Giancarlo Paciello – La rivolta o meglio, la rivincita del popolo, o meglio ancora, del demos

Giancarlo Paciello–Elezioni2018

La rivolta o meglio, la rivincita del popolo,

o meglio ancora, del demos,

(l’aggregato dei più svantaggiati economicamente)

di Giancarlo Paciello

 

Indice:

1. Alcune considerazioni generali / 2. La parola ai numeri / 2.1 Le ultime tre elezioni politiche in sintesi / 2.2 L’analisi del voto / 2.3 Il redde rationem di una classe politica improvvida / 2.4 La calata degli “antipolitici” / 2.5 Ancora i numeri / 3. Agli albori del secolo / 3.1 Oggi / 4. La grande illusione ovvero il ritorno della democrazia / 4.1 La nascita della democrazia / 4.2 I tre aspetti sostanziali della polis / 4.2.1 La parola / 4.2.2 Pubblicità delle manifestazioni più importanti della vita sociale / 4.2.3 L’isonomia / 4.2.4 Note a margine / 5. La democrazia moderna / 5.1. Costante la restrizione censitaria dei diritti politici / 5.2 Tocqueville e il rifiuto del suffragio universale diretto / 5.3 Ancora sul suffragio universale / 5.3.1 La demolizione pratica del suffragio universale / 5.3.2 L’attacco teorico alla democrazia a) La democrazia da contenuto a forma, da fine a mezzo/metodo. b) L’elogio dell’apatia politica c) La democrazia ridotta a democrazia elettorale. d) La denuncia degli “eccessi della democrazia” / 5.3.3 “Mercati” contro democrazia: globalizzazione e attacco alla sovranità statale / 5.3.4 Il golpe americano e lo “stato di eccezione” planetario / 5.3.5 Le conclusioni di Giacché – Liberare la democrazia / 6. La democrazia ai tempi della globalizzazione.

 

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Giancarlo Paciello,
La rivolta o meglio, la rivincita del popolo, o meglio ancora, del demos

 



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Gaio Sallustio Crispo (86-35 a.C.) – Alla natura umana manca la volontà di agire più che la forza o il tempo. Ma è lo spirito a guidare e dominare la vita degli uomini. Soltanto pochi desiderano la libertà. I più non cercano che buoni padroni.

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003u  «Namque pauci libertatem, pars magna iustos dominos volunt». «Soltanto pochi desiderano la libertà. I più non cercano che buoni padroni».

 Sallustio, Epistula Mithridatis.

 

 

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«Falso queritur de natura sua genus humanum, quod inbecilla atque aevi brevis forte potius quam virtute regatur. Nam contra reputando neque maius aliud neque praestabilius invenias magisque naturae industriam hominum quam vim aut tempus deesse. Sed dux atque imperator vitae mortalium animus est. Qui ubi ad gloriam virtutis via grassatur, abunde pollens potensque et clarus est neque fortuna eget, quippe quae probitatem, industriam aliasque artis bonas neque dare neque eripere cuiquam potest».

«A torto il genere umano si lamenta perché la sua natura, debole e di breve durata, è retta dal caso più che dalla virtù. A ben vedere infatti, si scoprirà al contrario che non c’è nulla di più grande e nobile, e che alla natura umana manca la volontà di agire più che la forza o il tempo. Ma è lo spirito a guidare e dominare la vita degli uomini. Quando esso tende alla gloria attraverso la via della virtù, possiede vigore, forza e fama in abbondanza e non ha bisogno della fortuna, poiché non può ella infondere onestà, tenacia e altre qualità morali ad alcuno, né strapparle a chi le possiede».

Sallustio, Bellum Iugurthinum, 1, 1-3; trad. di Lisa Piazzi, La guerra contro Giugurta

 


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Salvatore A. Bravo – Il collare e le catene delle navi negriere, sono ora sostituiti dal controllo digitale, un panopticon che controlla per spezzare sul nascere la possibilità di un pensiero che voglia progettare un mondo altro.

Karl Marx 68

Il capitalismo si afferma grondante di sangue.

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S. EISENSTEIN.

Marx, per argomentare tale tesi, ricostruisce la genesi del capitale, l’accumulazione originaria del capitale. Tra le condizioni che hanno permesso lo sviluppo del capitalismo Marx enumera una serie di cause tra cui il commercio triangolare. Quest’ultimo denuncia la vera natura del capitalismo, ne smaschera la sostanza in modo inequivocabile. Il commercio triangolare tra Inghilterra, Africa (Guinea), e continente americano nel sedicesimo e diciasettesimo secolo, ha consentito una enorme eccedenza in denaro e la produzione del cotone a costo zero. Entrambe le variabili sono tra le precondizioni più importanti per l’affermarsi della prima Rivoluzione industriale. Se per mare il cattivo infinito del denaro – rompendo ogni legge della misura, della razionalità e dell’etica – imperversava e si concretizzava nelle navi negriere, in terra il capitale ungulato mostrava il suo volto con le recinzioni.

I campi recintati in Inghilterra (enclosures), raffigurati in questo dipinto del Settecento

Campi recintati in Inghilterra (enclosures),  dipinto del Settecento

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Sia nel caso delle navi negriere che nelle recinzioni in Inghilterra, si assisteva alla deportazione coatta e violenta di popoli e culture da un contesto in un altro al fine della produzione. Le recinzioni necessarie a trasformare il latifondo in azienda agricola, impedivano l’uso comune delle terre. Il latifondo conservava una parte comune delle terre nelle quali i contadini potevano procurarsi cibo, legna, coltivare orti o piccoli appezzamenti di terra per la famiglia o per la comunità. Con le recinzioni si assiste alla scomparsa di un popolo costretto a servire il capitale in città fumose e anonime. Con le recinzioni scompare l’abitudine a condividere, si afferma l’individualismo borghese sancito da Hobbes come da Locke. La volontà dei deportati non ha mai contato, la sopravvivenza li ha costretti a vivere l’esperienza distruttiva della fabbrica.
Se in terra il movimento coatto è dalla campagna alla città, o meglio alla fabbrica, in mare è da continente a continente. Le navi negriere sono l’espressione concreta e metaforica della “cultura” della fabbrica e del potere disciplinare. Nelle navi come nelle fabbriche, gli spazi erano organizzati secondo un calcolo razionale: legati l’un l’altro con catene, per poter accumulare più schiavi possibili, si calcolava per ciascun nero lo spazio e la quantità di cibo e d’acqua necessarie. Nel caso non sopravvivessero per le cattive condizioni igieniche, per le malattie e per il terrore, la merce umana era gettata in acqua. Le navi negriere erano munite di assicurazione qualora accadessero incidenti in mare e dunque il carico fosse perso. Marx, nel primo libro del Capitale, svela l’essenza mondana del capitale attraverso la ricostruzione storica e genealogica del fenomeno capitalismo:

 

 

Marx-IL-CAPITALE-volume-2-Newton-Compton   «I vari momenti dell’accumulazione originaria si distribuiscono ora, più o meno, in successione cronologica, specialmente fra Spagna, Portogallo, Olanda, Francia e Inghilterra. Alla fine del secolo XVII quei vari momenti vengono combinati sistematicamente in Inghilterra in sistema coloniale, sistema del debito pubblico, sistema tributario e protezionistico moderni. I metodi poggiano in parte sulla violenza più brutale, come per esempio il sistema coloniale. Ma tutti si servono del potere dello Stato, violenza concentrata e organizzata della società, per fomentare artificialmente il processo di trasformazione del modo di produzione feudale in modo di produzione capitalistico e per accorciare i passaggi. La violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di una società nuova. È essa stessa una potenza economica.
Un uomo famoso per il suo senso critiano, W. Howitt, così parla del sistema coloniale cristiano: “Gli atti di barbarie e le infami atrocità delle razze cosiddette cristiane in ogni regione del mondo e contro ogni popolo che sono riuscite a soggiogare, non trovano parallelo in nessun’altra epoca della storia della terra, in nessun’altra razza, per quanto selvaggia e incolta, spietata e spudorata”. La storia dell’amministrazione coloniale olandese e l’Olanda è stata la nazione capitalistica modello del secolo XVII — “mostra un quadro insuperabile di tradimenti, corruzioni, assassini e infamie”. Più caratteristico di tutto è il suo sistema del furto di uomini a Celebes per ottenere schiavi per Giava. I ladri di uomini venivano addestrati a questo scopo. Il ladro, l’interprete e il venditore erano gli agenti principali di questo traffico, e prìncipi indigeni erano i venditori principali. La gioventù rubata veniva nascosta nelle prigioni segrete di Celebes finché era matura ad essere spedita sulle navi negriere. Una relazione ufficiale dice: “Questa sola città di Makassar per esempio è piena di prigioni segrete, una più orrenda dell’altra, stipate di sciagurati, vittime della cupidigia e della tirannide, legati in catene, strappati con la violenza alle loro famiglie”. Per impadronirsi di Malacca gli olandesi corruppero il governatore portoghese, che nel 1641 li lasciò entrare nella Città; ed essi corsero subito da lui e l’assassinarono per “astenersi” dal pagamento della somma di 21.875 sterline, prezzo del tradimento. Dove gli olandesi mettevano piede, seguivano la devastazione e lo spopolamento. Banjuwangi, provincia di Giava, contava nel 1750 più di ottantamila abitanti, nel 1811 ne aveva ormai soltanto ottomila. Ecco il doux commerce!
La Compagnia inglese delle Indie Orientali aveva ottenuto, come si sa, oltre al dominio politico nelle Indie Orientali, il monopolio esclusivo del commercio del tè, del commercio con la Cina in genere e del trasporto delle merci dall’Europa e per l’Europa. Ma la navigazione costiera dell’India e fra le isole, come pure il commercio all’interno dell’India, erano divenuti monopolio degli alti funzionari della Compagnia. I monopoli del sale, dell’oppio, del betel e di altre merci erano miniere inesauribili di ricchezza. I funzionari stessi fissavano i prezzi e scorticavano a piacere l’infelice indù. Il governatore generale prendeva parte a questo commercio privato. I suoi favoriti ottenevano contratti a condizioni per le quali, più bravi degli alchimisti, essi potevano fare l’oro dal nulla» (K. Marx, Il Capitale, Libro primo, Genesi del capitalista industriale).

 

Come detto il capitalismo nasce già grondante di sangue; le condizioni di emergenza spiegano il fine e la sua evoluzione: lo sfruttamento, le merci che feticisticamente governano i soggetti, poiché padroni e servi sono due prospettive della stessa sostanza. Le due dimensioni da terra e dal mare sono spiegabili con la stessa teleologia: il plus valore ed il plus lavoro. I soggetti che divengono religiosi servitori della produzione fine a se stessa, in cui il valore d’uso è sostituito dal valore di scambio, vera struttura portante della forma mentis del capitale.

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Lo storico francese Olivier Pétré-Grenouilleau (Les Traites négrières. Essai d’histoire globale, 2004) ha documentato e quantificato il numero delle vittime. Ha distinto per aree geografiche e rotte le tre tratte principali. La tratta orientale ha causato 17 milioni di persone scomparse. La tratta intra africana ha causato 14 milioni di vittime, mentre la tratta atlantica, tra il 1519 ed il 1867, 12 milioni. Durante l’attraversata circa un sesto degli schiavi moriva, per cui l’Atlantico era di fatto un cimitero liquido. Un vero genocidio non riconosciuto. Si consideri che gli effetti della tratta sono stati devastanti per le popolazioni africane: la forza lavoro impiegata coattamente che il capitale ha utilizzato, naturalmente, ha vampirizzato le energie migliori dell’Africa, ha privato il continente di generazioni che avrebbero potuto contribuire allo sviluppo dell’Africa.

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Milioni di uomini, donne e bambini sono stati trasformati in energia per la produzione e lo sviluppo degli Stati Uniti e dell’Inghilterra. Solo nel 1807 la schiavitù in Inghilterra è stata abolita, mentre in Mauritania solo nel 1980. Capire la genesi del Capitalismo è fondamentale per ricostruire il senso dei nostri giorni. La storia ama i corsi ed i ricorsi storici, come affermava Vico, i quali si ripetono in modo mai uguale ma simile. Oggi assistiamo all’affermarsi e al riaffermarsi di un’esperienza già vissuta.

La storia, affermava Gramsci, è maestra di vita ma non ha scolari: forse è il nostro caso. Dall’Africa e dall’Asia giungono schiavi per il turbocapitalismo: degli sradicati, che fuggono dalle miserie, come dalle guerre, di cui l’Occidente è un comprimario in quanto a responsabilità. I nuovi schiavi che vengono per così dire “accolti”, in nome di “diritti universali”, servono come manovalanza a costo minimo per la valorizzazione del capitale; l’aspetto più inquietante che non viene messo in evidenza è che tale massiccia esportazione di lavoro neo-schiavile annichilisce il futuro delle nazioni africane, in quanto uomini e donne spesso con competenze altissime sono utilizzati dal nostra sistema a decremento dei luoghi di origine, i quali in tal modo divengono dei non luoghi molto affollati, dove manca tutto, specialmente la prassi che orienta verso il futuro. La massiccia e costrittiva “accoglienza” condanna interi continenti al sottosviluppo perenne. Il Mediterraneo diventa spesso il loro cimitero. Naturalmente una volta approdati il loro futuro è segnato dallo sfruttamento e dalla cancellazione dell’identità culturale (in nome della così detta “integrazione” da realizzarsi come prezzo dovuto). La situazione congiunturale favorisce, legalmente lo sfruttamento e la condizione neo-servile mascherata dalla legalità “buonista”. La controriforma del lavoro del sign. Renzi ha introdotto – con l’articolo quattro –, la possibilità del controllo digitale del lavoratore, favorendo la forma mentis et agendi finalizzata alla totale riduzione dei lavoratori ad oggetti da controllare sullo stesso piano delle merci. L’articolo così recita, e il termine articolo mai è stato tanto appropriato: «Esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale».

 

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Mandatory Credit: Photo by Newscast/REX/Shutterstock (5840707pt) the website of Amazon VARIOUS

Naturalmente il collare e le catene delle navi negriere, sono ora sostituiti dal controllo digitale, un panopticon che controlla per spezzare sul nascere la possibilità di un pensiero che voglia progettare un mondo altro. Si vuole con la fermezza del controllo introiettato, col ricatto e con l’abitudine ad essere strumento e mai soggetto, impedire ogni riorganizzazione dei popoli come dei lavoratori, ma in quanto uomini. Si devia da tale condizione con espressioni retoriche per evitare che si guardi il volto meduseo della trappola in cui stiamo cadendo. Ripensare con Marx il presente ci può dare dei validi strumenti, delle categorie di comprensione che possono far cadere il velo di Maya della falsa rappresentazione della realtà. La prassi necessita della teoria, i due piani se scissi producono o semplice azione poietica o asfittica teoria. La prassi di cui urge la presenza, dunque, necessita che si ritorni a pensare per capire come orientarsi tra le ipostasi del nuovo ordine/disordine globale.

 

 

 


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William Howitt (1792-1879) – Gli atti di barbarie e le infami atrocità delle razze cosiddette cristiane in ogni regione del mondo e contro ogni popolo non trovano parallelo in nessun’altra epoca della storia della terra.

William Howitt
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Colonization and christianity

«Gli atti di barbarie e le infami atrocità delle razze cosiddette cristiane in ogni regione del mondo e contro ogni popolo che sono riuscite a soggiogare, non trovano parallelo in nessun’altra epoca della storia della terra, in nessun’altra razza, per quanto selvaggia e incolta, spietata e spudorata».

William Howitt, Colonization and christianity. A popular history of the treatment of the natives by the europeans in all their colonies [Colonizzazione e cristianesimo. Storia popolare del trattamento riservato agli indigeni dagli europei in tutte le loro colonie], Londra, 1838, p. 9. Citato da Karl Marx in Il Capitale, Libro I, Tomo secondo, Newton Compton, 1974, p. 1000.

 


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Manlio Dinucci – Guerra nucleare. Il giorno prima. Da Hiroshima a oggi: chi e come ci porta alla catastrofe.

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Guerra nucleare. Il giorno prima

 

 

 

 

377px-Nagasakibomb  Sembra di vivere nel film “The day after” (1983), in quella cittadina del Kansas dove la vita scorre tranquilla accanto ai silos dei missili nucleari, con la gente che il giorno prima ascolta distrattamente le notizie sul precipitare della situazione internazionale, finché vede i missili lanciati contro l’URSS e poco dopo spuntare i funghi atomici delle testate nucleari sovietiche. Questo libro ricostruisce la storia della corsa agli armamenti nucleari dal 1945 ad oggi, sullo sfondo dello scenario geopolitico mondiale, contribuendo a colmare il vuoto di informazione creato ad arte su questo tema di vitale importanza. Si è diffusa la sensazione che una guerra nucleare sia ormai inconcepibile e si è creata di conseguenza la pericolosa illusione che si possa convivere con la Bomba. Ossia con una potenza distruttiva che può cancellare la specie umana e quasi ogni altra forma di vita. Lo possiamo evitare, mobilitandoci per eliminare le armi nucleari dalla faccia della Terra. Finché siamo in tempo, il giorno prima.

 

 

Da Hiroshima a oggi:  chi e come ci porta alla catastrofe

di Manlio Dinucci

La lancetta dell’«Orologio dell’Apocalisse» – il segnatempo che sul Bollettino degli Scienziati Atomici statunitensi indica a quanti minuti siamo dalla mezzanotte della guerra nucleare – è stata spostata in avanti: da 3 a mezzanotte nel 2015 a 2,5 minuti nel 2017. Tale fatto passa però inosservato o, comunque, non suscita particolari allarmi.

Sembra di vivere nel film The Day After (1983), in quella cittadina del Kansas dove la vita scorre tranquilla accanto ai silos dei missili nucleari, con la gente che il giorno prima ascolta distrattamente le notizie sul precipitare della situazione internazionale, finché vede i missili lanciati contro l’URSS e poco dopo spuntare i funghi atomici delle testate nucleari sovietiche.

Questo libro ricostruisce la storia della corsa agli armamenti nucleari dal 1945 ad oggi, sullo sfondo dello scenario geopolitico mondiale, contribuendo a colmare il vuoto di informazione creato ad arte su questo tema di vitale importanza. Si è diffusa la sensazione che una guerra nucleare sia ormai inconcepibile e si è creata di conseguenza la pericolosa illusione che si possa convivere con la Bomba. Ossia con una potenza distruttiva che può cancellare la specie umana e quasi ogni altra forma di vita. Lo possiamo evitare, mobilitandoci per eliminare le armi nucleari dalla faccia della Terra.  Finché siamo in tempo, il giorno prima.

L’autore, giornalista e saggista,  collaboratore de il manifesto e di Pandora TV, è membro del Comitato No Guerra No Nato.
Con Zambon Editore ha pubblicato L’Arte della Guerra / Annali della strategia USA/NATO (1990-2016).
È stato direttore esecutivo per l’Italia della International Physicians for the Prevention of Nuclear War, associazione insignita nel 1985 del Premio Nobel per la Pace per aver «fornito preziosi servigi all’umanità divulgando informazioni autorevoli e diffondendo la consapevolezza sulle catastrofiche conseguenze di un conflitto nucleare».

INDICE

1 La nascita della Bomba 
1.1 Il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki
1.2 Gli effetti dell’esplosione nucleare su una città
1.3 Gli effetti della ricaduta radioattiva
1.4 L’inverno nucleare

2 La corsa agli armamenti nucleari 
2.1 Il confronto nucleare USA-URSS
2.2 I missili balistici intercontinentali
2.3 La crisi dei missili a Cuba e l’ingresso della Cina tra le potenze nucleari
2.4 La pianificazione dell’attacco nucleare
2.5 Il Trattato sullo spazio esterno e il Trattato di non-proliferazione 
2.6 I missili balistici a testate multiple indipendenti 
2.7 La bomba N
2.8 I trattati sui missili anti-balistici e sulla limitazione delle armi strategiche
2.9 La Bomba segreta di Israele 
2.10 L’ingresso di Sudafrica, India e Pakistan tra le potenze nucleari

3 La polveriera nucleare 
3.1 Un milione di Hiroshima
3.2 La «valigetta nucleare»
3.3 I falsi allarmi di attacco nucleare
3.4 Gli incidenti con armi nucleari
3.5 L’inquinamento radioattivo dei test e degli impianti nucleari
3.6 Il legame tra nucleare militare e civile
3.7 Gli incidenti alle centrali nucleari
3.8 I movimenti antinucleari durante la guerra fredda 

4 Le guerre del dopo guerra fredda 
4.1 Il mondo al bivio
4.2 Golfo: la prima guerra del dopo guerra fredda
4.3 Le armi a uranio impoverito 
4.4 Il riorientamento strategico degli Stati Uniti 
4.5 Il riorientamento strategico della NATO
4.6 L’intervento NATO nella crisi balcanica e la guerra contro la Jugoslavia 
4.7 Terreno di prova dei bombardieri da attacco nucleare e uso massiccio di armi a uranio impoverito 
4.8 Il superamento dell’Articolo 5 e la conferma della leadership USA
4.9 Il «Nuovo Modello di Difesa» dell’Italia
4.10 L’espansione della NATO ad Est verso la Russia

5 La messinscena del disarmo 
5.1 Le armi nucleari e lo «scudo anti-missili» nella ristrutturazione delle forze USA
5.2 I trattati START sulla riduzione delle armi strategiche 
5.3 La messa al bando dei test nucleari e i test «subcritici»
5.4 Il Trattato di Mosca e il nuovo START
5.5 L’ingresso della Corea del Nord tra le potenze nucleari
5.6 Altri paesi in grado di fabbricare armi nucleari 
5.7 Le armi chimiche e biologiche 

6 La nuova offensiva USA/NATO 
6.1 11 Settembre: maxi-attacco terroristico in mondovisione 
6.2 11 Settembre: le falle della versione ufficiale 
6.3 Afghanistan: l’inizio della «guerra globale al terrorismo» 
6.4 La seconda guerra contro Iraq
6.5 La guerra contro la Libia
6.6 La guerra coperta contro la Siria e la formazione dell’ISIS
6.7 Il colpo di stato in Ucraina 
6.8 Le guerre segrete dal volto umanitario 

7 L’Europa sul fronte nucleare 
7.1 L’Europa nel riarmo nucleare del Premio Nobel per la pace
7.2 Italia: portaerei nucleare USA/NATO nel Mediterraneo
7.3 La B61-12, nuova bomba nucleare USA per l’Italia e l’Europa 
7.4 L’escalation USA/NATO in Europa
7.5 Lo «scudo» USA sull’Europa 

8 Gli scenari dell’Apocalisse 
8.1 L’escalation qualitativa del confronto nucleare
8.2 La preparazione del first strike nucleare 
8.3 Armi elettromagnetiche e laser e aerei robot spaziali per la guerra nucleare
8.4 La mortale minaccia del plutonio e il monito inascoltato di Fukushima 
8.5 La minaccia del terrorismo nucleare 
8.6 Le nanoarmi: potenziali detonatori della guerra nucleare

9 Il giorno prima finché siamo in tempo
9.1 La strategia dell’Impero Americano d’Occidente
9.2 Il sistema bellico planetario degli Stati Uniti d’America 
9.3 L’ancoraggio dell’Italia alla macchina da guerra USA/NATO
9.4 Il disancoraggio dalla macchina da guerra USA/NATO, per un’italia sovrana e neutrale, libera dalle armi nucleari 

FONTE http://www.lantidiplomatico.it/dettnews-guerra_nucleare_il_giorno_prima__da_hiroshima_a_oggi_chi_e_come_ci_porta_alla_catastrofe/5871_22802/

 


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Petite Plaisance – A COSA SIAMO CHIAMATI? Ad una resistenza, in primo luogo culturale, alla attuale logica sistemica. Negando il proprio voto ai politici che legittimano il capitalismo assoluto. A dare l’esempio di una vita non motivata dalla ricerca del denaro e dei consumi e non guidata dalla tecnica. A progettare un mondo diverso perché si vuol vivere bene e nella verità.

A cosa siamo chiamati

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 Il nostro invito augurale
L’unico modello in rapporto al quale è umanamente sensato capire cosa vada accettato, e cosa respinto, di un sistema economico, è la libera comunità.
Il sistema economico contemporaneo è la negazione speculare della libera comunità, in quanto produce una collettività disgregata, despiritualizzata, coattivamente e ossessivamente comandata dalla ricerca del profitto e dalle procedure della tecnica. Esso prefigura perciò la morte dell’umanità dell’uomo, proprio in quanto è al di fuori di ogni giustizia e di ogni amore.
Un sistema economico, come quello oggi vigente su scala planetaria, che ha come suo elemento motore e come suo fine intrinseco il profitto monetario privato, e che si sviluppa senza più alcun condizionamento di princípi non economici, è la materializzazione stessa dell’ingiustizia.
Chi vive tranquillo sotto un simile sistema, non trovando nulla di riprovevole nell’attività delle banche, delle società finanziarie e delle imprese volte al profitto, dando il proprio voto ai politici che legittimano questo stato di cose, evitando di condannare pubblicamente i detentori del potere, accettando entusiasticamente tutte le innovazioni tecniche, è perciò un operatore di ingiustizia.
Le esperienze di resistenza a questo sistema sociale (esperienze di agire comunitario non mercantile, esperienze di rifiuto dei comportamenti tecnicizzati, esperienze di autentica comunicazione culturale al di fuori dei ruoli imposti dai poteri dominanti, esperienze di contrasto dei poteri economici e politici, ecc.), se sono vissute in maniera spiritualmente sana come esperienze d’amore per l’umanità dell’uomo e di libera comunità, non possono non essere avvertite come gratificanti e realizzanti di  per se stesse nel loro presente, indipendentemente dall’esito storico dei loro risultati nel loro presente e futuro temporale. Se si ha capacità di amare, e di progettare un mondo diverso, si resiste alla logica di questo sistema sociale semplicemente perché si vuol vivere bene e nella verità.

A COSA SIAMO CHIAMATI ?
La nostra umanità esige, per non morire, una resistenza, in primo luogo culturale, alla attuale logica sistemica.
Ciascuno di noi è chiamato, come uomo morale, a questa resistenza:
– è chiamato a considerare gli oligarchi dell’economia sempre avidi di sfruttare il lavoro, il territorio, i mercati, e i tecnoscienziati intenti a manipolare le specie viventi, per quello che in realtà sono: gli artefici consapevoli della distruzione dell’umanità dell’uomo;
– è chiamato a sottrarsi, nei limiti del possibile, alle logiche disumanizzanti;
– è chiamato a sperimentare le forme oggi possibili di agire comunitario;
– è chiamato a dare l’esempio di una vita non motivata dalla ricerca del denaro e dei consumi e non guidata dalla tecnica;
– è chiamato a pensare concettualmente e criticamente anche riguardo al funzionamento della propria personalità.

Quando la resistenza degli esseri umani guidati dalla loro capacità di amare, dal loro spirito di giustizia, e dalla loro comprensione intelligente di se stessi e della società, avrà spezzato in qualche punto della presente vita coattivamente “associata” l’attuale logica sistemica, e quando le carenze e le disfunzioni derivanti da tali rotture saranno affrontate con una logica nuova, in vista di soluzioni ispirate al vincolo solidale  e comunitario che deve legare tutti gli esseri umani, allora saremo usciti dal sentiero della notte.

Associazione culturale Petite Plaisance

 


Immagine in evidenza: Paul Klee, Ad Parnassum, 1932.

 

 

Coperta Quale progettualità?

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Petite Plaisance – Cerchiamo insieme nuovi orizzonti di senso! Ciò che molti dicono essere «impossibile» è invece il possibile cammino verso la realtà, verso la vera umanità dell’uomo, e la vera sapienza.

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Levis Mumford (1895-1990) – Gli utopisti trattano sempre la società come un tutto unico. La nostra civiltà ha poi diviso la vita in compartimenti. Sono giunto dunque a considerare il pensiero utopista come l’opposto dello spirito unilaterale, partigiano, specialistico.

Levis Mumford

Anche la più ingenua utopia possiede qualità umane
che mancano del tutto nei progetti dei super-uomini.
L. Mumford

 

Storia dell'utopia

Storia dell’utopia

Introduzione di Franco Crespi Traduzione di Roberto D’Agostino, Donzelli, 2008.


014  

«Ogni comunità, oltre alle istituzioni in vigore, possiede una riserva di potenzialità, che in parte sono radicate nel passato, ancora vive anche se celate, e in parte derivano da nuovi rapporti e mutamenti, che aprono la via ad ulteriori sviluppi».

 

Levis Mumford, Storia dell’utopia.


 

 

008   «Poco dopo la prima guerra mondiale, io vivevo ancora nel clima di speranza della generazione passata; ma mi rendevo conto che l’entusiasmo del grande XIX secolo era giunto alla fine. Quando ho iniziato ad esaminare storicamente le utopie, intendevo chiarire che cosa in esse fosse andato perduto e definire che cosa fosse ancora valido. Fin dal principio ero conscio di una virtù che era stata inspiegabilmente trascurata: le opere classiche degli utopisti trattavano sempre la società come un tutto unico e tenevano conto dei rapporti esistenti tra funzioni, istituzioni e fini dell’uomo. La nostra civiltà ha poi diviso la vita in compartimenti. Sono giunto dunque a considerare il pensiero utopista come l’opposto dello spirito unilaterale, partigiano, specialistico»

Anche la più ingenua utopia che sia stata mai scritta, possiede qualità umane che mancano del tutto nei progetti dei «super-uomini» di scienza e degli individui dalla cieca morale che hanno inventato l’attuale strategia russo-americana di sterminio totale. Gli utopisti, pur avendo sopravvalutato le forze degli ideali, sono chiaramente in possesso delle loro facoltà e vicini alla realtà umana, molto più dei «realisti» – scienziati e militari – che hanno trasformato l’uso delle armi assolute in un ideale di costrizione. Questi cervelli sottosviluppati sono pronti a decimare e ad annientare la razza umana piuttosto di rinnegare le arbitrarie e irrazionali premesse sulle quali hanno posato la loro corrotta e ormai fallimentare strategia. I responsabili delle attività scientifiche, tecnologiche e militari che hanno più disprezzato la funzione degli ideali, trasformano oggi in un nuovo ideale l’espansione della loro capacità di distruzione e di sterminio.

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Ludovico Geymonat (1908-1991) – L’intellettuale non-conformista, per svolgere la sua funzione, deve militare fuori dei partiti burocratizzati, ed eventualmente contro di essi. Questa sua funzione non può essere svolta per intero senza un rapporto organico con le masse. un rapporto organico con le masse non richiede la mediazione dei partiti.

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008[…] Non ci sono dubbi che la nozione di intellettuale organico debba essere superata. […] l’obbiettivo della rivoluzione è stato accantonato dagli eredi di Gramsci e la vita «provvisoria» entro le strutture pluralistiche pare diventata definitiva. Nonostante questo, la macchina e l’intellettuale di Gramsci sono sopravvissuti. È sopravvissuto un rigido apparato di persuasori senza più alcuno scopo, se non la sua stessa riproduzione su scala allargata, entro questa società. […]

 Quel che mi preme è che esso venga riconosciuto come autentico problema con tutte le sue conseguenze:


1) che l’intellettuale non-conformista – per svolgere la sua funzione – deve militare fuori dei partiti burocratizzati, ed eventualmente contro di essi;

2) che questa sua funzione non può essere svolta per intero senza un rapporto organico con le masse;
3) che un rapporto organico con le masse non richiede la mediazione dei partiti.

 


Il ruolo dei partiti nella società contemporanea. Ho tentato di mettere in luce il loro crescente contrasto con la società civile, conseguente allo sviluppo di strutture burocratiche rigide ai loro vertici. Dato che i partiti costituiscono l’asse della così detta vita democratica, questo contrasto mi sembra dovrebbe essere sufficiente a raffreddare gli entusiasmi di tutta la sinistra verso l’attuale sistema democratico-parlamentare e indurli a riflettere seriamente sui modi del suo superamento. È qui che entra in gioco l’analogia – da un lato – tra teorie scientifiche e patrimonio scientifico-tecnico, e – dall’altro – tra ordinamenti giuridici e società civile. La pretesa di assolutizzare l’ordinamento odierno con le sue libertà formali e assumerlo come criterio per valutare tutte le altre società, è tanto regressiva quanto quella di assumere una particolare teoria scientifica, per quanto potente e riuscita, come punto di arrivo insuperabile. Così come è l’impatto del patrimonio scientifico-tecnico a vanificare le seconde, allo stesso modo è l’impatto della società civile a vanificare le prime. Nel caso in esame, è la crescente incapacità dei partiti di valorizzare e utilizzare l’iniziativa di individui e di gruppi che non accettano di inserirsi nelle loro burocrazie, e – quel che è peggio – la loro tendenza a soffocare questo tipo di iniziative.


Non c’è in questa tua posizione una polemica implicita contro la nozione di intellettuale organico di Gramsci?

Non ci sono dubbi che la nozione di intellettuale organico debba essere superata. Era una nozione perfettamente coerente con la visione del partito di Gramsci, di un partito che doveva bensì vivere provvisoriamente entro le strutture pluralistiche della «democrazia» borghese, ma la cui vera funzione era quella di rovesciarle per instaurare la dittatura del proletariato. La sua struttura doveva quindi riflettere questa funzione senza lasciarsi «corrompere» dall’ambiente in cui provvisoriamente doveva operare. Dato che – in una società complessa come quella italiana – questa macchina per la rivoluzione non avrebbe potuto dare tutti i suoi frutti senza il «consenso», a questo dovevano pensare gli intellettuali.
Ma l’obbiettivo della rivoluzione è stato accantonato dagli eredi di Gramsci e la vita «provvisoria» entro le strutture pluralistiche pare diventata definitiva. Nonostante questo, la macchina e l’intellettuale di Gramsci sono sopravvissuti. È sopravvissuto un rigido apparato di persuasori senza più alcuno scopo, se non la sua stessa riproduzione su scala allargata, entro questa società. E gli altri partiti, quelli a così detta «struttura interna democratica», hanno più o meno seguito questo esempio. Una delle conseguenze di siffatto processo di subordinazione di tutte le istanze della vita civile, sia culturale che economica, è stata da un lato l’eclisse di ogni creatività intellettuale – con l’eccezione forse del campo della ricerca scientifica in senso stretto, proprio perché questa è finora riuscita a conservare una organizzazione autonoma rispetto ai partiti – e dall’altro l’avvio di un’economia assistita e clientelare in cui i parametri decisionali sono costituiti quasi esclusivamente dagli interessi delle strutture burocratiche dei partiti.

Dunque al livello delle strutture profonde un’evoluzione per certi versi analoga a quella dell’Unione Sovietica.

Non credo infatti che dobbiamo farci ingannare dalla schiuma di superficie. Certo, in Italia gli intellettuali discutono, polemizzano, dissentono liberamente, ma entro ben determinati limiti e per lo più in forme puramente retoriche. Mancano, a ben guardare, sia un’autentica creatività intellettuale sia una seria possibilità di interventi efficaci – sulle strutture della società – al di fuori di quelli voluti dai vertici dei partiti. Con una sola differenza rispetto all’URSS: i sovietici hanno bisogno della polizia per ottenere il conformismo; noi siamo più maturi, ne abbiamo meno bisogno. Inoltre, anche per quanto riguarda l’URSS, le ragioni di questa degenerazione vanno cercate nella transizione dal partito di lotta di Lenin al partito di governo di Stalin senza che la struttura interna del partito venisse mutata in vista del cambiamento di funzioni.


In questo spazio interamente coperto dai partiti
che tendono a fungere quali partiti di governo come dovrebbe muoversi l’intellettuale non-conformista?

 Può ben darsi che questa specie – dopo la sua stagione d’oro nel ‘700 – sia ormai in via di estinzione … Alcuni esemplari sopravvivono ancora in quello spazio che fino ad oggi meno ha subito la pressione dei partiti, e cioè l’Università. Certo in Italia la situazione è peggiore che in Francia o in Inghilterra. Non è affatto escluso che la degradazione in cui l’Università è stata spinta dalla complicità di tutti i partiti sia stata un modo indiretto per piegare queste resistenze, per far scomparire queste zone di relativa libertà di ricerca. Ma anche se riuscissimo a salvare queste «zone franche», difficilmente la funzione dell’intellettuale non conformista potrebbe esaurirsi entro di esse. Senza un rapporto organico con le masse, si regredisce alla figura dell’intellettuale di tipo illuminista che è del tutto inadeguata rispetto alle esigenze di società come le nostre in cui il ruolo delle masse è decisivo.

Ma le masse sono nei partiti. Dunque un rapporto con le prime deve passare attraverso i secondi. Fuori dai partiti, fuori dalle masse?

 Non lo credo affatto. Quel che la Chiesa prima, e poi quei suoi moderni sostituti che sono i partiti (nel senso sopra accennato del termine), hanno tentato di fare sistematicamente, è stato di liquidare i movimenti di massa, o reprimendoli o riassorbendoli. Ciò mostra l’esistenza di una profonda frattura tra partiti e masse.

Ma non è affatto chiaro come l’intellettuale non-conformista possa occupare questo spazio vuoto.

 Per questo problema non ho soluzioni. Quel che mi preme è che esso venga riconosciuto come autentico problema con tutte le sue conseguenze:

1) che l’intellettuale non-conformista – per svolgere la sua funzione – deve militare fuori dei partiti burocratizzati, ed eventualmente contro di essi;
2) che questa sua funzione non può essere svolta per intero senza un rapporto organico con le masse;
3) che un rapporto organico con le masse non richiede la mediazione dei partiti.

Sotto quale forma possa organizzarsi questo rapporto e in che modo debba svolgersi questa militanza fuori dai partiti burocratizzati, questo è un problema aperto. Ma – ripeto – non riusciremo mai a risolverlo senza rico noscerlo come tale, chiaramente, spregiudicatamente.

Ludovico Geymonat, Paradossi e rivoluzioni. Intervista su scienza e politica, a cura di Giulio Giorello e Marco Mondadori, il Saggiatore, 1979, pp. 126-129.

«Ludovico Geymonat, un intellettuale “indisciplinato” rispetto all’ortodossia dei partiti che per varie ragioni respingevano – spesso in modo sbigativo – atteggiamenti autonomi, proposte innovative e di critiche alla cultura […]». Mario Quaranta


Ludovico Geymonat

Nato a Torino l’11 maggio 1908, deceduto a Rho (Milano) il 29 novembre 1991, filosofo e matematico. È considerato uno dei più importanti filosofi italiani del Novecento. Di famiglia valdese, si era laureato in filosofia all’Università di Torino nel 1930 e, due anni dopo, aveva conseguito la laurea in matematica. Durante il ventennio, avendo rifiutato di iscriversi al PNF, gli fu preclusa la carriera accademica; si mantenne insegnando in scuole private.

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Nel 1942, Geymonat aderì al Partito comunista clandestino e, dopo l’armistizio, fece della sua casa di Barge il centro organizzativo delle Brigate Garibaldi della zona.
I fascisti lo arrestarono nel novembre del 1943, ma il professore, incarcerato a Saluzzo, fu rilasciato per mancanza di prove. Prese così la strada dei monti e, con il nome di copertura di “Luca Ghersi”, divenne commissario politico della 55° Brigata “Carlo Pisacane”, operante nella valle del Po.
Dopo la Liberazione, Geymonat (che fu capo redattore dell’edizione piemontese de l’Unità e assessore al Comune di Torino), intraprese l’insegnamento universitario.
Dal 1956 al 1978, tenne all’Università di Milano la prima cattedra di Filosofia della scienza istituita in Italia. Partecipò anche alla fondazione del Centro di Studi metodologici di Torino e, nel 1963, cominciò a dirigere la collana di classici della Scienza, della Casa editrice UTET.
Negli ultimi anni della sua vita, Geymonat lasciò il PCI, si avvicinò a Democrazia Proletaria e aderì, infine, al Partito della Rifondazione Comunista. Grande divulgatore della storia della filosofia (molto diffuso nei Licei il suo manuale Storia del pensiero filosofico e scientifico), Geymonat ha lasciato molte importanti opere. Ricordiamo: Il problema della conoscenza nel positivismo (1931), La nuova filosofia della natura in Germania (1934), Studi per un nuovo razionalismo (1945), Saggi di filosofia neorazionalistica (1953), Galileo Galilei (1957), Filosofia e filosofia della scienza (1960), Scienza e realismo (1977). Di Geymonat sono anche i sette volumi della Storia del pensiero filosofico e scientifico, scritti tra il 1970 e il 1976. Del 1974 è Attualità del materialismo dialettico, in collaborazione con Bellone, Giorello e Tagliagambe e, del 1986 (con Giorello e Minazzi) Le ragioni della scienza.

Geymonat e Dal Pra

Geymonat e Dal Pra. Foto Vito Panico – Copyright Vito Panico.


Ludovico Geymonat (1908-1991) – Si sostiene oggi da varie parti che nel mondo attuale non vi è più posto per la filosofia. Io non sono affatto di questo parere. Le ricerche specialistiche non si rivelano in grado di generare un’autentica cultura.


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Karl Mannheim (1893-1947) – L’utopia impedisce alla realtà esistente di tramutarsi in assoluta. Noi consideriamo come utopie tutte le idee trascendenti una situazione data, le quali hanno comunque un effetto nella trasformazione dell’ordine storico-sociale esistente. Una mentalità si dice utopica quando è in contraddizione con la realtà presente.

Karl Mannheim

 

MANNHEIM

 


014  

«Ogni evento storico si presenta come una continua liberazione dell’ordine esistente, per mezzo dell’utopia, che da esso ha origine […] Noi consideriamo come utopie tutte le idee trascendenti una situazione data, le quali hanno comunque un effetto nella trasformazione dell’ordine storico-sociale esistente».

 

Karl Mannheim, Ideologia e utopia, il Mulino, Bologna 1957.


 

 

008   «La tesi principale della sociologia della conoscenza è che ci sono aspetti del pensare, i quali non possono venire adeguatamente interpretati, finché le loro origini sociali rimangono oscure. È senz’altro vero che l’individuo pensa. Non esiste sopra o sotto di lui un’entità metafisica, quale la coscienza di gruppo, di cui il singolo potrebbe, nel migliore dei casi, riprodurre le idee. Nondimeno, sarebbe falso dedurre da un tale fatto che le idee e i sentimenti di un individuo abbiano origine in lui solo e possano essere convenientemente spiegati sull’unica base della sua esperienza» (p. 8).
«A rigore, non è corretto dire che il singolo individuo pensa. È molto più esatto affermare che egli contribuisce a portare avanti il pensiero dei suoi predecessori. Egli si trova ad ereditare una situazione in cui sono presenti dei modelli di pensiero ad essa appropriati e cerca di elaborali ulteriormente, o di sostituirli con altri, per rispondere, nel modo più conveniente, alle nuove esigenze, nate dai mutamenti e dalle trasformazioni occorse nella realtà» (p. 9).

 

«Il conoscere è ideologico, quando non riesce a rendersi conto dei nuovi elementi insiti nella situazione o quando tenta di passare loro sopra considerandoli in termini ormai del tutto inadeguati» (p. 103).

 

 

049    La funzione dell’utopia è proprio quella di portare alla luce questi nuovi elementi
e di valorizzarli in massimo grado:
«Una mentalità si dice utopica
quando è in contraddizione con la realtà presente
» (p. 211).

«Utopici possono invero considerarsi soltanto quegli orientamenti che, quando si traducono in pratica, tendono, in maniera parziale o totale, a rompere l’ordine prevalente» (p. 211).

«Noi consideriamo utopie tutte le idee (e non soltanto, quindi, la proiezione dei desideri) trascendenti una situazione data, le quali hanno comunque un effetto nella trasformazione dell’ordine storico-sociale esistente» (p. 225).

«Da questo punto di vista, ogni evento storico si presenta come una continua liberazione dall’ordine esistente per mezzo dell’utopia, che da esso ha origine. Solo nell’utopia e nella rivoluzione si dà una vita autentica, mentre l’ordine istituzionale non rappresenta altro che il cattivo residuo delle rivoluzioni e delle utopie in fase di declino» (p. 217).

«In opposizione all’idea conservatrice di un ordine stabilito, l’utopia impedisce alla realtà esistente di tramutarsi in assoluta, concependola invece come una delle possibili “topie”, da cui scaturiranno quegli elementi utopici che a loro volta porranno in crisi lo stato attuale” (p. 217).

«Ogni epoca produce (nei gruppi sociali diversamente situati) quelle idee e quei valori in cui si condensano, per così dire, le tendenze non ancora realizzate e soddisfatte, che rappresentano i bisogni di ciascuna età. Codesti elementi intellettuali costituiscono allora il materiale esplosivo per far saltare in aria l’ordinamento esistente. La realtà presente dà origine alle utopie che, a loro volta, ne rompono i confini per lasciarla libera di svilupparsi nella direzione dell’ordine successivo» (p. 218).



Karl Mannheim, Ideologia e utopia, il Mulino, Bologna 1957.


 Per leggere ancora sull’argomento


Maria Luisa Bernieri, Attualità delle Utopie, in Volontà n. 6/7 1949.
Martin Buber, Sentieri in utopia, ed. Comunità, Milano 1967.

Thomas A. Reiner, Utopia e urbanistica, Marsilio, Padova 1967.
Leonardo Benevolo, Le utopie del secolo XIX,  in Le origini dell’urbanistica moderna,  Laterza, Bari 1968.
Lewis Mumford, Storia dell’utopia, ed. Calderini, Bologna 1969.
Pierluigi Giordani, Il futuro dell’utopia, Calderini, Bologna 1969.
Claudio Stroppa, Comunità e Utopia, Dedalo, Bari 1970.
Françoise Choay, La città. Utopie e realtà, vol. I e II, Einaudi, Torino 1973.
Massimo Baldini, Il pensiero utopico, Città Nuova, Roma 1974.
Otto Rühle , Il coraggio dell’utopia, ed. Guaraldi, Firenze 1972.
Rita Cirio e Pietro Favari (a cura), Utopia rivisitata, Bompiani, Milano 1974.
Maria Luisa Berneri, Viaggio attraverso Utopia, Arch. Fam. Berneri, (1950) Pistoia 1981
AA.VV., La cittàdell’utopia, pp.291, cheiwiller, Milano 1999.
Salvatore Santuccio, L’utopia nell’architettura del ‘900, Alinea, Firenze 2003


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Bronisław Baczko (1924-2016) – Rari sono coloro che spontaneamente proclamano di essere utopisti. Di norma sono gli altri a chiamarli così, intendendo con ciò presentarli come sognatori, inventori di chimere.

Bronisław Baczko

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Bronisław Baczko, L’utopia.
Immaginazione sociale e rappresentazioni utopiche nell’età dell’illuminismo
(Einaudi, Torino 1979)


014  «Essere uno storico non significa soltanto studiare il passato come professione, o mestiere; non soltanto disporre di una certa forma di erudizione o appropriarsi di un certo numero di tecniche di indagine. I grandi storici si sono distinti per il fatto che per loro essere storico significava anche un particolare modo di essere e di radicarsi nel mondo sociale, pensarlo in un modo proprio».

B. Baczko, Se n’è andato uno storico, “società e storia”, n. 42, 1988.


 

 

008«Rari sono coloro che spontaneamente proclamano di essere utopisti. Di norma sono gli altri a chiamarli così, intendendo con ciò presentarli come sognatori, inventori di chimere».



Bronisław Baczko, Lumières de l’utopie (Payot, Paris 1978), Utopia, in Enciclopedia Einaudi, Vol. XIV, Einaudi, Torino 1981, p. 870.




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