«Chi non spera quello che non sembra sperabile non potrà scoprirne la realtà, poiché lo avrà fatto diventare, con il suo non sperarlo, qualcosa che non può essere trovato e a cui non porta nessuna strada». Eraclito
Dobbiamo liberarci
della corsa folle che ci ha intrappolati e dal credere che il tempo
sia solamente denaro, dalla bramosia del superfluo;
dalla tirannia delle cose, che ci allontana dall’Uomo;
dalla illusione che il possesso sia sufficiente a renderci felici;
dall’indifferenza verso l’albero, il fiore la lucertola; dall’idea
che la terra madre sia una vacca da mungere fino allo sfinimento;
dalla manipolazione della natura;
[…]
dobbiamo liberarci dal tacere la morte, vissuta come indecenza;
dallo spregio per le mani ruvide e il sudore della fronte;
dallo snobbare chi in silenzio garantisce il nostro nutrimento;
[…]
dalla sottomissione al virtuale che occulta la vita e ruba la gioia del ritrovarsi;
dall’impazienza, nemica dell’ascolto e della tolleranza;
dal frastuono che stordisce gli uomini e uccide il silenzio
[…]
dal rifiuto della nostra fragilità e dei nostri limiti, la cui accettazione
è invece saggezza;
dal sottovalutare i piccoli gesti, che fanno la differenza;
dal credere che la felicità sia solo un diritto,
quando il sorriso è un nostro dovere verso il mondo.
Paolo Rumiz, Preghiera laica, pubblicata su Robinson, il settimanale culturale del quotidiano Repubblica, sabato 25 aprile 2020.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:
L’abbaglio con cui si cerca di ingannarenoi tutti è un incanto illusorio. L’Occidente è senza Daimon e Genius loci e offre unicamente l’ametista ingannevole dei soli diritti individuali
Aspettando i barbari
Che cosa aspettiamo così riuniti sulla piazza? Stanno per arrivare i Barbari oggi. Perché un tale marasma al Senato? Perché i Senatori restano senza legiferare?
È che i barbari arrivano oggi. Che leggi voterebbero i Senatori? Quando verranno, i Barbari faranno la legge.
Perché il nostro Imperatore, levatosi sin dall’aurora, siede su un baldacchino alle porte della città, solenne e con la corona in testa?
È che i Barbari arrivano oggi. L’Imperatore si appresta a ricevere il loro capo. Egli ha perfino fatto preparare una pergamena che gli concede appellazioni onorifiche e titoli.
Perché i nostri due consoli e i nostri pretori sfoggiano la loro rossa toga ricamata? Perché si adornano di braccialetti d’ametista e di anelli scintillanti di brillanti? Perché portano i loro bastoni preziosi e finemente cesellati?
È che i Barbari arrivano oggi e questi oggetti costosi abbagliano i Barbari.
Perché i nostri abili retori non perorano con la loro consueta eloquenza?
È che i Barbari arrivano oggi. Loro non apprezzano le belle frasi né i lunghi discorsi.
E perché, all’improvviso, questa inquietudine e questo sconvolgimento? Come sono divenuti gravi i volti! Perché le strade e le piazze si svuotano così in fretta e perché rientrano tutti a casa con un’aria così triste?
È che è scesa la notte e i Barbari non arrivano. E della gente è venuta dalle frontiere dicendo che non ci sono affatto Barbari…
E ora, che sarà di noi senza Barbari? Loro erano comunque una soluzione.
K.P. Kavafis
La catastrofe globale a cui l’Occidente va incontro è spesso pensata nei soli termini di rovina ambientale irreversibile. Gli studiosi di filosofia al pari degli scienziati sciorinano dati sul clima, sullo scioglimento dei ghiacciai e sull’economicismo. L’esattezza di tali dati è indubitabile, ma dietro il declino, ormai prossimo alla catastrofe, vi è una verità che è necessario riportare alla luce. I dati scientifici con cui si profetizza la catastrofe sempre più vicina rischiano di occultare il senso di tali dati. Dietro la cortina di ferro della loro scientificità, vi è il declino vitale dell’Occidente incapace di progettare se stesso. L’Occidente – affetto da ipertrofia della razionalità strumentale – aspetta i nuovi barbari, affinché – come nella poesia di K. P. Kavafis – possano portare nuova linfa per evitare il suo tramonto. L’economicismo ha divorato il pensiero di ogni possibilità, per cui incapaci di promuovere vera politica e di praticare la ricerca della verità, li si attende cercando di affascinarli con i preziosi, ostentandoli, essi sono l’elemosina che l’Occidente usa per irretirli:
“Perché i nostri due consoli e i nostri pretori sfoggiano la loro rossa toga ricamata? Perché si adornano di braccialetti d’ametista e di anelli scintillanti di brillanti? Perché portano i loro bastoni preziosi e finemente cesellati?
È che i Barbari arrivano oggi e questi oggetti costosi abbagliano i Barbari”.
Abbagli L’abbaglio con cui si cerca di ingannare i barbari è l’incanto illusorio, in cui si è sempre vissuto e che ci rifiutiamo di riconoscere. L’immigrato è il barbaro che deve salvare dal declino demografico e culturale: lo si invoca, e lo si sfrutta. Si cade nel caos ideologico, sintomo della decadenza razionale. Si frodano i barbari con lo stesso registro valoriale che ha esaurito le forze vitali e creative: l’economicismo. Senza pensiero divergente che si arrischi nella ricerca autonoma della verità non vi è soluzione alla catastrofe. Si attende la soluzione dall’esterno, ma non verranno i barbari a liberarci. Non vi sono soluzioni che vengano dall’esterno:
“È che è scesa la notte e i Barbari non arrivano. E della gente è venuta dalle frontiere dicendo che non ci sono affatto Barbari… E ora, che sarà di noi senza Barbari? Loro erano comunque una soluzione.”
Si attendono i barbari, si abdica ad ogni responsabilità politica e sociale. Non si ha la forza per deviare il cammino dall’abbaglio collettivo della crematistica e del narcisismo disperato. Non si “osa” invocare l’impegno alla lotta alle ingiustizie e dichiarare la verità del modello di sviluppo dell’attuale sistema. L’Occidente si nasconde tra le pieghe dei “barbari” che divengono il mezzo per sfuggire alla sua verità autorappresentandosi come il migliore dei mondi possibili.
Occidente senza Daimon e Genius loci La decadenza è iniziata con un processo di estraniazione dal proprio “demone”, ovvero con la messa a tacere di ogni vocazione individuale e collettiva. L’economicismo ha sepolto la capacità di ascoltare la propria vocazione profonda in nome del facile successo e della regressione ad un infantilismo di massa osannato con ogni mezzo. Il ciclo produttivo non saccheggia solo il pianeta, ma nella sua spirale svuota gli individui, che in nome del diritto a tutto hanno abdicato ai loro doveri, alla solidarietà umana, all’ascolto del Genius loci[1] che abita i paesaggi. Senza l’ascolto dell’invisibile racchiuso nella storia dei territori del pianeta ogni luogo è solo merce per un ultimo e letale scambio mercantile. L’architettura – costola dell’economia –insegue l’onnipotenza dell’economicismo, progetta il territorio secondo una pianificazione astratta che ne sfregia l’identità e la bellezza:
«Dunque, perfetta identità di vedute tra studiosi di così diversa estrazione culturale ed appartenenti a discipline così distanti: l’architettura moderna ha dimenticato o del tutto frainteso il concetto di Genius loci, scambiandolo, frequentemente, con la pura e semplice “genialità” del progressista o dell’artista che, di volta in volta, programma l’intervento trasformatore del territorio, o più prosaicamente, ignorandolo in supina adorazione dei più biechi interessi speculativi». [2]
Senza l’ascolto del Daimon personale e del Genius loci che costruiscono un’unità di senso sotterranea da tradurre in concetto, non resta che la pianificazione algoritmica della vita, la violenza che si estende sulla vita in un delirio attivistico che in realtà è solo onnipotenza nichilistica. Il risultato di tale prassi è l’essenza della vera vita, minacciata in ogni sua forma.
L’ametista dei soli diritti individuali I sussulti del sistema sono dinanzi a noi: ci si appella all’uguaglianza di genere, al voto ai sedicenni, al fine di ottenere una manciata di voti per sopravvivere senza doversi dare una vera prospettiva. La parità di genere è divenuto un espediente per evitare la critica alle istituzioni ed alle pratiche economiche dell’illimitato. Il voto ai sedicenni è un modo per affascinare gli adolescenti e manipolarli abilmente, ben sapendo che età e cultura non consentono loro un voto consapevole. Si cerca – con tattiche elettorali – di consolidare le fondamenta di istituzioni senza fondamento ideale. Si erode il dissenso trasportando in esso donne e sedicenni, in modo da tacitare ogni valenza critica. Il progresso illuministico è divenuto “rivoluzione passiva”; si teme la critica, perché la vista della verità, in cui siamo implicati, potrebbe far implodere il sistema. E in assenza di prospettive consegnarci alla nostra verità senza filtri: la violenza sregolata. I barbari sono all’interno delle nazioni ed erodono – in nome dell’ultimo letale boccone a cui non vogliono rinunciare – quel che resta dello spirito critico e vitale di un popolo. L’ametista dei diritti individuali senza i diritti sociali e i doveri trasforma i diritti sociali nella barbarie del consumo senza prospettiva, dell’egoismo divenuto modello per le plebi. I processi di autodistruzione sono in atto e palesi, ma i barbari che abitano nel ventre delle nazioni sono sfiniti dalle loro pratiche ed attendono liberatori che non verranno, mentre la catastrofe è sempre più vicina. Dinanzi a tale verità solo l’ascolto del Daimon e del Genius loci può essere l’inizio di un riorientamento gestaltico. Per ritrovare la via è necessaria una cesura, uno strappo senza compromesso. È tale la nostra condizione che necessitiamo di giovani animati dalla «passione durevole» di cui parlava György Lukács, e che riportino l’Umanesimo al centro del cammino della storia.
Salvatore Bravo
[1]Genius loci è, nella definizione di Christian Norbert-Schultz, il significato profondo del luogo che è iscritto nella sua essenza. Genius Loci. Paesaggio Ambiente Architettura, Electa, Milano 1979; «Il carattere è determinato da come le cose sono, ed offre alla nostra indagine una base per lo studio dei fenomeni concreti della nostra vita quotidiana. Solo in questo modo possiamo afferrare completamente il Genius Loci, lo “spirito del luogo” che gli antichi riconobbero come quell'”opposto” con cui l’uomo deve scendere a patti per acquisire la possibilità di abitare» (ibidem, p. 14).
[2] Francesco Bevilacqua, Genius Loci il dio dei luoghi perduti, Rubbettino, 2010 pag. 36
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio. Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:
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«Un ricco industriale riderebbe o risponderebbe con una gentile alzata di spalle se gli dicessimo che la verità di una poesia è forte e piena e del tutto sovrana al confronto col suo voluminoso pacchetto azionario, la cui debole verità deriva dalla paura con la quale il mondo soggioga il lavoro, cioè da quella universale umiliazione imposta dal timore di morire».
Georges Bataille, Spiel und Ernst, in Id., Die Aufhebung der Ökonomie, trad. ted. di G . Bergfleth e T. König, Matthes & Seitz, München 2001, p. 326.
«Un gioco di destrezza tra i saperi di varie discipline, che incoraggia il lettore a cambiare prospettiva sulla storia del mondo. Un saggio non potrebbe offrire di più» Günther Wessel
«Culture dimenticate è un libro di grande valore che ci affascina e insegna a vedere la storia con occhi diversi» Theodor Kissel, Spektrum der Wissenschaft
«L’autore prende in esame le scoperte più recenti dell’archeologia, della linguistica e della genetica umana, riassumendo in modo chiaro e conciso lo stato della nostra conoscenza ma, soprattutto, lo stato della nostra ignoranza» Kathrin Meier-Rust, Neue Zürcher Zeitung
«Una panoramica molto intrigante sulle scoperte archeologiche più sensazionali al mondo» Niklot Krohn, Archäologie in Deutschland
Quarta di copertina
Molte culture del passato sono rimaste avvolte dall’oblio, altre invece hanno lasciato tracce che, se percorse, dischiudono mondi inimmaginabili. Grazie a recenti ritrovamenti archeologici e a nuovi studi genetici e linguistici, Harald Haarmann ci fa scoprire venticinque culture dimenticate o trascurate dalla storiografia tradizionale. L’autore va alla ricerca di insediamenti preistorici sul Lago Bajkal, getta nuova luce sulle popolazioni pelasgiche e svela il mistero delle guerriere del Mar Nero. Dalle mummie bionde ritrovate a Xinjiang, nel deserto cinese, alla sofisticata civiltà della valle del Danubio, dotata di una scrittura fra le più antiche al mondo, fino agli abitanti dell’Isola di Pasqua, decimati da una crisi ecologica che essi stessi avevano provocato. Questa esplorazione alternativa nella storia dell’uomo ci introduce anche a sensazionali scoperte, come quella di antichi insediamenti urbani in una regione dell’Amazzonia da sempre creduta semi-spopolata. Percorrendo i possibili sviluppi dell’umanità e le sue strade scartate, Haarmann non solo restituisce voce a chi l’aveva persa, ma esorta anche a riflettere sulla nostra civiltà, perché soltanto il riconoscimento del diverso ne dispiega il vero potenziale
Harald Haarmann(nato nel 1946) è un linguista e scienziato culturale tedesco che vive e lavora in Finlandia . Haarmann ha studiato linguistica generale, varie discipline filologiche e preistoria presso le università di Amburgo , Bonn , Coimbra e Bangor . Ha conseguito il dottorato di ricerca a Bonn (1970) e l’ abilitazione (qualifica a livello di cattedra ) a Treviri (1979). Ha insegnato e condotto ricerche in numerose università tedesche e giapponesi ed è membro delCentro di ricerca sul multilinguismo a Bruxelles . È vicepresidente dell’Istituto di archeomitologia (con sede a Sebastopol, California ) e direttore della sua filiale europea (con sede a Luumäki , Finlandia).
Il sito archeologico di Gobekli Teper, a nord-est della città di Sanliurfa, in Turchia
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
Perché non voglio essere complice di una espropriazione simbolica
[…] Amazon non è una libreria, ma un ipermercato. […] Per Amazon non c’è differenza tra l’istituzione culturale e un supermercato alimentare e commerciale. […] Persino oggi, che Amazon produce serie televisive, offre musica online, ha recentemente aggiunto alla sua offerta pezzi di ricambio per auto e motociclette e progetta di diventare un operatore di telefonia mobile, tutti collegano questo marchio all’oggetto e al simbolo che chiamiamo libro. […]
Perché tutti siamo cyborg, ma non robot
[…] non vogliamo essere dei robot. Il lavoro che devono compiere i dipendenti di Amazon è robotico. Lo è stato fin dall’inizio: nel 1994, quando a lavorare nel garage della casa di Jeff Bezos a Seattle erano cinque persone, erano già ossessionati dalla rapidità. […] Oggi gli amazonians sono coadiuvati da robot Kiva, capaci di sollevare 340 chili e di muoversi alla velocità di un metro e mezzo al secondo. Sincronizzati con i lavoratori umani tramite un algoritmo, si incaricano di alzare e spostare gli scaffali per facilitare la raccolta dei prodotti. Una volta messi insieme i prodotti che il cliente ha acquistato, un’altra macchina, chiamata Slam, dotata di un grande nastro trasportatore, si incarica di incanalarli e impacchettarli. Kiva e Slam sono il risultato di anni di ricerche. Amazon ha organizzato competizioni di robot, nell’ ambito dell’International Conference on Robotics and Automation di Seattle, allo scopo di perfezionare lo smistamento degli ordini. […] Amazon ha progressivamente eliminato il fattore umano. Nei primi anni contava su redattori che scrivevano recensioni dei libri in vendita; adesso non c’è alcuna mediazione neanche nel procedimento di impaginare e mettere in rete un libro auto-pubblicato. Ha robotizzato la catena di distribuzione e pretende che noi consumatori agiamo allo stesso modo. Invece no.
Perché rifiuto l’ipocrisia
[…] Su Amazon sono in vendita svariate edizioni di Mein Kampf […]. A quanto pare Amazon rifiuta la censura. Tuttavia, la cosa certa è che Amazon censura o privilegia i libri a seconda dei propri interessi. […]. Le uniche cose che contano sono la rapidità e l’efficienza del servizio. Sembra addirittura che non vi sia intermediazione. Che tutto sia automatico, quasi istantaneo. Ma dietro tutte queste operazioni individuali esiste una grande struttura economica e politica. Una struttura che esercita pressioni sulle case editrici per ottenere il massimo beneficio del prodotto, come fa con i fabbricanti di monopattini o con i produttori di pizze congelate. Una macrostruttura che decide la visibilità, l’accesso, l’influenza: che sta modellando il nostro futuro.
Perché non voglio essere complice del neo-impero
In Amazon non ci sono librai. La partecipazione umana nel settore è stata eliminata perché ritenuta inefficiente. Perché mina la rapidità, l’unico valore dell’azienda. Il procedimento è nelle mani di un algoritmo. L’algoritmo è il culmine della fluidità. La macchina trasforma il cliente in un influencer. […] Amazon elimina gli intermediari o li rende invisibili (equivalenti a robot). Sembra una macchina computerizzata. Aspira a essere talmente fluida da apparire invisibile. Eliminando le spese di spedizione, trattando sul prezzo con i grossi clienti per ottenere il minor prezzo possibile per il cliente individuale, Amazon sembra a buon mercato. Molto economico. Ma sappiamo che ciò che è economico costa caro. Molto caro. Perché l’invisibilità è un camuffamento: tutto è così rapido, così trasparente, così fluido, che sembra non vi sia intermediazione. E invece c’è. La paghi in denaro e in dati. Domanda, oggetti, prezzi, invio: i processi individuali si dissolvono nella logica immateriale della fluidità. Per Jeff Bezos come per Google o Facebook – il pixel e il link possono avere una correlazione materiale: il mondo delle cose può funzionare allo stesso modo del mondo dei byte. Queste tre aziende hanno in comune la volontà imperialista di conquistare il pianeta, sostenendo l’accesso illimitato alle informazioni, alla comunicazione e ai beni di consumo, mentre al contempo fanno firmare ai loro dipendenti contratti di riservatezza, tessono complesse strategie per non pagare le tasse nei paesi in cui operano e costruiscono uno stato parallelo, trasversale, globale, con regole e leggi proprie, con una propria burocrazia e gerarchia, con una loro polizia. E con propri servizi di intelligence e laboratori ultrasegreti. Google [X], il centro di ricerca e svi1uppo di progetti futuri dell’azienda, si trova in un luogo indeterminato, più o meno vicino al quartier generale della compagnia. Il suo progetto più ambizioso è lo sviluppo di palloni sonda stratosferici che nel giro di dieci anni assicurino l’accesso a Internet alla metà della popolazione mondiale che attualmente non è connessa. Il progetto parallelo di Amazon è Amazon Prime Air, la sua rete di distribuzione tramite droni, che oggi sono un ibrido tra l’aereo e l’elicottero, con un peso di venticinque chili. A partire dallo scorso agosto è stato cambiato il regolamento della Federal Aviation Administration degli Stati Uniti, per agevolare il volo di droni a scopi commerciali e per far sì che diventasse più semplice accedere alla licenza di pilota di droni. Viva il lobbying. E che il cielo sia invaso da robot volanti che consegnano biscotti Oreo, cagnolini di peluche, monopattini, tostapane, paperelle di gomma e … libri. […] Amazon possiede fin dall’inizio tutti i tuoi dati reali, fisici, legali. Persino il tuo numero di carta di credito. Forse non riescono ad accedere al tuo profilo sentimentale, emozionale e intellettuale così facilmente come Google o Facebook, ma in cambio sanno quasi tutto riguardo a ciò che leggi, mangi, regali. È facile dedurre il profilo del tuo cuore e del tuo cervello a partire dalle tue cose. E l’impero è nato dalle cose che possiedono il maggior prestigio culturale: i libri. Amazon si è appropriata del prestigio del libro. Ha costruito il maggior ipermercato del mondo con una spessa cortina fumogena sotto forma di biblioteca.
Perché non voglio che mi spiino mentre leggo
Tutto è cominciato con un dato. Nel 1994 Bezos lesse che il World Wide Web cresceva a un ritmo mensile di nuovi utenti del 2300%, lasciò il suo lavoro a Wall Street, si trasferì a Seattle e decise di cominciare a vendere libri via Internet. Da allora i dati hanno continuato a moltiplicarsi, si sono raggruppati organicamente assumendo la forma di un mostro tentacolare o di una nube tempestosa o una seconda pelle: ci siamo trasformati gradualmente in dati. Li lasciamo nelle migliaia di operazioni quotidiane che contengono le nostre impronte digitali su Internet. Li emettono i sensori del nostro cellulare. Stiamo costantemente scrivendo la nostra autobiografia digitando sulla tastiera, con le nostre azioni, con i nostri passi. In occasione dell’ultima Giornata del Libro, Amazon ha rivelato quali sono state le frasi più sottolineate in questi cinque anni sulla piattaforma Kindle. Se leggi libri sul loro dispositivo, sanno tutto sulle tue letture. A quale pagina le abbandoni. In quali casi invece arrivi fino alla fine. A che ritmo leggi. Cosa sottolinei. Il grande vantaggio del libro cartaceo non è la sua maneggevolezza, la durata, l’autonomia o l’intimo rapporto con i nostri processi di memoria e apprendimento, ma il fatto che è disconnesso in modo permanente. Quando leggi un libro cartaceo l’energia e i dati che emetti attraverso i tuoi occhi e le tue dita sono soltanto tuoi. Il Grande Fratello non ti può spiare. Nessuno può privarti di tale esperienza né analizzarla o interpretarla: è soltanto tua. […]
Perché sostengo la lentezza accelerata, la vicinanza relativa
[…] In primo luogo, convincendo il resto dei lettori della necessità del tempo dilatato. Il desiderio non può essere esaudito immediatamente, perché in tal caso cesserebbe di essere un desiderio, perderebbe senso. Il desiderio deve durare. Bisogna andare in libreria; cercare il libro; trovarlo; sfogliarlo; decidere se il desiderio aveva una ragion d’essere; forse lasciare quel libro e desiderare il desiderio di un altro; fino a trovarlo; oppure no […]
Perché non sono ingenuo
No: non lo sono. Non sono ingenuo. […] Credo nella resistenza minima e necessaria. Nella preservazione di certi rituali. Nella conversazione, che è un’arte del tempo; nel desiderio, che è il tempo fatto arte. Nel fischiettare, mentre passeggio tra casa mia e una libreria, melodie che ascolto soltanto io, che non appartengono a nessun altro. […]
Jorge Carrión, Contro Amazon. Diciassette storie in difesa delle librerie, delle biblioteche e della lettura, Edizioni e/o, Roma, 2020, pp. 13-22.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
Il DPCM entrato in vigore venerdì ha vietato l’accesso al pubblico nelle biblioteche, senza neppure nominarle esplicitamente: inserendole nel contenitore generico degli “altri istituti della cultura”, le ha trattate come residui non identificati, al pari di spiccioli dimenticati in fondo a una borsa. Eppure le biblioteche non hanno nulla da invidiare a musei e mostre, sempre citati nelle infografiche, né sul fronte quantitativo né per l’impatto sociale e culturale sulle realtà territoriali.
Ed è proprio l’assenza di focalizzazione sulla specificità delle biblioteche che può spiegare una chiusura disallineata rispetto alle altre misure di prevenzione, visto che da maggio in poi le biblioteche avevano messo a punto sistemi di contingentamento degli accessi più che sicuri rispetto ai rischi di contagio. Una valutazione non approfondita delle pur evidenti differenze tra una mostra e una biblioteca dagli accessi già contingentati e rispettosi delle regole di distanziamento, unita forse alla fretta di chiudere un provvedimento di grande impatto sul Paese, può essere all’origine di una scelta che in molti hanno giudicato non sufficientemente riflettuta, o comunque sovradimensionata rispetto alle necessità reali: primi fra tutti gli utenti, che si sono ritrovati di nuovo privi delle opportunità di studio e consultazione in sede, nonché delle occasioni di incontro e approfondimento culturale che in tempi normali qualificano le proposte di servizio delle biblioteche. Con le scuole e le università chiuse, poi, per molti giovani gli spazi e gli strumenti delle biblioteche avrebbero rappresentato una risposta importante, anche se parziale, alle difficoltà nascenti dalla contrazione dell’offerta didattica in presenza e dall’accesso non paritario alle risorse tecnologiche.
Forti dell’esperienza maturata durante il lockdown, sono tanti i bibliotecari e le bibliotecarie che hanno messo a punto una serie di misure alternative al divieto di accesso agli spazi, nel rispetto di una norma che, a differenza di marzo, non ha decretato la chiusura degli istituti né ha prescritto per gli operatori l’obbligo di stare a casa: nelle ultime ore è stato un fiorire di soluzioni a volte anche curiose e fantasiose, ma sempre pratiche ed efficaci, per venire incontro alle esigenze del pubblico, prima di tutto offrendo la possibilità di ritirare su appuntamento i materiali prenotati on line o per telefono in punti prestito mobili, attivati presso spazi esterni, presso esercizi commerciali di prossimità, attraverso l’adozione di forme di drive-through, e soprattutto attraverso il prestito a domicilio, rivolto in modo particolare alle persone anziane, a basso livello di mobilità, o comunque impossibilitate a raggiungere la biblioteca.
Un nuovo slancio è stato dato ai servizi digitali, che da marzo in poi hanno rappresentato la risposta più resiliente delle biblioteche alla chiusura totale: eventi, incontri e presentazioni di libri trasmessi su varie piattaforme di videoconferenza, su YouTube o via Facebook, servizi potenziati di assistenza telefonica (spesso gestiti in smart working), e accessi moltiplicati alle piattaforme di prestito digitale, per la consultazione di giornali e banche dati, la lettura di e-book, l’ascolto di musica e la fruizione di film. Nel primo lockdown gli indici di accesso a queste piattaforme sono schizzati verso l’alto, facendo registrare indici di crescita anche del 600-700%, rappresentando una risposta efficacissima, sia pure non ancora alla portata di tutti, rispetto ai bisogni di lettura. Sono proprio di questi giorni i nuovi investimenti di molte biblioteche sull’acquisto di nuovi accessi e download da mettere a disposizione gratuita dei propri frequentatori.
Le biblioteche saranno fisicamente chiuse, dunque, ma saranno accessibili in tante modalità alternative. Certo, per quanto il prestito possa raggiungere i livelli degli anni precedenti, niente sarà come prima: ciò che non può essere pienamente ricostruito neppure nella più evoluta versione digitale è la speciale atmosfera che si respira in modo particolare nelle cosiddette “biblioteche sociali”, ovvero quelle biblioteche che, grazie anche a soluzioni architettoniche di particolare pregio, sono in grado non soltanto di offrire posti di studio e ricerca, ma di accogliere le famiglie, i bambini e i diversi gruppi di interesse in spazi dove svolgere attività differenziate, trascorrere il tempo libero in contesti belli e luminosi come i centri commerciali, ma – a differenza di questi ultimi – non segnati dall’esperienza del consumo: luoghi nei quali si ha diritto di accedere e stazionare liberamente perché si è esseri umani, e non già clienti disponibili a spendere denaro.
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Questa è appunto la speciale atmosfera che fino al 9 marzo si respirava presso la Biblioteca San Giorgio di Pistoia, collocata in un manufatto industriale oggetto di rigenerazione urbana, che si sviluppa su tre piani di 6.500 mq, contornato da un’area esterna di altri 3.000 mq: uno spazio molto grande, differenziato in base alle diverse funzioni, che prima della pandemia era in grado di accogliere in media 1.500 persone al giorno: persone di tutte le età, provenienze ed estrazione sociale, sottoscrittrici silenziose di un implicito patto sociale che le abilitava alla prossimità fisica (sedute nello stesso divanetto, accanto al bancone del bar, in coda per restituire i libri al bancone, davanti alle opere d’arte in mostra negli spazi espositivi) come testimonianza materiale della reciproca accettazione, di un reciproco riconoscimento del diritto di utilizzare uno spazio pubblico, non soltanto perché istituzionalmente finanziato da un ente pubblico, ma perché primariamente res publica, cosa di tutti.
In una biblioteca del genere (e per fortuna non solo in questa) il “miracolo” va oltre il tradizionale ambito della lettura, per estendersi ad uno stare insieme che crea comunità: una comunità che non fonda i suoi legami sulla comunanza delle radici, ma che trova il senso di sé nel voler condividere il futuro. La biblioteca è per definizione luogo del meticciato, della condivisione, della “conversazione”, per usare una espressione cara a David Lankes, professore di biblioteconomia americano, che ha sviluppato una specifica teoria sulle biblioteche innovative. Conversare significa per lui costruire assieme la conoscenza, elaborarla e farla propria, in un contesto di relazioni in cui la semplice trasmissione del sapere non funziona più: in una biblioteca come la San Giorgio (ma gli esempi sono ovviamente anche altri) l’accesso ai libri e alle altre fonti di conoscenza, fisiche o remote, si arricchisce con l’offerta di una miriade di appuntamenti gestiti gratuitamente da utenti esperti, che mettono a disposizione la propria professionalità per condividere momenti di approfondimento sui più disparati argomenti, che diventano occasioni per la tessitura di una fitta rete di relazioni personali all’insegna dell’educazione permanente.
Non sarà facile trasferire nel mondo digitale questo ricco universo di relazioni che fa della biblioteca un vero e proprio laboratorio di attivismo civico e di cittadinanza consapevole: il digital divide ha avuto in questi mesi effetti devastanti nell’allargare la forbice tra gli haves e gli haves not sul fronte delle competenze tecnologiche e dell’accesso materiale alle tecnologie.
La tenuta di tali relazioni non sarà facile, né le biblioteche da sole potranno farsi carico di colmare gli effetti dell’attuale deprivazione culturale e tecnologica. Ma è certo che saranno in molte a impegnarsi in tal senso, cercando alleanze con tutte le forze in campo, per riconfermare il proprio ruolo di cittadelle della democrazia.
Maria Stella Rasetti,
direttrice delle biblioteche e degli archivi della città di Pistoia
L’intervento di Maria Stella Rasetti è stato anche pubblicato su il manifesto, 8-11-2020, p.10.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
«Quante volte ciascuno di noi ha “passeggiato” per la campagna senza saper decifrare il paesaggio umano che contemplava! Guardavamo e il nostro occhio era quello di un esteta goffo che confonde i fatti della natura e i fatti umani, che osserva i prodotti dell’azione umana – quel volto che cento secoli di lavoro hanno dato alla nostra terra – come si osserva il mare o il cielo, nei quali ogni traccia umana scompare».
Henri Lefebvre, “Introduzione”, in Id., Critica della vita quotidiana [1947], trad . il. di Vincenzo Bonazza, Dedalo Libri, Bari 1977, voI. l, p. 151.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
«Il senso della vista è cambiato con il passaggio al digitale. Prendiamo la storia della fotografia: è finita con la scomparsa dei negativi. Poi è cominciato qualcos’altro: quella rivoluzione digitale che è tutt’ora in atto. Ci siamo ancora troppo dentro per comprenderne realmente la portata. La disponibilità del mezzo fotografico sempre e in ogni luogo ha reso l’atto stesso del vedere meno prezioso. La fotografia è diventata un’attività casuale. Non importa più l’azione del vedere, ma il suo risultato digitale. E il risultato non è mai stato interessante per uno che di immagini se ne intendeva come Cartier-Bresson. Per lui guardare era un atto misterioso, sacro. Lo sviluppo di una fotografia arrivava molto tempo dopo».
Wim Wenders, I pixel di Cézanne e altri sguardi su artisti, Contrasto, 2017.
Quarta di copertina
Alcuni incontri sono stati fatali per Wim Wenders. Affinità artistiche, rapporti personali o professionali lo hanno legato a grandi pittori come Edward Hopper, Andrew Wyeth e, naturalmente, Cézanne; fotografi come Peter Lindbergh, James Nachtwey e Barbara Klemm e registi come Ingmar Bergman, Michelangelo Antonioni, Anthony Mann, Douglas Sirk, Samuel Fuller, Manoel de Oliveira e Yasujiro Ozu, o personalità come Pina Bausch e lo stilista giapponese Yohij Yamamoto. “I pixel di Cézanne” raccoglie i testi, in parte ancora inediti, scritti da Wenders negli ultimi 25 anni su questi personaggi. Ma il filo rosso che unisce le riflessioni del regista tedesco è il suo sguardo e l’inesauribile interesse per “l’atto del vedere”, in un rapporto indissolubile fra pensiero, scrittura, arte visiva e cinema.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
Il veleno del nuovo campo semantico concentrazionario
Il potere conosce perfettamente (e ne tiene conto costantemente) la psicologia della massa che non pensa e va mantenuta incapace di pensare.
La lingua non si limita a creare e pensare per me, dirige anche il mio sentire, indirizza tutto il mio essere spirituale quanto più naturalmente, più inconsciamente mi abbandono a lei. E se la lingua colta è formata di elementi tossici o è stata resa portatrice di tali elementi? Le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere più effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico.
V. Klemperer
Potere e linguaggio Il potere possiede, dei popoli, prima le parole e quindi la vita. Per attuarsi il biopotere necessità di una precondizione: possedere le parole, operare sul linguaggio, introdurre nuovi significati, ridurre le prospettive di senso e di significato mediante il progressivo restringimento, l’esemplificazione, del linguaggio e ridurlo ad organo attivo della trasmissione del potere. I totalitarismi della contemporaneità si infiltrano nel pensiero, orientano la direzione dello sguardo ed il sentire con il tamburellare ossessivo delle parole. Le parole del capitale orientano verso la dimensione della quantità, neutralizzano ogni valutazione etica per favorire la sola componente legata al plusvalore. Il capitalismo fonda una nuova lingua per ri-orientare la natura dell’essere umano. Nel linguaggio quotidiano e mediatico le parole hanno un nucleo catalizzante: il plusvalore, dal quale a raggera si strutturano le altre parole e ne diventano la logica conseguenza. Le parole entrano nel corpo vivo, e ridispongono pensieri e sentimenti secondo l’ordine linguistico totalitario. Le parole straniere-anglofone – che i media esaltano come una forma di meticciato linguistico – sono tipiche di ogni totalitarismo. Attraverso di esse si indicano provvedimenti che normalmente non sarebbero popolari, ma la fascinazione magica della parola straniera consente il passaggio e l’accoglimento di provvedimenti che altrimenti potrebbero essere messi in discussione e, forse, razionalmente rifiutati. I popoli sono ridotti a plebi prima ancora che dalla sussunzione digitale, dalla sussunzione linguistica che riduce gli spazi temporali e progettanti per inchiodarli ad un presente senza futuro. Victor Klemperer, attraverso l’analisi filologica da lui compiuta sul linguaggio nazista (con i suoi acronimi, con la sua perversione dei significati, con il suo semplicismo aggressivo), ci è di ausilio per comprendere il presente, per cogliere nelle modificazioni introdotte oggi nella lingua che usiamo quotidianamente la diffusione del potere, e dunque, per capire che il potere non alberga in un “fuori”, ma vive nel soggetto parlante. Il soggetto è parlato dal potere, è de-soggettivizzato:
«Si farebbe però torto al Fürher se si attribuisse la sua preferenza per le parole straniere solo alla vanità e alla coscienza delle proprie deficienze. Hitler conosce perfettamente (e ne tiene conto costantemente) la psicologia della massa che non pensa e va mantenuta incapace di pensare. La parola straniera fa impressione, tanto più quanto meno viene compresa; proprio perché non viene compresa fuorvia, stordisce, soverchia il pensiero».[1]
La lingua del potere come arsenico La lingua del potere pensa per noi, le parole pensate dal potere determinano visuali ed azioni. La perenne attività del potere è un’operazione che si delinea mediante la selezione delle parole che devono circolare. Il veleno del condizionamento è nell’etere, nello scambio linguistico che diviene consolidamento del potere. L’automatismo linguistico è anti-dialettico. Le parole si comunicano senza mediazione concettuale, senza autocoscienza. La ripetizione del gesto come della parola diviene la nuova disciplina che orienta la vita. La nuova lingua deve formare l’homo œconomicus. Pertanto ogni “sospiro” deve essere sostenuto da parole di ordine economico, spesso anglofone, che marcano la vita dei soggetti sussunti. Le parole possono essere logos che emancipa o dosi di arsenico quotidiano, di cui ci si nutre e che riducono la vita dei popoli nella strettoia della gabbia d’acciaio di cui non si vedono le sbarre, perché sono le parole ad essere le sbarre d’acciaio invisibili entro cui si è confinati. Il campo di concentramento è stato allocato nella mente di ognuno:
«Ma la lingua non si limita a creare e pensare per me, dirige anche il mio sentire, indirizza tutto il mio essere spirituale quanto più naturalmente, più inconsciamente mi abbandono a lei. E se la lingua colta è formata di elementi tossici o è stata resa portatrice di tali elementi? Le parole possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere più effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico».[2]
Nuovi eroismi Kemplerer analizza le parole. Un esempio di manipolazione è la trasformazione che il regime nazista ha fatto della parola eroe. L’eroismo per suo significato originario è il coraggio di mettere in pericolo la propria via per l’umanità. Il nazismo trasforma il significato della parola, la svuota del suo intrinseco umanesimo, per fare dell’eroe un assassino in nome del sangue e del suolo:
«Eroismo non è soltanto il coraggio e il mettere a repentaglio la propria vita, perché di questo è capace anche qualsiasi attaccabrighe o qualsiasi criminale. Originariamente è eroe chi compie delle azioni che promuovono l’umanità. Una guerra di conquista, tanto più una caratterizzata da tante atrocità come quella hitleriana, non ha nulla a che vedere l’eroismo». [3]
L’esaltazione dell’imprenditore come eroe dei nostri giorni, come datore generoso di vita, perché assume e permette la sopravvivenza di impiegati ed operai è un esempio della nuova manipolazione in atto. Il grande imprenditore è rappresentato dal circo orante asservito come il nuovo corpo divino che vivifica la nazione, come la mente da cui dipende il futuro dei popoli incapaci e “naturalmente inferiori”. Si cela del nuovo eroe la concretezza della sua ricchezza, che va dall’evasione fiscale, all’occupazione di ogni spazio mediatico, alla incultura dell’illimitato che attraverso di lui penetra nelle menti e diventa la religione laica del consumo e dell’individualismo violento. Il nuovo eroe è trattato come il santo della nuova religione che pratica la distruzione delle menti e dell’ambiente, ma specialmente è il feticcio con cui si insegna ai popoli a dipendere, ad essere comparse nel turbinio della storia.
Nichilismo e lingua in Tucidide Nel clima conflittuale vissuto quotidianamente, nel nichilismo violento quale nuova pratica del potere, le parole perdono il loro autentico significato. Le parole, per loro cornice naturale, sono collanti sociali e solidali, ma se la diffidenza si impossessa di un popolo, si instaura un clima di sfiducia, in cui le parole non sono altro che emissione fonatoria di nessun valore. Tucidide (in Storie, III, 83) ben descrive l’effetto della guerra e della violenza sul linguaggio vivo: le parole perdono significato, si svuotano del loro senso, non resta che il regno della forza a determinare vincitori e perdenti. Senza il logos non resta che la violenza a determinare la vittoria; gli esseri umani agiscono come creature in una giungla:
«Dunque, al seguito delle sommosse civili, l’immoralità imperava nel mondo greco, rivestendo le forme più disparate. La semplicità limpida della vita che è il terreno più fertile per uno spirito nobile, schernita, s’estinse. Dilagò e s’impose nei personali rapporti, in profondo, un’abitudine circospetta al tradimento. Non valeva il sincero impegno verbale a distendere i cuori, né il terrore di violare un giuramento. Ognuno, quando aveva dalla sua la forza, vagliando volta per volta il proprio stato, certo che nessuna garanzia di sicurezza era degna di fiducia, con fredda meticolosità si disponeva piuttosto a munirsi in tempo d’adeguata difesa che concepire, sereno, d’aprir l’animo suo agli altri. Ed erano gli intelletti più rudi a conquistare, di norma, il successo. Attanagliati dalla paura che il loro breve ingegno soccombesse all’acume dei propri antagonisti, alla loro destrezza di parola, nell’ansia d’esser trafitti prima d’avvedersene, dalla loro insidiosa mobilità inventiva, si slanciavano all’azione, con disperato fervore. I loro avversari invece, colmi di sdegnoso sprezzo, certi di prevenire ogni mossa nemica con una percezione istintiva, ritenevano superflua ogni concreta tutela fondata sulla forza fisica, e così scoperti perivano, fitti di numero».
Il potere vuole ridurre la formazione a semplice formazione professionale negando la formazione integrale degli esseri umani. In questo modo la lingua è ulteriormente ristretta nei suoi significati: il nuovo campo semantico concentrazionario diviene lo spazio-prigione entro cui, soltanto, ci si può muovere. Complementare alla sola formazione professionale è l’esaltazione dell’irrobustimento fisico, della bellezza fisica. Si predilige una dis-educazione che oscilla solo tra “lavoro” e “fisicità aggressiva”. L’educazione umanistica, la paideia, è secondaria, anzi pericolosa, e dunque tacitamente evitata. Si favorisce il movimento di uniformità linguistica globale, cosicché ovunque le parole abbiano a significare il mondo nella stessa spiritualmente povera maniera. La crisi dell’Occidente globalizzato è crisi linguistica, la cui causa profonda è il possesso delle parole e dei concetti da parte di taluni poteri che schiacciano i popoli solo sull’empirico della merce visibile e sulla quantificazione. Un nuovo umanesimo è possibile, poiché l’Occidente ha nella sua storia le lingue e le parole della liberazione, a partire dalla tradizione classica. Il potere è oggetto di frequenti crisi. Proprio perché globale, la sua forza imperiale è anche la sua debolezza. Sulle sue crisi bisogna agire anche con il logos della cultura classica. Il valore di una formazione comunitaria integrale è oggi più vero che mai. La barbarie della violenza che avanza anche nella neo-lingua imperiale non è un destino ineluttabile.
Salvatore Bravo
[1] Victor Klemperer, LTI. La lingua del terzo Reich. Taccuino di un filologo, Giuntina, Firenze 2011, p. 302. [2]Ibidem, pp. 111-112. [3]Ibidem, p. 20.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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