Salvatore Bravo – Metafisica e Guerra. Senza fondamento metafisico non vi è verità-bene.



Salvatore Bravo

Metafisica e guerra.
Senza fondamento metafisico non vi è verità-bene

La guerra di questi giorni necessita di una lettura storica e filosofica. La lettura storica ricostruisce gli eventi in modo olistico, mentre la filosofia deve svolgere un lavoro archeologico. La guerra non è uno stato di eccezione, è la normalità dell’Occidente capitalistico. Da Hobbes fino a giungere al tempo presente la guerra si svolge all’interno dei confini degli Stati o tra gli Stati. Ogni guerra è un episodio della storia della crematistica divenuta “la storia” dell’Occidente planetario. Lo scopo di ogni atto di guerra personale o collettivo è il perseguire interessi privati o lobbistici, è la potenza della dismisura che guida intenzioni, gesti, parole e armi. Bisogna far emergere il non detto, il paradigma all’interno del quale ci si muove, si pensa e si agisce. La ragione strumentale è ormai azione priva di limiti ed è supportata dal pensiero debole, che crede nel solo calcolo utilitaristico e nella logica computazionale.

La verità è dunque soltanto un accidente del passato: senza fondamento metafisico non vi è verità-bene, per cui la ragione strumentale da frammento dell’attività umana è divenuta totalità illimitata. La guerra tra Ucraina e Russia è un evento interno alla storia del nichilismo europeo e planetario che persegue l’onnipotenza economica. Senza fondamento veritativo (che dona concretezza alla vita dei singoli), si perseguono soltanto obiettivi sempre più astratti e onnipotenti per incidere nella realtà che sfugge tra i sogni di grandezza che si sviluppano nelle pieghe della disperazione. Le oligarchie, per toccare la vita e sentire di esistere, devono avere come obiettivo ambizioni sempre più elevate e onnipotenti. Si coniugano due livelli, che si intersecano: la crisi della metafisica ha comportato la rinuncia alla ragione oggettiva, tale condizione ha incentivato lo sviluppo della razionalità strumentale la quale ha comportato l’economicismo e l’accumulo smisurato. Le oligarchie internazionali esprimono massimamente i due piani, sono il punto apicale dell’eclisse della ragione oggettiva. La tragedia attuale è nella generalizzazione di tale cultura antimetafisica. I popoli sono addestrati a credere ciecamente nella ragione strumentale, guardano con ammirazione invidiosa la potenza delle oligarchie, non scorgono l’impotenza che li caratterizza, ma solo il farsi padroni e signori della vita dei popoli. I popoli sono ingannati e turlupinati della ragione metafisica. Le oligarchie negli ultimi decenni hanno agito neutralizzando il dibattito pubblico ed eliminando i corpi medi nei quali la dialettica costituiva il katechon all’onnipotenza distruttrice della razionalità strumentale. La condizione attuale è ulteriormente complicata dalla presenza pervasiva dei media in possesso degli oligarchi che sterilizzano il dibattito, e hanno sostituito la pluralità delle posizioni ideologiche e prospettiche, sostanza della democrazia, con la pluralità delle immagini ampiamente manipolate. Le immagini, con il loro silenzio, hanno sostituito il logos e il dialogo, per cui si ha la percezione di essere in democrazia, ma in realtà è solo il suo cavo esoscheletro. Dinanzi al nuovo episodio della storia del nichilismo tecnocratico in corso, vi è un’urgenza metafisica non colta e rimossa. Senza verità-bene nulla potrà cambiare, e qualora le circostanze portassero ad una rapida pace o al compromesso diplomatico, resterebbe irrisolto il fondamento metafisico del problema. Senza una rivoluzione culturale e metafisica continueremo ad essere all’interno di un percorso distruttivo planetario a livello biologico e culturale.

La razionalità strumentale non comprende e conosce che l’accumulo e l’utile, per cui è azione di devastazione antropologica e ambientale ordinaria con dei picchi di tensione nei quali si può scorgere la verità non detta della condizione storica attuale. Le guerre permettono di fessurare la realtà del potere e di guardare, all’interno, la verità in cui siamo implicati. La lettura storica delle ragioni delle parti in causa, se è scissa dall’ermeneutica filosofica, rischia di condurci ad un semplicismo che non individua la profondità del problema. Bisogna guardare la tempesta che muove l’intero bosco della vita e dei popoli e non solo i singoli alberi che cadono con il loro fragore.

Solo il frammento che rimanda alla totalità può liberarci dalla cecità della ragione strumentale. I suoi innumerevoli dati sono utili per comprendere la contingenza attuale, ma non sufficienti per cogliere il problema nella sua inquietante profondità.

Senza la verità e il bene nessuna alternativa è progettabile. Alla cultura del frammento che cela la ripetizione ossessiva dello stesso in forme nuove, dobbiamo opporre il frammento in relazione alla totalità per poterne svelare la verità e cambiare percorso che punta direttamente verso l’abisso. Necessitiamo di strumenti metafisici e di una nuova metodologia di indagine per comprendere che nel frammento di tale guerra è racchiusa la verità dell’intero. Far emergere tale verità è l’esodo che dobbiamo organizzare dalla cultura totalitaria delle oligarchie. La metafisica nella percezione della maggioranza e delle accademie è solo un residuo inutile del passato, invece, solo essa ci può restituire il riorientamento gestaltico per un nuovo inizio:

«L’Intero dell’essere, dunque, si trova come riprodotto nel frammento anche attraverso la predicazione dell’unità, così come il frammento ha proiettato la propria ombra sull’intero dell’essere attraverso la richiesta della determinatezza della predicazione. E infatti, come è impossibile, cioè autocontraddittorio, pensare al “fondo” dell’essere quale molteplice. Così è impossibile, cioè autocontraddittorio, porre qualcosa senza porla nella sua unità. Porre qualcosa vuol dire pensarla, pensare qualcosa vuol dire l’unità di un molteplice».1

La guerra ci restituisce il dramma metafisico in cui siamo. Il frammento non pensato nella sua unità e relazione diviene illimitato e, dunque, assimila e cancella la totalità per diventare la verità artificiale e relativistica senza fondamento. Senza la chiarezza del problema metafisico si rischia di non individuare il nemico sociale che tutto muove, il quale non è solo nemico di classe, ma è problema e dramma etico derivante dalla crisi dei fondamenti. Il nemico circola nei popoli con la cultura del frammento e con la ragione strumentale che conosce solo mezzi senza finalità onto-assiologiche. I popoli sono colonizzati dalle oligarchie, in quanto si nutrono dello stesso linguaggio bellicoso e proprietario.

Il vero lavoro metafisico deve partire dalla guerra che vive nei nostri comportamenti quotidiani per elevarsi ad un piano di consapevolezza comunitaria per trascenderla in una nuova progettualità metafisica. Le vie di uscita dalla crisi metafisica possono essere plurali, ma ciò che è irrinunciabile è riportare il frammento alla totalità nelle sue relazioni e rimandi, poiché la sola cultura analitica non può che portarci all’irrazionalità di uno stato di guerra perenne, in quanto le parti sono irrelate e dunque destinate al conflitto:

«In fondo, le vie d’accesso o di fuoriuscita di una città sono molteplici e l’importante è rappresentarne il senso interale, almeno nel nostro caso rispettandone la complessità di struttura».2

1 Carmelo Vigna, Il frammento e l’intero. Indagini sul senso dell’essere e sulla stabilità del sapere, Vita e Pensiero, Milano 2000, pag. 201.

2 Ibidem, pag. 426.


Picasso, Guernica, 1937

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

info@petiteplaisance.it,

N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio.
Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:

e saranno immediatamente rimossi.

Luca Grecchi – «Il desiderio chiamato Utopia». Jameson indica la strada giusta, quella di chi ritiene necessario non solo criticare, ma soprattutto costruire: criticare senza costruire è cosa ancor più sterile del semplice stare a guardare.

Luca Grecchi

Il  desiderio chiamato Utopia. Jameson indica la strada giusta, quella di chi ritiene necessario non solo criticare, ma soprattutto costruire: criticare senza costruire è cosa ancor più sterile del semplice stare a guardare.

 

Fredric Jameson, critico letterario statunitense e teorico politico marxista nato nel 1934, è noto al grande pubblico soprattutto per i suoi studi letterari (è stato allievo di Erich Auerbach), nonché per la sua ottima analisi del postmoderno. In questo libro, tuttavia, egli tratta specificamente di un tema troppo spesso ingiustamente snobbato dalla teoria marxista, ovvero quello dell’utopia. Il suo approccio risulta in merito, come mostreremo (leggendo il suo libro Il desiderio chiamato Utopia, Feltrinelli, Milano 2007, ed. or. 2005.), non viziato dai consueti pregiudizi marxisti, in quanto la sua valutazione dell’utopia come ideale riferimento teoretico e politico, risulta essere nella sostanza molto positiva.

Jameson inizia sottolineando, come si fa di consueto, la ambivalenza del termine «utopia», interpretabile – secondo l’etimologia greca volta per volta preferita – sia come «luogo inesistente» (per i detrattori dell’utopia), sia come «buon luogo» (per gli ammiratori dell’utopia). A causa di Marx, ma soprattutto di Engels, il marxismo ha da sempre considerato l’utopia come un modello negativo, un luogo ideale irraggiungibile volto solo a rendere astratta ed inconcludente la progettualità politica, facendola confluire in sogni separati dalla realtà che non portano appunto in «nessun luogo». Jameson, non cadendo in questo pregiudizio, ricorda sin da subito che, nonostante questa sia la vulgata prevalente, «Lenin e Marx hanno scritto entrambi di Utopia, il primo in Stato e Rivoluzione del 1917, il secondo ne La guerra civile in Francia del 1871» (pag. 10). Jameson rimarca ciò in quanto si rende conto che, senza una progettualità alternativa, anche utopica, che sia radicalmente altra rispetto alla effettualità capitalistica, la proposta comunista è destinata a non trovare sbocco, e dunque – essa sì – a confluire in «nessun luogo», ossia a non produrre effetti.

Descrivendo le tendenze in atto nell’attuale modo di produzione capitalistico, che per Jameson «smantella instancabile tutti i progressi sociali strappati a partire dalla nascita del movimento socialista e comunista» (pag. 10), egli afferma giustamente che la maggiore «disgrazia non è la presenza di questo nemico, bensì la convinzione universale non solo della irreversibilità di questa tendenza, ma dell’impossibilità e della non praticabilità delle alternative storiche al capitalismo, la certezza che non sia concepibile né tantomeno realizzabile nella pratica alcun altro sistema socio-economico» (pagg. 10-11). La critica al modo di produzione capitalistico, infatti, non può vivere di solo “marxismo” (intendendo con questo termine, genericamente, la critica sociale alla effettualità esistente), ma deve vivere di una progettualità che, pur partendo dal nostro tempo, deve saper immaginare, basandosi su ciò che è in potenza presente nella natura umana, un modo di produzione sociale migliore, che consenta appunto di porre in atto ciò che è in tale natura presente. Per questo, secondo Jameson, è necessaria una ripresa di interesse per l’utopia (che io tradurrei – anche se lui non lo dice – come una ripresa di interesse per la filosofia classica, sulla base della quale soltanto è possibile progettare idealmente), in quanto «non è possibile immaginare un qualsiasi cambiamento fondamentale nella nostra società che non si sia dapprima annunciato liberando visioni utopiche» (pag. 11), ossia progetti alternativi.

Tutto questo discorso, davvero promettente, che Jameson svolge nelle prime pagine del libro, non possiede però, purtroppo, la base filosofica che pure gli sarebbe necessaria, e di conseguenza si smarrisce presto, subito dopo la pur corretta indicazione di principio; dopo le prime pagine, infatti, prende piede soprattutto l’amore per la letteratura di Jameson, che dell’utopia si mostra quasi più interessato alla forma letteraria che al contenuto rivoluzionario, tanto da affermare che essa risulta essere, a suo avviso, un «sottogenere socio-economico» della fantascienza (pag. 12). Nonostante questo “eruditismo”, però, l’approccio di Jameson può essere considerato – nelle sue linee generali – condivisibile, in quanto egli riprende l’approccio di Ernst Bloch presente soprattutto nel libro Diritto naturale e dignità umana, affermando che «vedere ovunque, come fa Bloch, tracce di pulsione utopica significa naturalizzarla, e implica che essa sia in una qualche maniera radicata nella natura umana» (pag. 27). L’uomo, infatti, è sempre il necessario fondamento onto-assiologico di ogni proposta filosofico-politica.

Dove, tuttavia, si può trovare, oggi, la speranza che questo afflato ideale non scompaia, dato che la mentalità capitalistica ha oramai pervaso pressoché tutti i campi della vita? Ritengo che l’unico «luogo» in cui sia possibile ritrovarlo sia proprio la natura umana, che richiede ragionevolezza e moralità, e che è comunque un «buon luogo», in quanto è in potenza presente in tutti gli uomini, sicché questa speranza ha una forte possibilità di realizzarsi, nonostante tutto oggi giochi in senso contrario. I pensatori utopisti, secondo Jameson, ancor più dei filosofi possono svolgere, in questo compito, un ruolo molto importante, in quanto «i grandi rivoluzionari mirano sempre alla attenuazione ed alla eliminazione delle fonti dello sfruttamento e della sofferenza» (pag. 29). In questo senso, egli scrive correttamente che «l’iniziale gesto utopico di Moro, l’abolizione del denaro e della proprietà privata, corre lungo la tradizione utopica come un filo rosso che talvolta affiora prepotente alla superficie, talaltra viene tacitamente presupposto in forma più blanda» (pag. 40), ma che comunque non può mai abbandonare l’ideale umano.

Jameson mostra dunque, in maniera pienamente condivisibile, che l’utopia non deve essere considerata, come ha fatto per decenni il marxismo (abituato a farsi dei nemici tra i “vicini di casa” per sfogare le frustrazioni che, per mancanza di mezzi, non poteva rovesciare sui “lontani capitalisti”), come qualcosa di negativo ed inutile, bensì come qualcosa di positivo ed utile, anzi indispensabile, e che è possibile coniugare – come fecero appunto i grandi utopisti, in primis Moro, ma anche Platone – con la critica del proprio tempo; come ha scritto infatti sempre il Nostro, «non è possibile alcuna Utopia moderna che non intenda porre a tema, tra le tante altre questioni, i problemi economici causati dal capitalismo» (pag. 249).

In Jameson manca certo, come ricordato, la base filosofica e la conseguente proposta politico-progettuale su come organizzare un modo di produzione sociale alternativo; tuttavia, nel bivio iniziale per dirimere la questione, ovvero quello fra «progettuali» (utopisti) e «critici» (marxisti), egli prende subito, a mio avviso, la strada giusta, ossia quella di chi ritiene necessario non solo criticare, ma soprattutto costruire; e di chi, anzi, ritiene quasi che criticare senza costruire sia cosa ancor più sterile del semplice stare a guardare.

Già pubblicato in, L. Grecchi, Il presente della filosofia nel mondo. Postfazione di Giacomo Pezzano: «Nur noch Griechenland kann uns retten», Petite Plaisance, Pistoia 2012, pp. 51-53 (indicepresentazioneautoresintesi ).


http://www.petiteplaisance.it/libri/151-200/186/int186.html

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

info@petiteplaisance.it,

N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio.
Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:

e saranno immediatamente rimossi.

Dove porta la smodata ricerca di ricchezze, andando oltre i limiti dello stretto necessario, a “occidente” come a “oriente”?


Dove porta la smodata ricerca di ricchezze,

andando oltre i limiti dello stretto necessario,

a “occidente” come a “oriente”.

 

La smodata ricerca di ricchezze, andando oltre i limiti dello stretto necessario, in “occidente” come in “oriente”, porta alla guerra dei «vicini», come dei più lontani, contro vicini e lontani, ed alla guerra contro la cultura universale, perché la guerra «spegne il pensiero, la ragione, lo spirito critico».Certamente No alla guerra! di Putin.

Ma qualcuno onestamente può negare che l’Europa e il cosiddetto “occidente” non si siano «abbandonati ad una smodata ricerca di ricchezze» per il proprio esclusivo e prioritario benestare?

Ai politici europei e “usaoccidentali”, ai militari della NATO (dimentichi delle loro pur recenti  “guerre umanitarie”, dei “bombardamenti etici” in Jugoslavia come altrove), ai nostrani “progressiti” (novelli censori di Dostoevskij), gioverebbe meditare, oltre che sugli esiti perversi della smodata dimensione crematistica del modo di produzione capitalistico globalizzato, sulle parole del profeta Osea (v. 8, 7): «Quia ventum seminabunt, et turbinem metent» (“Chi semina vento, raccoglie tempesta”).

Accadeva già ai tempi di Platone.

 

Καὶ ἡ χώρα γέ που, ἡ τότε ἱκανὴ τρέφειν τοὺς τότε, σμικρὰ δὴ ἐξ ἱκανῆς ἔσται. ἢ πῶς λέγομεν; […] Οὐκοῦν τῆς τῶν πλησίον χώρας ἡμῖν ἀποτμητέον, εἰ μέλλομεν ἱκανὴν ἕξειν νέμειν τε καὶ ἀροῦν, καὶ ἐκείνοις αὖ τῆς ἡμετέρας, ἐὰν καὶ ἐκεῖνοι ἀφῶσιν αὑτοὺς ἐπὶ χρημάτων κτῆσιν ἄπειρον, ὑπερβάντες τὸν τῶν ἀναγκαίων ὅρον;

 

E così pure il territorio, quello che una volta bastava a nutrire i cittadini di prima, ora si è fatto insufficiente e non basta più, non è forse così? […]

Ecco quindi che saremo costretti a strappare una parte del territorio dei vicini, se vorremo avere abbastanza terreno da mettere a pascolo e a coltura? Ma non è forse vero che anche i confinanti avrebbero bisogno dei nostri territori, quando come noi si abbandonassero ad una smodata ricerca di ricchezze, andando oltre i limiti dello stretto necessario?

 

Platone, Repubblica, 373 d, trad. di R. Radice.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio.
Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:

info@petiteplaisance.it,

e saranno immediatamente rimossi.

Sabrina Grimaudo, «Difendere la salute. Igiene e disciplina del soggetto nel “De sanitate tuenda” di Galeno». Problema medico o questione filosofica?

Galeno

Sommario del volume

Introduzione

La salute: problema medico o questione filosofica?

Le definizioni  galeniche della salute tra arcaismo e modernità

La misura della salute

Salute, percezione, congettura. Un bene fragile e i suoi criteri

Le parti dellamedicina e il primato dell’igiene

L’igiene e il suo specialista. Dalla cura di sé al controllo dell’esistenza

L’uomo di ottima costituzione: un canone per la trattazione igienica

Auctoritas e avversari

Bibliografia


Sabrina Grimaudo, Difendere la salute. Igiene e disciplina del soggetto nel “De sanitate tuenda” di Galeno, Bibliopolis. Napoli 2008

Imponente summa di una riflessione sulla salute e sui modi per tutelarla già avviata in alcuni scritti del Corpus Hippocraticum, il trattato di Igiene di Galeno presenta al tempo stesso caratteri profondamente innovativi rispetto ai testi sulla dietetica dei sani di epoche precedenti, e sviluppa una teoria della salute che per ampiezza e spessore concettuale non ha confronti nel mondo antico. Incentrando l’analisi sul trattato di Igiene e sul Trasibulo, ma con uno sguardo complessivamente rivolto all’intera opera di Galeno, il libro ricostruisce l’ideologia galenica della salute, mettendone in luce i legami con la tradizione medica e filosofica ed evidenziandone, anche attraverso il filtro del dibattito contemporaneo sul tema, gli elementi di interesse per il lettore moderno.

Sabrina Grimaudo è docente presso l’Università di Palermo. I suoi studi soni principalmente rivoilti ad aspetti storico-epistemologici della scienza antica, al lessico greco della parentela e all’analisi del rapporto potere/violenza nei testi greci. Oltre avari contributi su riviste specializzate, ha pubblicato Misurare e pesare nella Grecia antica. Teorie, storia, ideologie, L’Epos, Palermo 1998.

Curriculum e pubblicazioni di Sabrina Grimaudo.



Plutarco

«E fra le arti liberali la medicina non è inferiore a nessuna per raffinatezza, eccellenza e diletto e assicura a chi ne ama lo studio un grosso vantaggio, la conservazione della vita e la salute. Quindi bisogna guardarsi dall’accusare i filosofi di varcare i confini quando discutono questioni di salute (οὐ παράβασιν ὅρων ἐπικαλεῖν δεῖ τοῖς περὶ ὑγιεινῶν διαλεγομένοις φιλοσόφοις), anzi vanno disapprovati se non ritengono opportuno sopprimere del tutto i confini e dedicarsi ai loro nobili studi in comune, come in un terreno unico (ὥσπερ ἐν μιᾷ χώρᾳ κοινῶς ἐμφιλοκαλεῖν), mirando a un tempo, nelle loro discussioni, al piacevole e al necessario».

Plutarco, De tuenda sanitate praecepta, 122 D-E.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio.
Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:

info@petiteplaisance.it,

e saranno immediatamente rimossi.

Salvatore Bravo, Lo studio di Luca Grecchi sulle tracce della filosofia è un esercizio di critica sociale e di defatalizzazione./Letture.org, Intervista a L. Grecchi: «Come può esserci una filosofia prima della filosofia?».


A seguire:
Introduzione di Daniela Lefèvre-Novaro
Sommario del volume
Intervista a L. Grecchi: 5 domande all’autore da parte di Letture.org.

Salvatore Bravo

Lo studio e la ricostruzione storica di Luca Grecchi
sulle tracce della filosofia è un esercizio di critica sociale e di defatalizzazione

 

Verità e bene nella pratica filosofica

Vi sono studiosi che non si adattano alle mode accademiche, ma sono fedeli al loro destino. Praticare la filosofia significa avere la chiarezza del fine della stessa. La filosofia è scienza della verità, è attività veritativa che soppesa le opinioni con la forza dialogica delle argomentazioni per uscire dalla palude del conformismo nichilistico. Il presente ci offre un numero notevoli di studiosi, anche di valore, che si sono cadavericamente adeguati alla filosofia nella forma dell’epistemologia o del multiculturalismo. Spesso tali scelte – che negano la filosofia nel suo senso più profondo e nella sua tradizione più antica – sono dovute a pressioni culturali e sociali. In questo contesto gli studiosi che si sottraggono all’omologazione rassicurante sono preziosi, perché ci rammentano il fine autentico della filosofia e ci ricordano che adeguarsi è una scelta: è sempre possibile intraprendere la via più difficile.
La filosofia vive nei filosofi, per cui essa è sempre ad un bivio in cui bisogna scegliere se intraprendere la via dell’opinione o la via della verità. Luca Grecchi è in cammino sul sentiero della verità e le sue pubblicazioni testimoniano il suo percorso. Il suo ultimo testo, La filosofia prima della filosofia. Creta, XX secolo a.C.-Magna Grecia, VIII secolo a.C. (Morcelliana, Brescia 2022) non è una semplice ricostruzione genetica della filosofia, quale pratica della verità nel rispetto della natura comunitaria degli esseri umani. La filosofia difende la buona vita e il bene testimoniandoli, per cui la ricostruzione storica di Luca Grecchi sulle tracce della filosofia è un esercizio di critica sociale e di defatalizzazione. Il presente è senza speranza, la categoria della necessità regna, per cui l’attuale modello economico e sociale è giudicato come unico e senza alternative. Luca Grecchi attraverso l’analisi documentata degli albori della filosofia nella società cretese palesa che il presente è esperienza storica non assoluta, e specialmente, il futuro è condizione di possibilità progettante, solo se ci si rivolge al passato per esplorare modelli sociali ed economici nei quali il fine è il benessere dell’essere umano e non il profitto. Per mettere in atto tale prassi è necessario porre al centro la filosofia. Essa è analisi critica della totalità: il metodo dialettico concettualizza la totalità per saggiarne la qualità. Senza l’esame critico della totalità il presente si eternizza negando la prassi e la responsabilità etica e storica dell’essere umano:

«La filosofia, infatti, si occupa principalmente di due contenuti, ossia la verità e il bene, di cui nessuna altra scienza si occupa».[1]

La filosofia ha il compito – che si storicizza nel tempo – di porre un argine alla deriva crematistica, nella quale l’essere umano è solo un mezzo per il profitto e non un fine. Se si vive in una totalità in cui si è solo degli enti da consumare e usare all’occorrenza, l’infelicità e l’alienazione sono generali. La filosofia è anche pratica politica, non è l’anima bella che si rifugia nella turris eburnea dell’astratto, ma è concretezza etica sin dalle origini:

«Nell’VII secolo, dunque, la crematistica ricerca del vantaggio privato, era già presente nei processi dominanti della riproduzione sociale della realtà cittadina. Vi era tuttavia la consapevolezza che essa andava tenuta a freno dalle strutture pubbliche della nascente polis. Al crescere della pervasività della crematistica sul piano sociale cercarono infatti di rispondere le strutture politiche della polis, e, poco dopo, le strutture culturali della philosophia».[2]

 

Civiltà cretese e comunitarismo

L’essere umano per natura è comunitario. Anche l’attuale individualismo presuppone la comunità, solo che essa è intesa e vissuta come mezzo e non come fine. L’individualismo comporta la cattiva vita, poiché l’alterità è uno strumento per soddisfare necessità e per estorcere profitto. La filosofia fa emergere la verità del contesto storico per compararlo al bene, ovvero alla comunità in cui l’essere umano è il centro disinteressato di ogni attività e non una semplice comparsa in funzione del profitto. Non bisogna cadere nella trappola di coloro che affermano che la pianificazione comunitaria dell’economia sia possibile solo vi è una società poco sviluppata.
Luca Grecchi palesa la differenza tra la civiltà cretese e le civiltà orientali, in cui vigeva la gerarchizzazione del potere e la comunità era asservita al potere della casta sacerdotale. Condizioni storiche simili possono sviluppare diversi modelli politici. A tal fine la filosofia è fondamentale, poiché il comunitarismo presuppone una adeguata riflessione teoretica. L’architettura della civiltà cretese comporta una visione dell’essere umano e della totalità in cui è implicato. Il fine è il bene di tutti, pertanto l’economia non è crematistica e saccheggio dell’altro, ma equa distribuzione dei beni conservati nei magazzini di stoccaggio. La centralità è il cortile, spazio aperto in cui si svolgono le attività sociali ed in cui si impara la condivisione e la si organizza:

«Il cortile centrale inoltre rappresenta il cuore dei Palazzi cretesi, in quanto fu verosimilmente il luogo della comunicazione politica e della distribuzione economica dei beni, dunque il luogo fondamentale della comunità».[3]

L’architettura non è neutra, ma è l’oggettivazione della teoretica che guida la comunità. L’architettura ha la prima radice nel sostrato silenzioso ed essenziale della visione del mondo di una civiltà. Se guardiamo all’urbanistica delle nostre città (con la privatizzazione di ogni spazio), non è difficile dedurre che è l’interesse privato a condurre ogni azione e a determinare l’isolamento atomistico che deprime le energie creative e plastiche di ogni cittadino. Nella civiltà minoica la centralità del cortile è il segno della consapevolezza che il benessere dev’essere di ognuno, altrimenti non vi è che lotta e “animalizzazione indotta” dell’essere umano:

«Non vi è dubbio, insomma, che i Palazzi minoici siano stati strutture polifunzionali, ospitanti sia attività economiche che assemblee civili, sia feste sportive che cerimonie religiose. Ciò nonostante, la funzione primaria di tali Palazzi – la funzione essenziale – rimase quella economico-politica di coordinamento della pianificazione produttiva-distributiva dei beni necessari alla vita».[4]

 

La comunità come esperienza e aspirazione non cointingente

La fine della civiltà minoica non ha comportato la scomparsa nel nulla dell’esperienza cretese, ma essa rivive in taluni aspetti nella civiltà omerica, pur in condizioni storiche molto modificate e diverse. Non a caso nei testi omerici ritroviamo due parole (idion e demion) che segnalano la prevalenza etica e qualitativa del pubblico-comunità sul privato. L’idion è colui che si dedica solo ai propri interessi privati, per cui rompe il vincolo solidale con la comunità tutta:

«L’utilizzo dei termini idion e demion per indicare privato e pubblico era, del resto, già frequente nei poemi omerici, a riprova di una riflessione su questi temi che non poteva essere acerba».[5]

La società omerica, pur bellicosa, conserva la condivisione comunitaria; non a caso i guerrieri pongono al centro (es meson) il bottino per dividerlo. Il mettere al centro è un residuo vivo del passato che non trascorre, è il germe che sarà pensato e porterà alla polis. L’esperienza cretese non scompare con la civiltà minoica, ma la si ritrova ripensata nelle diverse condizioni storiche nelle civiltà geograficamente limitrofe. Nella polis si ha l’espressione massima di tale visione comunitaria, poiché la città è organizzata per il dialogo comunitario, per cui gli spazi pubblici sono la manifestazione della chiarezza concettuale del bene che deve integrare la città con la natura e gli dèi:

«Oltre alla pianificazione degli spazi pubblici (edifici, piazze, santuari, necropoli, ecc.) e degli spazi privati (ripartizione della terra urbana e agricola, ecc.), la progettualità originaria delle apoikiai prevedeva che, nel territorio, ampi spazi dovessero sempre rimanere di uso comune. Si tratta dei cosiddetti saltus, ovvero spazi agricoli occupati dalle foreste e dalle estensioni di altura, necessari per il pascolo estivo, il legname e la caccia. Inoltre, in pressoché tutte le poleis di Magna Grecia e Sicilia erano sempre assicurate le cosiddette “aree di rispetto”, definibili come aree libere situate a ridosso delle mura urbane, disponibili per vari utilizzi comunitari».[6]

Il percorso che dalla civiltà cretese porta alla polis è un messaggio che giunge fino a noi e ci invita a guardare, pensare e vivere il presente con lo sguardo della civetta che è in ogni essere umano:

«L’uomo ha necessità di vivere bene, e per ottenere questo risultato deve costituire all’interno della physis, ossia della realtà che lo ospita, un contesto comunitario in cui realizzare un’esistenza armonica, caratterizzata da rispetto e cura verso sé stesso, gli altri uomini, la natura e il divino».[7]

Leggere il testo di Grecchi è esperienza teoretica, poiché ci conduce con il suo stile discreto a riscoprire il passato per comprendere il presente, in modo da riportare la possibilità della prassi dove vige l’annientamento del solo profitto.

Salvatore Bravo

***

[1] Luca Grecchi, La Filosofia prima della filosofia. Creta, XX secolo a.C.-Magna Grecia, VIII secolo a.C., Scholé Morcelliana, Brescia 2022, pag. 15.
[2] Ibidem, pag. 116.
[3] Ibidem, pag. 73.
[4] Ibidem, pag. 89.
[5] Ibidem, pag. 115.
[6] Ibidem, pag. 135.
[7] Ibidem, pag. 156.





Intervista  pubblicata il 18 gennaio 2022 su “Letture.org


  • Prof. Luca Grecchi,
    Lei è autore del libro La filosofia prima della filosofia. Creta, XX secolo a.C. – Magna Grecia, VIII secolo a.C. edito da Morcelliana: come può esserci filosofia prima della filosofia?


La domanda è legittima, e la risposta doverosa. Il libro inizia infatti spiegando questo titolo strano, il che si può fare grazie alla coppia concettuale potenza/atto, tematizzata per la prima volta da Aristotele. Detta in modo semplice, la filosofia è un’attività che esiste da sempre in potenza nell’uomo, dato che, per natura, l’uomo – sintetizzo qui le tre caratteristiche essenziali che a mio avviso definiscono la filosofia – necessita, per realizzarsi compiutamente: a) di rapportarsi all’intero, ricercandone il senso; b) di conoscere con verità, agendo per il bene; c) di relazionarsi dialetticamente alla realtà, ponendosi continuamente domande e cercando di formulare risposte, a loro volta da vagliare. Posto che in potenza la filosofia esiste da sempre nella natura umana, essa ha tuttavia iniziato ad esistere in atto solo in un certo luogo ed in un certo momento – poi vedremo dove e quando –, poiché solo in quel luogo ed in quel momento si sono per la prima volta verificate le condizioni, naturali e sociali, favorevoli alla sua nascita.

Cerco di spiegarmi con un esempio. Un uomo e una donna, per natura, hanno sempre in potenza, se si uniscono, almeno in un certo periodo del loro ciclo vitale, la possibilità di procreare. Affinché la procreazione non resti una potenzialità ma si realizzi in atto, occorrono però molte condizioni (che l’uomo e la donna siano fecondi, che vi sia fra loro un’attrazione, che l’interazione della loro genetica non ostacoli la formazione del feto, ecc.). Nel caso mio e di mia moglie, già nei primi giorni dopo il concepimento di nostra figlia Benedetta, si erano verificate queste condizioni, senza che lo sapessimo. Benedetta c’era già, insomma, ma ancora non eravamo consapevoli della sua esistenza. Allo stesso modo, in base a quanto cerco di argomentare nel libro, a partire almeno dalla Creta palaziale del XX secolo a.C., la filosofia in un certo senso c’era già – per quanto non ancora compiutamente formata –, anche se non se ne conosceva l’esistenza; ciò in quanto le sue tre caratteristiche essenziali, che ho poco sopra sintetizzato, cominciarono a formarsi proprio in quel momento ed in quel luogo.

L’obiezione prevalente, tuttavia, che riceverò dagli storici della filosofia antica, immagino si condenserà nella seguente domanda: non è eccessivo andare indietro di 15 secoli nel ricercare l’origine della filosofia rispetto a quanto normalmente si fa, dato che la nascita della stessa è solitamente attribuita al VI-V secolo, coi Presocratici e con Platone? A questa domanda risponderei nel modo seguente: è eccessivo solo in rapporto a quello che si è finora fatto. Così, tuttavia, come non è eccessivo per un neonatologo analizzare un neonato facendo riferimento a tutte le condizioni biologiche del concepimento, all’intero periodo della gestazione e in generale alle varie fasi del processo procreativo, anziché partire solo – come si faceva una volta – dal momento della sua nascita, per lo stesso motivo non è eccessivo, a mio avviso, studiare la filosofia facendo riferimento alle condizioni originarie del suo concepimento, a tutto il periodo della sua gestazione e in generale alle varie fasi della sua “procreazione”. Indubbiamente, con la filosofia si parla di 15 secoli anziché di 9 mesi, e di un processo che riguarda molte generazioni anziché pochi individui, il che rende tutto più complesso. Penso però che sia doveroso considerare tale processo nella sua interezza: dalla cultura minoica del XX secolo alla cultura classica del V secolo vi è una continuità, che nel testo è mostrata in vari modi, la quale deve essere valutata compiutamente se si desidera comprendere in maniera adeguata la nascita della filosofia.

Nel volume ho utilizzato ripetutamente una analogia vegetale – poco fa ho usato quella umana –, assimilando la filosofia a una piantina, uscita dal terreno nel VI-V secolo, e di cui, al massimo, è stata ipotizzata l’esistenza di radici un paio di secoli prima, con la poesia di Omero. La cultura omerica, tuttavia, dipende strettamente dai cosiddetti “secoli oscuri” che l’hanno preceduta (XI-IX), i quali sono, a loro volta, la risultanza del crollo dei regimi micenei (XVII-XII), che ebbero come modello – per quanto senza assimilarne compiutamente la cultura – proprio la civiltà minoica cretese (XX-XV). Possibile, alla luce di quanto ho qui sintetizzato, continuare a studiare la piantina della filosofia considerando solo, al più, i 2 centimetri (secoli) delle sue radici fino a Omero, quando è assai verosimile, per i legami ora esposti, che esse siano lunghe almeno 15 centimetri (secoli) fino a Creta? Mi sembra semplicemente che finora, siccome è molto difficoltoso scavare in profondità, si sia scavato solo in superficie, o spesso addirittura non si sia scavato, essendosi limitati – me compreso – a studiare solo la parte della piantina fuoriuscita dal terreno (ossia la filosofia quando ha iniziato ad essere nominata, coi Presocratici e con Platone), riducendo però di molto, in questo modo, le possibilità di comprensione della stessa.

Mi conceda un’ultima analogia – di quelle che fanno sorridere gli studenti a lezione –, stavolta di genere animale, per par condicio con quelle umana e vegetale utilizzate prima. In una gita ad un parco zoologico di qualche anno fa con mia figlia, ho appurato che la lunghezza delle gambe di una giraffa adulta è di circa 150 centimetri. Sarebbe ben rappresentata, a suo avviso, una giraffa con solo 20 centimetri di gambe? Senza considerare i secoli di cui si occupa questo libro, la filosofia rimane disegnata come una giraffa con le gambe di 20 centimetri. Per quanto la parte più importante di una giraffa sia verosimilmente costituita dal tronco e dal collo, con le gambe così corte essa non è raffigurata in maniera corretta. Ciò nonostante, da secoli, continuiamo a rappresentare la filosofia in questo modo, con tutto quello che ne consegue. Nel libro mostro in merito che molti errati luoghi comuni sulla nascita della filosofia (ad esempio il suo presunto sorgere nelle “colonie”, senza che si specifichi bene questo termine), si originano proprio a causa della mancata analisi delle sue condizioni di base. Per questo motivo ritengo che i futuri manuali di Storia della filosofia dovrebbero essere integrati, nelle loro prime pagine, non col contenuto di questo libro, ma col contenuto di questi secoli. Nutro tuttavia, in merito, poche speranze: lo specialismo accademico non accetta di aprirsi a novità così grandi. La mia proposta sarà per lo più considerata come il testo eccentrico di uno studioso “originale”; o, ancor più probabilmente, sarà ignorata.


  • In che modo, nel XX secolo a. C., a Creta ebbe inizio
    il processo che condurrà alla costituzione della polis
    e alla fioritura della philosophia?


Creta è un’isola grande circa come le Marche, più o meno equidistante fra l’Europa, l’Asia e l’Africa. Per la sua bellezza, fin dal Neolitico, fu abitata da popoli diversi, non esclusivamente da gente ellenica. Solo nel seguito la sua grande civiltà, grazie anche alla mediazione micenea, plasmò la cultura ellenica costituendone la matrice originaria. Lei mi chiede però, giustamente, come sia stato possibile, a partire dai primi insediamenti organizzati dell’Età del Bronzo, giungere progressivamente fino alla costituzione delle poleis ed alla successiva fioritura della philosophia, che è effettivamente un prodotto delle poleis elleniche.

Ebbene, pensi alle tre caratteristiche essenziali della philosophia cui abbiamo accennato sopra: il rivolgimento all’intero; la ricerca della verità e del bene; l’approccio dialettico alla realtà. Pensi a una situazione originaria, in cui vari gruppi di persone vennero ad abitare diverse parti dell’isola cercando di costituire aggregati stabili in cui vivere in maniera armonica. Come ragionarono e come agirono questi gruppi? Essendo nuclei comunitari, come lo sono quasi sempre i nuclei che viaggiano cercando di formare contesti abitativi permanenti, essi in sostanza seguirono – naturalmente senza esserne consapevoli – i tre orientamenti costitutivi della philosophia: a) si rapportarono all’intero, ossia alla natura (scelta di un luogo con corsi d’acqua potabile, con la giusta vicinanza al mare, con luoghi coltivabili nelle vicinanze, ecc.), al divino (scelta dei riti più adatti ad unire la comunità, a rispettare tutte le divinità care ai rispettivi gruppi, a garantire l’armonico svolgimento della vita sociale, ecc.) e all’umano (scelta di modalità economiche comunitarie, di una legislazione attenta alle esigenze di tutti, delle modalità migliori per favorire le espressioni culturali, ecc.). In questo modo essi realizzarono anche, implicitamente, b) una ricerca della verità e del bene, che fu posta in essere in un continuo confronto, ossia c) in maniera dialettica.

A Creta, insomma, rispetto alle coeve civiltà orientali, molto più gerarchiche, autoritarie e dogmatiche, si crearono forse i primi contesti cittadini comunitari di cui abbiamo notizia, i quali scelsero – verosimilmente, per quanto ho potuto ricostruire – di organizzare la loro vita sociale in maniera pianificata, in maniera tale che ognuno potesse dare in base alle proprie capacità e ricevere in base ai propri bisogni. Una simile pianificazione comunitaria, organizzata nei famosi Palazzi, adottata peraltro in tutte le principali città dell’isola, non poté prescindere da una grandiosa elaborazione culturale e da una rilevante condivisione politica: due condizioni essenziali che spiegano forse come, da quelle prime poleis ante litteram, iniziarono ad essere inseriti nel terreno, a mettere radici e a germogliare i primi semi della philosophia.


Quali caratteristiche
presenta
la Creta palaziale?


Ho poco fa parlato di Palazzi, ma non dobbiamo pensare – come pure i primi archeologi scopritori degli stessi, fra cui Evans, hanno lasciato intendere – a qualcosa di simile ai palazzi reali di Versailles. I cosiddetti Palazzi, nelle città minoiche, erano infatti costruzioni molto ampie in cui avevano sede le istituzioni politico-religiose-culturali della città, così come diverse attività produttive. Essi erano in effetti più simili a veri e propri quartieri, in cui erano svolte le attività economico-sociali fondamentali relative alle necessità della vita, fra cui in primo luogo lo stoccaggio e la distribuzione delle risorse alimentari, nonché l’organizzazione – la scrittura nacque verosimilmente a Creta con questo fine – della pianificazione. Erano Palazzi senza mura, aperti alla cittadinanza, non arroccati in difesa del potere. Nonostante l’immaginario collettivo pensi al mitico Minosse come ad un monarca imperialista, l’iconografia rimasta non mostra mai, a Creta, re in posizioni dominanti e sudditi con la testa bassa, come spesso accade nelle coeve civiltà orientali; mostra anzi spesso gruppi di persone felici con la testa alta. L’archeologia conferma peraltro l’iconografia, con situazioni abitative, nei nuclei urbani, tutte fra loro piuttosto omogenee. Si tratta, come dico più volte nel libro, soltanto di indizi (qui ne ho indicati alcuni), ma se tre indizi fanno una prova, nel libro ci sono anche alcune prove.


In mancanza di documenti scritti,
su quali elementi
si basa il Suo studio


Altra domanda doverosa. Mi si potrebbe infatti giustamente chiedere: essendo lei uno storico della filosofia antica – peraltro un po’ anomalo, dato che si occupa anche di filosofia morale e di filosofia teoretica –, cosa ne sa di queste civiltà anteriori ad Omero, di cui restano poco più che le pietre? Naturalmente, mi sono a lungo documentato prima di scrivere questo libro, come la bibliografia citata dimostra. Non solo: ho anche importunato, per diverso tempo, archeologi, storici, orientalisti, ecc., nella convinzione che il sapere non sia caratterizzato da compartimenti stagni. In tal senso, devo ringraziare in modo particolare due archeologi assai interdisciplinari, quali la Professoressa Daniela Lefèvre-Novaro, dell’Università di Strasburgo e il Professor Massimo Cultraro, dell’Università di Palermo, che mi hanno fornito molte utili indicazioni ritenendo, alla fine, plausibile la mia interpretazione.

Queste epoche in effetti, su cui non ci sono fonti scritte dirette – la cosiddetta Lineare A, nonché le altre scritture geroglifiche minoiche, non sono ancora state completamente decifrate; inoltre, il totale dei testi minoici di cui disponiamo ammonta a poche pagine di un attuale libro –, devono necessariamente essere indagate in maniera interdisciplinare. Occorre infatti saper mettere insieme i pezzi scoperti dai singoli specialisti, per arrivare a delineare un quadro coerente di una civiltà così meravigliosa come quella minoica. Questa attività però, oggi, la fanno ormai in pochi. I processi selettivi dell’Università obbligano in effetti ad uno specialismo estremo, tanto che se ci si lascia risucchiare dagli stessi si finisce con lo studiare una sola tesserina del mosaico per tutta la vita, senza andare oltre. Eppure, ci vuole sempre qualcuno che tenti di mettere insieme le tessere, se si desidera avere una immagine complessiva del mosaico.


  • In che modo l’indagine sugli albori della riflessione filosofica
    ci aiuta a comprendere il senso di un fine
    che la filosofia contemporanea sta progressivamente smarrendo?

Questa domanda finale è molto bella, perché condensa veramente il significato che attribuisco a tanti anni di libri e di insegnamento. Indagando le culture antiche, ho sempre cercato di far risaltare il valore comunitario della filosofia, che è appunto una ricerca comune della verità dell’intero, svolta in comune per favorire il bene comune. Il fine del fare ricerca, in filosofia, deve sempre essere l’affrontare problemi importanti per trovare soluzioni importanti, dunque anche modelli di riferimento validi. La Creta minoica, in base a quanto argomento nel libro, rappresenta un possibile paradigma di società comunitaria, pianificata in maniera armonica, in cui a nessuno mancava il necessario, la natura era rispettata e ciascuno partecipava liberamente al processo della riproduzione sociale complessiva. Non abbiamo bisogno, oggi, di un modello simile, vivendo in un modo di produzione che, strumentalizzando tutto al fine del profitto, non rispetta né gli uomini né la natura, mettendo in pericolo la stessa sopravvivenza del pianeta e lasciando nella infelicità centinaia di milioni di persone? 

Sono assolutamente consapevole dei limiti della mia ricerca filosofica, che è “roba minima”, come direbbe Enzo Jannacci. Finché, tuttavia, mi sembrerà di essere almeno un poco utile in questa direzione, continuerò a scrivere; quando capirò di non esserlo più, impiegherò la mia vita in maniera diversa, per quanto sempre con lo stesso fine.

****

Luca Grecchi insegna per le cattedre di Filosofia morale e di Storia della filosofia all’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Fra le sue pubblicazioni più recenti: Leggere i Presocratici (Morcelliana, 2020) e tre volumi della collana Questioni di filosofia antica (Edizioni Unicopli): Natura (2018), Uomo (2019) e Ricchezza (2021). Con l’editore Petite Plaisance ha curato tre importanti volumi collettivi: Sistema e sistematicità in Aristotele; Immanenza e trascendenza in Aristotele; Teoria e prassi in Aristotele (rispettivamente 2016, 2017 e 2018).

Luca Grecchi – Alcuni suoi libri


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio.
Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:

info@petiteplaisance.it,

e saranno immediatamente rimossi.

Baruch Spinoza (1632-1677) – L’uomo libero, cioè colui che vive sotto la sola guida della ragione, non è guidato dalla Paura della morte, ma desidera direttamente il bene; perciò a nulla pensa meno che alla morte e la sua saggezza è una meditazione della vita.

Proposizione LXVII

L’uomo libero a nessuna cosa pensa meno che alla morte;
e la sua saggezza è una meditazione della vita, non della morte.
L’uomo libero, cioè colui che vive sotto la sola guida della ragione, non è guidato dalla Paura della morte, ma desidera direttamente il bene, cioè agire, vivere, conservare il proprio essere […]; perciò a nulla pensa meno che alla morte e la sua saggezza è una meditazione della vita.

Baruch Spinoza, Etica, in Id., Etica e Trattato Teologico-politico, a cura di R. Cantoni e F. Fergnani, Utet, Torino 1980, p. 325.


Baruch Spinoza (1632-1677) – La via che conduce al vero compiacimento dell’animo sembra estremamente difficile, può tuttavia essere trovata. E arduo, in verità, deve essere ciò che tanto raramente si trova. Ma tutte le cose eccellenti sono tanto difficili quanto rare
Baruch Spinoza (1632-1677) – All’uomo niente è più utile dell’uomo. Da questo segue che gli uomini, che siano guidati dalla ragione, cioè quelli che ricercano il proprio utile con la guida della ragione, non bramino per sé niente che non desiderino anche per gli altri, e perciò sono giusti, onesti e fedeli.
Baruch Spinoza (1632-1677) – La Letizia è il passaggio dell’uomo da una minore ad una maggiore perfezione. La Tristezza è l’atto del passare ad una minore perfezione, cioè l’atto dal quale la potenza di agire dell’uomo viene diminuita o ostacolata.
Baruch Spinoza (1632-1677) – Di che cosa sia capace il Corpo, non è stato ancora definito da nessuno. Non sanno di che cosa il Corpo sia capace, e ciò che si possa dedurre dalla sola osservazione della sua propria natura.
Baruch Spinoza (1632-1677) – In quanto concepisce le cose secondo il dettame della ragione, la mente risente egualmente della sua idea tanto se questa sia l’idea di una cosa futura o passata, quanto se sia l’idea di una cosa presente
Baruch Spinoza (1632-1677) – Agire per virtù è agire sotto la guida della ragione. Tutto ciò che ci sforziamo di fare con la ragione è comprendere. Il sommo bene dell’uomo è comune a tutti, proprio perché ciò si deduce dalla stessa essenza umana.
Baruch Spinoza (1632-1677) – Il fine dello Stato non è di dominare gli uomini né di costringerli col timore a sottomettersi, né di convertire in automi esseri dotati di ragione, ma al contrario di far sì che la loro mente e il loro corpo possano con sicurezza  esercitare le loro funzioni, ed essi possano servirsi della libera ragione. Il vero fine dello Stato è, dunque, la libertà.

 


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio.
Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:

info@petiteplaisance.it,

e saranno immediatamente rimossi.


Ideali di Comunità. Un genuino e armonioso contatto tra persone umane genuine e armoniose: una condizione del mondo in cui gli uomini possano conoscersi e amarsi, in cui cultura e civiltà non ostacolino l’evoluzione intima dell’uomo.

Il volto di Hannah (Paulette Goddard) che guarda in alto con risorgente speranza,
nelle bellissime immagini finali di The Great Dictator (Il Grande Dittatore),
scritto, diretto e interpretato da Charlie Chaplin, 1940:
«Guarda in alto Hannah! L’animo umano troverà le sue ali …».


Sommario




M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio.
Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:

info@petiteplaisance.it,

e saranno immediatamente rimossi.

Enrico Berti ci ha lasciato. Un ricordo filosofico ed umano di Luca Grecchi

ENRICO BERTI. UN RICORDO FILOSOFICO ED UMANO

 

di Luca Grecchi

 

Con Enrico Berti ci ha lasciato il 5 gennaio 2022 uno dei maggiori storici della filosofia, in particolare del pensiero di Aristotele, nonché uno dei pochi filosofi rimasti, in grado di argomentare in maniera chiara, solida ed originale importanti posizioni teoretiche, illuminando insieme la cultura antica e la realtà del nostro tempo.

Per un bilancio complessivo della sua opera molti saggi, nei prossimi mesi, seguiranno; io stesso sono stato subito incaricato, dalla rivista Humanitas, di redigere un suo profilo. Quanto mi preme fare ora però, nella immediatezza della notizia della sua morte, è realizzare un piccolo ricordo personale, un po’ per consolarmi della perdita di un amico, e un po’ per mettere in risalto, per quanto in maniera sintetica, il valore dello studioso e della persona. Sono felice, peraltro, di avere ricordato più volte a Enrico, negli ultimi tempi, quando si lamentava delle sue peggiorate condizioni di salute – cosa che con gli amici più giovani, per pudore, non faceva – l’importanza di ciò che aveva realizzato nella sua vita, sia come pensatore che come educatore, essendo egli stato un costante sostegno ed un esempio per molte generazioni di studiosi. Per far capire la sua enorme disponibilità anche solo verso gli studenti, rammento semplicemente l’orario di ricevimento affisso sulla porta del suo ufficio all’Università di Padova, quando lo incontrai per la prima volta nel 2002: lunedì, martedì, mercoledì e giovedì dalle 8,30 alle 12! Non credo ci sia bisogno di aggiungere altro.  

Il mio rapporto con Berti iniziò appunto nel 2002, quando gli spedii una copia del mio primo libro, L’anima umana come fondamento della verità. Berti, con il consueto approccio dialettico, non si lasciò raffreddare dal fatto che in quel libro esprimevo alcune critiche, peraltro eccessive, alla sua interpretazione di Aristotele. Seppe anzi valorizzare il contenuto teoretico del testo, iniziando con me un dialogo, praticato soprattutto in forma scritta, durato fino ai suoi ultimi giorni di vita, quando ancora stava concludendo un saggio che spero si possa recuperare. Uomo di rara dolcezza, Berti era persona schiva e riservata, con cui non era facile entrare in confidenza. Siamo passati al “tu” solo dopo oltre dieci anni di intensi scambi epistolari, e solo dopo sua richiesta (io non mi sarei permesso, tale era per me l’autorevolezza della sua figura).

La prima nostra occasione pubblica di incontro fu a Padova, nel 2006, quando presentammo insieme, alla facoltà di Filosofia, la riedizione del libro del suo maestro Marino Gentile intitolato La metafisica presofistica, nella collana da me diretta presso Petite Plaisance, con introduzione proprio di Berti. Ricordo che in quella occasione, alla presenza dei più importanti docenti della Facoltà, Enrico mi introdusse – con onore assolutamente immeritato – non come semplice “studioso”, bensì addirittura come “filosofo”, con parole che mi imbarazzarono molto (ma che furono verosimilmente da lui dette, al contrario, per togliermi dall’imbarazzo di essere, allora, un “giovane non accademico” che veniva a parlare ad accademici in una delle più prestigiose Università italiane); mi definì appunto “giovane filosofo non accademico, perché non è necessario essere in Università per essere filosofi; anzi, talvolta, per potere fare ricerca ed esprimersi più liberamente, è meglio non esserlo, come dimostra il dottor Grecchi”.

Fu per me un grande complimento, in quanto Berti era persona che pesava le parole, non solo in pubblico. Rare sono state infatti anche le sue introduzioni a libri di altri studiosi, per cui sono davvero felice che ne abbia realizzate addirittura due a miei libri; in particolare, al libro-dialogo da me composto con Carmelo Vigna, Sulla verità e sul bene (Petite Plaisance, 2011). In quella occasione la posizione della metafisica umanistica – la mia posizione teoretica – venne da Berti considerata “su un piano di parità” (pag.7) nel confronto dialettico con la metafisica classica, che pure costituiva la posizione sua e di Vigna.

Sempre nel 2006 Berti pubblicò, ancora presso Petite Plaisance, un suo libro importante, Incontri con la filosofia contemporanea, con mia postfazione. Replicò nel 2019 con un altro volume, Scritti su Heidegger, anche per testimoniare la sua vicinanza alle meritorie iniziative di Petite, nonostante mi abbia confessato che, come proprio editore di riferimento, per la sua storia secolare e le sue radici cattoliche, egli aveva sempre considerato Morcelliana.

Il ricordo più bello del mio rapporto con Berti è, in ogni caso, la realizzazione del libro-dialogo A partire dai filosofi antichi (Il Prato, Padova, 2008), che ci coinvolse in discussioni appassionanti per alcuni giorni, ed in cui emerse una sua forte convergenza con la interpretazione umanistica della filosofia greca che avevo proposto in alcuni libri precedenti (pagg.29-35), oltre che su altri argomenti. Il volume fu peraltro presentato in una splendida sala del Municipio di Padova nel 2010, in cui improvvisammo un dialogo su molti temi che, anche a distanza di tempo, mi pare davvero perfettamente riuscito.  

Sempre per quanto riguarda le iniziative comuni, sono contento di avere preso parte in quegli anni, insieme ad un altro grande studioso scomparso, Mario Vegetti, alla bellissima collana Autentici falsi d’autore, diretta da un altro amico, Giovanni Casertano, per la casa editrice Guida di Napoli. Berti realizzò, naturalmente, il “falso Aristotele”, Vegetti il “falso Platone” e io, indegnamente, il “falso Socrate”. 

Una grande occasione di arricchimento è stata poi, per me, la stesura di quella che è, ad oggi, l’unica monografia esistente sulla sua opera, Il pensiero filosofico di Enrico Berti (Petite Plaisance, 2013), con presentazione di Carmelo Vigna e postfazione dello stesso Berti. Con Vigna e Berti abbiamo peraltro condiviso lunghi periodi di intensi scambi epistolari, soprattutto sulla metafisica, che ho accuratamente raccolto. Parecchi di questi scambi emergono, in controluce, nel confronto fra metafisica umanistica e metafisica classica presente in E. Berti-L. Grecchi, A partire dai filosofi antichi (pagg.89-94), nonché in C. Vigna-L. Grecchi, Sulla verità e sul bene (pagg.29-37) e in L. Grecchi, Il pensiero filosofico di Enrico Berti (pagg.75-93).

Tra il 2016 ed il 2018, infine, ho curato tre volumi aristotelici, molto importanti in quanto hanno raccolto saggi dei principali studiosi di Aristotele italiani. Berti mi ha, anche qui, sempre benevolmente accompagnato. Ciascuno di questi tre volumi (Sistema e sistematicità in Aristotele; Immanenza e trascendenza in Aristotele; Teoria e prassi in Aristotele, tutti editi da Petite Plaisance), inoltre, si apriva con una conversazione fra me e Carmelo Vigna sui temi oggetto di analisi, cui sempre è seguita la presa di posizione di Enrico sulle nostre osservazioni.

Da Berti ho imparato molto, anzi moltissimo. Fra noi vi era una distanza anagrafica di circa 40 anni, e una relativa distanza geografica; mi confidò tuttavia una volta che sarebbe stato contento se fossi stato un suo studente a Padova, poiché il nostro rapporto avrebbe potuto così essere più stretto, nonostante alcune differenze nelle vedute filosofiche.

Concludo dicendo che, alla fine del nostro libro-dialogo, A partire dai filosofi antichi, Enrico ribadì la sua fede in un possibile ritorno alla vita dopo la morte, che ascoltai con doveroso rispetto. Su tante questioni teoriche, su cui inizialmente non concordavo, ho dovuto nel tempo ammettere che aveva ragione lui: spero possa essere così anche questa volta. In ogni caso, una parola vorrei dirgliela sin da ora: “Grazie Enrico, per tutto quello che hai fatto”.

Luca Grecchi

                                                                                                        5 gennaio 2022



M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio.
Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:

info@petiteplaisance.it,

e saranno immediatamente rimossi.

Josep M. Esquirol – La resistenza è condizione necessaria della possibilità del progetto comunitario, è azione responsabile, è lotta contro la continua disgregazione dell’essere, contro il nichilismo. Ma la resistenza non è immunologia, e non esiste senza modestia e generosità.

La resistenza è condizione necessaria della possibilità del progetto comunitario, è azione responsabile, è lotta contro la continua disgregazione dell’essere, contro il nichilismo. Ma la resistenza non è immunologia, e non esiste senza modestia e generosità

***

«Ci sono solitudini incomparabili nel loro tendere alla condivisione. In realtà, solo chi è capace di solitudine può stare davvero insieme agli altri. […] Il deserto è ovunque e in nessun luogo […]. Chi affronta il deserto è, soprattutto, un resistente. Non ha bisogno di coraggio per espandersi, bensì per raccogliersi e poter così resistere alle dure condizioni esterne. Il resistente non ambisce a dominare o colonizzare, né desidera il potere. Vuole anzitutto non perdere se stesso, ma anche, e specialmente, servire gli altri. Questo atteggiamento non va confuso con la protesta facile e stereotipata: la resistenza, in genere, è un atto discreto.

[…] Eppure non è sbagliato usare la parola resistenza per riferirsi, oltre agli ostacoli opposti dal mondo alle nostre pretese, alla fortezza che possiamo dimostrare nell’affrontare i processi di disintegrazione e corrosione provenienti dall’ambiente circostante e persino da noi stessi. Ed è proprio allora che la resistenza si rivela una profonda pulsione umana.

Il nostro esistere può essere considerato un resistere proprio perché una delle dimensioni della realtà è interpretabile come forza disgregatrice. Di fatto, la prova più dura a cui viene sottoposta la condizione umana è la continua disgregazione dell’essere. È come se le forze centrifughe del nulla volessero saggiare la capacità dell’uomo di resistere al loro assalto. Sebbene i volti dei nemici cambino nel tempo, non si tratta di una sfida legata all’oggi o al passato, bensì di una prova costante, perché è la realtà stessa – per esempio per mezzo del volto del tempo e della sua assoluta irreversibilità – a cingerci d’assedio.

[…] Il silenzio di chi si raccoglie è un silenzio metodologico – letteralmente, è “un cammino” – che cerca di “vedere meglio” […].

Se la resistenza si contrappone soprattutto alla disgregazione, sarà opportuno analizzare la natura specifica di alcune forze entropiche a cui dobbiamo la nostra situazione attuale (nichilismo è il nome di una di esse, forse la più rilevante) […].

[…] Abbiamo sottolineato che la resistenza intesa come raccoglimento non si contrappone all’idea di progetto, anzi, se adottiamo questa prospettiva, la resistenza diviene condizione necessaria della possibilità del progetto. Esistono, invece, una chiusura e un isolamento assolutamente sterili […] . Non ricevere né dare, ecco un isolamento che sta agli antipodi di quello del resistente, le cui orecchie sono invece sempre tese ad accogliere la parola amica, mentre il suo pensare generoso è fin dall’inizio rivolto ad una azione responsabile. La resistenza non è immunologia (da qui il nostro disaccordo con Sloterdijk).

[…] Il resistente non pensa solo, o prioritariamente, a se stesso. Ecco dunque gli elementi della resistenza politica: coscienza, volontà e coraggio, oltre a un’intelligenza strategica per organizzarsi da sé e continuare a lottare nonostante la persecuzione sistematica e inevitabile di cui sarà oggetto. […] Resistere alla tirannia e al totalitarismo significa opporsi alla disgregazione, perché quei regimi […] uniformano e forzano una totalità apparente e falsa.

[…] La forza del resistente viene dal profondo.

[…] La memoria e l’immaginazione (il fervore delle idee) sono le migliori armi a disposizione del resistente.

[…] Non esiste resistenza senza modestia o generosità. Per questo, la presunzione e l’egoismo sono sintomi della sua assenza. Narciso non è resistente.

[…] La vita può essere assolutamente profonda anche nella marginalità, perché quel che davvero conta è la possibilità, per ognuno di noi, di essere inizio. Solo se non si arretra nemmeno di un passo si può continuare a sperare …».

Josep Maria Esquirol, La resistenza intima. Saggio su una filosofia della prossimità, Vita e Pensiero, Milano 2018, pp. 9-17.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio.
Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:

info@petiteplaisance.it,

e saranno immediatamente rimossi.

Costanzo Preve (1943-2013) – Contro il capitalismo, oltre il comunismo. Riflessioni su una eredità storica e su un futuro possibile

Costanzo Preve

Contro il capitalismo, oltre il comunismo

Riflessioni su una eredità storica e su un futuro possibile

ISBN 978-88-7588-311-9, 2021, pp. 112, Euro 10 – Collana “Divergenze” [80].

In copertina: Vincent Van Gogh, Il seminatore, 1888, Van Gogh Museum, Amsterdam.

indicepresentazioneautoresintesi


In questo breve saggio sosterrò una tesi estremamente chiara, e nello stesso tempo estremamente discutibile ed a prima vista assurda e contraddittoria. In breve, sosterrò che il presupposto per una credibile prospettiva anticapitalistica futura è, fra le altre cose, il congedo irreversibile dal comunismo, da considerare come un grande fenomeno storico, legittimo ma anche compiuto, cioè concluso.

Questa tesi va indubbiamente contro un senso comune consolidato. Coloro che infatti aderiscono (in vari gradi di coscienza e consapevolezza) ai valori morali, economici e politici caratteristici del legame sociale capitalistico non hanno alcun interesse ad impegnarsi in una ennesima discussione sul comunismo, da loro ritenuto un’illusione criminale per fortuna tramontata e distrutta dalle proprie contraddizioni, e possono al massimo avere per il comunismo un interesse superficiale di tipo storico o filosofico. Coloro che invece in vario modo rifiutano il legame sociale capitalistico e vorrebbero sostituirlo, pensano invece che il mantenimento di una prospettiva storica di tipo “comunista”, anche dando per scontato che il termine resta vago ed incerto, rimane un presupposto insostituibile per dare un senso storico non puramente congiunturale al proprio rifiuto globale del capitalismo e del legame sociale complessivo che lo costituisce e lo riproduce.

Il paradosso di questo breve saggio sta nel fatto che esso si indirizza esplicitamente al secondo gruppo di persone, la cui identità ed il cui senso di appartenenza sarebbero messi però in pericolo da una semplice presa in considerazione di questa scandalosa tesi, per cui è probabile che non la prendano neppure in considerazione. Ed è un peccato, perché le considerazioni che seguiranno non sono state ispirate da un narcisistico impulso all’originalità pubblicistica, ma sono state mosse da un’urgenza etica, politica e filosofica. Il comico americano Woody Allen disse a suo tempo una battuta di grande profondità: «Comincio a preoccuparmi perché sempre più spesso scopro di avere idee che non condivido». L’idea che il comunismo, inteso come fenomeno globale ad un tempo storico e teorico, possa non essere stato e soprattutto non essere più in futuro un’adeguata forma di opposizione al capitalismo, non può che essere venuta spesso alla mente di comunisti onesti e pensosi sulla propria prospettiva storica e politica. Ma quest’idea, pure affacciatasi alla mente, viene subito respinta come dubbio iperbolico e come tentazione diabolica di integrazione ideologica nella società capitalistica. Questo rifiuto, su cui Freud avrebbe molto più da dire dello stesso Marx, non deve per nulla stupire, in quanto ne va dell’identità, dell’appartenenza, e spesso del senso complessivo della propria intera vita.

Chi scrive ha invece finito con il condividere coscientemente l’idea che gli era progressivamente venuta alla mente. Mettiamo pertanto questo scritto sotto il segno della formula di Woody Allen. Una simile opinione, già fortemente radicata, è stata rafforzata dalla mia partecipazione attiva ad un grande convegno internazionale di marxisti, tenutosi a Parigi nel maggio del 1998, in occasione del centocinquantenario della pubblicazione, nel 1848, del Manifesto del Partito Comunista di Karl Marx. In questo interessantissimo convegno internazionale mi è sembrato di poter verificare due ipotesi da tempo maturate, ed apparse con solare evidenza. In primo luogo, la rete politico-organizzativa che ha reso possibile il convegno, legata al Partito Comunista Francese (un tempo noto per il suo dogmatismo e la sua intolleranza), non solo si è servita di intellettuali di osservanza “eretica”, in particolare trotzkista, ma ha anche concesso a tutti gli intellettuali intervenuti la massima libertà espressiva possibile, per cui nel convegno si sono sentite tutte le tesi possibili, tutto ed il contrario di tutto. Questo è ovviamente positivo, e sarebbe bello interpretarlo come il segno di una profonda autocritica per la propria precedente intolleranza e per la propria precedente pretesa di controllo ideologico sulla produzione scientifica e filosofica (di cui furono vittime i migliori intellettuali marxisti del Novecento, da Lukàcs ad Althusser). Ma purtroppo le cose non sono così semplici. In realtà a me sembra che la rinuncia a proporre una propria sintesi teorica sul capitalismo contemporaneo e la dichiarazione eclettica, alla Feyerabend, che da oggi in poi nel marxismo everything goes, tutto va bene e si può dire ormai tutto, sia il segnale di una sostanziale irrilevanza della teoria, e della separazione ormai consolidata fra produzione teorica “di prospettiva” e tattica politica congiunturale, ispirata al “senso comune”, mai messo in discussione, per cui la socialdemocrazia è comunque meglio del cosiddetto neoliberalismo, e dunque Prodi, Jospin, Blair e Clinton sono comunque meglio dei loro equivalenti definiti sommariamente “conservatori”.

In secondo luogo, è emerso con una certa chiarezza il minimo comun denominatore su cui nei prossimi anni presumibilmente si assesterà a livello mondiale una nuova comunità accademico-universitaria di “marxisti della cattedra”, desiderosa di demarcarsi da altre comunità accademico-universitarie contigue o rivali (neoutilitaristi, neocontrattualisti, comunitaristi, individualisti, tradizionalisti-religiosi, eccetera). Si tratta dell’idea per cui Karl Marx è tuttora il massimo profeta ed il massimo sociologo della globalizzazione capitalistica mondiale oggi in atto, da lui prevista e delineata con ammirevole approssimazione. Il fatto che Marx avesse anche previsto la capacità storica operaia e proletaria di rovesciamento dei rapporti di produzione capitalistici, e che questa cruciale e centrale previsione storica non si è verificata, viene virtuosamente censurato e messo sotto silenzio, perché sarebbe appunto incompatibile con il consolidamento di una comunità accademico-universitaria di marxisti della cattedra, unificati oggi da Internet e dalla lingua inglese così come cento anni fa erano unificati dalla corrispondenza postale e dalla lingua tedesca.

Premetto di non essere assolutamente ostile a queste due novità sopra segnalate, e di non essere assolutamente nostalgico della situazione precedente, che era intollerabile. Da un lato, la libertà di opinione è panglossianamente meglio della persecuzione burocratica attuata in nome di una censura ideologica sulla produzione teorica critica, scientifica o filosofica. Dall’altro, voglio ribadire che il marxismo della cattedra, accademico-universitario, è comunque mille volte meglio del marxismo ideologico catacombale dei gruppetti militanti fondamentalisti che vogliono ricostituire il loro sistema teorico chiuso e paranoico (di tipo volta a volta operaista, staliniano, bordighista, maoista, trotzkista, eccetera). Non intendo dunque oppormi a queste due novità segnalate. Mi limito a segnalare che esse sono il sintomo, da non trascurare per colpevole superficialità trionfalistica, di una sostanziale irrilevanza politica di quello che un tempo era il dibattito marxista, legato con mille fili al comunismo politico. È bene allora interrogarsi apertamente sul comunismo, teorico e politico, nell’ottica del suo rapporto con un possibile anticapitalismo non nostalgico e residuale, ma pienamente all’altezza delle sfide storiche di oggi. È indubbio che con questa interrogazione scopriremo orizzonti assolutamente inediti ed inaspettati.


M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

Petite Plaisance – Pubblicazioni recenti

E-Books gratuiti

N.B. Le immagini e i video sono stati reperiti nel web e quindi considerati di pubblico dominio.
Qualora si ritenesse che possano violare diritti di terzi, si prega di scrivere al seguente indirizzo:

info@petiteplaisance.it,

e saranno immediatamente rimossi.

1 14 15 16 17 18 110