Herbert Marcuse (1898-1979) – La spontaneità soggettiva dell’uomo moderno viene trasferita sulla macchina, della quale è al servizio, così da subordinare la sua vita al “realismo” nei confronti di un mondo nel quale la macchina è il soggetto attivo e lui il suo oggetto.

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Il nazionalsocialismo è l’esempio evidente delle modalità con le quali un’economia altamente razionalizzata e meccanizzata, dotata della massima efficienza produttiva, può operare nell’interesse dell’oppressione totalitaria e conservare la penuria. Il Terzo Reich è realmente una forma di “tecnocrazia”: le considerazioni tecniche dell’ efficienza e della razionalità imperialistiche superano i criteri tradizionali della profittabilità e del benessere generale. Nella Germania nazista il regno del terrore si regge non solo sulla forza bruta, estranea alla tecnologia, ma anche sull’ingegnosa manipolazione del potere insito nella tecnologia stessa: l’intensificazione del lavoro, la propaganda, l’addestramento dei giovani e degli operai, l’organizzazione della burocrazia governativa, industriale e di partito – tutti strumenti del terrore quotidiano – si attengono alle direttive della massima efficienza tecnologica. Tale tecnocrazia terroristica non si può ricondurre alle esigenze eccezionali dell”’economia di guerra”: questa rappresenta piuttosto lo stato normale di quell’ordinamento nazionalsocialista del processo sociale ed economico, di cui la tecnologia è uno degli stimoli principali.
Nel corso del processo tecnologico si sono affermati nella società una nuova razionalità e nuovi criteri di individualità, differenti e opposti a quelli che avviarono la marcia della tecnologia.
Queste trasformazioni non sono l’effetto (diretto o derivato) della macchina su coloro che la usano, o della produzione di massa sui consumatori; sono piuttosto esse stesse fattori determinanti nello sviluppo della macchina e della produzione di massa. […].
L’individuo umano, di cui la rivoluzione borghese ha fatto l’unità fondamentale e il fine della società, sosteneva valori che contraddicono apertamente quelli dominanti nella società odierna. Se cerchiamo di riunire in un unico concetto guida le varie tendenze religiose, politiche e economiche che davano forma all’idea di individuo nel XVI e nel XVII secolo, possiamo definire l’individuo il soggetto di determinati criteri e valori fondamentali che – si riteneva – nessuna autorità esterna poteva usurpare. Tali criteri e valori erano propri delle forme di vita, sociale come personale, più adeguate allo sviluppo delle facoltà e delle capacità dell’uomo. Per la stessa ragione, essi rappresentavano la “verità” della sua esistenza individuale e sociale. Si riteneva che l’individuo, in quanto essere razionale, fosse capace di scoprire queste forme col proprio pensiero, e, una volta acquisita la libertà di pensiero, di perseguire una linea di condotta volta a realizzarle. […] Il principio dell’individualismo, il perseguimento dell’interesse personale, era condizionato dall’assunto che tale interesse personale fosse razionale, che fosse cioè il prodotto del pensiero autonomo e ne fosse guidato e controllato. […] Gli uomini dovevano aprirsi un varco attraverso l’intero sistema di idee e valori loro imposti, e scoprire e fare propri le idee e i valori conformi alloro interesse razionale. Dovevano vivere in uno stato di costante attenzione, apprensione e critica, per respingere tutto ciò che non fosse vero e giustificato dalla ragione libera. Ciò costituiva, in una società non ancora razionale, il principio di una permanente tensione e opposizione, dal momento che la vita degli uomini era governata ancora da falsi criteri: libero individuo era colui che li sottoponeva a critica, ricercando quelli veri e promuovendone la realizzazione. […]
L’adempimento della razionalità presupponeva un adeguato assetto economico e sociale, tale da fare appello a individui la cui prestazione sociale coincidesse, almeno il larga parte, con il proprio lavoro. […] Nel corso del tempo, tuttavia, il processo della produzione di merci minò la base economica sulla quale la società individualistica si era costruita. […] Il principio dell’efficienza competitiva favorisce le imprese col più alto livello di meccanizzazione e razionalizzazione delle attrezzature industriali […]: la razionalità individualistica si è trasformata in una razionalità tecnologica, la quale non è circoscritta ai soggetti e agli oggetti delle imprese su larga scala, ma caratterizza il modo pervasivo del pensiero e persino le molteplici forme di protesta e ribellione. Questa razionalità stabilisce i criteri di giudizio e promuove atteggiamenti che rendono gli uomini pronti ad accogliere e persino a introiettare i dettami dell’apparato.
Lewis Munford ha caratterizzato l’uomo nell’età della macchina come una “personalità oggettiva”, come colui che ha imparato a trasferire tutta la sua spontaneità soggettiva sulla macchina, della quale è al servizio, a subordinare la sua vita al “realismo” nei confronti di un mondo nel quale la macchina è il soggetto attivo e lui il suo oggetto.
Le distinzioni individuali di attitudini, intuito e conoscenza si trasformano in differenti determinazioni quantitative di specializzazione e addestramento, da coordinare in ogni momento all’interno del quadro comune delle prestazioni standardizzate.
L’individualità, tuttavia, non è scomparsa. Il libero soggetto dell’economia si è piuttosto sviluppato nell’oggetto di una organizzazione e coordinazione su larga scala, e la realizzazione individuale si è trasformata in efficienza standardizzata. Questa è caratterizzata dal fatto che la prestazione dell’individuo è motivata, guidata e misurata secondo criteri che gli sono esterni, e che si riferiscono a compiti e funzioni predeterminati. L’individuo efficiente è quello la cui prestazione costituisce un’azione solo in quanto è la reazione adeguata alle esigenze oggettive dell’apparato, e la cui libertà si limita alla scelta dei mezzi più adeguati per il raggiungimento di un obiettivo non stabilito da lui.
Mentre la realizzazione individuale è indipendente dal riconoscimento e si compie nel lavoro stesso, l’efficienza costituisce una prestazione remunerata e portata a compimento solo per il valore che ha per l’apparato. Insieme con la maggior parte della popolazione, la precedente libertà del soggetto economico affogò gradualmente nell’efficienza con la quale questi assolveva le mansioni assegnategli. Il mondo risultò razionalizzato a tal punto, e la sua razionalità era divenuta un potere sociale tale, che l’individuo non poteva fare di meglio che addattarvisi senza riserve. […] Il procedimento meccanico richiede una conoscenza orientata “alla pronta comprensione di fatti poco chiari, in termini quantitativi sufficientemente esatti. Questo tipo di conoscenza presuppone da parte dell’operaio un determinato atteggiamento intellettuale o psichico, quale la volontà di apprendere prontamente e apprezzare i dati di fatto, di guardarsi dall’arricchire tale conoscenza con supposte sottigliezze animistiche o antropomorfiche, con interpretazioni semipersonali dei fenomeni osservati e dei loro rapporti reciproci”.
[…] Il nuovo atteggiamento si differenzia per l’acquiescenza altamente razionale che lo contraddistingue. I fatti che dirigono il pensiero e l’azione dell’uomo non sono quelli della natura che si devono accogliere perché li si possa dominare, né quelli della società, che sono da mutare perché non corrispondono ai bisogni e alle potenzialità dell’uomo. Sono piuttosto quelli del procedimento meccanico, che si presenta come l’incarnazione della razionalità e della funzionalità.
[…] Non vi è una possibilità individuale di fuga dall’apparato che ha meccanizzato e standardizzato il mondo. […] Manovrando la macchina, l’uomo impara che l’obbedienza alle direttive è il solo modo di ottenere i risultati desiderati. Tirare avanti equivale ad adeguarsi all’apparato. Non vi è spazio per l’autonomia. La razionalità individualistica si è sviluppata in efficiente acquiescenza col continuum preesistente di mezzi e fini. Quest’ultimo assorbe gli sforzi liberatori del pensiero e le varie funzioni della ragione convergono nell’incondizionata conservazione dell’apparato.
[…] Tutto coopera a incanalare istinti, desideri e pensieri umani in modo da alimentare l’apparato[…] I rapporti tra gli uomini sono sempre più mediati dal processo meccanico. Ma i congegni meccanici che facilitano le relazioni tra gli individui ne intercettano anche e ne assorbono la libido, deviandola da tutte le aree troppo pericolose nelle quali l’individuo è libero dalla società. Difficilmente l’uomo medio si prende cura di un essere vivente con la stessa intensità e costanza che mostra per la sua automobile. La macchina che egli adora non è più materia morta, ma diventa qualcosa di simile a un essere umano. Ed essa restituisce all’uomo ciò che possiede: la vita dell’apparato sociale di cui è parte. Il comportamento umano è dotato della razionalità del processo meccanico […]. La funzionalità nei termini della ragione tecnologica è, al tempo stesso, funzionalità nei termini dell’efficienza orientata al profitto […]. Quanto più l’individuo si comporta razionalmente e attende amorevolmente al suo lavoro, tanto più soccombe di fronte agli aspetti frustranti di tale razionalità. Egli sta perdendo la capacità di astrarre dalla forma particolare nella quale la razionalizzazione si realizza, e la fede nelle sue potenzialità non realizzate. Il realismo, la sfiducia nei confronti di tutti i valori che trascendano i dati dell’osservazione, il risentimento verso tutte le interpretazioni semi personali e metafisiche, il sospetto per ogni criterio che rapporti l’ordine osservabile delle cose, la razionalità dell’apparato alla razionalità della libertà: questo atteggiamento complessivo giova fin troppo a coloro che sono interessati alla perpetuazione della forma prevalente delle realtà di fatto. Il processo meccanico richiede un “costante addestramento all’apprendimento meccanico delle cose”, e questo a sua volta promuove “la conformità a una vita programmata” […]. La “meccanica del conformismo” si estende dall’ordine tecnologico a quello sociale; governa le prestazioni non solo nelle fabbriche e nei negozi, ma anche negli uffici, nelle scuole, nelle assemblee e, da ultimo, anche nel regno dello svago e dell’intrattenimento.
Gli individui sono spogliati della loro individualità, non per una costrizione esterna, ma dalla razionalità della loro vita[…] L’uomo però non fa esperienza della perdita della libertà come dell’opera di una forza estranea e ostile; affida invece la sua libertà al comando della ragione stessa. […] Il sistema di vita creato dall’industria moderna è della massima funzionalità , convenienza e efficienza. Definita in questi termini, la ragione equivale a un’attività che perpetua questo mondo. La condotta razionale si identifica con un realismo che insegna una ragionevole remissività, e garantisce così che si proceda d’accordo con l’ordine prevalente.
[…] La razionalità viene trasformandosi da forza critica in principio di adeguamento e acquiescenza. L’autonomia della ragione perde il suo significato nella stessa misura in cui i pensieri, i sentimenti e le azioni degli uomini sono modellati dalle esigenze tecniche dell’apparato che essi hanno creato.
[…] Estendendosi all’intera società, le leggi e i meccanismi della razionalità tecnologica sviluppano una serie di propri valori di verità, che vanno bene per il funzionamento dell’apparato – e solo per questo. Le proposizioni relative a un comportamento competitivo o complice, a metodi degli affari, ai principi di un’efficace organizzazione e controllo, alla correttezza e all’uso della scienza e della tecnica, sono vere o false nei termini di questo sistema di valori, cioè nei termini propri di strumenti che dettano i loro stessi fini. Questi valori di verità sono messi alla prova e perpetuati dall’esperienza e devono guidare i pensieri e le azioni di quanti vogliono sopravvivere. La razionalità esige qui acquiescenza e coordinazione senza condizioni, sicché i valori di verità connessi ad essa implicano la subordinazione del pensiero a criteri esterni preesistenti. A questa serie di valori di verità possiamo dare il nome di verità tecnologica […]. La standardizzazione del pensiero sotto il dominio della razionalità tecnologica coinvolge anche i valori di verità critici. […]. I valori di verità critici sorti da un movimento sociale di opposizione mutano di significato nel momento in cui tale movimento si incorpora nell’apparato. […] La tendenza ad assimilarsi ai modelli organizzativi e psicologici propri dell’apparato ha determinato un mutamento nella struttura dell’opposizione sociale in Europa. La razionalità critica delle sue finalità è stata subordinata alla razionalità tecnologica […]. I gruppi di opposizione sono venuti trasformandosi in partiti di massa, e i loro dirigenti in burocrazie di massa.
[…] È possibile ridurre il tempo e l’energia spesi nella produzione delle necessità della vita, e una graduale riduzione della penuria e l’abolizione delle occupazioni competitive consentirebbe di sviluppare il sé a partire dalle sue radici naturali.
Quanto meno tempo ed energia l’uomo deve investire per conservare la vita propria e della società, tanto maggiore è la possibilità che egli possa “individualizzare” la sfera della propria realizzazione in quanto uomo. Al di là del regno della necessità potrebbero dispiegarsi le differenze essenziali tra gli uomini: ognuno potrebbe pensare e agire da sé, parlare il proprio linguaggio,
avvertire le proprie emozioni e seguire le proprie passioni. Non più incatenato all’efficienza competitiva, il sé potrebbe crescere in un regno di soddisfazione. L’uomo potrebbe riconoscersi nelle proprie passioni. Gli oggetti dei suoi desideri risulterebbero tanto meno sostituibili, una volta che fossero conquistati e modellati dal suo libero sé. Essi gli “apparterrebbero” come mai gli sono appartenuti prima, e una simile “proprietà” non sarebbe offensiva, poiché non richiederebbe di essere difesa contro una società ostile.
Un’utopia siffatta non costituirebbe uno stato di perenne felicità. L’individualità “naturale” dell’uomo è anche la fonte del suo dolore naturale. Divenuti compiutamente umani, liberi da ogni criterio estraneo, i rapporti tra gli uomini saranno permeati dalla malinconia del loro contenuto singolare. Essi sono transeunti e insostituibili, e il loro carattere transeunte risulterà accentuato, nel momento in cui la preoccupazione per l’essere umano non sarà più mescolata con la paura per la sua esistenza materiale e offuscata dalla minaccia della miseria, della fame e dell’ostracismo sociale.

 

Herbert Marcuse, Alcune implicazioni sociali della tecnologia moderna, articolo pubblicato per la prima volta in “Studies in Philosophy and Soci al Science», IX, 3, 1941, pp. 414-439. Esiste una traduzione italiana nel volume Tecnologia e potere nelle società post-liberali, a c. di G. Marramao, Liguori, Napoli 1981, pp. 137-169. Qui nella traduzione di Luca Scafoglio, in Herbert Marcuse, La società tecnologica avanzata, volume III, a cura di Raffaele Laudani, manifestolibri, 2008, pp. 25-53.


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Herbert Marcuse (1898-1979) – L’uomo ad una dimensione riconosce se stesso nelle proprie merci; l’apparato produttivo assume il ruolo di un’agente morale
Herbert Marcuse (1898-1979) – È possibile distinguere tra bisogni veri e bisogni falsi
Herbert Marcuse (1898-1979) – Se vogliamo costruire una casa di abitazione nel posto in cui sorge una prigione, dobbiamo prima demolire la prigione, altrimenti non possiamo neppure iniziare i lavori.
Herbert Marcuse (1898-1979) – Il presupposto fondamentale della rivoluzione, la necessità di un cambiamento radicale, trae origine dalla soggettività degli individui stessi, dalla loro intelligenza e dalle loro passioni, dai loro sensi e obiettivi. La soggettività liberatrice si costituisce nella storia interiore degli individui. Solo come straniamento l’arte svolge una funzione cognitiva. Essa comunica verità non comunicabili in nessun altro linguaggio: essa contraddice.
Herbert Marcuse (1898-1979) – Ciò che si definisce “utopico” non è più qualcosa che “non accade” e non può accadere nell’universo storico, bensì qualcosa il cui prodursi è impedito dalla forza delle società stabilite.


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Marguerite Yourcenar (1903-1987) – Aver ragione troppo presto equivale ad aver torto. Il vero luogo natio è quello dove per la prima volta si è posato uno sguardo consapevole su se stessi: la mia prima patria sono stati i libri.

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Chi ama il bello finisce per trovarne ovunque, come un filone d’oro che scorre anche nella ganga più ignobile, e quando ha tra le mani questi mirabili frammenti, anche se insudiciati e imperfetti, prova il piacere raro dell’intenditore che è il solo a collezionare ceramiche ritenute comuni.

Come chiunque altro, io non dispongo che di tre mezzi per valutare l’esistenza umana: lo studio di se stessi è il metodo più difficile, il più insidioso, ma anche il più fecondo; l’osservazione degli uomini, i quali nella maggior parte dei casi s’adoperano per nasconderci i loro segreti o per farci credere di averne; e i libri, con i caratteristici errori di prospettiva che sorgono tra le righe. […] Mi troverei molto male in un mondo senza libri, ma non è lì che si trova la realtà, dato che non vi è per intero.

Il vero luogo natio è quello dove per la prima volta si è posato uno sguardo consapevole su se stessi: la mia prima patria sono stati i libri.

Le mie inquietudini perduravano, ma le dissimulavo come delitti: aver ragione troppo presto equivale ad aver torto.

Quando si saranno alleviate sempre più le schiavitù inutili, si saranno scongiurate le sventure non necessarie, resterà sempre, per tenere in esercizio le virtù eroiche dell’uomo, la lunga serie dei mali veri e propri: la morte, la vecchiaia, le malattie inguaribili, l’amore non corrisposto, l’amicizia respinta o tradita, la mediocrità d’una vita meno vasta dei nostri progetti e più opaca dei nostri sogni: tutte le sciagure provocate dalla natura divina delle cose.
Bisogna che lo confessi: credo poco alle leggi. Se troppo dure, si trasgrediscono, e con ragione. Se troppo complicate, l’ingegnosità umana riesce facilmente a insinuarsi entro le maglie di questa massa fragile, che striscia sul fondo. Il rispetto delle leggi antiche corrisponde a quel che la pietà umana ha di più profondo; e serve come guanciale per l’inerzia dei giudici. Le leggi più antiche non sono esenti da quella selvatichezza che miravano a correggere, le più venerabili rimangono ancora un prodotto della forza. La maggior parte delle nostre leggi penali – e forse è un bene – non raggiungono che un’esigua parte dei colpevoli; quelle civili non saranno mai tanto duttili da adattarsi all’immensa e fluida varietà dei fatti. Esse mutano meno rapidamente dei costumi; pericolose quando sono in ritardo, ancor più quando presumono di anticiparli. E tuttavia, da questo cumulo di innovazioni pericolose e di consuetudini antiquate emerge qua e là, come in medicina, qualche formula utile.

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Margherite Yourcenar, Memorie di Adriano, Einaudi, 1981.

 



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Robert C. Berwick e Noam Chomsky – «Perché solo noi. Linguaggio ed evoluzione». L’analisi genetica di caratteri come il linguaggio è attualmente una sfida fondamentale per la genetica evolutiva umana.

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Perché solo noi

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«Come si evolvono gli organismi? Si tratta di evoluzione per lento avanzamento o di evoluzione per sobbalzi, come fu detto nel famoso dibattito tra Stephen J. Gould e i suoi critici? […] Entrambe le cose, ovviamente. Talvolta il cambiamento evolutivo adattivo è davvero molto lento e faticoso, in azione per milioni di anni secondo l’idea classica di Darwin. Ma talvolta il cambiamento evolutivo, e anche i cambiamenti comportamentali su larga scala […] possono essere relativamente rapidi, perfino mozzafiato. Una velocità che è stata confermata in centinaia di specie differenti attraverso tutti i maggiori gruppi filogenetici […].
Qui non si devono confondere le acque ammettendo semplicemente, come fanno alcuni, che il gradualismo infinitesimale darwiniano talvolta affretti il passo. Siamo d’accordo. Ma la questione cruciale è il ritmo che concerne le prossime innovazioni evolutive. La nostra concezione abbraccia sia le possibilità a lunga scadenza, ossia milioni di anni e centinaia di migliaia di generazioni, come, a quanto pare, nell’evoluzione di un apparato di apprendimento vocale antecedente agli uccelli e a noi; sia le possibilità a breve termine, ossia alcune migliaia di anni e alcune centinaia o un migliaio di generazioni, come nel caso di adattamenti relativamente recenti quali la capacità dei Tibetani di crescere vigorosi alle alte altitudini dove c’è meno ossigeno, o la capacità di digerire il lattoslo dopo l’infanzia nelle culture agricole casearie[…], o, secondo la nostra tesi centrale, la capacità innovativa di assemblare gerarchicamente la struttura sintattica. Alcuni di questi caratteri fecero un salto dopo il lungo percorso del lento cambiamento genetico, seguendo il consiglio della biologa Lynn Margulis: il modo più rapido per acquisire interi nuovi geni innovativi è mangiarli. […]
Certo, una volta mangiati, i geni dovevano dimostrare il proprio carattere selettivo, ma questo genere di introgressione genetIca può tirare fuori qualcuno dal pozzo gravitazionale che abbiamo menzionato in precedenza. Se esistono dubbi che sia importante questo genere di contrabbando oltre i cancelli d’ingresso darwiniani, si ricordi che fu Lynn Margulis (1970) a difendere la teoria, un tempo screditata ma adesso confermata, secondo la quale gli organismi acquisirono gli organelli chiamati “mitocondri”, che da allora alimentano le nostre cellule con quel pasto gratuito, pranzando su un’altra cellula singola attraverso la fagocitosi . Questa, forse la più antica versione della “colazione sull’erba” di Manet, fece partire una delle otto “transizioni maggiori nell’evoluzione”, quali sono state identificate dai biologi evoluzionisti John Maynard Smith ed Eors Szathmary (1995). Maynard Smith e Szathmary richiamano l’attenzione su un punto importante: di queste otto transizioni, che spaziano dall’origine del DNA alla sessualità, fino all’origine del linguaggio, sei, incluso il linguaggio, sono state a quanto pare eventi evolutivi unici confinati a un singolo lignaggio, con parecchie transizioni relativamente rapide nel senso discusso in precedenza. Qui nulla viola il darwinismo più convenzionale.
Dunque possono effettivamente esserci stati slittamenti genomici/fenotipici repentini, che “spostano il punto di partenza da cui agisce la selezione“, come afferma il biologo Nick Lane […]. Lane fa notare lo spostamento straordinario e apparentemente unico e repentino dalla semplice vita cellulare, quella dei procarioti […] agli eucarioti, noi compresi […]. Come Lane fa notare, “non si deve confondere il salto genetico con l’adattamento”. Dalla prospettiva del tempo geologico, questi cambiamenti furono rapidi.
Tutto ciò evidenzia il ruolo del caso, della contingenza e del contesto biochimico-fisico nel cambiamento evolutivo innovativo: l’evoluzione per selezione naturale lavora alla cieca, senza avere in mente il “fine” di un’intelligenza superiore o il linguaggio. Alcuni eventi accadono soltanto una volta e non sembra che siano facilmente ripetibili: l’origine delle cellule con nuclei e mitocondri, e poi il sesso ecc. Altri biologi evoluzionisti sono d’accordo. Ernst Mayr, in un ben noto dibattito con Carl Sagan, faceva osservare che anche la nostra intelligenza – e quindi il linguaggio– probabilmente rientra nella stessa categoria:

“Nulla dimostra l’improbabilità dell’origine dell’intelligenza superiore meglio dei milioni di stirpi che non riuscirono a raggiungerla. Ci sono stati miliardi, forse addirittura cinquanta miliardi di specie fin dall’origine della vita. Soltanto una di queste ha raggiunto il tipo di intelligenza necessario per fondare una civiltà … Riesco a immaginare soltanto due ragioni possibili di questa eccezionalità. Una è il fatto che l’intelligenza superiore non è affatto favorita dalla selezione naturale, contrariamente a quanto ci aspetteremmo. In effetti, tutti gli altri tipi di organismi viventi, milioni di specie, se la cavano bene senza un’intelligenza superiore. L’altra ragione possibile dell’eccezionalità dell’intelligenza è la straordinaria difficoltà di acquisirla … non a caso perché i cervelli hanno un fabbisogno di energia estremamente elevato … un cervello di grandi dimensioni, che consenta un’intelligenza superiore, si è sviluppato in meno dell’ultimo 6% della vita sulla linea degli ominidi. A quanto pare, ci vuole una combinazione complessa di rare circostanze favorevoli per produrre un’intelligenza superiore” [Mayr 1995] (pp. 31-33.

«Per quanto ci piacerebbe sapere che cosa ci renda esseri umani e in che modo il linguaggio sia sorto geneticamente, è inquietante che gli scienziati debbano ancora trovare prove univoche dell’ operato della selezione naturale, una evidente “spazzata selettiva” positiva, che si verificò più o meno all’epoca in cui per la prima volta Homo sapiens emerse come specie. Può trattarsi di un fatto inevitabile, data la conoscenza imperfetta della nostra storia demografica passata, oltre alla relativa rarità delle spazzate selettive; l’evoluzione potrebbe semplicemente far uso di variazioni già presenti nella
popolazione, come sostengono Graham Coop e Molly Przeworski
[…]. In ogni caso – proseguono – l’analisi genetica di caratteri come il linguaggio è “attualmente una sfida fondamentale per la genetica evolutiva umana”. Non possiamo che essere d’accordo» (pp. 35-36).

Risvolto di copertina

Solo noi possediamo lo strano oggetto biologico chiamato “linguaggio”. Noi e nessun’altra specie animale, compresi i primati non umani, visto che uno scimpanzé non sfiora neppure le capacità sintattiche di un bambino di tre anni. Il linguaggio è l’unicità più intrigante ed enigmatica in cui si sia mai imbattuto chi studia l’animale uomo, quella che ha avuto effetti incalcolabili sulla nostra vicenda. Da lungo tempo stuoli di scienziati delle più varie discipline e dei più diversi orientamenti sono alla ricerca delle sue origini; un’avventura intellettuale in cui si incrociano spade e si mettono in campo saperi sofisticati, sempre di nuovo riarmati in una tenzone senza fine. Un vero rovello soprattutto per l’evoluzionismo, alle prese con un “salto” che ne sfidava la tradizionale impostazione gradualistica. Oggi però molto è cambiato, perché negli ultimi venticinque anni abbiamo appreso sulle basi neurofisiologiche e genetiche del linguaggio più che nei secoli precedenti, mentre i biologi evoluzionisti sono approdati, con matematiche avanzate, a interpretazioni stocastiche del cambiamento evolutivo. Dall’analisi di queste risultanze ripartono Noam Chomsky, supremo teorico della grammatica universale innata, e il linguista computazionale Robert Berwick, tra i maggiori studiosi dell’apprendimento vocale negli uccelli canori. La loro tesi, insieme evoluzionistica e discontinuistica, è un punto di arrivo nel dibattito sull’argomento: il linguaggio sarebbe un’acquisizione recente, ossia databile all’incirca a 80000 anni fa, quando, in una stretta finestra temporale, un gruppo di ominidi africani subì un piccolo ricablaggio del cervello che consentì le operazioni fondamentali del pensiero, in seguito esternalizzate attraverso il sistema sensomotorio. Come strumento interno per il pensiero, dunque, e non per necessità di comunicazione – ritenuta insufficiente a esercitare un’adeguata pressione selettiva – avremmo prodotto la strabiliante capacità di assemblare gerarchicamente la struttura sintattica, esclusiva di noi umani.

Gli autori

Robert C. Berwick è docente di Linguistica computazionale e Ingegneria e scienze informatiche presso il Laboratory for Information and Decision Systems e l’Institute for Data, Systems and Society del Massachusetts Institute of Technology di Boston. Tra i suoi libri, The Acquisition of Syntactic Knowledge (1985) e Computational Complexity and Natural Language (con G. Edward Barton ed Eric S. Ristad, 1987). Noam Chomsky, professore emerito di Linguistica al Massachusetts Institute of Technology, è tra i massimi teorici del linguaggio. All’attività scientifica ha affiancato una folta pubblicistica di intervento politico, in gran parte tradotta in italiano. Tra i titoli più recenti: I padroni dell’umanità. Saggi politici (1970-2013) (2014), Palestina e Israele: che fare? (con Ilan Pappé, 2015), Terrorismo occidentale. Da Hiroshima ai droni (con André Vltchek, 2015), La scienza del linguaggio. Interviste con James McGilvray (2015) e Linguaggio e problemi della conoscenza (2016). Presso Bollati Boringhieri è disponibile Il linguaggio e la mente (2010).

 



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Sabrina D’Alessandro – Se tu scegli di far risuonare la realtà con delle parole diverse, cambia anche la realtà che è intorno.

Sabrina D'Alessandro

 

 

 

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C’è un modo straordinariamen-te rotondo per definire un uomo di bassa statura e alta considerazione di sé: «salapùzio». Una parola poco, pochissimo usata, ma colorita e sonora; quattro semplici sillabe capaci di contenere la complessità di un tipo umano, di raccontarla in modo sincero e immediato, trasformando una realtà sgradevole in allegra catarsi canzonatoria.

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Aspre o scioglievoli, enigmatiche o lampanti, le parole hanno la capacità di dare voce a cose che altrimenti non vedremmo, creando un’idea dove prima non c’era, e ci consentono di far risuonare la realtà in modo nuovo, diverso. Le parole non solo sono interessanti, ma soprattutto sono piene di bellezza. Dimenticarle, sostituirle, semplificarle è un po’ come appiattire la nostra stessa percezione della realtà, rinunciando a sfumature e colori che raccontano e trasformano l’identità delle relazioni umane. Ogni tanto fa bene concedersi un momento di «risquitto», così come variare con una «rùzzola» o un «raperónzolo» i soliti turpiloqui può giovare al fegato e portare la bile a essere meno commossa. Queste parole esistono anche per aiutarci a vedere e a vivere meglio; tornare a usarle, tornare ad apprezzarle e ad amarle non significa solo salvaguardare un patrimonio linguistico, ma alimentare la ricchezza, e l’allegria, del nostro immaginario profondo.

 

Sabrina D’Alessandro

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Il lavoro di Sabrina D’Alessandro esplora il rapporto tra linguaggio e immaginario, coniugando arte e filologia. Nel 2009 fonda l’URPS (Ufficio Resurrezione Parole Smarrite), progetto volto al recupero e alla diffusione in forma artistica di «parole smarrite benché utilissime alla vita sulla terra». La sua produzione spazia dall’arte visiva alla scrittura, dal video alla performance, in una ricerca unica e inesauribile che parte dall’archeologia della parola per arrivare a un modo nuovo di leggere la realtà e di reinventarla.

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Il sito di Sabrina D’Alessandro

 

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Ente preposto al recupero di parole smarrite, benché utilissime alla vita sulla terra.


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Sabrina D’Alessandro – Ufficio Resurrezione
Il libro delle parole altrimenti smarrite
Sabrina D’Alessandro,
Ufficio Resurrezione ,
Esempio di ingiurie in una redamazione rimpedulata

 

Intervista a Sabrina D’Alessandro
Ufficio Resurrezione
Libro delle parole altrimenti smarrite

 



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Luigina Mortari – Non è possibile pensare la ricerca di una buona qualità della vita in modo solipsistico. Tutto quanto rispetto al bene non sia frutto di un investimento personale di pensiero non diventa orizzonte. Quando si evita la fatica della ricerca rigorosa, si possono vedere solo idee storte, mentre solo la ricerca seria consente di “udire cose luminose e belle”.

Mortari Luigina 02

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«Ciascuno di noi cerca il bene, cioè una vita buona. Ma, poiché il tessuto ontologico è tutt’uno, il divenire di ciascuno di noi è profondamente intrecciato con quello dell’ altro, e dal momento che la mia esistenza è intimamente connessa con quella dell’altro non è possibile pensare la ricerca di una buona qualità della vita in modo solipsistico. Non esiste il bene al singolare, ma esiste un bene al plurale, di conseguenza la ricerca del bene non può che essere concepita come prassi relazionale. Aver cura dell’esserci è aver cura di cercare fili di bene con cui tessere il tempo della vita, e poiché esserci è con-esserci cercare il bene è cercare ciò che è bene-con-gli-altri. Dal momento che cercare il bene è il cuore dell’etica, se si considera la dimensione intimamente relazionale della condizione umana non ci può essere un’ etica del singolare, ma del singolare-plurale» (p. 97).

«Più una domanda è importante per la vita più diventa difficile; più si profila come domanda che mette fuori squadra le capacità della ragione, mostrando il nostro mancare la possibilità di afferrare precise misure per il nostro agire, più rivela la qualità densamente problematica dell’esperienza umana. Molte, fortunatamente, sono le domande con cui la ragione si confronta e che hanno risposta, ma quelle che toccano l’essenziale per l’esistenza sono destinate a rimanere non chiaramente definite. Il poeta Quasimodo parla per questo di una condizione umana “sconfitta da domande ancora aperte”; ma è proprio in questa apertura che può esserci libertà, una libertà amara, difficile sempre, ma che consente la libertà di essere.
Meditare su cosa sia il bene risponde alla necessità di una vita piena di significato e al bisogno di trovare criteri di orientamento pratico. Anche se alla domanda prima non c’è risposta definitiva, il bisogno per la vita di sapere in che cosa consista il bene è tale che non è possibile evitare di porre questa domanda. Anche se è destinata a rimanere una discrepanza inaggirabile tra il bisogno di sapere in che cosa consista il bene e la possibilità di guadagnare una conoscenza certa, chiara, cioè capace di illuminare il cammino dell’esistenza, non si può evitare di interrogarsi su tale questione.
Il problema consiste nel trovare il modo per stare con senso dentro la domanda. Quando ci si avvicina alle questioni che sono per l’esserci della massima importanza, è necessaria prudenza, cautela, nel senso che si deve aver cura che il ragionare si snodi nella forma più misurata e rigorosa possibile, perché quando si arriva alla terra del pensare, cioè la terra delle questioni decisive, i pensieri superficiali sono da evitare. Quando Glaucone, consapevole di quanto ripida sia la domanda sul bene, azzarda l’ipotesi che, pur sapendo il limite del proprio pensare, ciascuno comunque possa dire ciò che pensa, Socrate garbatamente lo rimprovera, dichiarando che “le opinioni senza vera scienza sono tutte brutte” (Platone, Repubblica, 506c).
Piuttosto che confezionare affermazioni non attendibili è meglio tacere e perseverare nella ricerca accettando lo scarto fra il proprio desiderio e quanto possiamo raggiungere.
Quando si evita la fatica della ricerca rigorosa, si possono vedere solo idee storte, mentre solo la ricerca seria consente di “udire cose luminose e belle” (ibidem, 506d).
Stare con la giusta misura nelle domande difficili significa mantenerle aperte, evitare di accanirsi nel cercare soluzioni definitive che non appartengono al potere della ragione umana. Come afferma Eraclito (framm. 45), “non tiriamo conclusioni sulle cose più grandi”.
La questione prima per la vita, e per l’etica che del senso della vita si occupa, va posta mantenendo viva la consapevolezza dell’eccedenza della domanda sul bene e insieme della limitatezza della nostra operatività sia cognitiva sia pratica. Sapere darsi la giusta misura di quello che si può cercare è un principio aristotelico […] (Aristotele, Etica Nicomachea, I, 3, 1094b 12-13; 19-21; 23 -25)
Si tratta di impegnarsi in una disamina quanto più possibile larga e profonda per cercare di pervenire a un’idea (non uso il termine risposta perché la risposta soddisfa il pensiero, mentre l’idea può essere qualcosa di germinale, non compiuto) che per quanto fragile e provvisoria possa costituire l’orizzonte alla luce del quale prendere le decisioni sulla direzione e sul ritmo del proprio camminare nella vita.
Nel mondo esistono molte idee di bene pronte all’uso, e sono molte le occasioni in cui in modo irriflessivo facciamo nostra una concezione della vita buona che non viene da una nostra autonoma riflessione, ma dall’adesione a un preciso contesto culturale. La ragione umana conosce forme di pigrizia che le fanno preferire quelle forme di chiarezza che trova già disponibili rispetto alla fatica dell’ andarle a cercare. Accade così di esperire che nei momenti cruciali, quando ci troviamo a compiere una scelta, la maggior parte della decisione è già data. Sta nell’economia necessaria della vita della mente utilizzare artefatti culturali dati, ma tutto quanto rispetto al bene non sia frutto di un investimento personale di pensiero non diventa orizzonte, non ci mette al chiaro, ci tiene nell’opacità, e nell’opaco il tempo della nostra vita non si rischiara.
Assumere la domanda sul bene come oggetto continuo del pensare, sul quale mai ci si prende la vacanza dalla responsabilità dell’esaminare con cura, significa entrare nell’esistenza, fare del tempo della vita un tempo vivo. È come accedere a un altro livello dell’essere. Come dice Socrate, una vita senza ricerca del bene non vale la pena di essere vissuta.
Si tratta di dedicare il tempo del pensare a un domandare che si sa essere mai finito. Ma questa infinitività del domandare non toglie valore al pensare intorno al bene, perché ogni idea di bene cui si perviene, meditandola nel profondo, costituisce un punto di appoggio; l’importante è assumerla come qualcosa di provvisorio, un provvisorio punto fermo. Questa provvisorietà del sapere sul bene va accettata come una necessità, perché noi siamo esseri mancanti, mancanti del perfetto compimento del desiderabile; è questa mancanza che chiama inesorabilmente alla ricerca dei modi “giusti e buoni” per dare forma al proprio essere. […]
Da qui l’inaggirabilità della domanda sul bene. Rimane tuttora valida la teoria platonica della paideia (Platone, Repubblica, VII, 518b-c)j, secondo la quale la formazione si realizza autenticamente proprio quando, anziché essere concepita come una trasmissione di idee dal docente a chi apprende, si occupa di coltivare una precisa postura della mente, che consiste nello stare impegnata a interrogare le questioni essenziali dalla cui disamina dipende il fare chiaro sui problemi del vivere.
Si tratta di apprendere a tenere la mente “voltata dalla parte giusta” (ibidem, VII, 518d) e la parte giusta è costituita dalle domande essenziali, quelle che hanno a che fare con la ricerca del bene, cioè di ciò che è giusto, buono e bello fare per dare forma a una vita buona. È con il tenere la mente salda in questa ricerca che si possono coltivare quelle “virtù dell’anima” (ibidem) necessarie per mantenere viva la ricerca di ciò che più vale, delle cose” degne di valore”» (pp. 104-107).

Luigina Mortari,
Filosofia della cura, Raffaello Cortina Editore, 2007.

 

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Luigina Mortari,
Educare la persona alla passione della progettazione esistenziale

 

 



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Italo Calvino (1923-1985) – La conoscenza del prossimo ha questo di speciale: passa necessariamente attraverso la conoscenza di se stesso.

Italo Calvino_Palomar

 

 

Palomar

 

«Un uomo si mette in marcia per raggiungere,
passo dopo passo,
a saggezza.
Non è ancora arrivato».
Italo Calvino

***

Di fronte a ogni persona uno dovrebbe sapere come situarsi in rapporto a essa, esser sicuro della reazione che ispira in lui la presenza dell’altro – avversione o attrazione, ascendente subìto o imposto, curiosità o diffidenza o indifferenza, dominio o sudditanza, discepolanza o magistero, spettacolo come attore o come spettatore –, e in base a queste e alle controreazioni dell’altro stabilire le regole del gioco da applicare nella loro partita, le mosse e le contromosse da giocare. Per tutto questo uno prima ancora di mettersi a osservare gli altri dovrebbe sapere bene chi è lui. La conoscenza del prossimo ha questo di speciale: passa necessariamente attraverso la conoscenza di se stesso,  ed è proprio questa che manca a Paolomar. Non solo conoscenza ci vuole, ma comprensione, accordo con i propri mezzi e fini e pulsioni, il che vuol dire possibilità d’esercitare una padronanza sulle proprie inclinazioni e azioni, che le controlli e diriga ma non le coarti e non le soffochi. Le persone di cui egli ammira la giustezza e naturalezza d’ogni parola e d’ogni gesto sono, prima ancora che in pace con l’universo, in pace con se stesse».

Italo Calvino, Palomar,
Mondadori, 2015, p. 105.

 


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Albert Einstein (1879-1955) – Il mondo si è lentamente abituato a questi sintomi di decadenza morale. Non dobbiamo sfuggire alla lotta, quando essa è inevitabile, per conservare il diritto e la dignità dell’uomo! Non dobbiamo semplicemente sopportare le differenze fra gli individui e i gruppi, ma anzi accoglierle come le benvenute, considerandole un arricchimento della nostra esistenza.

Albert Einstein 003

Pensieri degli anni difficili, 1977

Pensieri degli anni difficili, ed. del 1977

***

«Solo una vita vissuta per gli altri
è una vita degna di essere vissuta».
Albert Einstein

***

«Regime di arbitrio, oppressione, persecuzione di persone, di fedi religiose e di comunità intere, vengono apertamente messi in pratica in quei paesi ed accettati come giustificabili o inevitabili. Il resto del mondo si è lentamente abituato a questi sintomi di decadenza morale. Si perde la capacità elementare di reagire all’ingiustizia e per la giustizia, reazione, questa, che a lungo andare rappresenta l’unica protezione dell’uomo contro una ricaduta nella barbarie.
Sono fermamente convinto che il desiderio appassionato di giustizia e di verità ha contribuito a migliorare la condizione dell’uomo più di quanto non abbiano fatto le sottigliezze del calcolo politico che a lungo andare alimentano soltanto la sfiducia generale. […]
Dobbiamo pensare, sentire e agire […] rifiutandoci di accettare dei compromessi fatali! Non dobbiamo neppure sfuggire alla lotta, quando essa è inevitabile, per conservare il diritto e la dignità dell’uomo! Se faremo cosi ritorneremo presto a condizioni che ci permetteranno di rallegrarci dell’umanità».

Albert Einstein, Anno 1937, in Id., Pensieri degli anni difficili,
Boringhieri, 1977, p. 86.

 

 

«A mio avviso, vi è una considerazione che sta alla base di ogni insegnamento morale. Se gli uomini, in quanto individui, si arrendono al richiamo dei loro istinti elementari, sfuggendo il dolore e cercando il piacere solo per sé stessi, il risultato per tutti gli uomini considerati insieme non può che essere uno stato di insicurezza, di paura, e di confusa sofferenza. Se, oltre a ciò, essi usano la loro intelligenza partendo da presupposti individualistici, vale a dire egoistici, costruendo la propria vita sull’illusione di un’esistenza felice e libera, difficilmente le cose andranno meglio. […]
La soluzione di questo problema, se considerato senza pregiudizi, è abbastanza semplice, e sembra anche echeggiare in maniera uniforme dall’insegnamento dei saggi del passato: gli uomini dovrebbero lasciare che la loro condotta fosse guidata dagli stessi principi: principi tali che seguendoli ne deriverebbero a tutti la massima sicurezza e soddisfazione e la minima sofferenza possibili.
[…]
La vera difficoltà […] è piuttosto questa: in che modo possiamo rendere il nostro insegnamento tanto potente nella vita emotiva dell’uomo che la sua influenza sopporti la pressione delle forze psichiche elementari dell’individuo? Non sappiamo, naturalmente, se i sapienti del passato si siano veramente posti questa domanda, consapevolmente e sotto questa forma; ma sappiamo come essi hanno cercato di risolvere il problema.
[…]
Questa concezione presuppone una condizione sopra tutte: che ogni individuo abbia la possibilità dì sviluppare i doni naturali che possono essere latenti in lui. Soltanto in questo modo l’individuo può ottenere la soddisfazione cui giustamente ha diritto; e soltanto in questo modo la comunità può raggiungere la sua piu ricca prosperità. Infatti tutto ciò che di veramente grande ed esaltante esiste, è creazione di un individuo che può operare in piena libertà. Restrizioni a questa libertà sono giustificate soltanto per necessità di sicurezza riguardanti l’esistenza stessa.
Vi è un altro punto che segue da questa concezione: non dobbiamo semplicemente sopportare le differenze fra gli individui e i gruppi, ma anzi accoglierle come le benvenute, considerandole un arricchimento della nostra esistenza. Questa è l’essenza della vera tolleranza, intesa nel suo significato piu ampio, senza la quale non si può porre il problema di una vera moralità.
La moralità intesa in tal senso non è un sistema determinato, in sé rigido. Si tratta piuttosto di un punto di vista dal quale ogni questione che sorga nella vita umana potrebbe e dovrebbe essere giudicata. È un compito mai concluso, qualche cosa sempre presente a guidare il nostro discernimento e a ispirare la nostra condotta. Si può immaginare che un uomo qualsiasi, veramente compreso di questo ideale, sarebbe soddisfatto di ricevere dai suoi simili beni e servizi in misura molto maggiore di gran parte degli altri uomini? Sarebbe soddisfatto se il suo paese, per il fatto di sentirsi per il momento militarmente sicuro, non si accostasse all’idea di creare un sistema sopranazionale di sicurezza e di giustizia? Potrebbe assistere passivamente, o magari con indifferenza, quando altrove, nel mondo, gente innocente fosse brutalmente perseguitata, privata dei propri diritti o addirittura massacrata?
Porsi questi problemi significa risolverli!».

Albert Einstein, Morale ed emozioni, in Id., Pensieri degli anni difficili,
Boringhieri, 1977, pp. 89-92.

 


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Giacomo Coccolini – Riflettere su Giuseppe Gangale con il libro di Domenico Segna.

Giacomo Coccolini_Domeico Segna

255 ISBN

Domenico Segna

Un caso di coscienza. Giuseppe Gangale e “La Rivoluzione protestante”

indicepresentazioneautoresintesi

 


Il Regno 01

 

«Riflettere su Giuseppe Gangale (1898-1978) significa ripercorrere un periodo della storia passata che, molti, considerano ormai definitivamente chiusa ma che, in verità, come mostra il bel lavoro di Domenico Segna, rimane alle nostre spalle come una sorta di futuro
che l’autore non si esime dal tratteggiare e per il quale, per certi aspetti, egli parteggia accorato.
Segna ricolloca la complessa, e ancora poco conosciuta, vicenda umana e intellettuale di Gangale nel contesto del suo tempo, dove questi, come filosofo, giornalista e glottologo ma, soprattutto, come credente, testimonia un altro modo di praticare la propria fede, politica e religiosa, che si trasforma in un «caso di coscienza …» [Leggi tutto il testo della recensione aprendo il PDF]

Giacomo Coccolini, Il Regno (attualità 16 – 2016)

Il Regno 02

Giacomo Coccolini, Recensione a Giuseppe Gangale

 

 



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Lewis Henry Morgan (1818-1881) – La proprietà è diventata una potenza in sé, sfuggita al controllo della popolazione. La mente umana assiste sconcertata agli sviluppi della sua stessa creazione.

Lewis Henry Morgan

Morgan_La società antica

 

«cum prorepserunt primis animalia terris,
 mutum et turpe pecus, glandem atque cubilia propter
 unguibus et pugnis, dein fustibus atque ita porro
 pugnabant armis, quæ post fabricaverat usus,
 donec verba, quibus voces sensusque notarent,
 nominaque invenere; dehinc absistere bello,
 oppida coeperunt munire, et ponere leges».

Orazio, Satire, I, 3, vv. 100-105

 

«Quando sulla terra dei primordi strisciarono fuori gli animali, gregge senza parola e bellezza, per ghiande e tane combattevano con le unghie e coi pugni, poi coi bastoni, e così di seguito con le armi che l'esperienza aveva fabbricato, finché trovarono le parole ed i nomi, con cui individuare suoni e significati; da qui in avanti, cominciarono a desistere dalla guerra e si diedero a consolidare i villaggi, a stabilire leggi»

 

Ancient Society

 

«Fin dall’avvento della civiltà, lo sviluppo della proprietà è stato così gigantesco, le sue forme così variamente articolate, i suoi usi così continuamente allargati, e la sua amministrazione (management) tanto abile nel favorire gli interessi dei proprietari, che la proprietà stessa è diventata una potenza in sé che è sfuggita al controllo della grande massa della popolazione.
La mente umana assiste sconcertata agli sviluppi della sua stessa creazione.
Verrà, tuttavia, il tempo in cui l’intelligenza umana si eleverà a riacquistare il dominio sulla ricchezza, ridefinendo i rapporti tra lo Stato e la proprietà, di cui esso è protettore, nonché gli obblighi e le limitazioni dei diritti dei proprietari. Gli interessi della società precedono quelli dell’individuo e il problema è di stabilire un rapporto giusto e armonico tra questi due.

La dissoluzione della società promette di essere l’unico possibile risultato di un corso storico in cui la proprietà e la ricchezza continuassero a essere il fine e l’obiettivo dell’umanità; questo perché un cosiffatto corso storico contiene in sé gli elementi dell’autodistruzione.
Democrazia nel governo, fratellanza nei rapporti sociali, eguaglianza di diritti e privilegi, e istruzione per tutti senza discriminazioni: così ci dobbiamo prefigurare [la] futura condizione della società verso cui ci spingono […] l’intelligenza e le conoscenze finora accumulate».

 

Morgan_Ancient Society

Lewis Henry Morgan, Ancient Society or Researches in the Lines of Human Prohgress From Savaegery Through Barbarusm to Civilization, 1877; tr. it. La società antica, Feltrinelli, Milano, 1970, p. 403.

 



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Brice Bonfanti-Ludovic Burel – «Avatars de Rousseau»

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Avatars de Rousseau

Brice Frigau Bonfanti
Ludovic Burel

 

Avatars de Rousseau

 

Avatars de Rousseau donne un aperçu des survivances de Rousseau, depuis sa mort jusqu’à nos jours. Ses sentiments, ses idées, ses postures, ses préoccupations, vivent d’autres vies dans d’autres corps que le sien: révolutionnaires de 1789; écologistes; musiciens, depuis Gluck jusqu’aux enfants chinois; éducateurs de Pestalozzi à Montessori et Freinet; romantiques tels Stendhal ou Sand; socialistes de Blanqui à Jaurès ; résistants ou collaborateurs français de la 2ème Guerre mondiale; indépendantistes algériens; psychanalystes inlassablement intrigués par le cas Rousseau… Chaque chapitre est accompagné d’un essai visuel qui mêle archives historiques et-ou documents récents et esquisse des constellations d’images « justes et lointaines».

Conception graphique: Clément Le Tulle Neyret

Avec les contributions de: Ludovic Burel, Yves Citton, Brice Frigau Bonfanti, Julie Delavie, Bernard Gittler, Henri Louis Go, Michael Löwy, Jean-Damien Mazaré, Pascale Pellerin, Jean-François Perrin, Christine Planté, Jean Sgard, Raymond Trousson.

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Brice Bonfanti est conservateur des collections Stendhal à la Bibliothèque municipale de Grenoble. Commissaire d’expositions (Avatars de Rousseau, Pseudo Stendhal, Ecrire & résister), il est l’auteur de conférences et d’articles sur Stendhal, ainsi que de présentations publiques de manuscrits. Actuellement, il se consacre à l’écriture de Chants utopiques, et prépare la publication d’écrits de Jean Paulhan et André Rolland de Renéville, chez Recours au poème éditeurs.

Artiste, éditeur, professeur à l’École supérieure d’art et de design de Grenoble-Valence, doctorant en philosophie (Université Pierre-Mendès-France ; PPL, Philosophie, pratiques et langages), Ludovic Burel vit et travaille à Villeurbanne, France.

Avec le concours de la Bibliothèque municipale de Grenoble, de l’École supérieure d’art et design de Grenoble-Valence, du centre de recherche PLC (Philosophie, langages et cognition) de l’université Pierre-Mendès-France de Grenoble, et de la Région Rhônes-Alpes (aide à l’édition).

 

 

http://www.bricebonfanti.com/

photo Brice Frigau Bonfanti

 



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