Robert Musil (1880-1942) – Ogni grande libro spira amore per i destini dei singoli individui che non si adattano alle forme che la collettività vuol loro imporre. Abbiamo troppo poco intelletto nelle cose dell’anima.

Musil 01

Das hilflose europa

Non abbiamo troppo intelletto e troppo poca anima,
ma troppo poco intelletto nelle cose dell'anima.

Robert Musil,
Das hilflose Europa, München 1922.

L'uomo senza qualità

«Come ci si può immaginare che l’uomo avrà ancora un’anima quand’abbia imparato a capirla e a trattarla perfettamente sotto l’aspetto biologico e psicologico?
[…] La conoscenza è un atteggiamento, una passione. Un atteggiamento illecito, in fondo; perché come la dipsomania, l’erotismo e la violenza, anche la smania di sapere foggia un carattere che non è equilibrato.
Non è vero che il ricercatore insegue la verità, è la verità che insegue il ricercatore. Egli la subisce. Il vero è vero, e il fatto è reale senza curarsi di lui; egli ne ha soltanto la passione, è un dipsomane della realtà, e questo foggia il suo carattere, e non gliene importa un fico che dalla sua scoperta venga fuori qualcosa di completo, di umano, di perfetto o di checchessia. È una creatura piena di contraddizioni, passiva, e tuttavia straordinariamente energica […]

Non esiste una sola idea importante di cui la stupidità non abbia saputo servirsi; essa è pronta e versatile e può indossare tutti i vestiti della verità. La verità invece ha un abito solo e una sola strada, ed è sempre in svantaggio […]

Ogni grande libro spira amore per i destini dei singoli individui che non si adattano alle forme che la collettività vuol loro imporre […] Estrai il senso di tutte le opere poetiche e ne ricaverai una smentita interminabile […] di tutte le norme, le regole e i principi vigenti sui quali posa la società che ama tali poesie! Per di più una poesia col suo mistero trafigge da parte a parte il senso del mondo, attaccato a migliaia di parole triviali, e ne fa un pallone che se ne vola via. Se questo, com’è costume, si chiama bellezza, allora la bellezza dovrebb’essere uno sconvolgimento mille volte più crudele e spietato di qualunque rivoluzione politica […]».

Robert Musil, L’uomo senza qualità, Torino, Einaudi, 1967, trad. di Anita Rho, Vol. I, pp. 248, 66 e 425.


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Jean Cocteau (1889-1963) – «Lettera agli americani». Americani, ciò che io vi raccomando non ha niente a che vedere con i soldi. Non si compra. È la ricompensa per coloro che non temono le scomodità. Ci impegna di fronte a noi stessi. È il nutrimento dell’anima.

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Americani,
Il successo è per voi obbligatorio.
Voi rifiutate di aspettare e di fare aspettare.
Voi che volete vivere il minuto presente, succubi della riuscita e del successo.
Non dimenticate che il ritmo del mondo è dato dal fatto che respira come voi.

 

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Jean Cocteau, Lettera agli americani, Archinto, 2003.


Dal risvolto di copertina

Sull’aereo che lo riporta in Francia, dopo venti giorni – «o vent’anni?» – trascorsi a New York, il turista Jean Cocteau si concede un gesto intellettuale avventuroso in una forma letteraria defilata: accosta l’occhio alla lente della città punta di diamante dell’America e getta uno sguardo critico sul popolo destinato a guidare il mondo. È il 1949. Cocteau vede l’alba di un difficile e diseguale confronto tra il Vecchio e il Nuovo mondo, che solo oggi sembra lasciar affiorare qualche dubbio e nuove prospettive. «Qual è l’incubo della vostra città che dorme in piedi, vi chiedo? La bomba atomica.» «Non sarete salvati né dalle armi né dalla fortuna. Sarete salvati dalla minoranza di coloro che pensano.» «Dappertutto in America una minoranza palpita e si trova prigioniera di una libertà fittizia.» In cielo, tra viaggiatori sonnacchiosi, Jean Cocteau scrive di getto «agli americani» e si trasforma in profeta, perché in lui scorre «il sangue di un poeta».


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«Americani,

[…] il successo è per voi obbligatorio (p. 6) […] Voi rifiutate di aspettare e di fare aspettare (p. 8) […] Di contunuo, da voi, ci si trova di fronte all’audacia e al timore dell’audacia (p. 11) […] Voi avete il comfort. Vi manca il lusso. […] Il lusso che io raccomando non ha niente a che vedere con i soldi. Non si compra. È la ricompensa per coloro che non temono le scomodità. Ci impegna di fronte a noi stessi. È il nutrimento dell’anima. (p. 16) […] Voi che volete vivere il minuto presente, succubi della riuscita e del successo (è. 30) […] Non dimenticate che il ritmo del mondo è dato dal fatto che respira come voi […] Siamo vittime di un’epoca in cui i polmoni si svuotano. Il mondo espira. Non pensa più, dissipa. (p. 31) […] È molto pericoloso volere l’ordine e non mettere in atto una sorta di disordine in cui l’anima se la sbrogli invece di inaridire tra linee morte. (p. 37) […] Qui in Francia il suddetto disordine mi permette di affronate qualunque cosa in un fim […] se qualcosa cade nel dominio dell’impossibile […] io ne parlo ai miei collaboratori. Ognuno di loro cerca di rendere possibile l’impossibile. (p. 38) […] Mi è difficile prendere sul serio le preoccupazioni dei dittatori e di tutte le persone che vagheggiano la gloria (p. 44) […] Mi rivolgo sempre a quelli che cercano disperatamente di essere liberi e che devono, come me, aspettarsi lo schiaffo, al punto di chiedersi, quando ricevono dei complimenti, se non si sono resi colpevoli di qualche errore (p. 47)».

 

Jean Cocteau ritratto da Amedeo Modigliani nel 1916. Modigliani,_Amedeo_(1884-1920)_-_Ritratto_di_Jean_Cocteau_(1889-1963)_-_1916

 


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Andrea Pizzorno – Noi consumatori, che abitiamo nei Paesi ricchi, siamo i veri mandanti di questi orrori. Più ci estraniamo più le nostre mani si sporcano di sangue.

Pizzorno

Clandestino italiano

logo ssensibili alle foglie

Andrea Pizzorno

CLANDESTINO ITALIANO
DIALOGHI E MONOLOGHI SU COLONIALISMO E IMMIGRAZIONE

Un testo teatrale, poetico e saggistico allo stesso tempo, nel quale l’Autore ripercorre i crimini compiuti durante la colonizzazione italiana in Africa e nel corso delle due guerre mondiali, “perché quei crimini ci hanno permesso di diventare uno dei Paesi più ricchi e potenti del mondo”, e propone riflessioni critiche sul modello di sviluppo del nostro Paese. I dialoghi e i monologhi proposti, in maniera semplice e diretta, raggiungono il cuore del problema: “Il capitalismo moderno, la nostra ricchezza, il predominio occidentale sul mondo… tutto è cominciato con la tratta degli schiavi neri. […] Abbiamo maggiore progresso, maggiore cultura, maggiore rispetto dei diritti umani, dei nostri diritti umani. Liberté, égalité, fraternité. Sì, per noi, ma non per gli altri. Gli altri possono pure crepare in mare: sono nostri schiavi. […] Abbiamo conquistato il mondo, abbiamo rubato tutto quello che era possibile rubare (e lo facciamo ancora), abbiamo reso schiavi i suoi abitanti e li abbiamo messi gli uni contro gli altri, acutizzando le rivalità esistenti o fomentando nuovi odii. […] Tutti noi traiamo beneficio da queste atrocità. Noi consumatori. Noi consumatori che abitiamo nei Paesi ricchi, siamo i veri mandanti di questi orrori, e più sprechiamo, più compriamo cose inutili, più buttiamo nella spazzatura cose ancora utilizzabili, più le nostre mani si sporcano di sangue”.

Andrea Pizzorno, affascinato sin da ragazzo da figure come don Milani e don Gallo, ha imparato a cercare sempre il lato nascosto di ogni cosa. È laureato in storia con una tesi sul colonialismo italiano, ama dipingere e stare in mezzo alla natura.

Andrea Pizzorno, Clandestino italiano, Dialoghi e monologhi su colonialismo e immigrazione, Sensibili alle foglie, 2016.

www.libreriasensibiliallefoglie.com

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Henri Poincaré (1854-1912) – L’utile è unicamente ciò che può rendere l’uomo migliore. L’uomo di scienza non studia la natura perché ciò è utile; la studia perché ci prova gusto, e ci prova gusto perché la natura è bella. Chi lavora soltanto in vista di applicazioni immediate non lascia niente dietro di sé.

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Il valore della scienza



a che accumulare tante ricchezze

l'utile è unicamente ciò che può rendere l'uomo migliore

le verità non sono feconde se non sono concatenate le une alle altre

Henri Poincaré, nel suo saggio Il valore della scienza (1904) distingue nettamente tra «pratici intransigenti» e «curiosi della natura»: i primi pensano soltanto al guadagno, mentre i secondi cercano di capire in che maniera possiamo indagare per conoscere. Dice Poincaré:

«Senza dubbio vi hanno spesso domandato a che servono le matematiche e se queste delicate costruzioni, ricavate interamente dalla nostra mente, non siano artificiali e non siano che un parto del nostro capriccio. Fra le persone che fanno tale domanda devo distinguere: la gente pratica ci chiede solamente il mezzo di guadagnare denaro. Essa non merita una risposta. Converrebbe piuttosto domandarle a che accumulare tante ricchezze, e se valga la pena, per avere il tempo di conquistarle, trascurare l’arte e la scienza le quali soltanto ci fanno spiriti capaci di gioirne, et propter vitam vivendi perdere causas» (p. 99).

«Una scienza fatta unicamente in vista delle applicazioni» è una scienza «impossibile», perché «le verità non sono feconde se non sono concatenate le une alle altre» (ibidem). E se «ci si attiene soltanto a quelle [verità] da cui si spera un risultato immediato, mancheranno gli anelli intermedi e non vi sarà più catena» (ibidem).

A fianco «dei pratici intransigenti», Poincaré colloca «quelli che sono soltanto curiosi della natura e ci domandano se siamo in grado di farla conoscere loro meglio» (p. 100).

«Le matematiche hanno un triplice scopo. Esse devono fornire uno strumento per lo studio della natura. Ma non è tutto: esse hanno uno scopo filosofico, e, oso dirlo, uno scopo estetico. Devono aiutare il filosofo ad approfondire le nozioni di numero, di spazio, di tempo. E soprattutto i loro adepti vi trovano un godimento analogo a quello che danno la pittura e la musica» (p. 100).

I matematici «ammirano la delicata armonia dei numeri e delle forme» e si «meravigliano quando una nuova scoperta apre loro un’inattesa prospettiva».

Per queste ragioni, “«le matematiche meritano di essere coltivate per se stesse e le teorie che non possono essere applicate alla fisica devono essere coltivate come le altre». Per Poincaré, insomma, anche «quando lo scopo fisico e lo scopo estetico non fossero solidali, non dovremmo sacrificare né l’uno né l’altro» (p. 100).

Vi è analogia tra matematici e scrittori: «Gli scrittori che abbelliscono una lingua, che la trattano come un oggetto d’arte, ne fanno nello stesso tempo uno strumento più docile, più atto a rendere le sfumature del pensiero», come «l’analista, che persegue uno scopo puramente estetico, contribuisca per ciò stesso a creare una lingua più atta a soddisfare il fisico» (p. 102).

Nell’introduzione all’edizione americana de Il valore della scienza – pubblicata a New York nel 1907 e poi ripresa nel volume Scienza e metodo nel 1908 – Poincaré scrive:

«Per Tolstoj la parola “utilità” non ha chiaramente lo stesso significato che le viene attribuito dagli uomini d’affari, e con loro dalla maggior parte dei nostri contemporanei. Egli si preoccupa poco delle applicazioni industriali, delle meraviglie dell’elettricità o dell’automobilismo, che considera piuttosto come ostacoli al progresso morale; l’utile è unicamente ciò che può rendere l’uomo migliore» (p. 9).

Se le nostre scelte vengono determinate «soltanto dal capriccio o dall’utilità immediata non vi può essere ‘scienza per la scienza’, né, di conseguenza, scienza». Chi lavora «soltanto in vista di applicazioni immediate non lascerebbe niente dietro di sé» (p. 10):

«Basta aprire gli occhi per rendersi conto che tutte le conquiste dell’industria, che hanno arricchito un così gran numero di “uomini pratici” non sarebbero mai state realizzate se fossero esistiti solo questi uomini pratici, se costoro non fossero stati preceduti da pazzi disinteressati, morti in miseria, che non hanno mai pensato al profitto e ciò nondimeno avevano una guida diversa dal proprio esclusivo capriccio» (p. 10).

«Supponiamo che si voglia determinare una curva osservando alcuni dei suoi punti: l’uomo pratico, interessato soltanto all’utilità immediata, si limiterebbe a osservare soltanto i punti di cui avesse bisogno per qualche fine particolare», mentre «l’uomo di scienza, dato che vuole studiare la curva di per se stessa, suddividerà in maniera regolare i punti da osservare, e non appena ne conoscerà alcuni li unirà con un grafico regolare, e in tal modo otterrà la curva completa» (pp. 13-14).

L’uomo di scienza, non solo non «sceglie a caso i fatti che deve osservare” (p. 14), ma soprattutto non studia la natura per scopi utilitaristici:

«L’uomo di scienza non studia la natura perché ciò è utile; la studia perché ci prova gusto, e ci prova gusto perché la natura è bella. Se la natura non fosse bella, non varrebbe la pena conoscerla, né varrebbe la pena vivere la nostra vita. Non intendo parlare, naturalmente, di quella bellezza che colpisce i sensi, della bellezza delle apparenze qualitative; non che la disdegni, tutt’altro, ma essa non ha nientea che vedere con la scienza. Intendo invece parlare di quella bellezza più riposta che deriva dall’ordine armonioso delle parti, e che può essere colta dalla pura intelligenza. Essa dà un corpo, uno scheletro per così dire, alle cangianti apparenze che deliziano i nostri sensi, e senza questo sostegno la bellezza di quei sogni fugaci non sarebbe che imperfetta, perché confusa e sempre fuggitiva» (p. 15).

 

Henri Poincaré, L’analisi e la fisica, in Id., Il valore della scienza, La Nuova Italia, 1984.

 

 

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Pseudo-Longino – L’amore per il denaro è un malattia che rimpicciolisce l’animo. Genera insolenza, illegalità, spudoratezza.

Sublime

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«[…] la brama di ricchezze […] ci porta alla schiavitù, o, si potrebbe dir meglio, mandano a picco i nostri beni con tutto l’equipaggio.

L’amore per il denaro è un malattia che rimpicciolisce l’animo.

[…] Benché ci pensi sopra, non riesco a trovar la ragione per cui non debba esser possibile (a tal punto stimiamo una ricchezzasenza limiti, o, per parlar più schietto, l’abbiamo divinizzata) non subire nell’animo nostro le conseguenze malefiche della stessa natura che con questa si fanno avanti. […]

E se per giunta si lascia che questi discendenti della ricchezza vadano avanti negli anni, generano rapidamente negli animi dei tiranni inesorabili: l’insolenza, l’illegalità e la spudoratezza».

Pseudo-Longino, Del sublime, testo greco a fronte, trad. di Francesco Durante, Introduzione di N. Ordine, Milano, Rizzoli [Edizione speciale per il “Corriere della Sera”], 2012, XLIV, 6-7, p. 209.

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pseudo-Longino  Nome ‒ consacrato da una lunga tradizione ‒ dell’autore non noto del celebre trattato Del sublime (Περὶ ὕψους). Attribuito erroneamente a Cassio Longino, nel titolo del Codex Parisinus graecus 2036, del 10° sec., lo scritto viene detto «Διονυσίου Λογγίνου», ma nell’indice del contenuto del medesimo codice, e in un manoscritto vaticano di età rinascimentale, si legge la più dubbiosa, e perciò rivelatrice, indicazione «Διονυσίου ἢ Λογγίνου» («di Dionisio o di Longino»). Tale scritto è uno dei più importanti documenti della critica letteraria nell’antichità, composto da un ignoto filologo dei primi decenni del 1° sec. d.C.

Dizionario di Filosofia Treccani



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Friedrich Hölderlin (1770-1843) – L’uomo che pensa deve agire, deve dispiegarsi. Egli può molto, stupenda è la sua parola che strasforma il mondo. Un potente anelito, con radici profonde, lo spinge verso l’alto.

Holderlin

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«L’uomo che pensa
deve agire, deve dispiegarsi
favorendo e rasserenando la vita intorno a sé.
Colma di tacita forza, la grande natura
abbraccia colui che la intuisce
affiché ne evochi lo spirito; l’uomo porta
nel cuore la pena e la speranza, e un potente anelito,
con radici profonde, lo spinge verso l’alto.
Egli può molto, stupenda è la sua parola
che strasforma il mondo».

Friedrich Hölderlin, La morte di Empedocle,
a cura di Laura Balbiani e Elena Polledri, II stesura, vv. 525-534,
Bompiani, 2003, pp. 193, 195.

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Edward W. Saïd (1935-2003) – L’essenza dell’umanesimo coincide con la comprensione della storia umana come un processo continuo di autocomprensione e autorealizzazione: un mezzo per interrogare, mettere in discussione e riformulare ciò che ci viene presentato sotto forma di certezze già mercificate, impacchettate, epurate da ogni elemento controverso e acriticamente codificate.

Said

Edward W. Said
Umanesimo e critica democratica

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Il cambiamento è la storia umana, e la storia umana, in quanto fatta da azioni umane che le conferiscono senso, costituisce la base delle discipline umanistiche.

[…] è ora sufficiente ricordare che nel cuore dell’umanesimo si trova la convinzione, laica, che il mondo storico è fatto dagli uomini e dalle donne, e non da Dio, e che può essere compreso […] Gli studi umanistici non implicano affatto la rinuncia e l’esclusione. È piuttosto vero il contrario: il loro scopo è quello di rendere ogni cosa disponibile per l’indagine critica in quanto prodotto sia del lavoro e delle energie umane per l’emancipazione e la diffusione della cultura e, cosa altrettanto importante, sia dell’umano fraintendimento e dell’errata interpretazione del passato e del presente collettivo.

Non esiste errata interpretazione che non possa essere rivista, modificata o rovesciata. Non esiste storia che non possa essere in qualche misura recuperata e rispettosamente compresa in tutte le sue sofferenze e in tutte le sue conquiste. Per converso, non esiste vergognosa e segreta ingiustizia o crudele punizione collettiva, o piano manifestamente imperiale di dominio, che non possa essere esposto, spiegato e criticato. Di certo, tutto ciò rappresenta il cuore dell’educazione umanistica […].

Non appena si prende in considerazione la presenza storica delle discipline umanistiche, si incontrano […] due posizioni in continua lotta tra loro. Una interpreta il passato come una storia fondamentalmente compiuta, l’altra vede la storia, e il passato stesso, come irrisolta, ancora in formazione, aperta alla presenza e alle sfide di ciò che emerge via via e risulta ancora inesplorato, degno di attenzione.

[…] Non vedere che l’essenza dell’umanesimo coincide con la comprensione della storia umana come un processo continuo di autocomprensione e autorealizzazione, non solo per noi, maschi, europei e americani, ma per tutti, significa non vedere nulla. Ci sono altre tradizioni nel mondo, altre culture, altri genii. Una stupenda frase di Leo Spitzer, uno dei più brillanti lettori che il Novecento abbia prodotto, che trascorse i suoi ultimi anni lavorando in America come studioso delle origini e degli sviluppi della cultura europea, mi pare particolarmente appropriata: «L’umanista» dice «crede nel potere che la mente umana ha di indagare se stessa» (Leo Spitzer, Critica linguistica e storia del linguaggio, Laterza, 1954, p. 138). Notate bene che Spitzer non dice la mente europea o solo il canone occidentale. Parla della mente umana tout court.

[…] non esiste vero umanesimo il cui obiettivo sia limitato alla patriottica celebrazione delle virtù della nostra cultura, della nostra lingua, dei nostri monumenti. L’umanesimo è l’esercizio delle facoltà di ognuno, attraverso il linguaggio, per capire, reinterpretare e cimentarsi con i prodotti della lingua nella storia, in altre lingue e in altre storie. La sua grande rilevanza per me oggi consiste nel fatto che non è un modo per consolidare e affermare quello che «noi» abbiamo sempre saputo e sentito, ma piuttosto un mezzo per interrogare, mettere in discussione e riformulare ciò che ci viene presentato sotto forma di certezze già mercificate, impacchettate, epurate da ogni elemento controverso e acriticamente codificate. Incluse quelle contenute nei capolavori archiviati sotto la rubrica «classici».

Edward W. Saïd, Umanesimo e critica democratica, il Saggiatore, 2004, pp. 40,51-52, 55-56, 57.


Risvolto di copertina

Dopo aver assistito al crollo delle torri gemelle nel 2001 e un anno prima della morte, Edward Said rivendica la possibilità di «criticare l’umanesimo in nome dell’umanesimo». In contrapposizione a un cosmopolitismo elitario e a una deriva nazionalistica chiusa su se stessa, Said rilancia un nuovo umanesimo che recupera la precisione filologica, l’interpretazione critica delle fonti, la sensibilità storica della tradizione umanistica europea, aprendosi al dialogo con culture distanti.
Ripercorrere la storia della cultura con lo sguardo filologico significa per l’autore ricostruire gli intrecci e le condivisioni che caratterizzano i rapporti tra tradizioni diverse, sia pure nella conflittualità, come i rapporti tra mondo arabo, ebraico e cristiano. La filologia, come scienza critica della lettura, risulta quindi fondamentale per una conoscenza umanistica, in quanto antidoto contro lo stravolgimento dei testi sacri e profani quotidianamente operato dal linguaggio del potere e dei media. Inizialmente concepiti per il pubblico accademico, estinatario privilegiato di tutta la sua vita e principale referente del suo insegnamento umanistico, questi scritti presentano un viaggio affascinante fra i testi e le parole. Insieme ad alcune delle voci più autorevoli del dibattito critico-filologico del Novecento Auerbach, Spitzer, Poirier Said definisce i tratti di un nuovo umanesimo militante adeguato a una visione autenticamente universalistica.


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Siegbert Salomon Prawer (1925-2012) – Pochissimi hanno letto tanto e, devo aggiungere, così intelligentemente come Karl Marx. Per lui i libri erano strumenti di lavoro, non oggetti di lusso

Prawer

La biblioteca di Marx

Siegbert Salomon Prawer, La biblioteca di Marx, Garzanti, 1978.

«Pochissimi hanno letto tanto e, devo aggiungere, così intelligentemente come Karl Marx,» ha scritto Michail Bakunin. Come documenta puntualmente questo studio di S.S. Prawer, la presenza costante della grande letteratura mondiale nell’opera di Marx filosofo, economista, uomo politico e polemista, sta a testimoniare non soltanto la sua devozione per i grandi scrittori e personaggi letterari, ma anche e soprattutto la sua concezione non statica e accademica, ma viva e «vissuta» della conoscenza e della cultura. Una concezione che si esprime, in particolare, nella trasposizione ripetuta, martellante, ma non fastidiosa, di figure e protagonisti della grande letteratura negli avvenimenti del tempo, nella sua visione della storia e del mondo, attraverso un fitto e divertito gioco di allusioni, paragoni, parafrasi, allegorie, che non è mai uggiosa esibizione fine a se stessa, ma strumento per lui indispensabile di comunicazione del pensiero. «Per lui,» ricordava il genero Paul Lafargue, «i libri erano strumenti di lavoro, non oggetti di lusso».


Cervantes e don Chisciotte, Omero e Tersite, Eschilo e Prometeo, Shakespeare e Shylock, Rabelais e Gargantua, Goethe e Mefistofele, Dante e il conte Ugolino, l’Arioso e Rodomonte, Swift e Gulliver, Dickens e Pecksniff, Balzac e Mercadet, Defoe e Robinson Crusoe, insieme con la Bibbia, le Mille e una notte, e il folclore popolare, si trasformano così, nell’opera di Marx, in presenze vive e reali che, spogliate del loro carattere «paludato», diventano alleate preziose che suggeriscono spunti alle sue polemiche e si rivelano componente vitale e imprescindibile nella storia e nell’evoluzione dell’umanità.


I figli del dottor Caligari

Da quando abbiamo cominciato a spaventarci al cinema, l'ingrediente dell'adrenalina sembra indispensabile per il successo di un film. Ma com'è cominciata questa luna di miele tra grande schermo e paura? I figli del dottar Calligari racconta le origini di un rapporto virtuoso di cui non possiamo più fare a meno. La prima ispiratrice dell'horror è la letteratura, messa in scena mirabilmente, ad esempio nel film di Robert Wiene Il gabinetto del dottor Caligari. Tutti i trucchi tecnici e narrativi che fanno della magia del cinema, l'incubo delle notti più nere sono messi allo scoperto in questo libro che sa intrattenerci con uno stile avvincente e con un grande apparato di ricerca. Da Nosferatu a Dracula principe delle tenebre l'autore traccia l'evoluzione del film del genere nel cinema, prendendo in esame sequenze filmiche precise in cui il terrore gioca un ruolo dominante; suggerisce i legami tra il racconto del terrore letterario e quello cinematografico e mostra come il primo si trasformi nel secondo.

 


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Daniel De Foe (1660-1731) – Robinson Crusoe è il naufrago della società pre-moderna che approda sull’isola della modernità: è l’infelice che ignora le cause della propria infelicità. Anzi, che ignora perfino la propria infelicità, perché la sua ignoranza di se stesso è abissale

De Foe

Stampa originale del 1719 del libro “Robinson Crusoe”, di Daniel DefoeStampa originale del 1719 del libro Robinson Crusoe, di Daniel De Foe.

di Francesco Lamendola (16/08/2011)

 

«Ho osservato che molti autori di libri di viaggi si sono dilungati a narrare delle famiglie dei nobili e dei ricchi […] ne ho trovati davvero pochi che si siano occupati della gente umile: come vive, quali sono le sue attività […] eppure, secondo me, queste osservazioni sono di grande importanza».

Daniel De Foe, Viaggio attraverso l’intera isola della Gran Bretagna, 3 voll., 1724-1727.

 

Il Viaggio attraverso l'intera isola della Gran Bretagna fu pubblicato in tre volumi fra il 1724 e il 1727 ed era una vera e propria guida turistica per i paesi britannici. Accanto a pagine di straordinaria invenzione letteraria, l'opera presenta una gran quantità di informazioni geografiche, storiche ed economiche, un'accurata descrizione di città e campagne e molte curiosità per il viaggiatore dell'epoca.

Che ne pensava Karl Marx

Karl Marx commentò per la prima volta Robinson Crusoe in due scritti giovanili, La miseria della filosofia e i Grundrisse, pubblicati postumi. Nel primo, Marx critica Robinson sostenendo che si tratta di un eremita che produce solo per sé e che quindi non può rappresentare veramente il processo di produzione che interpreta come un fatto essenzialmente sociale. Ma nei Grundrisse, riprende la discussione in modo più completo, insistendo che «il cacciatore e il pescatore isolati da cui partono Smith e Ricardo» non appartengono al Robinson originale di Defoe ma «alle poco fantasiose riscritture delle storie di Robinson Crusoe [Robinsonaden]». Quindi per Marx le Robinsonate degli specialisti dell’economia sono fuorvianti; non così invece il romanzo originale di Defoe. Come scrive S. S. Prawer, La biblooteca di Marx, Garzanti: «Marx in verità attacca ‘il mito di Robinson Crusoe’ e non il libro in sé». Questo appare ancora più chiaramente nella discussione più esauriente e dettagliata che Marx fa di Robinson nel primo libro del Capitale: «Poiché l’economia politica predilige le robinsonate evochiamo per primo Robinson nella sua isola […] ha tuttavia bisogni di vario genere da soddisfare, e quindi deve compiere lavori utili di vario genere, deve fare strumenti, fabbricare mobili, addomesticare capre, pescare, cacciare ecc. Qui non parliamo delle preghiere e simili, poiché il nostro Robinson ci prende il suo gusto e considera tali attività come ricreazione. Nonostante la differenza fra le sue funzioni produttive egli sa che esse sono soltanto differenti forme di operosità dello stesso Robinson, e dunque modi differenti di lavoro umano […]. Il nostro Robinson che ha salvato dal naufragio orologio, libro mastro, penna e calamaio, comincia da buon inglese a tenere la contabilità di se stesso. Il suo inventario contiene un elenco degli oggetti d’uso che possiede, delle diverse operazioni richieste per la loro produzione, e infine del tempo di lavoro che gli costano in media determinate quantità di questi diversi prodotti. Tutte le relazioni fra Robinson e le cose che costituiscono la ricchezza che egli stesso s’è creata sono qui tanto semplici e trasparenti, che (è possibile) capirle senza particolare sforzo mentale. Eppure, vi sono contenute tutte le determinazioni essenziali del valore» (K. Marx, Il Capitale, 1970 pp. 108-109).


 

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Il colonnello Jak

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Niccolò Machiavelli (1469-1527) – Insegnare ad altri quel bene che per la malignità dei tempi e della fortuna tu non hai potuto operare, acciocché, essendone molti capaci, alcuno di quelli più amati dal cielo possa operarlo

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Niccolo MACHIAVELLI, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Venice, Aldus, 1540.

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«Se la virtù che un tempo regnava e il vizio che ora regna non fossero più chiari che il sole, andrei parlando più rattenuto … Ma essendo la cosa sì manifesta che ciascuno la vede, sarò animoso in dire manifestamente quello che intenderò di quelli e di questi tempi, acciocché gli animi dei giovani, che questi miei scritti leggeranno, possano fuggire questi e prepararsi ad imitar quelli.
Perché è ufficio d’uomo buono insegnare ad altri quel bene che per la malignità dei tempi e della fortuna tu non hai potuto operare, acciocché, essendone molti capaci, alcuno di quelli più amati dal cielo possa operarlo».

Niccolò Machiavelli, Discorsi, Proemio, Libro II, 1531.

Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio


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