse a coloro con cui conclude il suo affare l’intero valore del loro lavoro, e cioè tutto quello che essi producono, non potrebbe raggiungere questo scopo. Ma, poiché egli detiene il monopolio dei mezzi di produzione, può costringerli a un affare più vantaggioso per lui e svantaggioso per loro: che cioè, una volta che i prestatori d’opera si sono guadagnati i mezzi di sussistenza, calcolati in una quantità sufficiente ad assicurare la loro pacifica sottomissione all’autorità del padrone, il resto (che è di gran lunga la maggior parte) di quanto producono apparterrà a quest’ultimo, sarà sua proprietà di cui potrà fare quello che vuole, usarne e abusarne a suo piacere; e questa proprietà è, come tutti sappiamo, gelosamente protetta da esercito e marina, polizia e prigioni, in breve, da quel grande spiegamento di forza fisica che la superstizione, l’abitudine, la paura della morte per fame, l’ignoranza, insomma, delle masse prive di proprietà consente alla classe padronale di usare per l’assoggettamento di quelli che sono già i suoi schiavi.
Non mancherebbe materia per indicare altri mali generati dal sistema, ma quello che voglio sottolineare adesso è come sia impossibile per noi, finché esso vige, conquistarci un lavoro che ci possa piacere; così come voglio ripetere che è questa frode (non c’è altra parola per definirla) a sprecare la forza-lavoro disponibile nel mondo civile, costringendo molti uomini a non fare nulla e molti, moltissimi di più, a non fare nulla di utile, mentre coloro che fanno un lavoro veramente utile sono costretti a farlo in condizioni di schiacciante fatica. Ma sia chiaro una volta per tutte che l’industriale «manifatturiero» mira in primo luogo a produrre, per mezzo del lavoro rubato, non beni ma profitti, e cioè quella «ricchezza» che è spremuta dalla vita dei suoi operai e dal consumo e usura delle sue macchine. A lui non importa se quella «ricchezza» è vera o falsa. Finché gli consente di vendere e gli garantisce un profitto a lui sta bene. Ho detto che, a causa dell’esistenza di ricchi che hanno più denaro di quanto possano ragionevolmente spenderne e che di conseguenza comprano cianfrusaglie, abbiamo un ampio margine di spreco; e anche che, a causa dell’esistenza di poveri che non possono sostenere la spesa necessaria a comperare cose che valga la pena di fare, c’è, anche su questo fronte, spreco. Per questo la «domanda» cui il capitalista «risponde», è una falsa domanda. Il mercato è «truccato» dalle miserabili disuguaglianze prodotte dalla frode del sistema capitale-salario.
È di questo sistema, dunque, che dobbiamo essere fermamente decisi a liberarci, se vogliamo raggiungere l’obiettivo di un lavoro felice e utile per tutti. Il primo passo per rendere il lavoro attraente è quello di impadronirci dei mezzi che possono renderlo fruttuoso: il capitale, compresa la terra, le macchine, le fabbriche, ecc., debbono passare nelle mani della comunità, per essere usate a beneficio di tutti nella stessa misura; potremo cosi lavorare tutti per « rispondere» alle reali « domande» di ognuno e di tutti: e cioè lavorare per vivere, invece di lavorare per rispondere al tipo di domanda del mercato del profitto, invece di lavorare per il profitto, che significa potere di costringere gli altri a lavorare contro la loro volontà. […]
Ripeto che, a mio avviso, la prima cosa che dovremo considerare talmente necessaria da meritare che le dedichiamo un po’ del nostro tempo libero sarà il problema di rendere il lavoro piacevole. Non dovremo affrontare gravi sacrifici per raggiungere quest’obiettivo, ma alcuni dovremo farne. […]
Dovremo cominciare a ricostruire ciò che rende bella la vita – i suoi piaceri, fisici e mentali, scientifici e artistici, sociali e individuali – sulla base di un lavoro fatto volentieri e con gioia, nella consapevolezza di produrre per esso il nostro beneficio e quello dei nostri simili. Il lavoro assolutamente necessario che ancora ci toccherà fare, in primo luogo non prenderà che una piccola parte della nostra giornata, e quindi non sarà pesante; ma, come compito quotidianamente ricorrente, ci rovinerebbe il piacere della giornata, a meno che non lo si rendesse a dir poco sopportabile nelle ore che bisognerà dedicargli. In altre parole ogni lavoro, anche il più comune, dovrà essere reso attraente.
Come farlo? […]
Da tutto quello che abbiamo detto risulta evidente che il lavoro, per essere piacevole, deve essere diretto a un fine ovviamente utile […].
La varietà del lavoro è il secondo punto, e un punto molto importante. Costringere un uomo ad eseguire giorno dopo giorno lo stesso compito, senza speranza di scampo o mutamento, equivale a trasformare la sua vita in una condanna al carcere. Solo lo schiacciante dominio del profitto impone una cosa del genere. […] Una delle cose che renderanno possibile questa varietà d’impiego sarà l’assetto educativo che una comunità socialmente ordinata saprà darsi. Attualmente l’educazione è tutta diretta al fine di condizionare la gente ad assumere il proprio posto nella gerarchia del profitto, alcuni come padroni, altri come lavoratori. L’educazione dei dirigenti è più raffinata di quella dei lavoratori, ma rimane a carattere commerciale e anche nelle vecchie università il sapere è tenuto in scarsa considerazione, a meno che non possa rendere in prospettiva.

Una vera educazione è qualcosa di radicalmente opposto, essa si propone di individuare le inclinazioni delle diverse persone, di aiutarle a compiere il cammino che sono portate a percorrere. In una società debitamente ordinata, perciò, parte dell’educazione dei giovani, della disciplina sia del loro corpo sia della loro mente, sarebbe l’apprendimento di quelle arti per le quali si sentono portati, e anche agli adulti verrebbe data la possibilità di studiare nelle stesse scuole, perché scopo primario dell’educazione sarebbe lo sviluppo delle capacità individuali, invece che, come attualmente accade, la subordinazione di tutte le capacità al supremo fine di «far soldi» per sé, oppure per il proprio padrone. La quantità di talento e perfino di genio, che l’attuale sistema schiaccia e che un sistema diverso invece valorizzerebbe, renderebbe il nostro lavoro quotidiano facile e divertente. […]
Oltre alla breve durata del lavoro, la coscienza della sua utilità e la varietà che dovrebbero esserne altrettante caratteristiche, c’è un’altra cosa necessaria a renderlo attraente e cioè l’agio offerto dall’ambiente. […]
Ché tutte le nostre affollate città e strabilianti fabbriche sono solo il risultato del sistema fondato sul profitto. L’industria capitalistica, il latifondo capitalistico, lo scambio capitalistico costringono l’uomo a vivere nelle grandi città per manipolarlo nell’interesse del capitale; la stessa tirannide contrae talmente lo spazio di una fabbrica da far diventare, per esempio, l’interno di un capannone tessile meschino quanto è orrendo. Non c’è alcuna necessità che ci costringa a questo, se non quella di spremere profitto dalle vite umane e di produrre merci scadenti per l’uso (e l’assoggettamento) degli schiavi così spremuti. […]
Per quanto riguarda il lavoro che comporta l’impiego di manodopera su vasta scala, proprio l’attuale sistema delle fabbriche, nel quadro di un ragionevole ordine sociale e malgrado gli svantaggi che a mio avviso tuttavia ancora sussisterebbero, offrirebbe se non altro occasioni di una piena e vivace vita comunitaria allietata da molti piaceri. Le fabbriche potrebbero essere anche centri di attività intellettuale, e il lavoro vi potrebbe essere molto variato: stare alle macchine occuperebbe solo una breve parte della giornata lavorativa di ogni individuo. Il resto del lavoro varierebbe dalla coltura della campagna circostante per il cibo necessario, allo studio ed esercizio dell’arte e della scienza. È ovvio che uomini così impiegati e padroni della propria vita non si lascerebbero costringere da fretta e imprevidenza a tollerare il sudiciume, il disordine, o la mancanza di spazio. La scienza debitamente applicata li metterebbe in grado di liberarsi dei rifiuti, di ridurre al minimo, se non di far completamente scomparire, tutti gli inconvenienti che oggi comporta l’uso di macchine sofisticate, come il fumo, il puzzo e il rumore; né essi sopporterebbero che gli edifici nei quali dovessero lavorare o vivere fossero brutte macchie sul bel volto della terra. Cominciando con il rendere le loro fabbriche, edifici e rimesse, decenti e dignitosi come le loro abitazioni, essi tenderebbero inevitabilmente a farne qualcosa di buono non solo da un punto di vista negativo, a farli cioè non brutti, ma addirittura positivamente belli, onde la gloriosa arte dell’architettura, da tempo uccisa dall’avidità commerciale, tornerebbe in vita e fiorirebbe.
Ecco, vedete: io sostengo che il lavoro in una comunità debitamente ordinata dovrebbe esser reso attraente dalla consapevolezza della sua utilità, dall’esser fatto con intelligente interesse, dalla varietà, e dall’amenità degli ambienti in cui si svolge. Ma ho anche detto, e su questo tutti sono d’accordo, che la giornata lavorativa non dovrebbe essere di lunghezza estenuante. […]
Intanto e comunque la capacità di lavorare in modo accurato, con riflessione e ponderazione, dovrà certo essere compensata, ma non con l’obbligo di lavorare lunghe ore. La nostra epoca ha inventato macchine che sarebbero apparse folli sogni agli uomini delle passate età, e di queste macchine noi non abbiamo ancora fatto alcun uso.
Di esse si dice che «risparmiano lavoro», un’espressione corrente che indica quello che ci si aspetta da loro ma che esse non ci dànno. Quello che in realtà queste macchine fanno è di ridurre il lavoratore qualificato al rango di non qualificato, di accrescere l’«esercito di riserva del lavoro», accrescere in altre parole la precarietà della vita dei lavoratori e insieme intensificare il lavoro di coloro che servono le macchine (come gli schiavi servono i loro padroni). Questo fanno le macchine, mentre intanto accumulano profitti per i datori di lavoro, o costringono questi ultimi a spendere i profitti stessi nell’aspra reciproca guerra commerciale. In una società degna di questo nome siffatti miracoli dell’ingegno sarebbero in primo luogo usati per ridurre al minimo il tempo speso in un lavoro privo di attrattive, che per loro mezzo potrebbe essere ridotto fino a diventare un assai lieve fardello per ogni individuo. Inoltre quelle macchine verrebbero certamente molto perfezionate, quando il problema non fosse più quello della convenienza individuale ma dell’utilità sociale.
[…] Inoltre, man mano che la gente […] scoprirà che cosa effettivamente desidera, non essendo più incalzata che dai propri bisogni, rifiuterà di produrre quelle cose assolutamente futili che oggi vengono chiamati oggetti di lusso, o il veleno e il cenciume attualmente detti merci a buon mercato. […]
È quindi di pace che abbiamo bisogno per poter vivere e lavorare nella speranza e con gioia. Quella pace tanto desiderata, se si potesse credere alle parole degli uomini, ma che nei fatti è stata continuamente e sistematicamente rifiutata. Quanto a noi, volgiamo ad essa i nostri cuori e conquistiamola a qualunque costo.
Chi può dire quale dovrà essere questo costo? Sarà possibile conquistare la pace in maniera pacifica? Ahimè, come? Siamo a tal punto circondati dal torto e dalla follia che, in un modo o nell’altro, dovremo sempre lottare contro di essi: le nostre stesse vite possono non bastare a vedere la fine della lotta, forse neppure una chiara speranza di fine. […]
Ma in ogni caso e qualunque possa essere la natura della nostra lotta per la pace, se sapremo tendere con costanza e con unità d’intenti a quest’unico scopo e mantenerlo sempre vivo davanti a noi, un riflesso di quella futura pace illuminerà il tumulto e tormento delle nostre vite, sia che quel tormento possa sembrare di scarso momento o che sia apertamente drammatico; e, almeno nella speranza, vivremo da uomini: né il presente può darci ricompensa maggiore.

William Morris, Lavoro utile e inutile fatica, in Id., Come potremmo vivere, Introduzione di Lia Formigiari, Editori Riuniti, Roma, 1979, pp. 97-120.

***

[1] La definizione dell’Inghilterra come workshop of the world fu creata a quanto pare dall’uomo politico conservatore Benjamin Disraeli, ed entrò subito nel lessico corrente, anche del partito whig, di cui anzi esprimeva bene le tesi di indefinito sviluppo dell’egemonia inglese sui mercati mondiali.


William Morris (1834-1896) – Impegnamoci a custodire il giusto ordinamento del paesaggio terrestre, per evitare di tramandare ai nostri figli un tesoro minore di quello lasciatoci dai nostri padri. Non rendiamo la terra un deserto di speranze (quale essa era una volta), ma anche una prigione disperata.
William Morris (1834-1896) – Qual è lo scopo della Rivoluzione? Certamente quello di rendere felici gli uomini.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Salvatore Bravo – Senza adeguata formazione assiologica e culturale, senza «urto qualitativo», la libertà diviene fuga dal limite, individualismo generalizzato e solitudine. La libertà è nel desiderio della qualità del vivere.

Libertà come urto qualitativo

Salvatore Bravo

L’integralismo non riconosciuto dell’Occidente

***
La libertà come urto qualitativo
La libertà come desiderio
La libertà come qualità del vivere

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Senza una adeguata formazione assiologica e culturale
la libertà diviene fuga dal limite, individualismo generalizzato e solitudine.

La libertà è nel desiderio della qualità
senza il quale ogni essere umano diviene solo consumatore senza essere e senza esserci



L’Occidente si fonda sul mito della libertà trasformatasi in una vera superstizione e dunque in dogma indiscutibile. La libertà è il principio sventolato in nome del quale sono possibili i bombardamenti etici come la competizione economica senza regole: la liberà è invocata, ma mai definita. Si usa la parola libertà, ma non la si conosce. In tal modo diviene un catalizzatore mitico, in cui convogliare forze, risorse e popoli da utilizzare per la conservazione e l’imperialismo economico. La “libertà ideologica” presuppone una linea divisoria nel mondo, lungo la quale scorre il filo spinato che designa il confine tra l’impero del bene ed il male assoluto. Il semplicismo mediaticamente organizzato consente la supina accettazione di ogni azione militare in nome della libertà. La propaganda a tamburo battente demonizza la controparte per impedire che si colgano complicità ed interessi lobbistici.

Vi è davvero politica soltanto se i cittadini definiscono il significato delle parole, le interrogano per verificare la coerenza tra la definizione e la realtà storica. Una società senza il “ti estì” (il che cos’è) è senza filosofia e senza politica. La definizione non solo astrae dall’immediato, ma traccia significati, discerne e dunque definisce e crea concetti. Senza giudizio non vi è pensiero, ma solo collettivismo, e nel nostro caso collettivismo consumistico. La libertà è lo shopping presso gli ipermercati, dove rivivere la tragedia della solitudine programmata.

È la fine della politica come categoria del dialogo tra alterità. Al suo posto regna la tracotanza del pensiero unico, che tollera senza capire e capirsi: è il regno della monade-capitale. Le nuove generazioni sono formate alle “libertà-libertinaggio”: ovvero promiscuità e consumo irrazionale sono le pratiche entro cui si connota la libertà.

La libertà – nel senso autentico del concetto – necessita della mediazione del pensiero; l’azione non dev’essere irriflessa, ma consapevole, responsabile e teleologicamente tesa alla verità. La libertà è il processo dialettico che procede verso la concettualizzazione, è operare l’epochè del mondo per pensarlo, ridefinirlo e significarlo. Il neoliberismo invece, diseduca alla libertà del pensiero per favorire le semplici pulsioni: è il regno animale dello spirito. Si pensi all’ultimo iphone che consente l’acquisto immediato col riflettere il viso nello specchio magico del mezzo: acquisti sempre più veloci, sempre meno pensati. È la logica del frattale del consumo, dall’individuo, alle comunità locali, allo Stato, alle comunità di Stati associati, è il ripetersi di logiche sempre uguali: liberi, ma solo di vendere e consumare. Se la borghesia tradizionale è ormai scomparsa con le sue regole e valori, bisogna, tuttavia, ammettere che tra la borghesia finanziaria anonima ed apolide attuale e l’alta borghesia di tradizione vi è comunque un asse che ancora le unisce, malgrado le faglie, ovvero entrambe credono e praticano il progresso dell’accumulo senza limiti. Marx ed Engels avevano tematizzato il mito dell’illimitato associandolo alla grande borghesia dell’Ottocento, che oggi è massimamente sviluppato nella borghesia della finanza:

«Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, Il bisogno di uno smercio sempre più esteso per i suoi prodotti sospinge la borghesia a percorrere tutto il globo terrestre. Dappertutto deve annidarsi, dappertutto deve costruire le sue basi, dappertutto deve creare relazioni. Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato una impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Le antichissime industrie nazionali sono state distrutte, e ancora adesso vengono distrutte ogni giorno. Vengono soppiantate da industrie nuove, la cui introduzione diventa questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili, da industrie che non lavorano più soltanto materie prime del luogo, ma delle zone più remote, e i cui prodotti non vengono consumati solo nel paese stesso, ma anche in tutte le parti del mondo. Ai vecchi bisogni, soddisfatti con i prodotti del paese, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. All’antica autosufficienza e all’antico isolamento locali e nazionali subentra uno scambio universale».[1]

 

La fase imperiale del capitalismo divora la libertà, la quale è stata il vessillo da utilizzare contro le gerarchie feudali. Si assiste al rovesciamento delle logiche

 

La libertà come urto qualitativo
La libertà è conoscenza di sé, è valore maieutico, poiché nella libertà la persona rinasce e si conosce per progettare la vita, per tracciare percorsi significanti, in cui ritrovarsi. La libertà è un valore vitale che avvolge ritmicamente la vita per emanciparla dalle forme di alienazione in cui cade. La libertà è la categoria della qualità con la quale la quantità è governata e finalizzata ai reali bisogni della vita. Alla qualità si giunge, mediante il processo dialettico.
La dialettica di Fichte, con il suo lavoro quotidiano di autosuperamento, è il paradigma della libertà. La libertà è urto concettuale contro il non io, contro le rigidità superstiziosa del mondo, è prassi ed attività del pensiero:

«L’io è in tutto e per tutto attivo e puramente e semplicemente attivo, questo è il presupposto assoluto. Di qui deriva una passività del non io, in quanto esso deve determinare l’io come intelligenza; l’attività contrapposta a questa passività è posta nell’io assoluto, quale attività determinata, esattamente come quell’attività mediante cui il non io viene determinato».[2]

La Rivoluzione permanente in nome dei consumi è nel codice genetico dell’integralismo capitalistico. Ma, mentre in passato si poteva distinguere il borghese dal proletario, il proletario dal bracciante, si assiste all’omologazione totale, per cui tutti sono consumatori. L’integralismo dell’Occidente ha fondato la prima società omologata della storia dell’umanità, la differenza è data dal censo, ma tutti si ritrovano eguali sulla linea eterodiretta della post-democrazia consumistica.
La violenza integralista deturpa le coscienze, le aliena al punto che anche dinanzi alla verità lapalissiana dei fatti, si risponde con l’esiziale “Non c’è alternativa”. Pertanto l’integralismo si accompagna con il dogmatismo religioso, con l’asservimento alle merci delle persone, non più esseri umani, ma automi pronti al consumo, all’edonismo di massa. Ogni voce critica è accusata di voler impedire la libertà. Quest’ultima è intesa solo come pratica concorrenziale distruttiva ed autodistruttiva. La libertà senza cultura del dono e curvata all’economicismo è sempre più simile alla lotta per la sopravvivenza, con l’effetto di fondare la libertà sulla devastazione:

«La normalizzazione dell’informale tende a distruggere i legami sociali infranazionali e infrastatali su cui si basa il suo dinamismo. Essa introduce in effetti i fermenti più distruttivi della modernità: l’egoismo, l’individualismo e la concorrenza selvaggia. Per ciò stesso, essa corrode la base sociale della creatività endogena: le reti neoclaniche di solidarietà e di clientela. Risulterebbe così compromessa proprio il successo delle speranze di cui è portatore l’informale di un passaggio alla postmodernità».[3]

Bisogna dialettizzare il presente per ricominciare a pensare che le categorie con cui rielaboriamo i dati non sono enti naturali, ipostasi, ma sono dedotte storicamente e pertanto modificabili.

 

La libertà come desiderio
La libertà è desiderio senza rappresentazione. L’immaginario colonizzato produce desideri indotti, mentre la libertà, in quanto attività desiderante è relazione con cui il soggetto nell’urto conosce se stesso, per scoprire di sé profondità che solo successivamente può rappresentare e concettualizzare. L’attività è relazione, poiché solo la relazione duale è capace di far emergere in modo spontaneo la verità e l’individualità che si conosce nella comunione desiderante:

«Nel nostro mondo, in cui “il deserto sta crescendo” (Nietzsche) e “l’angoscia si diffonde”, specialmente a causa della “pianificazione di una felicità uguale per tutti” (Heidegger), l’esistenza dell’altro apre una breccia in un orizzonte da cui siamo oppressi come un’ombra plumbea o un crepuscolo in cui tutto diventa grigio. Tramite il desiderio risvegliato o rivitalizzato in noi, l’altro ci chiama a un al di là – per vivere e per pensare il “non-ancora”. L’altro ci consente di conservare nella nostra memoria, in tutto il nostro essere, lo spazio di un “non ancora” come speranza di un futuro. Il “non-ancora” non deve essere vissuto come un vuoto da riempire, ma come il mantenimento in noi di una disponibilità ad accogliere la verità, la bellezza, la gioia, si potrebbe dire la grazia. Ciò può salvarci da un’eventuale disperazione o melanconia che derivano dal nulla che possiamo aspettarci, un nulla che possiamo costruire diventare. Il desiderio sconvolge la nostra rappresentazione del mondo in cui sono abolite le differenze e ciò che esse possono mettere in discussione del modello che ci viene imposto. Il desiderio riemerge come la fonte che ha strutturato l’insieme del nostro universo, una fonte di cui esso non sicura e che rimane al di fuori del suo orizzonte. Il desiderio ci ricorda la natura non rappresentabile dell’origine: la nostra, quella dell’altro e del mondo. Ripristina il legame tra il dentro di noi e il fuori di noi. Ci riporta a un essere in presenza estraneo al cerchio della rappresentazione».[4]

La libertà come qualità del vivere
L’integralismo dell’Occidente si connota per essere integralismo della passività rappresentata per attività. La trappola da cui congedarsi è l’illusione della libertà. All’integralismo della passività cinetica bisogna opporre l’attività desiderante senza la quale non vi è che il regime delle passioni tristi: il potere ci vuole tristi, estranei a noi stessi per poterci colonizzare. Senza il riconoscimento di tale verità non è possibile l’esodo dall’attivismo nichilistico. La libertà è pratica della qualità, per cui è necessario porre al centro il logos con il quale significare la quantità e porla nell’ordine razionale della comunità, ancora una volta i classici ci vengono incontro e ci donano verità su cui riflette e riprogettare il presente:

«Perché non sono di per se stessi i banchetti, le feste, il godersi fanciulli e donne, i buoni pesci e tutto quanto può offrire una ricca tavola che fanno la dolcezza della vita felice, ma il lucido esame delle cause di ogni scelta o rifiuto, al fine di respingere i falsi condizionamenti che sono per l’animo causa di immensa sofferenza. Di tutto questo, principio e bene supremo è la saggezza, perciò questa è anche più apprezzabile della stessa filosofia, è madre di tutte le altre virtù. Essa ci aiuta a comprendere che non si dà vita felice senza che sia saggia, bella e giusta, né vita saggia, bella e giusta priva di felicità, perché le virtù sono connaturate alla felicità e da questa inseparabili».[5]

 

La democrazia è il luogo politico dove imparare ad essere liberi. Senza una adeguata formazione assiologica e culturale la libertà diviene fuga dal limite, individualismo generalizzato e solitudine. La libertà è nel desiderio della qualità senza il quale ogni essere umano diviene solo consumatore senza essere e senza esserci.

Salvatore Bravo

[1] K. Marx – F. Engels, Manifesto del partito comunista, Ousia, pag. 14.
[2] J.G. Fichte, Fondamento dell’intera dottrina della scienza, Bompiani, 2017, pag. 483.
[3] S. Latouche, Il pianeta dei naufraghi, Bollati Boringhieri, 2017, pag. 148.
[4] L. Irigaray, Nascere. Genesi di un nuovo essere umano, Bollati Boringhieri, 2019, pag. 71.
[5] Epicuro, Lettera a Meneceo, Ousia, pag. 4

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Erich Fromm (1900-1980) – Il «radicalismo umanistico» nel libro di Ivan Illich «Rovesciare le istituzioni» è basato su un profondo interesse per la crescita dell’uomo intesa in ogni senso, fisico, spirituale ed intellettuale.

Ivan Illich - Erich Fromm
Ivan Illich, Rovesciare le istituzioni, Prefazione di Erich Fromm, Armando 1973
Erich Fromm
Prefazione al libro di
Ivan Illich, Rovesciare le istituzioni. Un “messaggio” o una “sfida”
 

I testi contenuti in questo libro non hanno bisogno di alcuna presentazione, né, tantomeno, il loro autore. Se, tuttavia, Ivan Illich ha voluto invitarmi a scrivere l’introduzione del suo libro, e se io ho accettato con piacere, ciò dipende da un’unica ragione che è stata alla base di entrambi i nostri intendimenti: abbiamo pensato che questa può essere un’occasione utile per chiarire la natura di un comune atteggiamento e di una fede comune, per quanto alcuni dei nostri punti di vista differiscano tra loro, anche in modo considerevole. Del resto, le idee che lo stesso autore oggi esprime non sempre coincidono con quelle che egli manifestava al tempo in cui, in diverse occasioni ed in un arco di anni abbastanza ampio, scrisse i saggi contenuti in questo volume. Ma una cosa è quella che conta: Illich è sempre stato fedele a se stesso per quanto riguarda il nocciolo più autentico del suo approccio alla realtà ed è questo nocciolo che mi sento di condividere con lui.

Non è facile trovare il termine appropriato per definire questo nucleo essenziale. Com’è possibile, infatti, rinchiudere un atteggiamento fondamentale nei confronti della vita in un semplice concetto senza alterarlo e distorcerlo? Eppure, dal momento che non possiamo fare a meno di comunicare con parole, mi sembra che la definizione più adeguata – o meglio, la meno inadeguata – sia quella di un radicalismo umanistico.

Cosa viene a significare il termine radicalismo e cosa implica l’aggettivo umanistico legato a quel sostantivo? Quando parlo di radicalismo non intendo principalmente un certo insieme di idee radicali, quanto piuttosto un atteggiamento – come dire – un approccio alla realtà. Tanto per cominciare un simile approccio può essere caratterizzato dal motto: de omnibus dubitandum; ogni cosa deve essere posta in dubbio, ma soprattutto quel patrimonio ideologico di concetti cristallizzati che sono virtualmente assunti da ciascuno e diventano, di conseguenza, assiomi fondamentali del senso comune che nessuno oserebbe porre in dubbio.

“Dubitare”, in questo senso, non implica certo una condizione psicologica di incapacità d’arrivare a decisioni o convincimenti ben fondati, come nel caso del dubbio ossessivo, quanto piuttosto una prontezza ed una capacità di porre in discussione criticamente tutte le certezze e le istituzioni che sono diventate puri e semplici idoli chiamati senso comune, logica e tutto ciò che si presume essere naturale. Questo modo radicale di porre in discussione le acquisizioni del mondo in cui viviamo è possibile solo quando non si diano per scontati i concetti base della società in cui si vive o addirittura di un intero periodo storico, come ad esempio, l’intera cultura occidentale dal Rinascimento in poi, e ancor più, se si dilata la portata della nostra consapevolezza cercando di scoprire gli aspetti inconsci che condizionano il nostro pensiero. Il dubbio radicale è, al tempo stesso, svelare e scoprire; è il sorgere della consapevolezza del fatto che l’Imperatore è nudo e che i suoi splendidi vestiti non sono altro che il prodotto della nostra fantasia.

Il dubbio radicale significa mettere in questione; non significa necessariamente negare. È facile negare mediante la semplicistica affermazione del contrario di ciò che esiste; il dubbio radicale è dialettico dal momento che in esso si svela il processo delle contraddizioni e con esso si tende ad una nuova sintesi che nega e afferma contemporaneamente.

Il dubbio radicale è un processo, un processo di liberazione da concezioni idolatriche, un modo di ampliare la nostra consapevolezza, l’immaginazione, la visione creativa che dobbiamo avere in ordine alle nostre possibilità ed alle scelte che ci impegnano. Un atteggiamento radicale non nasce dal nulla, non prende forma nel vuoto: esso parte dalle radici, e la radice, come disse Karl Marx, è l’uomo.

Questa grande affermazione, «la radice è l’uomo», non va intesa in senso positivistico o meramente descrittivo: quando parliamo dell’uomo non lo consideriamo come una cosa, ma come un processo; parliamo, quindi, del suo potenziale creativo, della sua capacità di sviluppare ogni suo potere, il potere d’una più grande intensità di essere, il potere di una più grande armonia di vita, d’un più grande amore, d’una più grande consapevolezza.

Ma parliamo anche dell’uomo come di un essere che si può corrompere, di un essere il cui potere di agire si può trasformare nella libidine di dominare sugli altri, il cui amore per la vita può degenerare nel gusto folle di distruggere la vita.

Questo radicalismo umanistico che mette in discussione drasticamente la realtà è guidato da una chiara intuizione della dinamica della natura umana e dalla preoccupazione per la crescita e il pieno sviluppo dell’uomo. In antitesi con l’attuale concezione positivistica, esso non è obiettivo, se per obiettività si intende il teorizzare senza che il processo del pensiero sia sostentuto e nutrito da un ideale profondamente sentito. Ma è anche troppo obiettivo se ciò significa che ogni fase del processo di riflessione poggia su una evidenza criticamente scrupolosa, e soprattutto, se accetta di mettere in dubbio le premesse del senso comune.

Tutto ciò significa che il radicalismo umanistico interroga ogni idea ed ogni istituzione su di un punto essenziale, quello cioè di sapere se essa aiuti oppure ostacoli la capacità dell’uomo di raggiungere una maggiore pienezza di vita, una maggiore felicità. Non è questa la sede per dilungarsi in una esemplificazione del tipo di acquisizioni del senso comune che vengono poste in discussione, dal radicalismo umanistico. E tanto meno ciò è necessario, dal momento che gli scritti di Illich raccolti in questo libro si occupano proprio di simili esempi, come l’utilità della scuola obbligatoria per tutti o dell’attuale funzione del prete nella società. Molti altri potrebbero essere enumerati, alcuni dei quali, del resto, emergono anche dalle pagine di questo libro. Per quanto mi riguarda vorrei sottolineare appena un poco il moderno concetto di progresso, inteso come un costante aumento della produzione, del consumo, della velocità, dei livelli massimi di efficienza e di profitto, e della possibilità di calcolare ogni attività in termini economici senza alcuna considerazione degli effetti che ne derivano per la qualità della vita e della crescita dell’uomo; oppure il dogma secondo cui l’aumento dei consumi renderebbe l’uomo felice, o quello per cui l’organizzazione imprenditoriale su larga scala deve necessariamente essere burocratica ed alienante, o la concezione che ripone lo scopo della vita nell’avere (e nell’usare) e non nell’essere; l’idea secondo cui la ragione è un fatto che riguarda l’intelletto e non ha nulla a che fare con la vita affettiva; la convinzione che il radicalismo è la negazione della tradizione e che l’opposto di “legge ed ordine” è la scomparsa di qualsiasi struttura. In breve, il dogma secondo cui le idee e le categorie che si sono sviluppate con l’affermarsi della scienza moderna e dell’industrializzazione sono superiori a quelle di ogni cultura anteriore ed indispensabili per il progresso del genere umano.

Il radicalismo umanistico mette in discussione tutti questi presupposti e non teme di giungere all’espressione di idee e soluzioni che possono suonare assurde agli orecchi della gente. Io ritengo che il grande valore degli scritti di Illich consista precisamente nel fatto che essi rappresentano un radicalismo umanistico fra i più completi e carichi di immaginazione creativa. L’autore è uomo di raro coraggio, di grande vitalità, di straordinaria erudizione, brillante nello scrivere e fertile nell’immaginazione: ogni suo convincimento è basato su un profondo interesse per la crescita dell’uomo intesa in ogni senso, fisico, spirituale ed intellettuale. L’importanza del suo pensiero, quale emerge da questi e dagli altri suoi scritti, consiste nel fatto che essi hanno un effetto liberante sulla mente del lettore nella misura in cui svelano interamente nuove possibilità; essi arricchiscono il lettore aprendogli la porta dalla quale si può uscire dalla prigione delle cognizioni sterili, preconcette, frutto della routine quotidiana. Mediante uno choc creativo gli scritti di Ivan Illich comunicano un messaggio; solo chi reagisce esclusivamente con rabbia a quelle che gli sembrano semplici assurdità, non può intendere questo messaggio; per gli altri, per tutti, essi parlano la lingua della forza e della speranza che spingono a cominciare di nuovo.

 

Erich Fromm, Prefazione a Ivan Illich, Rovesciare le istituzioni. Un “messaggio” o una “sfida”, Armando, Roma 1973.

 

Tratto da: www.altraofficina.it

 


Ivan Illich, Rivoluzionare le istituzioni. Celebrazione della consapevolezza, Prefazione di Erich Fromm, Mimesis, 2012

Erich Fromm (1900-1980) – La nostra è una società composta da individui in preda a stati depressivi e a impulsi distruttivi, incapaci di indipendenza.
Erich Fromm (1900-1980) – L’uomo moderno non ha raggiunto la libertà in senso positivo di realizzazione del proprio essere. Questo isolamento è intollerabile.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Sebastiano Timpanaro (1923-2000) – Troppo a lungo le classi dominanti hanno attribuito alla natura le ingiustizie e le sofferenze di cui è responsabile l’organizzazione della società, comprese certe calamità ‘naturali’ (dalle alluvioni alle epidemie a tutte le malattie sociali).

Sebastiano Timpanaro

«Troppo a lungo le classi dominanti hanno attribuito alla natura (cioè ad una traduzione laica degli imperscrutabili decreti della Divina Provvidenza) le ingiustizie e le sofferenze di cui è responsabile l’organizzazione della società, comprese certe calamità ‘naturali’ (dalle alluvioni alle epidemie a tutte le malattie sociali) che non sarebbero accadute, o avrebbero arrecato danni molto meno gravi, se la ricerca del massimo profitto e la subordinazione dei pubblici poteri agli interessi capitalistici non avessero fatto trascurare le più ovvie misure di prevenzione e, ciò che molto più importa, non avessero impedito l’adozione di un modello di sviluppo tecnico-produttivo profondamente diverso».

Sebastiano Timpanaro, Sul materialismo, Nistri-Lischi, Pisa 1975 (prima edizione 1970), p. XXVI.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Nicola Arrigoni – Heidegger e pensare Dio. L’essere e la fine della metafisica. Il saggio di Carlo Carrara dedicato alla riflessione “teologica” del filosofo tedesco

Heidegger- Arrigoni

Carlo Carrara

Essere e Dio in Heidegger

ISBN 978-88-7588-234-1, 2020, pp. 200,  Euro 20 – Collana “Il giogo” [110].

indicepresentazioneautoresintesi

Nicola Arrigoni

Heidegger e pensare Dio

L’essere e la fine della metafisica. Il saggio di Carlo Carrara
dedicato alla riflessione “teologica” del filosofo tedesco

 

«L’epoca metafisica, iniziatasi con Platone, per Heidegger giunge al suo compimento con Nietzsche. La metafisica di Nietzsche, in quanto compimento della metafisica occidentale in generale e quindi – in un senso rettamente inteso – la fine della metafisica come tale». Così scrive Carlo Carrara in Essere e Dio in Heidegger, denso saggio pubblicato per l’Editrice Petite Plaisance (pp. 186, 20 euro). Già nel titolo Carrara rende omaggio all’autore di Essere e tempo, affiancando la riflessione sull’ontologia e sull’essere alla parola di Dio. Il «Dio è morto!» nicciano è il punto di partenza, è crux interpretativa, è la svolta di quel pensiero nichilista e di riflessione metafisica dell’essere nel tempo e dell’esserci. Ed in merito osserva Carlo Carrara: «Heidegger non esclude che a questa epoca segnata dalla morte di Dio, dal compimento della metafisica, dall’assenza e della mancanza del divino, poetata da Hölderlin, possa essere concesso il favore della svolta della dimenticanza dell’essere nella salvaguardia della sua essenza». In questa direzione la riflessione su Dio e l’essere nel pensiero di Heidegger portata avanti con rigore da Carlo Carrara porta alla consapevolezza che la dimenticanza dell’essere, mutandosi nella salvaguardia della sua essenza, nella disponibilità umana della custodia e dell’attesa, si presenta nel pensiero poetante che dall’essere conduce a Dio, e nel poetare pensante, che si rivolge al sacro, come una luce nel tempo di povertà «della notte del mondo», scrive Carlo Carrara. Il saggio è un percorso vertiginoso e a tratti insidioso, che pone il lettore a interrogarsi sul Dio divino che non è il Dio cristiano che si è inverato nel tempo. «Solo il Dio divino può salvare l’uomo, nel senso che può liberarlo per la sua essenza propria in quanto esser-ci, dal dominio dell’oblio dell’essere dalle conseguenze della morte di Dio», continua Carrara nel suo itinerario speculativo. In questo contesto il pensiero poetante diventa una chiave di ingresso in una dimensione dell’umano che si completa nella filosofia, sapere intorno all’uomo giorno e notte.

«La Provincia di Cremona», giugno 2020.

Recensione di Essere e Dio in Heidegger – Quotidiano La Provincia di Cremona

La questione centrale del pensiero di Martin Heidegger è la questione dell’essere, ma fin dall’inizio del suo cammino, nei sentieri percorsi, il suo pensare è aperto al problema di Dio e a ciò ad esso inerente.
Per il filosofo tedesco la metafisica occidentale, da Platone a Nietzsche, nasce e si sviluppa come oblio dell’essere, cosicché nulla ne è dell’essere stesso e della sua verità. Ne consegue che nella sua stessa essenza la metafisica è nichilismo.
Il Dio metafisico è il Dio causa sui, il Dio fondamento, ragione e supremo valore, le cui immagini e maschere costruite dall’onto-teologia lungo la storia hanno contraffatto il Dio divino, il Dio che può aver luogo secondo il suo tratto proprio solo in base, a partire ed entro l’orizzonte della verità dell’essere. Solo il Dio divino può salvare l’uomo, nel senso che può liberarlo per la sua essenza propria in quanto esser-ci, dal dominio dell’oblio dell’essere e dalle conseguenze della morte del Dio non divino.
Il favore della svolta nell’essere ancora non concesso, che la dimenticanza dell’essere si rivolti, mutandosi nella salvaguardia della sua essenza, nella disponibilità umana della custodia e dell’attesa, si presenta nel pensiero poetante, che dall’essere conduce al Dio, e nel poetare pensante, che si rivolge al sacro, come una luce nel tempo di povertà della notte del mondo, caratterizzato dall’assenza, dalla mancanza di Dio: «Quando si fa buio non vedo niente, e tuttavia (ci) vedo» (M. Heidegger).


Carlo Carrara è dottore in Filosofia e ha conseguito il Magistero in Scienze Religiose. Si occupa di filosofia contemporanea, antropologia filosofica e del pensiero di Martin Heidegger. Tra i suoi libri si segnalano: La domanda del senso dell’esistere (il nuovo me­langolo, Genova 2013); Solitudine ed esistenza. Kierkegaard, Nietzsche, Unamuno, Heidegger, Jaspers, Sartre, Camus, Marcel, Berdjaev, Abbagnano (Petite Plaisance, Pistoia 2015); In cammino verso il silenzio (Paoline, Milano 2015); L’uomo ancora non pensa. Nei sentieri di Heidegger (Petite Plaisance, Pistoia 2016).



Carlo Carrara
La domanda del senso. Per una filosofia del “ri-trovamento”

[Introduzione di Massimo Bontempelli. In appendice scritti di: Walter Kasper, Dario Antiseri, Luigi Giussani, Abraham J. Heschel, Juan Alfaro, Norbert Fischer, Bernhard Welte, Karl Rahner, Armando Rigobello, Günther Anders, Wolfhart Pannenberg, Norberto Bobbio].

ISBN 88-87296-74-X, 2000, pp. 176,

indicepresentazioneautoresintesi

Il sentiero qui percorso, muovendo i primi passi verso la necessaria chiarificazione della semantica e della polivalenza del termine «senso», seguirà la via del senso come domanda radicale, per poi proseguire sulla via del senso come problema fondamentale, per raggiungere il senso come mistero avvolgente. Tre vie con un unico intento: ri-passare la struttura ontologico-esistenziale ultima umana. Riallacciandosi poi alla situazione propria dell’uomo contemporaneo, il cammino ripercorrerà le tappe della perdita della domanda del senso, per arrivare alla mancanza del senso e all’insensatezza effettiva dominante. Tre vie con un unico intento: ri-levare l’odierna condizione umana. Gli ultimi passi volgeranno verso la ri-cerca responsabile del senso ultimo da parte di ogni singolo uomo, con la ri-proposta della domanda del senso, per un «ri-trovamento» di quanto di più umano vi sia nell’uomo. Infine, alcuni approfondimenti di noti e attuali studiosi, ricondurranno a ripercorrere in modo più particolareggiato i diversi aspetti della questione esaminata.

«[…] l’uomo contemporaneo, in genere, non sente neanche più la necessità di enunciare la scomparsa del senso ultimo, preoccupato com’è a dar vita ai «suoi» sensi; tanto è vero che il suo pensare al senso come mistero avvolgente dura per lo più quanto l’attimo di un lampo, che potrebbe comunque anche folgorarlo; il suo riflettere sul senso come problema fondamentale dura forse poco più di un’ora, giusto il tempo per supporre e dire qualcosa, per poi lasciare nuovamente il tutto sospeso nel vuoto o nel dubbio; il suo percepire il senso come domanda radicale sta invece alla circostanza che lo suscita come il sole sta a un giorno, che potrebbe tanto irradiare quanto accecare, o come la luna sta a una notte, che potrebbe tanto guidare quanto fuorviare, ma in qualunque modo stiano le cose, il domani sarà sempre un altro giorno e un’altra notte.  Per il resto del suo tempo, cioè, per tutto il tempo, l’uomo contemporaneo non fa che pensare, fare e dire «per» questo mondo, «con» questo mondo e «in» questo mondo, a se stesso, in unità con la felicità di questo mondo, da conquistare mediante la ricerca, il possesso e il godimento (per quanto frenetici, esasperati e inappagabili possano essere) di tutti quei beni che il menù del mondo gli offre (potere, denaro, successo, piaceri, divertimenti, ecc.), augurandogli “buon senso!”». «La domanda del senso rimanda al mistero della vita e del mondo che avvolge integralmente l’uomo. Non più risposte a domande, ma domande a risposte; non più soluzioni a problemi, ma problemi a soluzioni; e nemmeno tentativi di pensare qualcosa di ciò che è non ancora pensato, di aspirare a trovare qualcosa di ciò che è non ancora trovato; ma soltanto il mistero che avvolge e coinvolge l’uomo, che lo inonda con le sue imprendibili acque, tenebrose per la sua ragione, sorgente di speranza per il suo cuore» (Carlo Carrara).



Carlo Carrara, La domanda del senso dell’esistere, Il Nuovo Melangolo, 2014.

Il sentiero qui percorso, muovendo i primi passi verso la necessaria chiarificazione della semantica e della polivalenza del termine “senso”, seguirà la via del senso come domanda radicale, per proseguire sulla via del senso come problema fondamentale, per raggiungere il senso come mistero avvolgente. Tre vie con un unico intento: ripassare la struttura ontologico-esistenziale dell’uomo. Riallacciandosi poi alla situazione propria dell’esistere umano contemporaneo, il cammino ripercorrerà le tappe della perdita della domanda del senso, per arrivare alla mancanza del senso e all’insensatezza effettiva dominante. Tre vie con un unico intento: ri-levare l’odierna condizione umana. Gli ultimi passi volgeranno nella direzione di una responsabile domanda e ricerca del senso dell’esistere da parte di ogni singolo uomo.


Carlo Carrara, In cammino verso il silenzio, Paoline Editoriale Libri, 2015.

Il testo è strutturato in un centinaio di brevi pensieri sul tema dominante del silenzio. I pensieri, dal linguaggio a volte aforistico e poetico, seguono un percorso, un cammino, che parte dalla costatazione del predominio del rumore, prodotto alienante dell’odierno esistere inautentico dell’uomo, per inoltrarsi nella ricerca dell’autentico significato della parola, dell’ascolto, del dialogo e del rapporto interpersonale. Nel cammino si va via via chiarendo la molteplicità di forme e significati del silenzio, con la radicale distinzione tra le sue forme degenerative e spurie e il suo autentico e profondo significato. L’essere del silenzio si manifesta come la precondizione necessaria e imprescindibile dell’essere della parola, dell’ascolto, del dialogo e dell’altro. Il mondo del silenzio è il luogo del loro esistere autentico, nel bene e nel dono reciproco dell’amore accolto e vissuto concretamente. In questo luogo ogni singolo uomo è chiamato ad amare donandosi.



Carlo Carrara,

Solitudine ed esistenza

[Kierkegaard – Nietzsche – Unamuno – Heidegger – Jaspers – Sartre – Camus – Marcel – Berdjaev – Abbagnano]. Prefazione di Angela Ales Bello.

ISBN 978-88-7588-139-9, 2015, pp. 19

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Che cos’è la solitudine? Perché la solitudine è così inscindibilmente legata con l’esistenza umana? Quali e quante solitudini vive l’uomo di questo tempo? In che termini si può parlare di solitudine per l’autenticità e di isolamento dell’inautenticità? Come definire la solitudine in quanto isolamento positivo e l’isolamento in quanto solitudine negativa? Attraverso l’analisi delle opere fondamentali dei maggiori precursori e rappresentanti della filosofia contemporanea dell’esistenza, e con un linguaggio semplice e chiaro, questo libro offre la possibilità di riflettere sul problema e sull’esperienza della solitudine, profondamente connessi con le questioni del fondamento e del senso dell’esistenza umana, con la sua dimensione autentica e con quella inautentica, con il modo di essere individuale, personale, sociale e religioso dell’uomo, con la realtà della sua morte e con la verità del suo destino ultimo.



Carlo Carrara

L’uomo ancora non pensa. Nei sentieri di Heidegger.

ISBN 978-88-7588-200-6, 2016

indicepresentazioneautoresintesi

«La filosofia non è nata dal mito. Essa nasce solo dal pensiero e nel pensiero. Ma il pensiero è il pensiero dell’essere. Il pensiero non nasce. Esso è (ist) in quanto l’essere è (west)» (Il detto di Anassimandro). «Può il pensiero continuare a sottrarsi al compito di pensare l’essere, dopo che questo è rimasto nascosto in un lungo oblio e nello stesso tempo, nel momento attuale del mondo, si annuncia attraverso lo scotimento di tutto l’ente?» (Lettera sull’«umanismo»). «Il pensiero iniziale ha la sembianza della totale marginalità e dell’inutile. E tuttavia, se proprio si vuole pensare a un’utilità, che cosa è più utile della salvezza nell’essere?» (Contributi alla filosofia ‘Dall’evento’). (Martin Heidegger)

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

María Zambrano (1904-1991) – La vera musica non può essere trovata in un dogma, ma in un uomo concreto che percepisce con la sua armonia interiore l’armonia del mondo.

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«Per questo la vera musica non può essere trovata in un dogma, ma in un uomo concreto che percepisce con la sua armonia interiore l’armonia del mondo. È una questione di orecchio, un talento musicale, quello del sapiente; è un’attività incessante che percepisce, ed è un continuo accordo. È, in altre parole, un’arte. La morale si è trasformata in estetica e, come ogni estetica, ha qualcosa d’incomunicabile».

María Zambrano, Seneca, a cura di C. Marseguerra, trad. dal latino di A. Tonelli, Milano, Bruno Mondadori, 1998, p.
44.


Maria Zambrano – La virtù della delicatezza
Maria Zambrano (1904-1991) – Il silenzio che accoglie la parola assoluta del pensiero umano diventa il dialogo silenzioso dell’anima con se stessa.
Maria Zambrano (1904-1991) – Saper guardare un’icona significa liberarne l’essenza, portarla alla nostra vita
María Zambrano (1904-1991 – Il punto dolente della cultura moderna è la sua mancanza di trasformazione della conoscenza pura in conoscenza attiva, che possa alimentare la vita dell’uomo di ciò che necessita.
María Zambrano (1904-1991) – L’amore è l’elemento della trascendenza umana. Originariamente fecondo, quindi, se persiste, creatore di luce, di vita, di coscienza. È l’amore a illuminare la nascita della coscienza.
María Zambrano (1904-1991) – La vita ha bisogno di rivelarsi, di esprimersi: se la ragione si allontana troppo, la lascia sola, se assume i suoi caratteri, la soffoca.
María Zambrano (1904-1991) – Vivere come figli è qualcosa di specificatamente umano; solo l’uomo si sente vivere a partire dalle sue origini e a queste si rivolge con rispetto. Se è così, non dovremmo temere che, smettendo di essere figli, smetteremo anche di essere uomini?
María Zambrano (1904-1991) – La cosa più umiliante per un essere umano è sentirsi portato, trascinato, senza possibilità di scelta, senza poter prendere alcuna decisione.
María Zambrano (1904-1991) – La violenza vuole, mentre la meraviglia non vuole nulla, le è estraneo e perfino nemico tutto quanto non persegue il suo inestinguibile stupore estatico.
María Zambrano (1904-1991) – Sogno e destino della pittura. Dal sogno la pittura ha la sua nascita. Perché essa è nata nelle caverne. I sogni hanno bisogno di salvarsi. E un sogno salvato è un sogno visibile.
María Zambrano (1904-1991) – L’esperienza precede ogni metodo. Ma il metodo si dà fin dal principio in una determinata esperienza, che proprio in virtù di ciò arriva ad acquistare corpo e forma, figura.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Raj Patel – La polIzIa, da sempre agente del capitale, protegge gli affari di coloro che hanno sempre perpetuato la crisi ecologica e che l’hanno scritta sui corpi dei poveri, dei discendenti degli schiavi.

Raj Patel 01
Mappa dell’odio raziale in U.S.A., dove si contano 917 gruppi organizzati che inneggiano all’odio raziale

Alla polIzIa, da sempre agente del capitale, della proprietà e della supremazia razziale, è permesso acquistare gli armamenti usati dal più grande esercito del mondo. Quella forza di polizia serve a proteggere gli oleodotti, le fabbriche inquinanti, gli impianti di confezionamento delle carni, i centri di distribuzione, gli affari di coloro che hanno sempre perpetuato la crisi ecologica e che l’hanno scritta sui corpi dei poveri, dei discendenti degli schiavi e delle nazioni sfollate, degli immigrati portati nel paese per servire i ricchi. Le forze dello Stato sono sempre state le garanti dell’ordine che ha condotto a questa crisi socio-ecologica – esse erano presenti al genocidio dei nativi americani; erano lì per imporre la schiavitù; erano lì per consentire !’inquinamento, lo sfruttamento, la fame e la povertà, perché erano lì per far rispettare l’ordine.

Raj Patel, Il volto americano della necropolitica, «il manifesto», 7 giugno 2020, p. 10

Descrizione

Circa un miliardo di persone nel mondo è denutrito. Un altro miliardo è obeso. Quasi metà della popolazione mondiale vive quotidianamente il problema di un’alimentazione insufficiente. L’altra metà soffre dei tipici problemi legati a un’alimentazione sovrabbondante e alle disfunzioni che ne derivano: diabete, eccesso di peso, problemi cardiocircolatori.
È un paradosso? Solo apparente, argomenta Raj Patel, perché questo stato di cose è l’inevitabile corollario di un sistema che consente solo a un pugno di grandi corporation di trarre profitto dall’intera catena alimentare mondiale.
I padroni del cibo è un’indagine appassionante che svela per la prima volta i retroscena della guerra in corso per il controllo delle risorse alimentari: un vero e proprio giro del mondo che spazia dall’aumento dei suicidi tra i contadini asiatici alle sventurate conseguenze degli accordi commerciali tra Messico e Stati Uniti, dall’emergere dei movimenti dei senza terra in Brasile al fallimento di molte produzioni agricole africane, fino a toccare le sofisticate tecniche di manipolazione dei consumatori nel ricco Nord del mondo.
In una fase storica in cui assistiamo all’aumento dei prezzi di tutti i prodotti di base, anche nei paesi occidentali, conoscere e comprendere le politiche alimentari mondiali significa confrontarsi con i temi della globalizzazione e della giustizia sociale, ma soprattutto significa capire quali strategie produttori e consumatori possono mettere in atto per proteggere la propria salute e contrastare lo strapotere delle multinazionali.


Descrizione

Ogni volta che compriamo una banana, il 45% di ciò che paghiamo va al rivenditore, il 18% all’importatore, il 19% è assorbito dai costi di trasporto, mentre alla compagnia che controlla la piantagione spetta circa il 15%. Al contadino resta meno del 3%. Evidentemente c’è qualcosa che non va in un modello così iniquo di distribuzione, che non riguarda peraltro solo i beni alimentari. Il prezzo da noi pagato per ogni cosa, dal cibo ai beni di consumo, è sistematicamente distorto. Il mercato non riesce a valutare con equità il valore del lavoro, i bisogni delle persone, le necessità delle generazioni future. E quando i prezzi sono ancorati al nulla anziché ai valori reali siamo di fronte a un baratro. Oggi che il neoliberismo è saltato fragorosamente per aria è più che mai necessario tornare alla radice dei problemi. È questo l’obiettivo del lavoro di Raj Patel: un’indagine stringente che fornisce gli strumenti per riflettere in modo nuovo sul mondo, sul valore delle cose, sul senso di ciò che facciamo.


Descrizione

Natura, soldi, lavoro, assistenza, cibo, energia e vita. Sono le sette cose che hanno costruito il nostro mondo e che daranno una forma al nostro futuro. Mettendo a profitto ciascuna di queste sette cose, l’economia moderna ha trasformato, governato e devastato la Terra.
Dopo I padroni del cibo e Il valore delle cose, Raj Patel presenta insieme a Jason W. Moore un nuovo modo di analizzare le emergenze globali del nostro tempo. Agli studi più recenti sullo stato di salute del pianeta Patel e Moore accompagnano la narrazione delle vicende del colonialismo, delle lotte indigene, delle rivolte degli schiavi. E si lanciano in un viaggio straordinario nel tempo e nello spazio, alla ricerca di casi esemplari della capacità del capitalismo di piegare alla propria costante esigenza di profitto qualsiasi cosa, anche la vita stessa. È una storia che comincia con Cristoforo Colombo, primo grande esportatore del colonialismo e dell’economia del capitale, e arriva fino a oggi. Ripercorrerla significa scoprire una verità inquietante: le più grandi crisi della politica e dell’economia mondiali hanno prodotto ogni volta nuove strategie per sfruttare in modo sempre più insidioso le risorse disponibili, facendo del mondo l’arena del mercato capitalista.
Una critica appassionante delle leggi del capitale, una visione originale per un mondo sostenibile, che si legge come una grande avventura nella nostra storia.

Per comprendere il nostro tempo, governato dalle regole del capitalismo, è necessario raccontare una grande storia. È la storia di chi ha trasformato la natura, l’energia e anche la vita in merce capace di produrre profitto.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Raúl Zurita – Leviamo il nostro grido di dolore per i desaparecidos inabissati dai golpisti di Pinochet tra le onde del Pacifico e per gli africani lasciati affogare nel Mediterraneo dall’indifferenza degli europei.

Raúl Zurita

Leggiamo nella sezione Las cataratas del Pacifico, con chiari rimandi ai desaparecidos:

«mostrando migliaia di immagini dl Cile frantumato sotto le cateratte
con fotogrammi di convogli militari di spiagge affollate di gente
di prigionieri inabissati tra le onde».

E sella sezione I barcaioli della notte:

«Sopra […] la sagoma del quarto barcaiolo aveva il colore del desero. […]
Quando ho aperto gli occhi la spinta feroce del suo remo
che mi respingeva mi aveva spaccato il cuore».

Raúl Zurita, Quattro poemi, a cura di Lorenzo Mari, Valige rosse, Livorno, 2020.


I quattro poemi raccolti in questa antologia sono stati scelti direttamente dell’autore, con l’intento di rimarcare, all’interno della sua vasta e multiforme opera poetica, alcuni punti di snodo decisivi nella sua storia di artista e di intellettuale. Per questo motivo, più che di un’autoantologia nel senso più comune del termine (quello di una crestomazia dei singoli testi giudicati più rilevanti), questo libro acquista una fisionomia di raccolta autonoma e si propone piuttosto come una sorta di catabasi nella storia del Cile al tempo della dittatura di Augusto Pinochet.

Il libro si apre con LVB, acronimo di Ludwig van Beethoven, soprannome affibbiato a un internato dei campi di prigionia del quale Zurita offre un’alta testimonianza poetica. A seguire si aprono Le cateratte del Pacifico, visione sublime della Natura che, al tempo stesso, resta indissolubilmente legata alla tragedia dei desaparecidos. I barcaioli della notte svolgono le funzioni del Caronte dantesco, portando il lettore verso la visione finale del Canto al suo amore scomparso, l’immenso cimitero latinoamericano e mondiale nel quale Zurita stesso si confronta, a tutti i livelli, con l’ingiunzione etica, politica e letteraria, a dar conto delle migliaia di vite desaparecidas.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Luigi Pareyson (1918-1991) – L’esistenza dell’opera musicale non è quella inerte e muta dello spartito, ma quella viva e sonora dell’esecuzione, che è vita e possesso dell’opera.

Luigi Pareyson 01

«L’esistenza dell’opera musicale non è quella inerte e muta dello spartito, ma quella viva e sonora dell’esecuzione, la quale tuttavia, per il suo carattere necessariamente personale e quindi meramente interpretativo, è sempre nuova e diversa, cioè molteplice. Ma la sua molteplicità non pregiudica per nulla l’unicità dell’opera musicale. L’esecuzione non è una copia o riflesso, ma vita e possesso dell’opera».

Luigi Pareyson, Verità e interpretazione, Mursia, 1971.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Immanuel Kant (1724-1804)  – Ho imparato che la scienza è inutile, se non serve a mettere in valore l’umanità. Agisci in modo da trattare l’uomo così in te come negli altri sempre anche come fine, non mai solo come mezzo. Agisci in modo che ogni tuo atto sia degno di diventare un ricordo.

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«Io sono uno studioso e sento tutta la sete di conoscere che può sentire un uomo. Vi fu un tempo nel quale io credetti che questo costituisse tutto il valore dell’umanità; allora io sprezzavo il popolo che è ignorante. E’ Rousseau che mi ha disingannato. Quella superiorità illusoria è svanita, ho imparato che la scienza è inutile, se non serve a mettere in valore l’umanità»

 

«Agisci in modo da trattare l’uomo così in te come negli altri sempre anche come fine, non mai solo come mezzo»

«Agisci in modo che ogni tuo atto sia degno di diventare un ricordo».

Immanuel Kant, Critica della ragion pratica.


Immanuel Kant (1724-1804)  – Nell’uomo esiste un tribunale interno: è la coscienza. Egli può magari cadere in un grado tale d’abbiezione da non prestare più alcuna attenzione a questa voce, ma non può evitare di udirla
Immanuel Kant (1724-1804) – Lo studente non deve imparare dei “pensieri”, ma a “pensare”. Non lo si deve “portare” ma “guidare”, se si vuole che in seguito sia capace di camminare da solo. Rovesciando questo metodo, lo studente acciuffa una sorta di ragione prima ancora che in lui si sia formato “l’intelletto” e s’appropria d’una “scienza” posticcia che in lui è soltanto appiccicata , non maturata.
Immanuel Kant (1724-1804) – Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me.
Immanuel Kant (1724-1804)  – Lettera di Kant a Marcus Herz. «Parlo dell’obiettivo di diffondere disposizioni d’animo buone, basate su princìpi solidi, e di salvaguardare queste disposizioni assicurandole fermamente nelle anime ricettive, indirizzando gli altri a coltivare i propri talenti solo in direzioni utili».
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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