Max Frisch (1911-1991) – In amore non si vede un punto di arrivo, né un appagamento. L’amore autentico è solo un continuo proseguire.

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«In amore non si vede un punto di arrivo, né un appagamento.
L’amore autentico è solo un continuo proseguire».

Max Frisch, II silenzio. Un racconto dalla montagna (Antwort aus der Stille. Eine Erzählung aus den Bergen, 1937), trad. di Paola Del Zoppo, Roma, Del Vecchio Editore, 2013.

Max frisch, Antwort aus der Stille, copertina della prima edizione.

Quarta di coepertina

Balz Leuthold non ha mai voluto essere una persona ordinaria. Poco prima del suo trentesimo compleanno, però, si rende conto di non potersi neanche considerare davvero una persona straordinaria. Nella vita, fino a ora, non ha compiuto azioni degne di particolare nota, nessuna invenzione, nessuna creazione artistica o letteraria che lo elevino a persona speciale. Allora ha preso una decisione: scalerà quella montagna che da giovane guardava ergersi sulle sue passeggiate, che faceva ombra ai discorsi con il fratello “adulto”. Compirà un atto eroico, e con questa azione “virile” darà un senso compiuto alla sua esistenza. È deciso: azione o morte. Ma giunto in montagna alla locanda dove sostava anche in gioventù, incontra una giovane straniera, che lo guarda e lo vede come nessuno fino ad allora lo ha mai guardato e visto. Chi è lei, da che vita proviene? Perché sembra non aver paura di nulla? E dall’incontro tra i due scaturiscono gli interrogativi, e la narrazione si sviluppa e trascina via il lettore proprio come un torrente montano scorre rumoreggiando tra i crepacci, e il vortice di pensieri e accadimenti lascia senza fiato, travolge come il senso di assoluto degli ambienti montani, dove il sorgere del giorno e il calare della notte sono eventi che penetrano le fibre dell’individuo tanto quanto fame, sonno e sete. E la domanda echeggia: cosa fa di una vita una vita veramente compiuta? Ha a che fare, questo, con la felicità?

Franco Rella – Progettare significa costruire il luogo della differenza, perché ciò che è solo possibile diventi reale. I progetti sono infatti “frammenti dell’avvenire”. Il progetto è il germe soggettivo di un oggetto in divenire.

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«Progettare significa costruire il luogo della differenza, perché ciò che è solo possibile diventi reale. In questo senso, tutta la speculazione del primo Schlegel intorno alle figure della combinazione della pluralità, e in primo luogo intorno all’arabesco, sono la definizione di questo progetto e, in questo, atopiche, vale a dire in grado di trasformare le leggi della “ragione solo ragionante”. Nel frammento 22 dell’Athenäum Schlegel affronta direttamente il problema del progetto. “Il progetto è il germe soggettivo di un oggetto in divenire”, che si caratterizza, per la sua totale soggettività e per la sua necessaria oggettività fisica e morale, in rapporto al tempo. I progetti sono infatti “frammenti dell’avvenire”. Rispetto ad essi “essenziale è la capacità di idealizzare immediatamente degli oggetti e, insieme, di realizzarli, di integrarli, e parzialmente eseguirli in sé. E siccome trascendentale è ciò che ha relazione con la connessione o separazione dell’ideale con il reale, potremmo ben dire che il senso dei frammenti e progetti è la parte trascendentale dello spirito storico”. Lo spirito storico, dunque, organizza i frammenti del passato e dell’avvenire, come il luogo decisivo della tensione fra il soggetto e l’oggetto in rapporto al tempo».

Franco Rella, Limina. Il pensiero e le cose, Feltrinelli, Milano 1987, p. 18.


Karl Wilhelm Friedrich von Schlegel.
Friedrich Schlegel, Frammenti critici e poetici


Stefan Zweig (1881-1942) – Una idea, se sorretta da una tenace passione, è più forte di tutti gli elementi naturali

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«Magellano ha dimostrato per l’eternità che un’idea, se ispirata dal genio, se sorretta da una tenace passione, è più forte di tutti gli elementi naturali, che l’individuo singolo con la sua piccola vita fugace è pur sempre in grado di trasformare in realtà e in verità imperitura quello che a centinaia di generazioni è apparso puro sogno illusorio».

Stefan Zweig, Magellano, Rizzoli, Milano 2006.

Il monumento alle Scoperte, o Padrão dos Descobrimentos in portoghese, situato a Belem sulla riva del fiume Tago.


Daniel Pennac – Amare vuol dire far dono delle nostre preferenze a coloro che preferiamo: la peculiarità del sentimento, come del desiderio di leggere, è il fatto di preferire. Chi legge non ha paura. Ogni lettura è un atto di resistenza.

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Ogni lettura è un atto di resistenza.
Di resistenza a cosa?
A tutte le contingenze.

Daniel Pennac, Come un romanzo, 1992.

«Quel che abbiamo letto di più bello lo dobbiamo quasi sempre a una persona cara. Ed è a una persona cara che subito ne parleremo. Forse proprio perché la peculiarità del sentimento, come del desiderio di leggere, è il fatto di preferire. Amare vuol dire, in ultima analisi, far dono delle nostre preferenze a coloro che preferiamo. E queste preferenze condivise popolano l’invisibile cittadella della nostra libertà. Noi siamo abitati da libri e da amici».

Daniel Pennac

«È dal più remoto ieri che i libri ci mettono in guardia contro le conseguenze delle nostre azioni. […] a volte credo che il grande sogno dell’Occidente finirà in un incubo. Ma sono stati i libri a salvarmi dalla tristezza cronica, perché la loro grandezza sta nellassolvere a una doppia funzione. Da un lato i libri ti parlano del tuo tempo, ma dall’altro lato è indubbio che leggendo perdiamo la nostra età, il nostro vivere qui ed ora: chi è immerso nella lettura – come il sognatore o l’amante – non è più un consumatore o un cittadino, vive in un universo più grande, quello della letteratura, per definizione atemporale».

Daniel Pennac, Chi legge non ha paura, “Robinson” – La Repubblica, 3-8-2019, pp. 2, 5.

Michail Bachtin (1895-1975) – La vera vita della persona è accessibile soltanto a una penetrazione dialogica alla quale essa si apre liberamente in risposta. Nell’uomo vi è sempre qualcosa che solo lui può scoprire nel libero atto dell’autocoscienza e della parola, che non si assoggetta alla determinazione esterna ed esteriorizzante.

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«[…] Nella figura del personaggio del Cappotto, Devuskin si vede, per così dire, soppesato, misurato e definito fino in fondo: eccoti, sei tutto qui, e in te non c’è nient’altro, e di te non c’è altro da dire. Egli si sente irrimediabilmente predeterminato e finito, come già morto prima di morire, e al tempo stesso sente anche la falsità di un tale atteggiamento.

[…] Il senso serio, profondo, di questa rivolta si può esprimere così: non si può trasformare l’uomo vivo in muto oggetto di una conoscenza esteriore compiutamente definitoria. Nell’uomo vi è sempre qualcosa che solo lui può scoprire nel libero atto dell’autocoscienza e della parola, che non si assoggetta alla determinazione esterna ed esteriorizzante.

[…] La vera vita della persona è accessibile soltanto a una penetrazione dialogica alla quale essa si apre liberamente in risposta».

 

Michail M. Bachtin [1963], Dostoevskij. Poetica e stilistica, trad. it. di G. Garritano, Einaudi, Torino1968, pp. 66-68.


Michail Bacthin (1895-1975) – Il riso autentico non esclude la serietà, ma la purifica dal dogmatismo, dall’unilateralità, dalla sclerosi, dal fanatismo, dalla perentorietà, dalla intimidazione. Il riso è una forma interiore e non esteriore
Michail Bachtin (1895-1975) – Una sola voce non porta a termine nulla e nulla decide. Due voci sono il minimum della vita, il minimum dell’essere. Essere significa comunicare dialogicamente.
Michail Bachtin (1895-1975) – La comprensione creativa non rinuncia a sé. Di grande momento per la comprensione è l’extralocalità del comprendere. Nel campo della cultura, l’extralocalità è la più possente leva per la comprensione. Un senso svela le proprie profondità, se si incontra e entra in contatto con un altro, altrui senso: tra di essi comincia una sorta di dialogo. Senza proprie domande non si può capire creativamente alcunché di altro e di altrui (ma, naturalmente, le domande devono essere serie, autentiche).

Nikolaj Aleksandrovič Dobroljubov (1836-1861) – Bisogna elaborare nell’anima la ferma convinzione della necessità e della possibilità del completo declino dell’attuale ordine di questa vita per avere la forza di rappresentarla poeticamente e teoreticamente

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«Bisogna elaborare nell’anima
la ferma convinzione della necessità e della possibilità
del completo declino dell’attuale ordine di questa vita
per avere la forza di rappresentarla poeticamente e teoreticamente».

***

Nikolaj Aleksandrovič Dobroljubov, Stichotvorenija Ivana Nikitina, Sobr. soc. v devjati tomach, Goslitizdat, Leningrad 1963, tomo, VI, p. 167.

Nikolaj Aleksandrovič Dobroljubov

critico letterario russo (Nižnij Novgorod 1836-Pietroburgo 1861). Teorico radicale, assertore convinto degli ideali democratici, si formò come critico su Belinskij e su Herzen acquistando una buona conoscenza di Feuerbach e della sinistra hegeliana. La sua amicizia con Černyševskij lo introdusse al Contemporaneo a cui collaborò dal 1856. La sua attività critica fu breve ma assai intensa. Il suo nome è rimasto legato agli articoli su Ostrovskij (Il regno tenebroso, 1859), su Turgenev (Quando verrà il vero giorno?, 1860) e soprattutto al saggio Che cos’è l’oblomovismo? (1859), in cui la sua analisi sul famoso protagonista del romanzo di Gončarov si allarga a una critica della borghesia russa del tempo. Sono da ricordare, infine, le sue acute Lettere da Torino su Cavour e l’Italia.

 

Diego Lanza (1937-2018) – Di mio padre ricordo l’orgoglio tenace, la fedeltà alle proprie decisioni, l’energia necessaria a una silenziosa coerenza, il disprezzo per il mormorio del senso comune. Mi ha insegnato ad essere come chi amiamo si aspetta che noi siamo, perché non pesare su chi ci ama con le nostre sofferenze è amorosa accortezza.

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In Ibsen, mio padre dovette ritrovare la celebrazione poetica dell'orgoglio tenace, della fedeltà alle proprie decisioni, dell'energia necessaria a una silenziosa coerenza, soprattutto del disprezzo per il mormorio del senso comune. Orgoglio, fedeltà, silenzio e disprezzo che gli costarono non poco dolore.

«Tra i libri in mezzo ai quali ero cresciuto, e le cui copertine mi risultavano familiari quando ancora sarebbe stato assurdo li avessi aperti, sapevo riconoscere i volumetti della “Cultura dell’Anima” dell’editore Carabba di Lanciano. Ricordo in particolare che destava la mia curiosità un titolo: In vino veritas. Scoprii poi che quella di Kierkegaard era stata una delle prime letture da adulto di mio padre. E, accanto a Kierkegaard, ancora più determinante perché vero e proprio modello del suo tirocinio teatrale, Ibsen, in cui dovette ritrovare la celebrazione poetica dell’orgoglio tenace, della fedeltà alle proprie decisioni, dell’energia necessaria a una silenziosa coerenza, soprattutto del disprezzo per il mormorio del senso comune. Orgoglio, fedeltà, silenzio e disprezzo che gli costarono non poco dolore» (p. 24).

«Mio padre tornò a casa ai primi di gennaio del 1948.[…] Ma in due mesi era invecchiato di dieci anni: si stancava in fretta, era spesso soggetto ad accessi di mal di capo […]. La sua non fu dunque una normale convalescenza […]. L’unica cosa di cui mio padre si lamentava era l’umidità delle Prealpi lombarde. Ma anche in questo caso era certo un ricordo a fargliela avvertire particolarmente molesta, il ricordo della nostra ultima villeggiatura di guerra. Al perenne bagnaticcio dei boschi di Selvino, con ingenuità in parte consapevole, egli soleva attribuire il precipitare se non l’origine della malattia di mia madre. Selvino non poté quasi più esser nominato in casa nostra. Mai mi accennò a quel luogo infausto se non per deprecarne la scelta, né ne rimane alcuna traccia tra i ricordi cui indulgeva ogni tanto negli appunti della sua vecchiaia.
Il male di mia madre è invece evocato in un altro ricordo di anni dopo, che mi riporta alla Milano della mia prima infanzia: “Stamattina, nello stordimento e quasi dormiveglia causati dai calmanti per il mal di capo di ieri sera e della notte, l’improvviso ricordo del mio incontro con Ania in galleria qualche mese prima della sua morte. La vidi di lontano che camminava un po’ incurvata, quasi a fatica; e man mano che mi avvicinavo a lei notavo la sua espressione e ne avevo pena e oppressione: lo sguardo opaco e come smarrito, le guance rilassate, un volto disperato. A un tratto mi vide e in un attimo si trasfigurò: gli occhi luminosi e ridenti, il volto della felicità. Dopo tanti anni, nel ricordo, ho riavuto la commozione di allora per quella fulminea prova d’amore”.

Sottrarsi alla morte incombente, fingere una vitalità ormai perduta può essere atto d’amore perché fa parte della doverosa commedia della vita che siamo quotidianamente chiamati a recitare: essere come chi amiamo si aspetta che noi siamo, non pesare su chi ci ama con le nostre sofferenze è amorosa accortezza che solo a pochi non riesce difficile. Tuttavia è possibile, anche quando si sia intrapreso il cammino della morte, almeno finché sia solo la nostra mente a percepirlo; quando invece l’incombere della fine conquista anche l’anima del nostro corpo, allora significa che la morte è già iniziata, e il morente non può donare ai suoi cari che la serenità della rassegnazione.
Anche dell’angoscia che precede e che rende impotenti trovo un’immagine efficace negli appunti di mio padre. L’occasione è un momento di malore vissuto come estremo, ma che estremo non era, anzi, neppure grave: “Mi son sentito veramente come quel gatto che mi colpì tanti anni fa in piazza Wagner: un vecchio gatto, tutto tarlato, con gli occhi appannati, che nei dieci minuti che mi fermai a osservarlo non riuscì ad avanzare più di un metro sul marciapiede, vicino alla chiesa. Alzava la zampa lentamente, la teneva sospesa in aria come se non sapesse che farne, poi l’abbassava a toccare terra quasi esitando, quasi non potendo immaginare di trovare lì terra. Poi riprendeva con l’altra zampa. Non ricordo che ostacolo gli si parò davanti, se il piede di un passante o un sasso o un oggetto. Ricordo che restò a lungo con la zampa alzata, poi l’abbassò lentissimamente, e rimase fermo. Così l’altro ieri io avevo l’impressione di restare lì, sulla strada”.

L’incontro con il gatto morente risale a venti anni prima: “Stamattina in piazza Wagner: il gatto ammalato che pareva stare per morire sulla strada. Gli occhi chiusi, il respiro stentato e lento. Quella zampa che si alzava e stentava, o meglio esitava, a posarsi a terra. Poi si mise a camminare, ma una donna lo fermò col piede, per fargli prendere un’altra strada, e lui restò fermo”.

Il racconto più recente è assai più ampio e particolareggiato della breve registrazione di un tempo. L’immagine aveva lavorato nella sua memoria fino a farsi eloquente parabola. Parabola del terrore condiviso di un’incombente, progressiva impotenza e della percezione della morte che ci sovrasta» pp. 153-157).

 

Diego Lanza, Il gatto di piazza Wagner. Ricordi di ricordi, L’orma editore, Roma 2019


Sommario

Silenzi
Il paese dei cigni
Via dalla città
1944
Cene in latteria
Dopo il diluvio
In casa della zia Bela
Lo zio d’America
lole e Nino
Risi e bisi
Tra la Fiera e Chinatown
Il baule di Lipsia
Il gatto di piazza Wagner


 

Ci sono libri che si compongono alla fine di una vita e raccontano la dignità e l’intelligenza di un individuo, forse di un Paese intero. Il gatto di piazza Wagner, unica prova narrativa di un autore altrimenti noto per i suoi fondamentali contributi alla comprensione della cultura classica, è uno di questi libri. Un’infanzia milanese nell’arco temporale che va dal Fascismo alla fine degli anni Sessanta, con al centro la figura del padre – lo scrittore, giornalista e drammaturgo Giuseppe Lanza – rimasto vedovo troppo presto, teneramente orgoglioso dei suoi magri tentativi culinari, che emerge con tutta la sua preziosa serietà e decenza. Scomponendo i meccanismi di una memoria famigliare che tende a fondersi con quella individuale («Di chi sono i ricordi?» è il programmatico incipit del testo), Il gatto di piazza Wagner descrive una città vibrante – tra appassionate discussioni nelle latterie di quartiere e palpitanti prime teatrali – e indaga con ragionata esattezza azioni e moventi di protagonisti e comprimari, dallo zio Ramy agli amici letterati, da Solmi a Montale, da Lodovici a Bazlen. Una lettura che ci rimanda, come un monito e come un modello, alla migliore tradizione intellettuale ed etica del nostro Novecento.

 


Anna Beltrametti – Scritti per onorare la memoria di Diego Lanza e Mario Vegetti



Natsume Sōseki (1867-1916) – Lo studio è cosa diversa dal funambolismo e dai giochi di destrezza. Apprendere le conoscenze tecniche è marginale. Lo scopo vero è la costruzione dell’uomo, distinguere le cose grandi dalle inezie, conoscere la differenza tra ciò che conta e ciò che non significa niente, riconoscere il confine tra il bene e il male.

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«Insegnare lingua inglese, storia e, a un certo momento, perfino etica, era stato insegnare conoscenze tecniche che aveva fatto proprie come accessorie alla formazione del proprio carattere. Se avesse studiato ponendosi come unico obiettivo quelle conoscenze, non avrebbe dovuto fare altro che aprire un libro in classe. Se si fosse accontentato di campare aprendo un libro, non sarebbe stato affatto diverso, in linea teorica, dal funambolo che campa camminando sulla fune, o dal giocoliere che campa facendo roteare i piatti sulla cima di un bastone.

Ma lo studio è cosa diversa dal funambolismo e dai giochi di destrezza.

Apprendere le conoscenze tecniche è marginale: lo scopo è la costruzione dell’uomo.

Lo scopo è fornirlo di una solidità che gli permetta di distinguere le cose grandi dalle inezie, di conoscere la differenza tra ciò che conta e ciò che non significa niente, di avere ben chiaro cosa ama e cosa no, di riconoscere senza esitare il confine tra il bene e il male, di non sbagliare nel giudicare intelligenza e stupidità, vero e falso, giusto e ingiusto.

Doya la pensava così. Per questo non disprezzava l’idea di sbarcare il lunario vendendo le proprie conoscenze ma, allo stesso tempo, considerava un abominio l’idea di allontanarsi dai fondamenti su cui si ergeva la sua formazione culturale. Il rifiuto di cui era oggetto ovunque andasse era effetto del suo basarsi sull’essenza stessa dei suoi studi, per cui, dato che lui stesso, analizzando il proprio intimo, non trovava alcunché di cui vergognarsi, non riteneva di essere uno smidollato. Gli insulti di chi vedeva in lui uno sciocco caparbio erano così assurdi, che non li avrebbe compresi nemmeno se avesse potuto posarli sul palmo della propria mano, per analizzarli con la lente d’ingrandimento, sotto una gronda esposta a sud, in un giorno d’estate!

Tre volte era diventato professore e tre volte era stato cacciato dal suo posto ma, nella sua mente, ogni espulsione valeva più di un dottorato di ricerca. Un dottorato sarà anche un titolo importante, ma in fondo si acquisisce tramite le conoscenze tecniche. Non è molto diverso da quando un ricco ottiene il quinto grado di nobiltà con una donazione per la costruzione della flotta.

Natsume Sōseki, Raffiche d’autunno, Lindau, Torino 2017, pp. 13-15.



Charles Pierre Baudelaire (1821-1867) – L’immaginazione è la regina del vero. Liberando il possibile compresso nel dato, l’immaginazione con ciò stesso libera il divenire, ovvero il “poter-essere-altrimenti” delle cose, crea un mondo nuovo.

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Creare è vivere due volte, è dare una forma al proprio destino. (Albert Camus)
Adoro gli esperimenti folli. Li faccio in continuazione. (Charles Darwin)
La logica ti porterà dalla A alla B. L’immaginazione ti porterà ovunque. (Albert Einstein)
Non soffocare la tua ispirazione e la tua immaginazione, non diventare schiavo del tuo modello. (Vincent Van Gogh)
L’immaginazione è la prima fonte della felicità umana. (Giacomo Leopardi)

Liberando il possibile compresso nel dato, l’immaginazione con ciò stesso libera il divenire, ovvero il “poter-essere-altrimenti” delle cose.

«L’immaginazione è la regina del vero, e il possibile è una provincia del vero. Essa è concretamente congiunta con l’infinito. […] Facoltà misteriosa, questa regina delle facoltà! Essa coinvolge tutte le altre; le eccita, le spinge alla lotta. […] L’immaginazione è la sensibilità. L’immaginazione invero ha appreso all’uomo il senso morale del colore, del contorno, del suono e del profumo. Essa ha creato, al principio del mondo, l’analogia e la metafora. Essa scompone tutta la creazione, e, con i materiali raccolti e disposti secondo regole di cui non si può trovare l’origine se non nel più profondo dell’anima, crea un mondo nuovo, produce la sensazione del nuovo. […] L’immaginazione è l’analisi e, nello stesso tempo, è la sintesi. Senza di lei, tutte le facoltà, per quanto solide o acute, sarebbero ridotte a nulla. […]  Coloro che sono privi di immaginazione, divengono i copisti del dizionario».

Charles Baudelaire, Salon del 1859, in Id., Scritti sull’arte, tr. it. di G. Guglielmi e E. Raimondi, Einaudi, Torino, 1992, p. 223-224, 227).



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