Edoarda Masi (1927-2011) – Lu Xun, classico solitario. La libertà di essere e restare comunisti si associa alla rivendicazione di autonomia dello scrittore in quanto tale dall’autorità politica.

Edoarda Masi, Lu Xun

La sfortuna di uno scrittore non è tanto essere attaccato o ignorato mentre è in vita. Ciò che è veramente tragico è se, una volta morto, le sue parole e azioni sono dimenticate e buffoni pretendono di essere suoi amici e dicono questo e quello per diventare famosi o arricchirsi, servendosi di un cadavere come strumento per ottenere notorietà e profitto.

Lu Xun, 1934

***

Il consenso massmediatico ai successi della Cina nella competizione economica internazionale e nella velocissima e superficiale imitazione di usi e costumi europei-americani-giapponesi ignora la realtà autentica di quel paese, la sua civiltà, la sua storia lontana e recente. Trascura le strade maestre della conoscenza, come la lettura dei grandi saggisti, primo fra tutti Lu Xun. Personaggio a un tempo centrale e solitario. Lu Xun oggi è un classico, incontestabilmente il più grande scrittore cinese del Novecento e fra i maggiori della saggistica mondiale. Eppure fu attaccato per anni da ogni parte, in vita, fino a quando la sua figura si impose al pubblico in misura tale da rendere sconsigliabili gli attacchi, come pure la persecuzione politica aperta. Ma rimane profonda l’ostilità in molti settori intellettuali, e periodicamente riemerge.

Il suo primo racconto, Il diario di un pazzo, fu accolto come una svolta storica nelle lettere cinesi. La novità non consisteva nel fatto che fosse scritto in volgare: gran parte della narrativa, inclusi alcuni dei massimi capolavori, era stata scritta in lingua parlata. E non sarebbe stato una novità neppure il carattere eterodosso, la sua opposizione alla morale e ai principi tradizionali e ufficiali: le più grandi opere della letteratura cinese sono opere di opposizione più o meno velata. Ma qui non si trattava di eterodossia all’interno di un contesto ma di rovesciamento: l’intera civiltà cinese era messa sotto accusa: «quattromila anni di cannibalismo». L’espressione «mangiatori d’uomini» (cannibali) sarebbe divenuta in breve proverbiale, ed è impiegata ancora oggi. Quanto alla «via dei re» – il buon governo – non è cosa diversa dalla «via dei tiranni». Se lo scandalo non fu poi così grande, tranne che presso i conservatori, è perché le condizioni di una rivoluzione formidabile erano già mature e Lu Xun dava voce a quello che molti già sentivano e pensavano. La gerarchia è il dato sociale fondamentale.

«In cielo ci sono dieci soli, fra gli uomini ci sono dieci classi. Gli inferiori servono i superiori, i superiori obbediscono agli spiriti immortali. Così i principi hanno sottoposti i duchi, i duchi i grandi dignitari, i grandi dignitari i gentiluomini, i gentiluomini i funzionari medi, i funzionari medi i funzionari di grado più basso, i funzionari di grado più basso gli impiegati, gli impiegati i servi, i servi i servi di infimo grado […]. Però per i servi di infimo grado non è assai penoso non aver sottoposti? Non c’è da preoccuparsi: ci sono, ancor più in basso, le mogli, ancor più deboli, i figli. E anche per i figli c’è speranza, cresceranno […]. A ciascuno tocca il suo […]. Questa civiltà non solo inebria gli stranieri ma ha già inebriato tutti quanti i cinesi, fino a farli sorridere».

Lu Xun deride i cinesi ignoranti e assoggettati, che rivendicano vuote glorie e peculiarità nazionali e superiorità morale. Con strazio senza perdono si denuda nell’alienazione estrema di personaggi come Ah Q o Kong Yiji. Attacca i funzionari delle classi dirigenti vecchie e nuove e in formazione, «rinviando il fair play» e guardando in faccia senza rimuoverla la condizione propria di abitante della periferia. Svestito l’abito della civiltà centrale offesa, è realmente cosmopolita perché colonizzato, nella miseria, fra i colonizzati del mondo. Anche i letterati occidentalizzanti e i sostenitori della «letteratura rivoluzionaria» furono oggetto della polemica e dell’ironia di Lu Xun. «Figli ribelli di famiglie

decadute»: i membri della Ozuangzao she (la «Società creazione») in particolare, dove decadentismo e lotta politica, romanticismo e rivoluzione, Nietzsche e surrealismo si mescolavano in un unico zibaldone, nutrimento del ribellismo di un ceto medio nascente. Erano gli stessi che attaccavano Lu Xun per i vizi di piccolo borghese, per la debolezza sentimentale e l’atteggiamento di spettatore alla finestra (anzi, con lo sguardo un po’ annebbiato, da una finestra d’osteria).

È compito degli intellettuali evitare la demagogia e aiutare il popolo a liberarsi dall’ignoranza e dai pregiudizi, che gli vengono dalla inferiorità anche culturale imposta dalle classi dominanti. «Gli studiosi […] spesso credono che espressioni relativamente nuove e difficili possano capirle loro ma non le masse e che quindi per il bene di queste sia necessario sbarazzarsene: per essi, più si è rozzi nel parlare e nello scrivere, meglio è. Se questa opinione si sviluppa, senza accorgersene finiranno per diventare una nuova corrente sostenitrice delle peculiarità nazionali. […] E arrivano, per “adeguarsi” alle masse, a deliberatamente impiegare espressioni volgari per guadagnarne il consenso […]».

Perfino la possibilità di comunicare per mezzo di una lingua comune resterà sterile privilegio del letterato, finché non si estenderà a tutti: è necessaria, per questo, la rivoluzione politica. Ma a cominciare dagli anni successivi alla fondazione della Repubblica Lu Xun è consapevole anche dell’insufficienza della politica. Prima che la liberazione maturi, il rinnovamento ancora in embrione tornerà a imputridire, riemergeranno le strutture del vecchio ordine, si riaffermerà la morale di colpevolizzazione degli individui e di invito al sacrificio, a garantire lo stato di oppressione del popolo. Alla necessità dell’azione politica e alla sua inadeguatezza fanno riscontro il significato peculiare e, ad un tempo, l’insufficienza della letteratura come strumento di rivoluzione. E l’insufficienza anche dei “lumi” che il letterato può trasmettere; più e più volte la realtà delude le speranze di mutamento. Lu Xun è fra gli scrittori che fin dall’inizio hanno avuto chiaro questo aspetto tragico del XX secolo, e per esso hanno visto cancellato o irriso il senso delle proprie parole.

Dal 1927 fino alla morte vive a Shanghai del lavoro di scrittore. Come decano partecipa alla fondazione della Lega degli scrittori di sinistra. Sembra che in questa fosse rispettato di più e contasse di fatto meno dei più giovani attivisti e organizzatori. Nell’indirizzo ad essi rivolto nel 1930 individua con una chiarezza precorritrice i fenomeni di integrazione della sinistra nel sistema dominante. In realtà – come risulta anche dall’epistolario nei primi anni Trenta – egli ha una coscienza lucida sia della propria condizione contraddittoria nel rapporto con la politica, sia della incompatibilità fra rivoluzione e attività auto-conservatrice degli apparati. Ormai è in corso la rivoluzione, la guerra civile nelle campagne e la lotta clandestina nella città. Lu Xun sa che il discorso letterario è un’allegoria. Allegorie sono perfino la professione di scrittore e le organizzazioni di scrittori. I giovani “scrittori di sinistra” sono in realtà militanti comunisti che svolgono attività politica clandestina più che attività letteraria. Vengono uccisi prima di raggiungere l’età in cui generalmente si è abbastanza maturi per diventare veri scrittori – qualche loro poesia ha la bellezza di un grido o di un lamento. La Lega è uno strumento del partito comunista per organizzare non tanto gli scrittori quanto la lotta politica. Se ne occupa, clandestinamente, Qu Qiubai, che è stato segretario del Pcc. Lu Xun collabora con lui, lo ospita nella sua casa. Durante le repressioni del Guomindang nel 1930-31 è ricercato dalla polizia ed è costretto a fuggire con la famiglia e a nascondersi. Sono vicende che rientrano nella “normalità”, coperte dalla normalità della vita quotidiana e dell’attività di scrittore. No c’è più bisogno né possibilità di confondere e surrogare la rivoluzione con la letteratura rivoluzionaria. Con l’invasione giapponese e la guerra di resistenza, la guerra civile è formalmente sospesa, il partito nazionalista e il partito comunista promuovono nel 1936 il fronte unito – in obbedienza, in Cina come in Europa, alle direttive dell’Internazionale comunista.

Nel periodo iniziale il mondo della cultura ebbe un ruolo rilevante nella sua formazione. Nella contingenza di un’apparente uscita dal settarismo da parte dei comunisti, di una liberalizzazione e apertura a tutte le correnti, si accentuava la pretesa delle dirigenze politiche di imporre le proprie direttive alla letteratura, in particolare definendone le tematiche. Da queste infatti la lotta di classe doveva essere esclusa, o dovevano esserne smussati i termini, per porre al centro l’antifascismo e la difesa nazionale. In Cina, come in Europa, la protesta contro la svolta in questi termini venne da grandi scrittori comunisti di spirito non servile (in Europa, in primo luogo da Bertolt Brecht al Primo congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura, a Parigi nel 1935).

Nel medesimo periodo Lu Xun, già quasi dal letto di morte, interviene in quella che fu chiamata «la battaglia degli slogan». Affinché l’alleanza sia la più larga e aperta – egli sostiene – ciascuna sua componente deve conservare la propria identità; così per i comunisti, i fini e i contenuti propri non possono essere sostituiti dal solo tema della «difesa nazionale». La «letteratura di difesa nazionale» è la porta aperta al patriottismo-nazionalismo, la mistificazione per anni presa di mira dalla sua satira. Egli accetta un fronte di lotta fondato sull’alleanza di classi diverse e di gente con opinioni diverse, per interessi temporaneamente e parzialmente comuni contro un comune nemico. «Non è che i letterati rivoluzionari debbano metter da parte il compito di guida della classe; anzi questo compito si deve fare ancor più pesante ed esteso.» La «letteratura di difesa nazionale», cioè il fronte unito indiscriminato e non qualificato, equivarrebbe alla proposta di battersi per gli interessi del nemico di classe (non opposti ma in competizione con quelli dell’aggressore imperialista). Ma Lu Xun va più in là, quando afferma che ciascuno scrittore può partecipare alla comune resistenza contro il nemico adottando qualsiasi forma, e trattando di qualsiasi argomento. La libertà di essere e restare comunisti si associa alla rivendicazione di autonomia dello scrittore in quanto tale dall’autorità politica. «La politica mira a bloccare le condizioni presenti realizzando l’unità […]. La letteratura provoca la scissione della società […]», aveva scritto nel 1927. Nel momento in cui la scelta rivoluzionaria è contro «la politica» che «mira a

realizzare l’unità», gli interessi del popolo e quelli dello scrittore tornano a coincidere.

 

Edoarda Masi, Lu Xun classico solitario, pubblicato su il manifesto del 9 gennaio 2005, p. 12


Edoarda Masi (1927-2011) – Una «rivoluzione culturale»: utopia necessaria nella società di oggi, che assume il profitto a valore dominante e universale, così come predicano gli apologeti del presente, i cinici ideologi del «mercato».

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Giacomo Leopardi (1798-1837) – Gli uomini compassionevoli sono sì rari, e la pietà è posta, massimamente in questi tempi, fra le qualità le più riguardevoli e distintive dell’uomo sensibile e virtuoso.

Giacomo Leopardi, compassione

«Ma la compassione che nasce nell’animo nostro alla vista di uno che soffre è un miracolo della natura che in quel punto ci fa provare un sentimento affatto indipendente dal nostro vantaggio o piacere, e tutto relativo agli altri, senza nessuna mescolanza di noi medesimi. E perciò appunto gli uomini compassionevoli sono sì rari, e la pietà è posta, massimamente in questi tempi, fra le qualità le più riguardevoli e distintive dell’uomo sensibile e virtuoso».

Giacomo Leopardi, Zibaldone, 108, aprile 1820, in Id., Zibaldone, ed. critica a cura di Giuseppe Pacella, Garzanti, Milano 1991, 3 voll.

Giacomo Leopardi – Cos’è la lettura per l’arte dello scrivere
Giacomo Leopardi (1798-1837) – Trista quella vita (ed è pur tale la vita comunemente) che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione
Giacomo Leopardi (1798-1837) – La felicità non è che la perfezione, il compimento della vita.
Giacomo Leopardi (1798-1837) – Un sorriso e una poesia possono aggiungere un filo alla trama brevissima della vita, accrescendo la nostra vitalità.
Giacomo Leopardi (1798-1837) – La più sublime, la più nobile tra le Fisiche scienze ella è senza dubbio l’Astronomia. L’uomo s’innalza per mezzo di essa come al di sopra di se medesimo.
Giacomo Leopardi (1798-1837) – «Dialogo della Moda e della Morte». La moda appartiene perciò a quel tipo di fenomeni che tendono a un’estensione illimitata. Cara Morte, mostri di non conoscere la potenza della Moda, perché ho messo nel mondo tali ordini e tali costumi, che la vita stessa, così per rispetto del corpo come dell’animo, è più morta che viva.
Giacomo Leopardi (1798-1837) – Parlerò della miseria umana, degli assurdi della politica, dei vizi e delle infamie non degli uomini ma dell’uomo.
Giacomo Leopardi (1798-1837) – Come l’uomo dimostra la grandezza e la potenza dell’umano intelletto, l’altezza e nobiltà sua, l’immensa capacità della sua mente.
Giacomo Leopardi (1798-1837) – Niente nella natura annunzia l’infinito, l’esistenza di alcuna cosa infinita. L’infinito è un parto della nostra immaginazione, della nostra piccolezza ad un tempo e della nostra superbia.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Antonio Prete – La compassione: una passione condivisa. Ma anche un patire in comune, un patire insieme. Una prossimità all’altro, alla sua ferita. La compassione muove anzitutto dal riconoscimento dell’altro in quanto corpo e linguaggio, pensiero e desiderio.

Antonio Prete, compassione

La compassione: una passione condivisa. Ma anche un patire in comune, un patire insieme. Una prossimità all’altro, alla sua ferita.
La compassione è tuttavia un sentimento raro. Perché rara è l’esperienza in cui il dolore dell’altro diventa davvero il proprio dolore. La parola «compassione» spesso copre, come un confortevole velo, un sentire in cui l’attenzione all’altro, alla sua pena, si accompagna a un certo compiacimento del soggetto compassionevole, a una silenziosa conferma della sua bontà d’animo.
Accade che il gesto visibile del soccorso possa ferire il pudore col quale l’altro ha nascosto la propria sofferenza, sottraendola con fatica all’altrui indiscrezione. Accade che la compassione possa invadere il doloroso silenzio di chi ha deciso di portare su di sé, con dignità, e forse fierezza, il fardello della propria pena […]. E succede anche che dalla propria quieta soglia si guardi all’affanno dell’altro come si osserva dalla sponda il dibattersi del naufrago nelle onde: il sottile, inconfessato piacere di trovarsi al sicuro può sovrastare e rendere fievole l’ansia per il pericolo in cui si trova l’altro. La compassione, ha ancora scritto qualcuno, è spesso soltanto una pacificazione di sé.
[…] Da qui la storica diffidenza dei filosofi – di quasi tutti i filosofi – per la compassione. Esclusa dall’albo delle forti virtù e del forte sentire. Non sempre catalogata tra le passioni. Osservata piuttosto come un sentimento proprio dei deboli. O risospinta nella terra nebbiosa delle religioni. Rinviata alle indecifrabili increspature di una sensibilità incline alla commozione o, femminilmente, al pianto (c ‘è sempre qualcuno che associa la lacrima alla donna). Oppure – e qui, bisogna ammettere, non mancano le ragioni – considerata come elusione, non sempre innocente, della domanda di giustizia e di eguaglianza. Come elusione di un compito che dovrebbe essere anzitutto politico: in effetti, la giustizia, non la compassione, può, o potrebbe, mettere ciascuno nella condizione di sopportare da se stesso gli oltraggi dell’esistenza. Ma anche questa posizione, che oppone giustizia sociale a compassione, si arresta dinanzi alle ferite che non hanno un’origine per dir così materiale, che non appartengono all’ordine dei bisogni e dei diritti: il dolore, del resto, ha un tale ventaglio di forme, visibili e nascoste, che ogni suo regesto appare provvisorio, parzialissimo. […]
La filosofia – quando non ha assunto il sentire della compassione a fondamento stesso di una morale, come è avvenuto con Rousseau e con Schopenhauer – ha mostrato di volta in volta gli aspetti ambigui, autoconsolatori, dolciastri, della compassione.
Scrittori e artisti hanno invece rappresentato, della compassione, i gradi e le forme del suo manifestarsi, la lingua, i gesti, la tensione conoscitiva. Hanno mostrato la grande scena in cui la compassione prende forma: la comunità dei viventi, la finitudine che unisce nello stesso cerchio tutti i viventi, uomini e animali. Con la singolarità dei loro corpi, e desideri, e ferite.
La rappresentazione letteraria, artistica e teatrale della compassione è l’ininterrotto racconto di una presenza, quella dell’altro, del suo volto, delle sue insondabili profondità. Una presenza che corrobora la stessa identità di colui che è soggetto dello sguardo. E smuove un sentire, che dal soggetto torna verso il sentire dell’altro. Diventa, infine, riconoscimento del legame che trascorre tra tuttigli esseri. Nell’orizzonte di questa comune appartenenza il dolore dell’altro non chiama l’indifferenza ma la prossimità.
Questo libro vuole mostrare, come per allineati tableaux di un’immaginaria esposizione, alcune figure di una storia della compassione, così come la scrittura e l’arte ce l’hanno consegnate. Ho detto «storia», ma è davvero un azzardo che si possa fare storia dei sentimenti, o storia delle passioni. Perché sentimenti e passioni hanno tante modulazioni e vibrazioni quanti sono gli individui viventi. E così è della loro rappresentazione, variegatissima. Ci si può soltanto affacciare sulla lingua del sentire, sulla lingua del patire, sui segni del loro apparire, sulle stazioni e le forme del loro svolgimento. […]

Se la compassione muove anzitutto dal riconoscimento dell’altro in quanto corpo e linguaggio, pensiero e desiderio, c’è un tempo in cui questo riconoscimento s’incrina o scompare. È il tempo tragico. La guerra è il nero trionfo di questo tempo tragico. E con la guerra, con l’oblio della compassione, l’esercizio sistematico della spietatezza. La tecnica, che ha affinato i modi della distruzione, si mette a servizio di questa morte della pietà. La disumanizzazione – e la violenza sulla natura e sulla stessa storia costruita dall’uomo – coincide con l’astrazione dalla singolarità vivente e senziente di ogni individuo, umano o animale. In questa astrazione la presenza dell’individuo – volto, nome, corpo, pensieri, sentimenti – è svuotata di senso, di palpito, di esistenza stessa. Narrazione e poesia hanno tuttavia mostrato come, nel cuore del tragico, e contro il furore dell’annientamento, si possa levare, proprio a partire dallo sguardo sul dolore altrui, il tu di una ritrovata fraternità. La compassione è lo spazio in cui, dal fumo della distruzione, si leva e disegna il profilo di questo tu.

Antonio Prete, Compassione. Storia di un sentimento, Bollati Borinhieri, Torino 2013, pp. 9-13.

Antonio Prete – Leggere è far respirare, insieme, l’immaginazione e il pensiero, è custodia dell’interiorità, è un ascolto silenzioso, è fare esperienza del tempo, contro la dissipazione, la distrazione, la spettacolarizzazione.
Antonio Prete – Solitudine vuol dire resistere all’opera di distrazione – distrazione da sé – messa in campo da tutto quello che è intorno: immagini, seduzioni, attrazioni. Solitario non è solo chi si rifugia nel deserto, ma anche chi, pratico del mondo, sa isolarsi nel cuore del tumulto.
Antonio Prete – “Interiorità” è parola che designa e non definisce, che indica e non recinge. Come la parola “amore”. O la parola “infinito”. Parole senza confini.

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Etty Hillesum (1914-1943) – È l’anima dell’uomo che spande la sua luce fuori. I dominii dell’anima e dello spirito sono tanto vasti e infiniti che un po’ di disagio fisico e di dolore non ha troppa importanza.

Etty Hillesum 02

«È l’anima dell’uomo o la sua essenza o comunque tu voglia chiamarla, che emerge da dentro e spande la sua luce fuori».

Etty Hillesum, 8.6.41, Diario 1941-1942, traduzione di Chiara Passanti, Tina Montone, Adelphi, Milano 2013, p.104.


«I dominii dell’anima e dello spirito sono tanto vasti e infiniti che un po’ di disagio fisico e di dolore non ha troppa importanza».

Etty Hillesum, 29.6.43, Lettere, edizione integrale, traduzione di Chiara Passanti, Tina Montone, Ada Vigliani, Adelphi, Milano 2013, p. 91.


«So che seguirà un periodo di umanesimo. Vorrei tanto poter trasmettere ai tempi futuri tutta l’umanità che conservo in me stessa, malgrado le mie esperienze quotidiane. L’unico modo che abbiamo di preparare questi tempi nuovi è di prepararli fin d’ora in noi stessi […]. Vorrei tanto vivere per aiutare a preparare questi tempi nuovi. Verranno di certo, non sento forse che stanno crescendo in me, ogni giorno».

Etty Hillesum, 20.7.42, Diario 1941-1942, traduzione di Chiara Passanti, Tina Montone, Adelphi, Milano 2013, p. 725.


Etty Hillesum (1914-1943) – L’uomo crea il suo destino dall’interno di sé. Ciò che determina il destino è come l’uomo si pone interiormente di fronte agli eventi della vita. Per conoscere la vita di qualcuno, bisogna conoscerne i sogni …

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Henry Miller (1891-1980) – La modernità che abbruttisce, la città folle, l’uomo malato di se stesso, ci hanno fatto abbandonare la via che in noi stessi (noi siamo i nostri stessi salvatori) deve portare dalla morte alla vita, dalla follia alla serenità.

Henry Miller 01

«La modernità che abbruttisce, la città folle, l’uomo malato di se stesso, ci hanno fatto abbandonare la via che in noi stessi (noi siamo i nostri stessi salvatori) deve portare dalla morte alla vita, dalla follia alla serenità. Solo certi messaggeri, certi folli, poeti, sconosciuti, barboni, cercatori si calano in se stessi, solitari tra altri solitari, per raggiungere questa divinità perduta».

Henry Miller, Conversazioni a Pacific Palisades, Guanda, Parma 1992. p. 144.

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Henrik Johan Ibsen (1828-1906) – Ridestare le loro coscienze, finché non si rendano conto di quanto è indegno il comportamento cui si sono abbandonati, per poi ricondurli al sentimento di tolleranza e d’amore verso il prossimo.

Henrik Johan Ibsen 01

«Ah, ridestare le loro coscienze, finché non si rendano conto di quanto è indegno il comportamento cui si sono abbandonati, per poi ricondurli, pentiti, al sentimento di tolleranza e d’amore verso il prossimo».

Henrik Johan Ibsen, Rosmersholm [1866]  (La casa dei Rosmer o Villa Rosmer), dramma in quattro atti, Einaudi, Torino 1990.

Rosmersholm è un dramma sconvolgente dall’inizio alla fine, e con un terribile crescendo di tragicità, di una tragicità che tocca i problemi più profondi della natura umana, che mostra la distanza tra ciò che l’uomo vuole e ciò che può. Mostra con una metafora l’indistruttibile capacità di felicità dell’uomo, quella capacità che, quando ogni scopo cessa di esistere, ogni aspirazione, ogni speranza, persino allora gioisce ancora di ogni minima cosa che le si offre, del lombrico che ha trovato quando è uscita a dissotterrar tesori. Rebekka vuole fare dell’uomo che ama una creatura nobile ed è felice quando lui la segue sulla passerella. Muore contenta, felice, muore nell’illusione di aver raggiunto il suo scopo; una conclusione senza dubbio adatta a far riflettere. Ma c’è proprio da chiedersi se questo riflettere induca a una commozione profonda per la debolezza umana o non piuttosto a un calmo sorriso. Ibsen ha molte affinità con Cervantes, con questo immortale creatore di un essere nobile”.

Georg Groddeck, prefazione a “Rosmersholm” di Henrik Ibsen, ed. Einaudi.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Etty Hillesum (1914-1943) – L’uomo crea il suo destino dall’interno di sé. Ciò che determina il destino è come l’uomo si pone interiormente di fronte agli eventi della vita. Per conoscere la vita di qualcuno, bisogna conoscerne i sogni …

Etty Hillesum 01

27 febbraio [1942] venerdì mattina, le dieci

L’uomo crea il suo destino dall’interno di sé. È quel che scrivevo mercoledì mattina, all’alba: poi ho avuto qualche turbamento di fronte a questa temeraria dichiarazione, perciò ne ho cercate le prove dentro di me. E improvvisamente tutto mi è parso così cristallino. Certo, ogni uomo crea il proprio destino dall’interno di sé. Le situazioni in cui possiamo trovarci in questo mondo non sono poi così tante: si è sposi, si è padri, si è mogli, si è madri, si è in prigione o guardie della prigione, questo non fa molta differenza, siamo circondati dalle stesse mura. E così via, poi va rielaborato. Ma ciò che determina il destino è come l’uomo si pone interiormente di fronte agli eventi della vita. Così è la vita. Non conosciamo la vita di qualcuno, se ne conosciamo solo gli elementi esteriori. Gli elementi esteriori, ahimè, non variano così tanto da una vita all’altra. Per conoscere la vita di qualcuno, bisogna conoscerne i sogni, gli stati d’animo, sapere quale rapporto ha con la moglie, con la morte, con le delusioni, con la malattia.

Etty Hillesum, Il gelsomino e la pozzanghera, Le Lettere, Firenze 2018,

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
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Leggendo «Padrone e servo» di L. N. Tolstoj. Un’altra storia è possibile. Lo stordimento dell’economicismo conduce l’anima verso la dispersione di sé. Il potere cerca di impedirci di vivere il momento qualitativo, in cui il mondo con i suoi incanti appare nella sua verità. La vera emancipazione è la liberazione dai pesi grevi che celano allo sguardo la fratellanza.

Lev Nikolaevič Tolstoj- Padrone e servo

Salvatore Bravo

Le storie contro la storia

Un’altra storia è possibile.
Il paradigma neoliberale non è l’unico periodare possibile.

Lo stordimento dell’economicismo conduce l’anima verso la dispersione di sé.

Il potere cerca di impedirci di vivere il momento qualitativo,
in cui il mondo con i suoi incanti appare nella sua verità.

La vera emancipazione è la liberazione
dai pesi grevi che celano allo sguardo la fratellanza.



Il mondo neoliberale non è la verità dell’essere umano.
Il neoliberismo – in continuità con le strutture di potere che separano, escludono e strumentalizzano – è l’effetto finale di logiche di potere che hanno attraversato il “secolo breve”. Accanto alla storia ufficiale vi è la storia parallela e carsica di un’altra umanità che non compare nei libri di storia, perché devono confermare il paradigma della divisione e dello sfruttamento. «La storia inizierà», affermava Marx «quando terminerà la legge della giungla».
Lungo la storia ci sono state esperienze di fratellanza che normalmente sono escluse dalla storia ufficiale e talvolta sono oggetto non solo di rimozione, ma anche di irrisione. Non solo la storia non è conclusa, ma è invece esperienza collettiva plurale. Vi sono testimonianze che dimostrano che un’altra storia è possibile e che il paradigma neoliberale non è l’unico periodare possibile e da scrivere.
La vita di Lev Nikolaevič Tolstoj (1828-1910), testimonia un’altra storia. La sua opera come la sua vita sono il dono di uno scrittore, di un uomo che ha vissuto per la comunità, ed ha dato dimostrazione che un’altra vita non è solo potenzialmente ipotizzabile, ma la si può mettere in atto. In un suo breve racconto, Padrone e iservo, descrive il percorso di due anime che escono dall’oscurità delle gerarchie, delle sovrastrutture, per ritrovarsi nella comune umanità. La vita è ritrovata quando è ormai persa per il padrone, la fine segna l’uscita dallo stordimento dell’economicismo, che conduce l’anima verso la dispersione di sé, verso «la sua notte oscura». L’ossessione per il denaro, per l’accumulo, il martello dell’economia che tutto annichilisce in nome del plusvalore, è la dannazione del padrone: la sua solitudine è attraversata dall’ossessione del calcolo. Quest’ultimo segna la sua tragica distanza dal mondo e la sua solitudine:

 

«Non aveva sonno. Stava disteso lì e pensava: pensava sempre a quell’unica cosa che costituiva l’unico scopo, senso, gioia e orgoglio della sua vita, – a quanto denaro avesse già messo da parte e a quanto ancora avrebbe potuto guadagnarne; e a quanto denaro avessero accumulato e possedessero ora altre persone di sua conoscenza, e a come costoro avessero accumulato e continuassero ad accumulare denaro, e a come lui, proprio come loro, potesse accumulare ancora molto, molto denaro. L’acquisto del bosco di Gorjàtchkino era per lui un affare di enorme importanza. Sperava di trarre da quel bosco un guadagno di diecimila rubli, tutti d’un colpo. E cominciò nei suoi pensieri a far la stima del bosco, che aveva veduto in autunno, e in cui aveva contato tutti quanti gli alberi per un tratto di due “desjàtine”. “Le querce daranno legno per pattini. Per i tagli non c’è problema. E di legna si farà un 30 ‘sàgieni’ ogni ‘desjàtina’” diceva a se stesso. “E ogni ‘desjàtina’, mal che vada, verranno almeno 200 rubli. Con i più magari anche un biglietto da 25, perché no. Per cui 56 ‘desjàtine’, 56 centinaia, con in più 56 decine, più un’altra volta 56 decine, e più 56 cinquine… “. Vide che il risultato doveva superare i dodicimila rubli, ma senza il pallottoliere non riusciva a capir bene di quanto precisamente li superasse. “Diecimila comunque non gliene do, gliene darò ottomila, e non metteremo in conto le radure. L’agrimensore me lo lavorerò un po’ io, potrei dargli un cento rubli, o magari anche cinquecento; e lui mi segnerà cinque ‘desjàtine’ di radure. Cosi quello là me lo darà per ottomila. Adesso ne ho qui 3000, pronti sull’unghia. Si raddolcirà di sicuro a vederli” pensava, tastando con l’avambraccio il portafogli che aveva in tasca. “E come abbiamo fatto a perderci dopo la svolta Dio solo lo sa! Qua dovrebbe esserci il bosco, con il casotto del guardiacaccia. Si sentissero almeno i cani. Ma ti dico io, mai che abbaino quando serve”. Scostò il bavero dall’orecchio e si mise in ascolto; si udiva sempre il medesimo fischiare del vento, e in cima alle stanghe lo sventolio e gli schiocchi del fazzoletto, e le frustate della neve sul tiglio delle stanghe. Si nascose di nuovo sotto il bavero».[1]

 

Ossessione
L’ossessione per i suoi affari, il sospetto che qualcuno gli potesse soffiare l’acquisto per il quale era in trattative, lo inducono a sfidare le intemperie, ad affrontare il negativo, in questo caso simbolizzato dalla tempesta furiosa di neve, dai lupi che ululano, dal vento che non smette di tormentare cose e persone: nella notte buia trova rifugio, ma ancora il pensiero ossessivo riprende vigore e lo costringe a lasciare l’ospitalità che lo protegge. Eppure in questa notte, mentre il mondo sfuma con le sue certezze, dall’anima senza fondo comincia ad emergere la paura, si incrina la sicurezza del padrone, il suo sentirsi “altro” rispetto ai comuni mortali, mentre perde il controllo emerge la sua umanità, e la sua verità:

«”Oh, che notte lunga!” pensò Vasilij Andreitch, sentendo il gelo corrergli lungo la schiena, e, riabbottonatosi e riavvoltosi nella pelliccia, si strinse contro l’angolo della slitta, preparandosi alla paziente attesa. A un tratto, in mezzo al rumore sempre uguale del vento udì distintamente un suono nuovo, vivo. Il suono si rafforzava via via, giunse a una perfetta nitidezza, e poi cominciò via via a indebolirsi. Non vi era alcun dubbio che si trattasse di un lupo. E questo lupo era così poco lontano, che lo si udiva, nel vento, mutare i suoni della voce, rigirando le mascelle. Vasilij Andreitch scostò il bavero e ascoltò attentamente. Anche Baio ascoltava, tendendosi tutto, muovendo le orecchie ora in una direzione ora in un’altra, e quando il lupo ebbe terminato d’eseguire la sua cadenza, cambiò la posizione delle gambe e sbuffò, per avvertire gli uomini. Dopo di ciò Vasilij Andreitch non riuscì più non soltanto ad addormentarsi, ma nemmeno a calmarsi. Per quanto si sforzasse di pensare ai suoi conti, ai suoi affari e alla sua gloria e dignità e ricchezza, la paura si impadroniva di lui sempre più, e sopra a tutti i suoi pensieri dominava e a tutti i suoi pensieri si mescolava il pensiero del perché egli non fosse rimasto a Grischkino per la notte. “Dio se lo prenda, quel bosco, ne avevo di affari anche senza quel bosco, grazie a Dio».[2]

L’anima, tormentata dall’ossessione dell’affare riprende vigore, il suo flusso di coscienza è inarrestabile, ipotizza di lasciare il servo per proseguire da solo. Ma il percorso è praticamente impossibile, il muro di neve e buio gli fanno perdere l’orientamento, non si arresta, ma ormai ha perso ogni punto di riferimento. Ora che la vita sembra essere minacciata, l’ossessione lo abbandona, pochi passi nella neve e involontariamente ritorna dal suo servo. Lo ha abbandonato al suo destino, lo ha tradito per il denaro, ma ora che il mondo con le sue lusinghe tace, dinanzi al servo che rischia la morte, si ritrova, vede nel servo il fratello che vive il suo stesso destino. Si stende su di lui per proteggerlo, per riscaldarlo, prova una triste gioia nel gesto di sentirsi al contatto con il servo, è per lui la prima volta che le gerarchie tacciono, semplicemente è dinanzi ad un altro essere umano che soffre come lui, non è più solo per la prima volta nella sua vita:

«”Ah, vedi, e dicevi che morivi. Sta’ disteso, scaldati, ecco come facciamo noialtri… ” cominciò a dire Vasilij Andreitch. Ma con suo grande stupore non riuscì a dire altro, perché le lacrime gli spuntarono negli occhi e la mascella cominciò a tremargli forte. Smise di parlare e si limitò a inghiottire quel che gli stava salendo in gola. “Mi devo essere proprio spaventato tanto, da esser così debole adesso” pensò di sé. Ma questa debolezza non soltanto non gli riusciva sgradita, ma gli procurava una gioia particolare, che non aveva ancora mai provato. “Ecco come siamo noi” diceva a se stesso, provando una commozione particolare, trionfante. E per un tempo piuttosto lungo rimase disteso così, asciugandosi gli occhi sul pelo della pelliccia e infilandosi sotto il ginocchio il lembo destro della pelliccia, che il vento continuava a rivoltargli. Ma aveva una voglia appassionata di parlare a qualcuno di quella gioia che si sentiva dentro. “Nikita!” disse. “Sto bene, sto caldo” si sentì rispondere da sotto. “E così, fratello, io ancora un po’ ed ero perduto, sai. E tu ti saresti congelato, e anch’io… ” Ma di nuovo cominciarono a tremolargli i pomelli, e di nuovo gli occhi gli si riempirono di lacrime, e non riuscì a dire nient’altro. “Be’, non importa” pensò. “Quel che so, lo so io per conto mio”. E tacque. Cosi rimase a lungo. Sentiva caldo da sotto, perché c’era Nikita, e sentiva caldo anche da sopra, perché sopra c’era la pelliccia; soltanto le mani, con cui egli teneva le falde della pelliccia sui fianchi di Nikita, e le gambe, da cui il vento continuava a rovesciargli via la pelliccia, cominciavano a gelarglisi. Gli si stava gelando in particolar modo la mano destra, che era senza guanto. Ma lui non pensava né alle sue gambe, né alle mani, ma pensava soltanto a scaldare il meglio possibile il “mugik” che gli giaceva sotto».[3]

 

Alla fine la vita è persa, ma ha ritrovato il suo senso. Il gesto del dono gratuito lo trasfigura, l’uomo che muore per salvare il servo e l’uomo ossessionato dal capitale sono due uomini diversi. Nella vita del padrone, ormai solo un uomo che cerca il fratello è entrato il tempo cairologico,[4] il tempo della qualità che muta e trasfigura la vita nell’unità della fratellanza.
Il potere, sembra dirci Tolstoj, cerca di impedirci di vivere il momento qualitativo, in cui il mondo con i suoi incanti appare nella sua verità, nelle sue etiche tragedie. La liberazione dai pesi grevi che celano allo sguardo la fratellanza è la vera emancipazione. Ma, per ritrovarsi, spesso si deve attraversare la notte oscura, con i suoi dubbi dolorosi.

Così Tolstoj narra gli ultimi pensieri di Vasilij prima della morte:
«E si rammenta che Nikita è lì disteso sotto di lui e che si è scaldato ed è vivo, e gli sembra di esser lui Nikita e che Nikita sia lui, e che la sua vita non sia in lui stesso ma in Nikita. Si mette in ascolto, e sente il respiro, e persino il leggero russare di Nikita. “È vivo, Nikita, e dunque anch’io sono vivo” dice a se stesso con aria di trionfo. E si ricorda dei soldi, della bottega, della casa, degli acquisti, delle vendite e dei milioni dei Mironov; fa fatica a capire perché quest’uomo che chiamavano Vasilij Brechunòv si occupasse di tutte le cose di cui si occupava. “Be’, è perché non sapeva qual era il punto” pensa di Vasilij Brechunòv. “Non lo sapeva così come io lo so adesso. E adesso non mi sbaglio. Adesso so”. E sente di essere libero, e non c’è più nulla che lo trattiene. E null’altro vide e udì e sentì in questo mondo Vasilij Andreevic. Intorno tutto era ancora avvolto dal nevischio».

Salvatore Bravo

[1] Lev Tolstoj, Padrone e servo, Freedbookss 2012, pp. 40-41.

[2] Ibidem, pag. 45.

[3] Ibidem, pp. 53-54.

[4] Cairologico dal greco καιρός “momento opportuno o speciale”.

«Poiché la vita è essenziale quanto la libertà, la lotta termina innanzitutto, come negazione unilaterale, con la seguente disuguaglianza. Uno dei due combattenti preferisce la vita, si conserva come autocoscienza singolare, ma rinuncia al suo essere riconosciuto; l’Altro, invece, si mantiene saldo alla sua autorelazione, e viene riconosciuto dal primo come da un assoggettato. Si ha così il rapporto tra signoria e servitù».

G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Leggendo «Il Monaco nero» di A. P. Čechov. La vera gioia è nell’ascolto della creatività. La creatività massimamente espressa è l’atto di sentire e cogliere la profonda forza germinatrice della vita che lega l’essere umano all’unità dell’universo.

Čechov Anton Pavlovič , Il monaco nero
Salvatore Bravo

La vera gioia è nell’ascolto della creatività



Il capitalismo assoluto è sistema senza alterità, quest’ultima è possibile dove vige la creatività. La pluralità implica un lavoro di traduzione, ovvero di avvicinamento senza possibilità di sovrapposizione all’altro. L’attività creativa umana pone ponti, ma non sono mai percorribili in toto, le identità restano inafferabili, perché creatrici e germinatrici di vita. Senza tale processo la comunità è solo “luogo computazionale”, in cui regna l’intelletto unico, prospettiva eguale, che rende le attività automatiche e sincrone. Il grande sogno del capitalismo assoluto è la realizzazione di questo immenso intelletto comune mediante il quale ridurre l’alterità, il pericolo della creatività a semplice “attività organica al sistema”. Si tratta di realizzare compiutamente l’atomismo per impedire lo scambio creativo e politico.
La divisione facilita l’installarsi dell’intelletto computazionale comune, l’anomia diventa la legge del capitale. Se ognuno è come gli altri il sistema è protetto da critiche e prassi e può in tal modo eternizzarsi e diventare globale. Si tratta di utilizzare il senso comunitario nel suo negativo, ovvero da “essenza della relazione per creare” a sterile contatto trasmissivo di informazioni, a uso del capitale umano ai soli fini produttivi. Alla vita, che con i suoi processi semina altra vita, si sostituisce la violenza della sola produzione, dell’accumulo divenuto mezzo e fine del sistema. È il nuovo imperativo categorico che i popoli debbono prima omaggiare e poi trasformare nell’unico modello da realizzare. È il regno dell’ultimo uomo descritto da Nietzsche, la mediocrità sterile che diviene legge della vita.

Il regno dell’ultimo uomo è stato profetizzato anche nella letteratura russa. La mediocrità divenuta legge è descritta come parametro medico, a cui ci si deve conformare. La medicalizzazione dell’alterità, di coloro che vivono lo spirito dionisiaco e dunque creativo, è ben descritto da A. Čechov in un breve racconto Il monaco nero, con il quale descrive la medicalizzazione del diverso, dello spirito creativo. Nel racconto vi è il montare di una scienza minacciosa che tutto vuole assimilare a paradigmi ritenuti “oggettivi”. Scienza medica incapace di metalettura, e dunque al servizio dei poteri di normalizzazione. Nel racconto dello scrittore russo emerge dunque, il problema della creatività e specialmente la domanda su che cosa sia la creatività e quale sia la sua genealogia. Anton Pavlovič Čechov (Taganrog, 29 gennaio 1860 – Badenweiler, 15 luglio 1904) per poter denunciare la minaccia del potere di normalizzazione che avanza chiarisce che la creatività massimamente espressa nel genio è l’atto di sentire e cogliere la profonda forza germinatrice della vita che lega l’essere umano all’unità dell’universo. La creatività è un dentro ed è contemporaneamente un fuori, è dunque relazione nella profondità di sé che apre varchi verso il mondo, verso la comunità, è attività che forma ed informa le relazioni. Il monaco che il protagonista scambia per allucinazione, in realtà è l’io profondo nel quale ciascuno intuisce la presenza della vita non sclerotizzata in forme precostituite, ma che necessita di essere tradotta in forme sempre vive:

«”Devi essere un miraggio”, disse Kovrin.Perché poi te ne stai qui fermo seduto? La leggenda e diversa. E lo stesso rispose il monaco non subito, piano, girando la faccia verso di lui. La leggenda, il miraggio e io, tutto questo e un prodotto della tua immaginazione eccitata. Sono un fantasma.Quindi, non esisti? chiese Kovrin. Pensala come ti pare rispose il monaco e fece un lieve sorriso. Esisto nella tua immaginazione, e la tua immaginazione fa parte della natura, quindi esisto anche in natura. Hai una faccia molto vecchia, intelligente e moltissimo espressiva, proprio come se vivessi davvero da più di mille anni disse Kovrin. Non sapevo che la mia immaginazione fosse in grado di creare fenomeni del genere. Ma perchè mi guardi con tanto entusiasmo? Ti piaccio? Sì. Sei uno dei pochi che si possono giustamente chiamare eletti da Dio. Sei al servizio della verità eterna. I tuoi pensieri, le tue intenzioni, i tuoi studi sorprendenti e tutta la tua vita portano un’impronta divina, celeste, poiché sono dedicati al razionale e al bello, ossia a ciò che e eterno. Hai detto: verità eterna… Ma e accessibile e necessaria, agli uomini, la verità eterna, se la vita eterna non esiste? La vita eterna esiste disse il monaco. Tu credi nell’immortalità degli uomini? Sì, certo. Un grandioso, brillante futuro aspetta voi uomini. E più sulla terra ci sono uomini come te, prima si realizzerà questo futuro. Senza associazione culturale Larici di voi, al servizio del principio supremo, che vivete con coscienza e liberta, l’umanità sarebbe insignificante; sviluppandosi in modo naturale, aspetterebbe ancora a lungo la fine della propria storia terrestre. Voi invece la fate entrare con qualche migliaio d’anni di anticipo nel regno della verità eterna – e in questo sta il vostro grande merito. Voi incarnate la benedizione divina che riposa negli uomini. E qual e il fine della vita eterna? chiese Kovrin. Come di tutte le vite: il piacere. Il piacere autentico sta nella conoscenza, e la vita eterna offre innumerevoli e inesauribili fonti di conoscenza, in questo senso e scritto: nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se tu sapessi com’e piacevole starti a sentire! disse Kovrin sfregandosi le mani dalla soddisfazione. Sono molto contento. Ma lo so: quando te ne andrai, la questione della tua essenza non mi dara pace. Sei un fantasma, un’allucinazione. Quindi sono malato di mente, anormale?». [1]

 

Vera gioia è nell’ascolto della creatività
La vera gioia è nell’ascolto della creatività fine a se stessa che rompe i limiti dello spazio e del tempo per armonizzare il soggetto con il cosmo, il quale è un organismo sempre vivo, l’anima mundi è la legge che “passa” e “vive” nell’atto creativo donando gioie non estemporanee, ma che si radicano in emozioni e formano strutture caratteriali positive. Il creativo non è invidioso, perché ha in sé più vita. La creatività insegna che per “essere diversi” non c’è bisogno di essere fenomeni da baraccone da vendere nel mercato dell’immagine. La diversità è l’ascolto del proprio “demone” come Socrate ci ha già insegnato. Se non si ascolta la propria voce interiore, la creatività è solo un volgare succedaneo di se stessi, pertanto diviene esibizionismo egocentrico, visivo e logorroico. La creatività autentica è nell’atto di coltivare il proprio sé profondo nel quale reincontrare se stessi e l’umanità intera. La mediocrità da sistema vuole avvelenare la fonte della libertà per imporre la normalità statistica come legge scientifica, e dunque si arroga il diritto di normalizzare e sanare chiunque rompa il protocollo del sistema gregge:

«E se fosse. Non c’è da essere imbarazzati. Sei malato perché hai lavorato al di là delle tue forze e ti sei esaurito, e quindi hai sacrificato la tua salute all’idea ed e vicino il tempo in cui le darai la vita stessa. Cosa c’è di meglio? E l’aspirazione di tutte le nature nobili che hanno doti celesti. Se so di essere malato di mente, posso credere in me stesso? Ma come fai a sapere che le persone geniali a cui crede tutto il mondo non abbiano visto fantasmi anche loro? Ora gli scienziati dicono che il genio sia affine alla follia. Amico mio, sani e normali sono solo i mediocri, che stanno in mezzo al branco. Le riflessioni sull’epoca delle malattie nervose, del sovraffaticamento, della degenerazione e cosi via possono mettere in seria agitazione solo chi vede lo scopo della vita nel presente, cioè quelli che stanno nel branco. I romani dicevano: mens sana in corpore sano. Non tutto quello che dicevano i romani o i greci e vero. L’animazione, l’eccitazione, l’estasi: tutto quello che distingue i profeti, i poeti, chi soffre per un’idea, dagli uomini normali e l’opposto dell’aspetto animalesco dell’uomo, cioè della sua salute fisica. Ripeto: se vuoi essere sano e normale, entra nel branco. E strano, ripeti quello che spesso viene in mente a me disse Kovrin. Sembra che abbia spiato, origliato i miei pensieri reconditi. Ma non parliamo di me. Cosa intendi per verità eterna?”». [2]

 

Nel regno del dicitur
L’attività creatrice è oggi osannata solo se funzionale al sistema produttivo, ma la creazione per sua natura risponde solo a se stessa, la creatività è anarchica. Il creativo oggi è perennemente minacciato, la pletora di messaggi che gli giungono, le pressioni istituzionali e la logica dell’utile inquinano il contatto con “il monaco nero”. Ognuno gioca la sua partita esistenziale nel coraggio di dire “sì” a se stesso, in un mondo che osanna i “dicitur”. Solitudine del genio e solitudine dell’umanità intera suddita di valori che necrotizzano la gioia e la fiducia nel proprio io profondo. Il potere si installa fin nelle viscere della persona, svuotandola e riducendola a semplice copia perfettamente sostituibile. La violenza diventa, così, legge, perché colui che è stato defraudato di sé diventa portatore di rabbia ed aggressività. Dobbiamo imparare dagli uomini che vissero la gioia:

«Nell’antichità un uomo felice fini per aver paura della propria felicita tanto era grande! – e, per propiziarsi gli dei, porto loro in sacrificio il suo anello preferito. Lo sai, anche me, come Policrate, comincia un po’ a inquietare la mia felicita. Mi sembra strano di provare dal mattino alla notte solo gioia, mi riempie tutto e ottunde tutti gli altri sentimenti. Non so cosa sia la malinconia, la tristezza o l’angoscia. Come ora che non dormo, ho l’insonnia, ma non mi angoscio. Dico sul serio: comincio a non capacitarmene. Ma perché? si stupì il monaco. La gioia e forse un sentimento sovrannaturale? Non deve essere la condizione normale dell’uomo? Più è elevato lo sviluppo intellettuale e morale di un uomo, più è libero, più piacere gli dà la vita. Socrate, Diogene e Marco Aurelio provavano gioia, non tristezza. Anche l’apostolo dice: Rallegratevi sempre. Quindi rallegrati e sii felice”».[3]

Il protagonista muore, perché è stato oggetto di un’operazione di normalizzazione, la morte fisica è il completamento della sua morte psichica avvenuta con la sua normalizzazione, con la scissione da se stesso con la quale ritrovare la acclamata normalità che il sistema vuole:

«Un’ altra colonna nera simile a un vortice o a una tromba d’acqua apparve sull’ altra riva della baia. Attraversava la baia a velocita spaventosa in direzione dell’ albergo, diventando sempre più piccola e scura, e Kovrin fece appena in tempo a scansarsi per lasciarla passare… Un monaco con la testa canuta scoperta e le sopracciglia nere, a piedi nudi, le braccia incrociate sul petto, gli sfreccio accanto e si fermo in mezzo alla stanza. Perché non mi hai creduto?” domando con aria di rimprovero, guardando tenero Kovrin. Se allora avessi creduto che sei un genio, questi due anni non li avresti passati in modo cosi triste e misero.” Kovrin credeva già di essere un eletto da Dio e un genio, gli vennero in mente nitide tutte le conversazioni precedenti col monaco nero e voleva parlare, ma il sangue gli usci dalla gola dritto sul petto e lui, non sapendo che fare, si passava le mani sul petto e i polsini gli si intrisero di sangue. Voleva chiamare Varvara Nikolaevna che dormiva dietro il paravento, fece uno sforzo e disse: Tanja!” Cadde a terra e, sollevandosi sulle braccia, chiamo di nuovo: Tanja!”».[4]

La morte del genio è la morte dell’occidente culturale che in nome dell’utile e della sicurezza ha rinunciato all’essenziale per il superfluo, in questo scambio vi è la verità del capitalismo assoluto che abbaglia per favorire “la cecità di massa”.

Salvatore Bravo

 

[1] Anton Pavlovič Čechov, Il monaco nero, associazione culturale Larici http://www.larici.it pagg. 12-13.

[2] Ibidem, pag. 13.

[3] Ibidem, pag. 17.

[4] Ibidem, pag. 24.

M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.
M. Ludovico Dolce, Dialogo nel quale si ragiona del modo di accrescere e conservar memoria, Venezia 1562.

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Karen Blixen (1885-1962) – Perché «Petite Plaisance»? Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, o altri vedranno una cicogna? La prima dote è l’immaginazione.

Karen Blixen 01

Le strade della vita

Quand’ero bambina, mi mostravano spesso un disegno – un disegno animato in un certo senso: tracciandolo sotto i miei occhi, raccontavano anche una fiaba, che diceva così:

Un uomo viveva in una casupola tonda con una finestra tonda e un giardino a triangolo. Non lontano da quella casupola c’era uno stagno pieno di pesci. Una notte l’uomo fu svegliato da un rumore tremendo e uscì di casa per vedere cosa fosse accaduto. E nel buio si diresse subito verso lo stagno.

A questo punto il narratore cominciava a disegnare la pianta delle strade percorse dall’uomo come si fa quando si indicano sulla carta gli spostamenti di un esercito.

Prima l’uomo corse verso nord, ma inciampò in un gran pietrone nel mezzo della strada; poi, dopo pochi passi, cadde in un fosso; si levò; cadde in un altro fosso, si levò, cadde in un terzo fosso e per la terza volta si rimise in piedi.

Allora capì di essersi sbagliato e rifece di corsa la strada verso nord.
Ma ecco che gli parve di nuovo di sentire il rumore a sud e si buttò a correre in quella direzione.

Prima inciampò in un gran pietrone nel bel mezzo della strada, poi dopo pochi passi, cadde in un fosso, si levò, cadde in un altro fosso, si levò, cadde in un terzo fosso e per la terza volta si rimise in piedi.

Il rumore, ora lo avvertiva distintamente, proveniva dall’argine dello stagno. Si precipitò e vide che avevan fatto un grande buco, da cui usciva tutta l’acqua con i pesci. Si mise subito al lavoro per tappare la falla, e solo quando ebbe finito se ne tornò a letto.

La mattina dipoi affacciandosi alla finestrella tonda – il racconto finisce così, in maniera drammatica – che vide? Una cicogna!

Son contenta che mi abbiano raccontato questa fiaba. Al momento giusto mi sarà di aiuto. L’avevano imbrogliato, l’ometto, e gli avevano messo tra i piedi tutti quegli ostacoli: «Quanto mi toccherà correre su e giù?», si sarà detto. «Che nottata di disdetta!».
E si sarà chiesto il perché di tante tribolazioni: non lo poteva sapere davvero che quel perché era una cicogna.
Ma con tutto ciò non perse mai di vista il suo proposito, non ci fu verso che cambiasse idea e se ne tornasse a casa, tenne duro fino in fondo. Ed ebbe la sua ricompensa: la mattina dopo vide la cicogna. Che bella risata si dovette fare.

Questo buco dove mi muovo appena, questa fossa buia in cui giaccio, è forse il tallone di un uccello?

Quando il disegno della mia vita
sarà completo,
vedrò,
o altri vedranno una cicogna?

Karen Blixen, La mia Africa, Feltrinelli, Milano 2002, pp. 198-200.




«Ricordava quante volte il padre aveva riso di lei perché […]  sapeva vedere un problema sotto un solo aspetto. “La prima dote, ragazza mia, di cui si ha bisogno per comportarisi come persosne ragionevoli ed equilibrate, è l’immaginazione» (pp. 22-23).

«La bellezza della natura, la musica, la poesia e l’arte, sono indissolubilmente legate all’amore» (p. 170).

Karen Blixen, I vendicatori angelici, Adelphi, Milano 1994.

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