Juan Martín Guevara – Ernesto è mio fratello e il Che è il mio compagno di ideali. Non vivo nella sua ombra, ma alla luce della sua azione e del suo pensiero.

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Mon frère le Che

Mon frère le Che

 

Juan Martín Guevara

Juan Martín Guevara

 

Ernesto con la madre e in braccio Juan1943

Ernesto con la madre e in braccio Juan, 1943

 

 

Ernesto con il padre e in braccio Juan

Ernesto con il padre e in braccio Juan

 

 

Fratelli Guevara

Fratelli Guevara

 

«Lo scopo di Ernesro resta valido, come resta attuale il pensiero del Che. Ernesto è mio fratello e il Che è il mio compagno di ideali. Mi accompagna da quando ho cominciato ad avere coscienza politica e sociale. Non vivo nella sua ombra, ma alla luce della sua azione e del suo pensiero. Rimpiango di non essere stato di più al suo fianco, imparando e condividendo i suoi insegnamenti.
Già nel 1965 il Che prevedeva che l’URSS stava tornando al capitalismo […]».

Juan Martín Guevara, da una intervista a cura di Geraldina Collotti, Alias, il manifesto, 22-04-2017, p. 7.


Entrevista con Juan Martín Guevara, hermano de Ernesto ‘Che’ Guevara
Mon frère, le Che de Armelle Vincent et Juan Martin Guevara
Juan Martín Guevara ricorda il fratello Ernesto, il Che

Ernesto Che Guevara (1928-1967) – Ha più valore, un milione di volte, la vita di un solo essere umano che tutte le proprietà dell’uomo più ricco della terra.
Ernesto Che Guevara (1928-1967) – 1951 … adesso sapevo che io starò con il popolo. E preparo il mio essere come un tempio sacro in cui risuoni di nuove vibrazioni e nuove speranze il grido del proletariato.
Ernesto Che Guevara (1928-1967) – Non si può arrivare al comunismo con la facilità con cui si beve un bicchiere d’acqua. Ma noi dobbiamo tenere lo sguardo fisso a quella meta. L’uomo è l’attore cosciente della storia. Senza questa coscienza, che abbraccia anche quella del proprio essere sociale, non può esserci comunismo.
Ernesto Che Guevara (1928-1967) – Nel cinquantesimo dell’assassinio di Ernesto Che Guevara (9 Ottobre 1967). Le sue lettere del 31 marzo 1965 e del 1° Aprile 1965 indirizzate a Fidel Castro, ai genitori e ai figli.

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Marwan Barghouti – Noi non ci arrenderemo. Lotta per la Dignità e i Diritti, ecco il nome della nuona lotta dei prigionieri palestinesi. È nella natura umana rispondere alla chiamata per la libertà, a prescindere dal prezzo che si avrà a pagare

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Noi non ci arrenderemo

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Giovane palestinese davanti ad un muro con Marwan Barghouti

 

Marwan Barghouti, dopo la proclamazione dello sciopero della fame attuato dai prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane, è in isolamento nel penitenziario di Jalame.

Noi non ci arrenderemo

«Avendo speso gli ultimi quindici anni della mia vita in un carcere israeliano, sono stato al tempo stesso un testimone e una vittima del sistema illegale di Israele di arresti arbitrari di massa e maltrattamenti dei prigionieri palestinesi.
Dopo aver esaurito tutte le altre opzioni, ho deciso che non c’era altra scelta che resistere a questi abusi entrando in sciopero della fame. […]
Lo sciopero della fame è la forma più pacifica di resistenza disponibile. Infligge dolore unicamente in chi vi partecipa e nei loro cari, nella speranza che i loro stomaci vuoti e il loro sacrificio aiutino a dare risonanza al loro messaggio oltre i confini delle loro buie celle. Decenni di esperienze hanno dimostrato che il sistema inumano di Israele di occupazione economica e militare mira a spezzare lo spirito dei prigionieri e il paese a cui appartengono, infliggendo sofferenze ai loro corpi, separandoli dalle loro famiglie e comunità, usando misure umilianti per costringerli alla sottomissione. Ma, nonostante questo trattamento, noi non ci arrenderemo. Israele, la forza occupante, ha violato la legge internazionale in molteplici modi negli ultimi 70 anni e ancora le viene garantita impunità. Ha commesso gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra contro il popolo palestinese; i prigionieri, che siano uomini, donne e bambini, non rappresentano un’eccezione. […]

Di padri in figli

Avevo solo 15 anni quando sono stato rinchiuso in carcere la prima volta. Ne avevo appena 18 quando un interrogatore israeliano mi costrinse ad allargare le gambe, prima di colpirmi ai genitali. […]
Qualche anno dopo, ero di nuovo in una prigione israeliana e conducevo uno sciopero della fame, quando nacque il mio primo figlio. Al posto dei dolci che di solito offriamo per celebrare simili eventi, io distribuii sale agli altri prigionieri. Quando il mio primo figlio aveva 18 anni appena fu a sua volta arrestato, e spese 4 anni nelle carceri israeliane. Il più grande dei miei quattro figli ora è diventato un uomo di 31 anni.

Io sono ancora qui

Io sono ancora qui che perseguo questa lotta per la libertà con migliaia di prigionieri, milioni di palestinesi e con il supporto di così tante persone in tutto il mondo. Che cos’è che con l’arroganza dell’occupante e dell’oppressore e dei loro sostenitori li rende sordi a questa semplice verità? Che le nostre catene saranno spezzate prima che lo siamo noi, perché è nella natura umana rispondere alla chiamata per la libertà, a prescindere dal prezzo che si avrà a pagare.

Israele ha costruito quasi tutte le sue prigioni in Israele piuttosto che nei Territori Occupati. Così facendo ha illegalmente e forzatamente trasferito dei civili palestinesi in cattività e ha sfruttato questa situazione per restringere le visite dei familiari e per infliggere ai palestinesi sofferenze attraverso lunghi tragitti in condizioni crudeli. Ha trasformato diritti umani basilari che dovrebbero essere garantiti in rispetto della legge internazionale – inclusi alcuni dolorosamente guadagnati attraverso precedenti sciopero della fame – in privilegi che il suo servizio carcerario decide di concederci o di negarci.
I prigionieri e detenuti palestinesi hanno subito torture, trattamenti inumani e degradanti e negligenza medica. Alcuni sono stati uccisi mentre erano in detenzione. Stando alle ultime stime del Club Prigionieri Palestinesi, circa 200 prigionieri palestinesi sono morti dal 1967 ad oggi a causa di questi crimini. […]

Attraverso questo sciopero della fame noi cerchiamo di porre fine a questi abusi. […]

Negli scorsi cinque decenni, secondo l’Associazione per i diritti umani Addameer, più di 800mila prigionieri palestinesi sono stati arrestati o detenuti da Israele – l’equivalente del 40% della popolazione maschile nel territorio palestinese. […] Israele ha stabilito un regime legale doppio, una sorta di apartheid giudiziario, che dà impunità virtuale agli israeliani che commettono crimini contro i palestinesi, criminalizzando, invece, la presenza e la resistenza palestinesi. Le Corti di Israele sono una sciarada di giustizia, chiari strumenti di occupazione coloniale e militare. Per il Dipartimento di Stato, il tasso di condanne per i palestinesi nei tribunali militari è di quasi il 90%.
Tra le centinaia di migliaia di palestinesi che Israele ha catturato ci sono bambini, donne, parlamentari, attivisti, giornalisti, difensori di diritti umani, accademici, figure politiche, militanti, simpatizzanti, familiari di prigionieri. E tutti imprigionati con uno stesso scopo: sotterrare le aspirazioni legittime di una intera nazione.

Un duraturo movimento di autodeterminazione palestinese

Al contrario, tuttavia, le carceri israeliane sono diventate la culla per un duraturo movimento di autodeterminazione palestinese. Questo nuovo sciopero della fame dimostrerà ancora una volta che il movimento dei prigionieri è la bussola che guida la nostra lotta, la lotta per la Dignità e i Diritti, il nome che abbiamo scelto per questo nuovo passo nel nostro lungo percorso verso la libertà. […]
I diritti non sono più un bene concesso da un oppressore. Libertà e dignità sono diritti universali insiti nell’umanità, di cui tutte le nazioni e tutti gli esseri umani devono godere. I palestinesi nons asranno un’eccezione. Soltanto porre fine all’occupazione metterà fine a questa ingiustizia e segnerà la nascita della pace».

Marwan Barghouti, estratti dell’articolo scritto dalla prigione di Hadarim e apparso il 16 aprile 2017 sul New Yok Times. Traduzione di Irene Canetti.

 

Marwan Barghouti – «L’ultimo giorno dell’occupazione sarà il primo giorno della pace». – Onore, Rispetto e Libertà per Marwan Barghouti, prigioniero da 14 anni di Israele

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Francisco Goya (1746-1828) – El sueño de la razón produce monstruos. La fantasia priva della ragione genera impossibili mostri: unita alla ragione è madre delle arti e origine di meraviglie.

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Il sonno della ragione genera mostri

«La fantasía abandonada de la razon produce monstruos imposibles: unida con ella es madre de las artes y origen de las maravillas».

«La fantasia priva della ragione genera impossibili mostri: unita alla ragione è madre delle arti e origine di meraviglie».

Francisco Goya, in un suo scritto detto Commento di Alaya, citato in: Reinhard Brandt, Filosofia nella pittura. Da Giorgione a Magritte, Prefazione di Antonio Gnoli e Franco Volpi, Bruno Mondadori, 2003, p. 352.

Commenta R. Brandt, in ibidem: «[…] se la ragione si sveglia e si collega alla fantasia, questa diviene madre di tutte le arti e fonte delle loro meraviglie […]».

Filosofia nella pittura

Filosofia nella pittura


Andrea Melone, FANTASIA IN ARISTOTELE


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Salvatore Antonio Bravo – Le miserie della società dell’abbondanza. La verità del consumo è che essa è in funzione non del godimento, bensì della produzione.

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La società dei consumi

Le miserie della società dell’abbondanza

La società dell’abbondanza non muove domande sull’abbondanza poiché essa è letta secondo il parametro unico della quantità. L’uso della quantificazione quale linguaggio unico trasforma uno dei possibili linguaggi in linguaggio unico e, come tale, in ipostasi. I numeri perdono la dimensione di strumento – e dunque l’imperfezione legata alla condizione di mezzo – per diventare enti ontologici. La naturalizzazione della quantificazione forma intelligenze computazionali per le quali la domanda che esula la quantificazione è un disporsi verso un possibile impossibile. La filosofia è il luogo dei linguaggi, la sua ricchezza cognitiva è nella pluralità fenomenologica che riporta la complessità nell’orizzonte materiale del quotidiano. Dunque l’abbondanza, se ridotta a pura quantificazione, fa brillare l’occidente nello spettacolo perenne delle sue vetrine mediatiche. Ma se l’abbondanza è letta secondo parametri qualitativi in cui la relazione di fiducia fonda la relazione e la comunità verifichiamo la nostra pericolosa miseria: «Quel che fonda la “fiducia” dei primitivi, e fa che essi vivano nell’abbondanza persino nella fame è alla fin fine la trasparenza e la reciprocità dei rapporti sociali. È il fatto che nessuna manipolazione qualunque essa sia, della natura, del suolo, degli strumenti o dei prodotti del “lavoro”, viene a bloccare gli scambi e a istituire la scarsità».[1]

La scarsità in cui siamo immersi e che non riusciamo a leggere è la sfiducia reciproca che induce a chiudersi in un narcisismo difensivo: l’altro e la comunità sono il pericolo, per cui il naturale bisogno dell’altro si trasforma nella contemplazione di sé, nella scissione dalla comunità, nella fuga dall’impegno e dalla cura dell’altro. Non resta che un’abbondanza di cose mentre la scarsità è obliata dall’operazione di manipolazione continua che si estende, nella dismisura, ad ogni ambito della vita. La società dell’immagine, dei desideri smodati cela la sua contraddizione: “la scarsità” nella relazione, la quale – se riportata su un piano di consapevolezza e pensata – mostra la verità a cui ci si vuole sottrarre.

L’oblio è possibile grazie alla rete mediatica che rafforza l’ordine del consumo e neutralizza il pensiero. L’epoca iper-ideologica dei nostri giorni ritrova nei mezzi di comunicazione uno dei suoi strumenti più aggressivi: «La verità dei media di massa è dunque la seguente: essi hanno per funzione quella di neutralizzare il carattere vissuto, unico, fattuale del mondo, per sostituirvi un universo multiplo di media omogenei gli uni agli altri, i quali significano e si rinviano l’un l’altro. Al limite, essi divengono il contenuto reciproco gli uni degli altri ed è il “messaggio” totalitario di una società dei consumi».[2]

La verità dell’abbondanza è la scarsità dell’individuo, l’offesa perpetua alla natura, all’indole di ciascuno. Ogni azione disfunzionale al sistema è censurata mediante la marginalità a cui la sottopone il linguaggio assoluto della quantificazione: «La verità del consumo è che essa è in funzione non del godimento, bensì della produzione e dunque proprio al pari della produzione materiale è una funzione non individuale, ma immediatamente e totalmente collettiva».[3]

Il godimento della società dell’abbondanza è un fine razionale in cui «si gode per produrre» e dunque il godimento diventa funzione del sistema e del ciclo produttivo in cui è assente la finalità fine a se stessa in cui l’io esprime la pienezza del suo esserci, del suo relazionarsi con “il mondo”.

Solo la filosofia, con il suo carattere epistemico olistico, può rilevare le contraddizioni dell’ideologia imperante perché possano essere pensate e dunque possa la razionalità pensare il reale per renderlo consapevole e trascenderlo. L’assenza dell’idealismo di cui l’occidente è oggi orfano deve riportare al suo centro l’hegeliano: «Tutto ciò che è reale è razionale e tutto ciò che è razionale è reale».

Salvatore Antonio Bravo

[1] Jean Baudrillard, La società dei consumi, il Mulino, 2010 , p. 62.

[2] Ibidem, p. 138

[3] Ibidem, p. 77.


Jean Baudrillard (1929-2007) – La morte è immanente all’economia politica. È per questo che essa si vuole immortale.

 


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Jean Baudrillard (1929-2007) – La morte è immanente all’economia politica. È per questo che essa si vuole immortale.

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Jean Baudrillard

L’economia politica e la morte

Da quando i selvaggi chiamavano “uomini” soltanto i membri della loro tribù, la definizione dell’Umano si è notevolmente allargata: è diventata un concetto universale. È anzi quella che si chiama cultura. Al giorno d’oggi tutti gli uomini sono uomini. In realtà l’universalità non si fonda in nient’altro che nella tautologia e nel raddoppiamento: è qui che l’Umano assume vigore di legge morale e di principio d’esclusione. Perché l’Umano è fin dall’inizio l’istituzione del suo doppio strutturale: l’Inumano. Non è anzi che questo, e il progresso dell’Umanità, della Cultura, sono soltanto la catena delle discriminazioni successive che colpiscono gli Altri d’inumanità, quindi di nullità. Per i selvaggi che si dicono “uomini”, gli altri sono un’altra cosa. Per noi invece, sotto il segno dell’Umano come concetto universale, gli altri non sono nulla. Altrove, essere “uomo” è una sfida, come essere gentiluomo: differenza vissuta di viva forza, non soltanto questa qualità, questo statuto lascia spazio a uno scambio con gli esseri differenti – dei, antenati, stranieri, animali, natura – ma impone d’essere ovunque messa in gioco, esaltata e difesa. Noi ci accontentiamo d’una promozione all’universale, d’un valore generico astratto ancorato all’equivalenza della specie, a esclusione di tutto il resto. In un certo modo, quindi, la definizione dell’Umano è, al livello della cultura, inesorabilmente ristretta: ogni progresso “oggettivo” della civilizzazione verso l’universale ha corrisposto a una discriminazione più stretta, al punto che si può intravedere il tempo dell’universalità definitiva dell’Uomo, che coinciderà con la scomunica di tutti gli uomini e in cui la purezza del concetto splenderà da sola nel vuoto.

Il razzismo è moderno. Le culture o le razze precedenti si sono ignorate o annientate, ma mai sotto il segno d’una Ragione universale. Non c’è un criterio dell’Uomo, non la divisione dell’Inumano, soltanto delle differenze che possono affrontarsi a morte. Ma è il nostro concetto indifferenziato dell’Uomo che fa sorgere la discriminazione. Bisogna leggere il racconto d’un uomo del XVI secolo, Jean de Léry, Histoire d’un voyage en la terre du Brésil, per vedere che al tempo in cui l’Idea dell’Uomo non sovrasta ancora, in tutta la sua purezza metafisica, la cultura occidentale, il razzismo non esiste: il gentiluomo riformato e puritano di Ginevra, che sbarca in Brasile tra i cannibali, non è razzista. In seguito lo siamo diventati, perché abbiamo fatto molti progressi. E non soltanto nei confronti degli indiani e dei cannibali – la nostra cultura, approfondendo la sua razionalità, ha estradato successivamente nell’inumano la natura inanimata, gli animali, le razze inferiori, poi questo cancro dell’Umano ha investito quella stessa società che esso pretendeva di circoscrivere nella sua assoluta superiorità.

Michel Foucault ha analizzato l’estradizione dei pazzi all’alba della modernità occidentale, ma noi sappiamo anche che ne è dell’estradizione dei bambini, della loro progressiva reclusione, sul filo stesso della Ragione, nel loro statuto idealizzato d’infanzia, nel ghetto dell’universo infantile, nell’abiezione dell’innocenza. Ma anche i vecchi sono diventati inumani, respinti alla periferia della normalità. E tante altre “categorie”, che sono appunto diventate “categorie” solo sotto il segno di segregazioni successive che segnano lo sviluppo della cultura. I poveri, i sottosviluppati, i subnormali, i pervertiti, i transessuali, gli intellettuali, le donne – folclore del terrore, folclore della scomunica sulla base d’una definizione sempre più razzista dell’«uomo normale».[…]

L’analisi di Foucault è uno dei pezzi forti di questa vera storia della cultura, di questa Genealogia della discriminazione in cui lavoro e produzione assumeranno essi stessi, a partire dal XIX secolo, un posto decisivo. È tuttavia una esclusione che precede tutte le altre, più radicale di quella dei pazzi, dei bambini, delle razze inferiori, un’esclusione che le precede tutte e serve loro da modello, che è alla base stessa della «razionalità» della nostra cultura: quella dei morti e della morte.

Dalle società selvagge alle società moderne, l’evoluzione è irreversibile: a poco a poco i morti cessano di esistere. Sono respinti fuori della circolazione simbolica del gruppo. Non sono più esseri a pieno titolo, partner degni di scambio, e glielo si fa ben vedere proscrivendoli sempre più lontano dal gruppo dei vivi, dall’intimità domestica al cimitero, primo raggruppamento ancora al centro del villaggio o della città, poi primo ghetto e prefigurazione di tutti i ghetti futuri, respinti sempre più lontano dal centro verso la periferia, infine in nessun posto come nelle nuove città o nelle metropoli contemporanee, in cui nulla è più previsto per i morti, né nello spazio fisico né nello spazio mentale. Perfino i pazzi, i delinquenti, gli anormali possono trovare una struttura di assistenza nelle nuove città, cioè nella razionalità di una società moderna – solo la funzione-morte non può esservi programmata né localizzata. A dire il vero, non si sa più che farne. Perché al giorno d’oggi non è normale essere morti, e questo è un fatto nuovo. Essere morto è un’anomalia impensabile, rispetto alla quale tutte le altre sono inoffensive. La morte è una delinquenza, una devianza incurabile. Non più un luogo o uno spazio/tempo destinato ai morti, la loro dimora è irreperibile, eccoli respinti nell’utopia radicale – nemmeno più parcheggiati: volatilizzati.

Ma noi sappiamo cosa significano questi luoghi introvabili: se la fabbrica non esiste più, è che il lavoro è ovunque – se la prigione non esiste più, è che il sequestro e la reclusione sono ovunque nello spazio/tempo – se il manicomio non esiste più, è perché il controllo psicologico e terapeutico si è generalizzato e banalizzato – se la scuola non esiste più, è che tutte le fibre del processo sociale sono impregnate di disciplina e di formazione pedagogica – se il capitale non esiste più (né la sua critica marxista), è che la legge del valore è passata nell’autogestione della sopravvivenza in tutte le sue forme, ecc., ecc. Se il cimitero non esiste più, è che le città moderne tutte intere ne assumono la funzione: sono città morte e città di morte. E se la grande metropoli operativa è la forma perfetta di un’intera cultura, allora la nostra è semplicemente una cultura di morte.

È giusto dire che i morti, cacciati e separati dai vivi, ci condannano, noi vivi, a una morte equivalente: perché la legge fondamentale dell’obbligazione simbolica opera comunque, per il meglio o per il peggio. Così la pazzia è esclusivamente questa linea di divisione tra pazzi e normali, linea che la normalità divide con la follia e grazie alla quale essa si definisce. Qualsiasi società che interna i suoi pazzi è una società investita in profondità dalla pazzia, che sola e ovunque finisce per scambiarsi simbolicamente sotto i segni legali della normalità. Questo lungo lavoro della pazzia sulla società che la reclude è durato molti secoli; adesso i muri del manicomio sono aboliti, non per qualche miracolosa tolleranza, ma perché il lavoro di normalizzazione di questa società mediante la pazzia è stato portato a termine – la pazzia è diventata ambiente, pur restando messa al bando. Il manicomio viene riassorbito in seno al campo sociale perché la normalità ha raggiunto il punto perfetto in cui riunisce in sé le caratteristiche del manicomio, perché il virus della reclusione è passato in tutte le fibre dell’esistenza “normale”.

Lo stesso vale per la morte. In definitiva la morte non è altro se non questa linea di demarcazione sociale che separa i “morti” dai “vivi”; essa quindi colpisce egualmente gli uni e gli altri. Contro l’illusione insensata dei vivi di volersi vivi a esclusione dei morti, contro l’illusione di ridurre la vita a un plusvalore assoluto sopprimendone la morte, la logica indistruttibile dello scambio simbolico ristabilisce l’equivalenza della vita e della morte – nella fatalità indifferente della sopravvivenza. Rimossa la morte nella sopravvivenza – la vita stessa non è allora, secondo un ben noto riflusso, che una sopravvivenza determinata dalla morte.

[…] Altra forma di controllo sociale sotto forma di ricatto alla vita e alla sopravvivenza: la sicurezza. Oggi essa è sempre presente per noi, e le “forze di sicurezza” vanno dall’assicurazione sulla vita e dalla Sicurezza sociale alla cintura automobilistica […]. La sicurezza è un’impresa industriale, come l’ecologia che ne è l’estensione al livello della specie: ovunque è in gioco una convertibilità della morte, dell’incidente, della malattia, dell’inquinamento, in plusprofitto capitalistico. Ma si tratta soprattutto della peggiore delle repressioni che consiste nello spossessarvi della vostra morte, quella che ciascuno sogna dal profondo del suo istinto di conservazione. Necessità di spossessare ciascuno dell’ultima possibilità di darsi la morte – ultima «scampata bella» della vita assediata dal sistema. Anche qui, è lo scambio-dono che è braccato a morte, in questo cortocircuito simbolico che è la sfida a se stesso e alla propria morte. Non perché esso esprimerebbe la rivolta sociale d’un individuo – la defezione di uno o di milioni di individui non viola minimamente la legge del sistema – ma perché porta in esso un principio di socialità radicalmente antagonistico al principio sociale repressivo che è il nostro. È lo scambio-dono che bisogna uccidere seppellendo la morte sotto il mito opposto della sicurezza.

Uccidere l’esigenza di morte. Perché vivano gli uomini? No: perché muoiano dell’unica morte autorizzata dal sistema – esseri vivi separati dalla loro morte, e che scambiano solo la forma della loro sopravvivenza, sotto il segno dell’assicurazione contro tutti i rischi. Così per l’assicurazione automobilistica. Mummificato nel suo casco, le sue cinture, i suoi attributi della sicurezza, il guidatore non è più che un cadavere, chiuso in un’altra morte, non mitica questa: neutra e oggettiva come la tecnica, silenziosa e artigianale. Saldato alla sua macchina, inchiodato su di essa, non corre più il rischio di morire, perché è già morto. Qui è il segreto della sicurezza, come della bistecca sotto cellofan: avvolgervi in un sarcofago per impedirvi di morire (la criogenizzazione, o il congelamento al fine di risorgere, è la forma limite di questa pratica).

Tutta la nostra cultura tecnica crea un ambiente artificiale di morte. Non soltanto gli armamenti, che rimangono ovunque l’archetipo della produzione materiale, ma anche le macchine e i minimi oggetti che ci circondano costituiscono un orizzonte di morte, e d’una morte omai indissolubile perché cristallizzata e al sicuro: capitale fisso di morte, in cui il lavoro vivo della morte è congelato, come la forza-lavoro è congelata nel capitale fisso e nel lavoro morto. O ancora: tutta la produzione materiale non è che una gigantesca «corazza caratteriale» grazie alla quale la specie vuole tenere a rispetto la morte. Beninteso, è la morte stessa che sovrasta la specie e la chiude in questa corazza nella quale essa credeva di proteggersi. Ritroviamo qui, alla dimensione di una intera cultura, l’immagine del sarcofago automobilistico: la corazza di sicurezza è la morte miniaturizzata, diventata un prolungamento tecnico del vostro stesso corpo. Biologicizzazione del corpo e tecnicizzazione dell’ambiente vanno di pari passo nella medesima nevrosi ossessiva. L’ambiente tecnico è la nostra sovrapproduzione d’oggetti inquinanti, fragili, obsolescenti. Perché la produzione viva, tutta la sua logica e la sua strategia si articolano sulla fragilità e l’obsolescenza. Un’economia di prodotti stabili e di buoni oggetti è impensabile: l’economia non si sviluppa che secernendo pericolo, inquinamento, usura, delusione, assillo. L’economia vive esclusivamente di questa sospensione della morte che essa mantiene attraverso la produzione materiale – rinnovando lo stock di morte disponibile, pronta a scongiurarlo con un rilancio di sicurezza: ricatto e repressione. La morte è definitivamente secolarizzata nella produzione materiale – è là che essa si riproduce in modo allargato come il capitale. E il nostro stesso corpo, diventato macchina biologica, si modella su questo corpo inorganico, e diventa allo stesso tempo un oggetto cattivo, votato alla malattia, all’incidente e alla morte.

Vivendo della produzione di morte, il capitale ha buon gioco a produrre la sicurezza: è la medesima cosa. La sicurezza è il prolungamento industriale della morte, esattamente come l’ecologia è il prolungamento industriale dell’inquinamento. Qualche bendarella in più sul sarcofago. Questo vale anche per le grandi istituzioni che costituiscono la gloria della nostra democrazia: la Previdenza sociale è la protesi sociale d’una società morta, cioè precedentemente sterminatasi in tutti i suoi meccanismi simbolici, nel suo sistema di reciprocità e di obbligazioni in profondità per cui né il concetto di sicurezza né quello di “sociale” avevano lo stesso senso. Il “sociale” comincia con la presa in carico della morte. Stesso copione per le culture distrutte, che vengono risuscitate e protette come folklore. Stessa cosa per l’assicurazione sulla vita: è la variante domestica d’un sistema che presuppone ovunque la morte come assioma. Traduzione sociale della morte di gruppo – ognuno si materializza per l’altro solo come capitale sociale indicizzato sulla morte.

Dissuasione della morte al prezzo d’una continua mortificazione: questa è la logica paradossale della sicurezza. In un contesto cristiano, l’ascesi ha svolto il medesimo ruolo. L’accumulazione di sofferenza e di penitenza ha potuto svolgere il medesimo ruolo di corazza caratteriale, di sarcofago protettivo contro l’inferno. E la nostra coazione ossessiva di sicurezza può essere interpretata come una gigantesca ascesi collettiva, un’anticipazione della morte nella stessa vita: di protezione in protezione, di difesa in difesa, attraverso tutte le giurisdizioni, le istituzioni, i dispositivi materiali moderni, la vita non è più che una tetra contabilità difensiva, chiusa nel suo sarcofago contro tutti i rischi. Contabilità della sopravvivenza, invece della radicale compatibilità della vita e della morte.

Il nostro sistema vive della produzione di morte e pretende di fabbricare una sicurezza. Voltafaccia? Per nulla. Semplice torsione nel ciclo le cui due estremità si ricongiungono. Che una fabbrica d’automobili si ricicli sulla sicurezza (come l’industria sull’inquinamento) senza mutare gamma, obiettivo, né prodotto, dimostra che la sicurezza è soltanto una questione di sostituzione di termini. La sicurezza non è che una condizione interna di riproduzione del sistema giunto a un certo stadio di espansione, come il feedback non è che una procedura interna di regolazione dei sistemi giunti a un certo grado di complessità.

[…]

Ovunque braccata e censurata, la morte risorge dappertutto. Non piú come folclore apocalittico, quale ha potuto assillare l’immaginario vivente di certe epoche – ma precisamente svuotata di qualsiasi sostanza immaginaria, essa passa nella realtà piú banale, assume per noi il volto del principio stesso di razionalità che domina la nostra vita. La morte, è che tutto funziona e serve a qualcosa, è la funzionalità assoluta, segnaletica, cibernetica, dell’ambiente urbano, come in Play-time, il film di Jacques Tati, il parametraggio assoluto dell’uomo sulla sua funzione, come in Kafka: l’epoca del funzionario è quella d’una cultura di morte. […] In una parola, la morte si confonde con la legge del valore. […] E il vero volto della morte ultramoderna, fatta della connessione oggettiva, senza difetto, ultrarapida, di tutti i termini d’un sistema. Le nostre vere necropoli non sono piú i cimiteri, gli ospedali, le guerre, le ecatombi, la morte non è affatto là dove si pensa – non è piú biologica, psicologica, metafisica, non è nemmeno piú omicida – le sue necropoli sono le cantine o le sale degli elaboratori elettronici, spazi bianchi, epurati di qualsiasi rumore umano – bara di vetro dove si congela tutta la memoria sterilizzata del mondo – solo i morti si ricordano di tutto – qualcosa come un’eternità immediata del sapere, una quintessenza del mondo che oggigiorno si sogna di seppellire sotto forma di microfilm e d’archivi, archiviare il mondo intero affinché sia ritrovato da qualche generazione futura – criogenizzazione di tutto il sapere nell’immortalità come valore/segno.

Contro il nostro sogno di perdere tutto, di obliare tutto, eleviamo una muraglia inversa di relazioni, di connessioni, di informazioni, una memoria artificiale densa e inestricabile, e ci seppelliamo vivi all’interno di questa speranza fossile d’essere riscoperti un giorno.

Gli elaboratori elettronici, è questa morte miniaturizzata alla quale ci sottoponiamo nella speranza di sopravvivere. […] Tutto diventa cosí ambiente di morte da quando ciò non è piú che un segno miniaturizzato in un insieme gigantesco. Come il denaro al suo punto di non ritorno […].

In fondo, l’economia politica non si costruisce […] che nel disegno d’essere riconosciuta come immortale da una civiltà futura, o da un’istanza di verità – inimmaginabile, come per la religione, se non in un giudizio universale in cui Dio riconoscerà i suoi. Ma il Giudizio universale è qui, già realizzato: è lo spettacolo definitivo della nostra morte cristallizzata. Lo spettacolo è, bisogna dirlo, grandioso. Dagli insiemi geroglifici della Difesa o del World Trade Center ai grandi insiemi informatici dei media, dai complessi siderurgici ai grandi apparati politici, dalle megalopoli al quadrillage insensato dei minimi atti quotidiani – ovunque, come dice Benjamin, l’umanità è diventata un oggetto di contemplazione per se stessa. «La sua autoestraniazione ha raggiunto un grado che le permette di vivere il proprio annientamento come un godimento estetico di prim’ordine» (L’opera d’arte nell’epaca della sua riproducibilità tecnica). Era per lui la forma stessa del fascismo. Vale a dire una certa forma esacerbata di ideologia – una perversione estetica del politico, che spinge fino al giubilo l’accettazione d’una cultura di morte. Ed è vero che tutto il sistema dell’economia politica diventa oggi per noi questa finalità senza fine, questa vertigine estetica della produttività che è soltanto vertigine contrastata della morte. È proprio per questo che l’arte è morta: a questo punto di saturazione e di sofisticazione, tutta la gioia è passata nello spettacolo stesso della complessità, tutto il fascino estetico è monopolizzato dal sistema nel proprio raddoppiamento (che non fa altro, con le sue torri gigantesche, i suoi satelliti, i suoi calcolatori giganti, se non raddoppiarsi nei segni). Siamo tutti vittime della produzione diventata spettacolo, del godimento estetico della produzione della riproduzione delirante – e non siamo pronti a distaccarcene, perché in tutto lo spettacolo c’è l’imminenza della catastrofe. Noi facciamo adesso l’esperienza al livello del sisterna generale della produzione della vertigine del politico, che Benjamin denuncia nel fascismo, del suo godimento estetico e perverso. Facciamo l’esperienza d’una vertigine depoliticizzata, deideologicizzata – vertigine dell’amministrazione-razionale delle cose, d’un’esaltazione senza fine delle finalità. La morte è immanente all’economia politica. È per questo che essa si vuole immortale. […] Se l’economia politica è il tentativo piú rigoroso di mettere fine alla morte, è chiaro che solo la morte può mettere fine all’economia politica.

Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, 1979, pp. 137-140; 196-199; 205-207.

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Adolfo Pérez Esquivel – La resistenza del popolo Mapuche al gruppo latifondista Benetton. Il cammino da percorrere è quello della resistenza e della dignità.

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La società Benetton ha acquisito nel 2003, mediante Edizione Holding (la Finanziaria della Famiglia Benetton), The Argentine Southern Land Company Limited una compagnia in origine inglese, dal 1982 argentina, che aveva la proprietà di circa 900.000 ettari di Patagonia Argentina.

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Mapuche in marcia contro il latifondista Benetton.

 

 

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Resistir en la Esperanza

 

«Nelle province della Patagonia Benetton possiede all’incirca un milione di ettari, eppure non pago della propria condizione di latifondista, continua ad aggiungere nuove aree, a costo di espellere le comunità mapuche. […]

I MAPUCHE resistono all’invasione e all’esproprio. Il termine “mapuche” significa “gente della terra” (“mapu” è terra, “che” è gente). Togliere a questo popolo le terre ancestrali, dove riposano gli antenati e dove risiede la memoria, è condannarlo a morte. Le autorità nazionali e provinciali non rispettano i popoli indigeni; al contrario, vogliono imporre le proprie politiche neoliberiste con la violenza, calpestando i diritti umani e quelli dei popoli […]. Benetton può contare sull’appoggio complice delle forze di polizia, del governatore di Chubut e di quelli di altre province patagoniche, il tutto con il consenso del governo nazionale. […] Benetton ha chluso i cammini e ha recintato i terreni, impedendo ai mapuche di condurre le mandrie al pascolo e alle pozze d’acqua; sostiene che quelle terre appartengono all’impresa italiana della Compañía de Tierras del Sur Argentino,con migliaia e migliaia di pecore, piantagioni di soia, attività minerarie, esplorazione e sfruttamento di risorse petrolifere e idriche.
[…] Il LONCO FACUNDO HUALA rivendica i diritti ancestrali e la preservazione dei luoghi sacri; ha organizzato la resistenza di fronte alla politica del governo e dell’impresa Benetton. Quello che accade in Patagonia non è un fatto isolato. Il paese conta gravi precedenti quanto a persecuzione e repressione dei popoli originari, con totale pregiudizio per le loro culture, identità, valori spirituali e sociali; moltissime furono le vittime della campaña del desierto (conquista del deserto), negli anni 1830; si cercò di completare Purtroppo, nemmeno il XXI secolo sembra aver spazzato via il razzismo e il disprezzo nei confronti degli abitanti originari dell’America latina. Benetton sta continuando in questo secolo la spoliazione e l’espulsione dei mapuche. […] Espellendo i mapuche dai loro territori si uccidono i loro valori, la loro cultura, la loro spiritualità. Li si condanna a morte. La speranza non muore mai e il cammino da percorrere è quello della resistenza e della dignità».

Adolfo Pérez Esquivel, il manifesto, 30-03-2017, traduzione Marinella Correggia.

La forza della speranza

La forza della speranza

Bandiera del Mapuche

Bandiera del Mapuche


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Paola Mastrocola – Come per il letto di Penelope e Ulisse, conserviamo i nostri segreti, le zone biografiche nascoste e solo nostre, e riserviamole davvero a pochi, soltanto a coloro nei quali è bello riconoscerci, ritrovare quel che siamo come in uno specchio.

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Penelope ed Ulisse nel talamo nuziale, 1563 ca, dipinto di Francesco Primaticcio

Penelope ed Ulisse nel talamo nuziale, 1563 ca, dipinto di Francesco Primaticcio.

«[…] Se veramente
è Odisseo e a casa è tornato, certo noi due
ci riconosceremo anche meglio: perché anche noi
abbiamo dei segni, che noi soli sappiamo, nascosti agli estranei».

Omero, Odissea, XXIII, 106-110.

 

«A Penelope  non  bastano né la cicatrice né i ricordi né la semplice  dichiarazione del suo nome. Lei diffida, vuole qualcosa in più. Per credere, per riconoscere davvero e senza dubbi che quell’uomo vestito di cenci è veramente il suo Ulisse, Penelope ha bisogno di un indizio molto privato, che appartenga solo a lei, alla sua vita col marito. Quando ordinerà ai servi di portare in sala il loro Ietto, Ulisse le fornirà la prova: no, quel letto non si sposta perché lui lo ha costruito intagliando lo direttamente sul tronco di un vecchio ulivo. Questo è il segno privato, che solo lui poteva conoscere, dunque l’unico che possa convincerla.
Secondo me, bisognerebbe continuare a distinguere pubblico e privato, oggi come ieri. Soprattutto bisognerebbe ancora considerare alcune cose soltanto e rigorosamente private, invece di divulgarle e condividerle, rendendo le universalmente pubbliche. Se Ulisse avesse rivelato a mezzo mondo d’aver costruito il letto coniugale sul tronco di un ulivo, chiunque avrebbe potuto spacciarsi per lui. E Penelope non avrebbe mai riconosciuto veramente il suo sposo.
Dovremmo pensare a Penelope, ogni volta che mandiamo una foto o un video ad altri, immettendoci nella scia della condivisione cosmica. Ogni volta che spediamo via etere l’immagine della pizza che stiamo per addentare, del cane che ci fa le feste, di noi abbracciati alla persona amata, o la prima ecografia del bambino che aspettiamo, dovremmo chiederci che cosa stiamo facendo, e distinguere che cosa mandare in giro e cosa tenere per noi, che cosa può appartenere anche agli altri, e a chi, e che cosa invece appartiene solo a noi. […]
Il segno del letto scolpito nell’ulivo scioglie a Penelope le ginocchia, e il cuore. Ma, anche, rassicura Ulisse della fedeltà di sua moglie, di quanto saldo (radicato!) sia rimasto il loro legame, attraverso cui egli può finalmente ritrovarsi dopo vent’anni: è proprio negli occhi di Penelope che Ulisse riconosce se stesso. Si vede, specchiato. Come dicono Françoise Frontisi-Ducroux e Jean-Pierre Vernant, nel loro libro di qualche anno fa, Ulisse e lo specchio. I segreti ci specchiano, dunque.
Per questo è bene che conserviamo e coltiviamo i nostri segreti, le zone biografiche nascoste e solo nostre; manteniamole all’ombra e riserviamole davvero a pochi, soltanto a coloro nei quali è bello riconoscerci, ritrovare quel che siamo come in uno specchio, anche dopo lunghi viaggi, peregrinazioni, naufragi. Non priviamoci della salvezza, solo per il gusto estemporaneo di sentirei al centro dell’universo condividendo un selfie, una foto, un
video. Il centro è sempre altrove e comunque gli angoli ombrosi hanno un fascino ineguagliabile».

Paola Mastrocola, Il Sole 24 Ore, Domenica 27 novembre 2016, p. 49.


Paola Mastrocola – «La passione ribelle»: Il treno non si ferma? Ma siamo sicuri? E ribellarci? Chi studia è sempre un ribelle. Com’è che non viene mai in mente a nessuno? Se oggi qualcuno volesse ribellarsi al mondo com’è diventato, se decidesse così, di colpo, di non stare più al gioco, di scendere dal treno in corsa, studiare potrebbe essere la mossa vincente.

Libri di Paola Mastrocola

Saggi di Paola Mastrocola

  • La forma vera. Petrarca e un’idea di poesia, Bari, Laterza, 1991.
  • La fucina di quale dio, Torino, Genesi, 1991.
  • Le frecce d’oro. Miti greci dell’amore, Torino, SEI, 1994.
  • L’altro sguardo. Antologia delle poetesse del Novecento, a cura di e con Guido Davico Bonino, Milano, A. Mondadori, 1996.
  • Nimica fortuna. Edipo e Antigone nella tragedia italiana del Cinquecento, Torino, Tirrenia Stampatori, 1996.
  • L’idea del tragico. Teorie della tragedia nel Cinquecento, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1998.
  • E se divento grande. Storia del giovane Agostino, Torino, SEI, 1999.

 


 

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F. FRONTISI-DUCROUX e J.-P. VERNANT

Ulisse e lo specchio

Il femminile e la rappresentazione di sé nella Grecia antica

Donzelli

Quarta di copertina

Perché, nella Grecia antica, gli uomini rifiutavano di guardarsi allo specchio? E perché il suo uso era riservato solo alle donne? Attorno al tema dello specchio ruota l'argomentazione di questo libro, che si apre e si chiude sulla figura di Ulisse. Tornato ad Itaca, l'eroe deve riconquistare la propria identità, insieme con il proprio status di re. Ma simile riconquista sarà possibile solo con il pieno benestare di Penelope. Per Ulisse è dunque questione di identità: di identità maschile, giacché solo i maschi per quella cultura ne hanno diritto. Ma le donne sono costantemente presenti in questa ricerca di sé da parte dell'uomo greco. Senza di loro, questo riconoscimento non sarebbe possibile. Lo specchio, messo in mano alle donne, diviene dunque il mediatore simbolico del rapporto tra i sessi, la via per il riconoscimento di sé, attraverso la mediazione del femminile. Non a caso lo specchio di Venere - il cerchio sopra la croce che ancor oggi rappresenta il simbolo della femminilità - si riflette nell'arco di Apollo - il cerchio da cui sale una freccia obbliqua che denota il maschile - che ad esso in qualche modo si ispira. A partire da una ricchissima messe di materiali artistici e letterari, Jean-Pierre Vernant e Françoise Frontisi-Ducroux mostrano in questo libro godibilissimo come i greci percepivano se stessi e vedevano le loro donne, ripercorrendo i primi fondamenti dell'auto-rappresentazione nella storia della nostra civiltà.

 


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Mario Vegetti – Il lettore viene introdotto a una sorta di visita guidata in uno dei più straordinari laboratori di pensiero politico nella storia d’Occidente.

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«Ci sono parecchie cose che il letrore non troverà in queste pagine. Non troverà un commento analitico dei testi antichi condotto secondo le intenzioni d’aurore e l’ordine delle argomentazioni: un lavoro questo imprescindibile, ma che va compiuto in altra sede. Non troverà neppure una storia delle idee politiche sviluppata secondo le sequenze cronologiche di autori e di testi, per la quale si può rinviare a ottimi strumenti di consultazione. Di conseguenza, non troverà una bibliografia disciplinare organica: le indicazioni  contenute nelle note sono suggerimenti di lettura senza alcuna pretesa sistematica.
Mi sono proposto invece di introdurre il lettore a una sorta di visita guidata in uno dei più straordinari laboratori di pensiero politico nella storia d’Occidente, che fu attivo in Atene nel secolo che va all’incirca dal 430 al 330 a.c. Utilizzando le idee e i testi via via prodotti in questo laboratorio, si è allestita la messa in scena di un dibattito a più voci, che coinvolge filosofi, srorici, poeti, politici, intorno alle domande decisive su che cosa sia il potere e come possa venire legittimato o giustificato. Nella rappresentazione che ne viene offerta, questo dibattito è stato articolato intorno a cinque assi tematici principali (la maggioranza, la legge, la forza, la virtù, il sapere) che, com’è naturale, si intrecciano e interagiscono reciprocamente. Per il senso comune politologico, il confronto tra le idee politiche prodotte in questo laboratorio riserva qualche sorpresa: persino un regime rassicurante come la democrazia maggioritaria viene messo radicalmente in discussione, e d’altra parte un potere esecrabile come quello tirannico riscuote talvolta consensi significativi. D’altra parte, testi noti possono acquistare un rilievo e un significato inattesi per la vulgata storiografica. Ma non ho affatto inteso mostrare chi ha ragione e chi ha torto, oppure chi vince e chi perde.
Gli aspetti che davvero interessano sono la forza teorica, la spregiudicatezza intellettuale, la radicalità di approccio che caratterizzano la discussione qui rivisitata. Vi troviamo, da un lato, un modello insuperato di come la riflessione politica possa andare al fondo dei problemi, magari non per risolverli ma per renderli almeno più chiari nei loro presupposti e nelle loro implicazioni; dall’altro, una strumentazione concettuale che certo appartiene a un mondo lontano, ma che forse non ha del tutto esaurito la sua capacità di offrire stimoli e prospettive che ancora oggi sarebbe sbagliato ignorare».

Mario Vegetti, Chi comanda nella città. I Greci e il potere, Carocci editore, 2017, pp.7-8.

Risvolto di copertina

Il libro introduce il lettore  a una sorta di visita guidata  in uno dei più straordinari laboratori  di pensiero politico nella storia  d’Occidente, che fu attivo in Atene  nel secolo che va all’incirca  dal 430 al 330 a.C.  Si è allestita la messa in scena  di un dibattito a più voci,  che coinvolge filosofi, storici,  poeti, politici, intorno  alle domande decisive su che cosa  sia il potere e come possa venire  legittimato o giustificato.  Si confrontano così le ragioni  della maggioranza, della legge,  della forza, del capo carismatico,  della competenza scientifica,  su temi che ancor oggi risultano  attuali quando ci si interroga  sulla crisi della democrazia  e sulle sue alternative decisioniste.  Il testo si rivolge tanto agli studiosi  del pensiero antico quanto a chiunque  sia interessato ai problemi  della politica contemporanea.


 

Mario Vegetti – La filosofia e la città: processi e assoluzioni .

Mario Vegetti e Francesco Ademollo – Incontro con Aristotele: la potenza del suo pensiero è ancora in grado di parlarci.

 


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Mark Twain (1835-1910) – I politici inventeranno volgari bugie e ognuno sarà grato di queste falsità, che gli mettono in pace la coscienza. Si convincerà che la guerra è giusta e ringrazierà Dio dei sonni tranquilli che questo processo di grottesco autoinganno gli garantisce.

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Opera di Maupal

 

Mauro Pallotta (Maupal)
Una nuova opera dell’artista Mauro Pallotta: Donald Trump a Trastevere in tutta la sua boriosa esplosività.

 

 

 

The Mysterious Stranger

The Mysterious Stranger

« […] dopo di che, i politici inventeranno volgari bugie, dando tutte le colpe alla nazione da attaccare, e ognuno sarà grato di queste falsità, che gli mettono in pace la coscienza, e le studierà diligentemente, mentre rifiuterà di prendere in considerazione qualsiasi argomentazione contraria; e in questo modo di lì a poco si convincerà che la guerra è giusta e ringrazierà Dio dei sonni tranquilli che questo processo di grottesco autoinganno gli garantisce».

Mark Twain, The Mysterious Stranger [1916], Lo straniero misterioso, Mattioli, 2016.

Lo straniero misteriso

Lo straniero misteriso

Quarta di copertina
Un breve romanzo favolistico e allegorico, privo di ogni traccia di vernacolo e di gergo, forte di una visione quasi dostoevskiana dell'universo quale gioco spietato. Uno dei protagonisti è un angelo il cui nome è Satana, è una forza crudele che irride gli uomini e le loro miserie, senza però che da parte di Mark Twain vi sia alcuna implicazione metafisica. L'opera è l'espressione del materialismo sempre più convinto del grande scrittore americano, negli ultimi anni della sua esistenza. La cupa Austria in cui si svolge il romanzo nel 1590, è una disillusa proiezione del mondo contemporaneo, la cui fiducia, il cui ottimismo razionale lo scrittore mette radicalmente in discussione.

Nota Bene

Hermann Göring dichiarerà al processo di Norimberga. «Il popolo può sempre essere piegato al volere dei capi E facile: basta dire alla gente che la nazione è sotto attacco e accusare i pacifisti di scarso patriottismo e di mettere in pericolo il paese. Funziona nello stesso modo in tutte le nazioni».

 


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Renato Curcio – La materia più preziosa al mondo è l’anima degli umani, il loro immaginario. L’impero virtuale non è che la storia recente di una nuova e più insidiosa strategia di colonizzazione dell’immaginario.

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«[È emersa] una nuova oligarchia economica esperta nell’esercizio del potere digitale […] Uno sviluppo del capitalismo globale, una tecnologia innovatrice, un nuovo panottico di sorveglianza, una possibilità di controllo a distanza dei lavoratori, una produzione di identità virtuali, un’opportunità per mille operazioni di hackeraggio benefiche e malefiche, una possibilità di velocizzare e ampliare le nostre comunicazioni orizzontali e tante, tantissime altre cose ancora» (pp. 8-9).

«L’iperconnessione, la schiavitù mentale, l’app-dipendenza, l’alienazione della memoria, il furto dell’oblio, e il deterioramento della sensibilità relazionale» (p. 10).

«La materia più preziosa al mondo non è il petrolio, né l’oro e neppure l’energia. No, più prezioso di ogni altra cosa, come aveva già intuito il Papato ai tempi delle prime Crociate, è l’anima degli umani, il loro immaginario. L’impero virtuale non è che la storia recente di questa appropriazione, di una nuova e più insidiosa strategia di colonizzazione dell’immaginario» (p. 16).

«[Dobbiamo] raffigurarci l’utilizzatore della piattaforma come un lavoratore-consumatore che opera volontariamente per un’azienda produttiva senza percepire alcun salario; che produce con il suo lavoro valore, ma lo fa gratuitamente, volontariamente, e nella maggior parte dei casi senza esserne neppure consapevole; e che, infine, riceve nei suoi strumenti digitali inviti mirati all’acquisto di prodotti ai quali in qualche modo si è interessato (un volo, un libro, un tablet, un’auto, un appartamento). Ricordando che il popolo irretito nell’impero virtuale raggiunge attualmente circa tre miliardi di persone non stupisce che il gruzzolo finale raggiunga cifre astronomiche» (p. 36).

«Mentre i legami in presenza si generano, si consolidano e si sciolgono attraverso parole e messaggi non verbali che i corpi si scambiano reciprocamente, le connessioni elettroniche si affidano alle immagini morte, ai filmati, ai simboli e alla scrittura, vale a dire ai tipici sistemi di segni ai quali, da sempre, ricorrono i linguaggi dell’assenza» (pp. 63-64).

«Un ‘tweet’ qui e un ‘mi piace’ là. Un messaggino e uno scambio di fotografie. Esorcismi contro la solitudine, ma anche angoscianti domande. […] Il numero e non la qualità. Questo è lo specchio di qualunque Narciso virtuale. […] Nell’ordine di realtà virtuale a cui Narciso si consegna, la sua gloria e il suo destino dipendono dall’aritmetica» (70).

«Affidando i nostri ricordi alle implacabili memorie esterne, queste memorie ricorderanno di noi anche quello che noi non ricordiamo più o di cui ci siamo liberati. Figlie del pensiero quantitativo esse ignorano l’arte sottile e benefica dello scarto e dell’abbandono: esse ricorderanno per sempre anche quanto noi non vorremmo più ricordare. Ricorderanno nonostante noi e la nostra volontà, e saranno soltanto esse, infine, a costruire, giudicare e decidere quale debba essere il significato dei nostri trascorsi dimenticati.
Va detto ancora che la memoria senza oblio è anche una memoria senza storia, una memoria ‘morta’, rigida come un cadavere e patologicamente dissociata. È una memoria ‘cattiva’ che genera malessere. Tutto ciò che essa conserva ‘dorme’ fino a che l’oligarchia non ritenga di doverlo risvegliare per una sua qualsiasi ragione; dimora in un obitorio dell’impero in attesa di essere un giorno oscenamente scrutata da algoritmi curiosi in cerca di sempre nuove e imprevedibili associazioni» (77).

«[…] parole finte, contatti virtuali spacciati per legami amicali, maschere intercambiabili e ologrammi in marcia nelle piazze vuote» (99).

Si tratta della «schiavitù mentale» della quale parla Chomsky, «la schiavitù di cui sono vittime gli entusiastici abitanti dell’impero» (68), il quale si presenta «come una società della trasparenza identitaria; una società degli alias digitali accreditati e domiciliati in account, con-vinti e attivi, ma sempre trasversalmente monitorati senza alcuna pausa» (pp. 100-101).

«[Internet è] dentro il mondo, ma il mondo non si riduce a Internet. Il futuro passa anche dall’esterno di questa ragnatela e fuori dalle sue ossessioni» (p. 98).

«Stando all’evidenza storica tutti gli imperi esistiti sono anche crollati. Non vedo perché proprio questo dovrebbe fare eccezione» (p. 101).

Quarta di copertina

Alcune aziende che quindici anni fa non esistevano, come Google e Facebook, oggi costituiscono la nuova e potente oligarchia planetaria del capitalismo digitale. Internet ne rappresenta l’intelaiatura, e i suoi utenti, vale a dire circa tre miliardi di persone, la forza lavoro utilizzata. Le nuove tecnologie digitali fanno ormai parte della nostra vita quotidiana, le portiamo addosso e controllano tutti gli ambienti della vita sociale, dai luoghi di lavoro ai templi del consumo. Questo libro propone una riflessione sui dispositivi attraverso i quali questa oligarchia e queste tecnologie catturano e colonizzano il nostro immaginario a fini di profitto economico e di controllo sociale. E mette in luce il risvolto di tutto ciò, ovvero l’emergere di una nuova e impercepita sudditanza di quel popolo virtuale che, riversando ingenuamente messaggi, fotografie, selfie, ansie e desideri su piattaforme e social-network, contribuisce con le sue stesse pratiche a rafforzare il dominio del nuovo impero. Non conosciamo ancora le conseguenze sui tempi lunghi di questo ulteriore passaggio del modo di produzione capitalistico. Chiara invece appare la necessità di immaginare pratiche di decolonizzazione personale e collettiva per istituire nei luoghi ordinari della vita varchi di liberazione.

 

 

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