Beatrice Balsamo – Elogio della dolcezza, partendo dal dato etimologico per scandagliarne la lettura psicanalitica, quella sociologica e quella filosofica … la dolcezza ha a che fare con il gusto dell’uomo per l’uomo.

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Beatrice Balsamo, «Elogio della dolcezza. Misura del velo del gusto e del legame», Prefazione di E.Franzini, Appendice di M. Montanari, Mimesis, 2017.

«… la dolcezza ha a che fare con il gusto dell’uomo per l’uomo.
Troppe volte l’uomo è disgustoso.
Allora, a maggior ragione,
bisogna adoperarsi per preservarne il gusto,
per quanto possibile, accrescerlo.
Attendere a quest’opera esige esercizio, assiduità, pazienza…».

 

Il saggio di Beatrice Balsamo ci introduce in un orizzonte di senso, quello della dolcezza, che permette di comprendere come la sfera dei sentimenti sia un tema essenziale da recuperare e studiare nel nostro tempo

Questo saggio è molto importante oggi, epoca di precarietà e incertezze, dove determinante è la confusione, anche nelle relazioni: predominano rapporti immaturi, violenti, disorganizzati. Il testo analizza le radici umane della dolcezza s-temperante, del “sentirsi amati e sicuri” come stimoli a un maggiore discernimento vitale. Ma, la dolcezza è anche quell’argine che consente di saper distinguere e differenziare nel gusto, ponendo una misura, un limite, di contro a una “fusion” indifferenziata che sregola la capacità gustativa e conviviale. Tali riflessioni sono condotte attraverso l’approccio della psicanalisi, del pensiero filosofico e sociologico. La dolcezza, infatti, dà forma e ha a che fare con la bellezza e con una estetica condivisa. Prefazione di Elio Franzini e appendice di Massimo Montanari.

Beatrice Balsamo, Elogio della Dolcezza, Mimesis, 2017.

 

Recensione di Luca Lampariello

 

Un abbraccio, un segno d’amore per contenere, accogliere, illuminare l’espressione di un bambino. La madre si avvicina al figlio, non solo lo nutre con il latte, ma ne nutre il cuore con-tenendone le prime espressioni, permettendo che il suo desiderio si alimenti, che possa muovere i primi passi in un mondo di stupore e meraviglia. La dolcezza è e ne dà la forma, la dolcezza ne rende il suono. Il desiderio si nutre della presenza della madre e muove e cresce in assenza della stessa. Presenza assenza in stemperante equilibrio. La presenza non diventi un “comfort senza desiderio” o un controllo opprimente e invadente; l’assenza non sia deserto, lontananza incolmabile, abbrivio per future dolorose compensazioni. Nella giusta misura, si dà la vita del simbolo nel percorso soggettivo del bambino, l’elaborazione di sentimenti, e dunque la crescita. La vita del desiderio fa sì che il bambino percepisca lo spazio che occupa nella mente dell’altro, l’Altro materno. Aprendo al desiderio, la madre favorisce l’umanizzazione, pone limiti fecondi. Non si ha la saturazione del tutto subito, né l’assenza di nutrimento, ma il segno d’amore, la dolcezza che è “levità, leggerezza, tocco, bagliore, richiamo, ha a che fare con la forma, con l’estetica”. Un buon abbraccio, la premura, formeranno un ambiente facilitante, atto a mettere in piedi il bambino, stabile eppure dipendente, in lui crescendo stupore e gioia, gratitudine e amore duraturi…

Disumanizzazione è invece il carattere principale della società contemporanea, in cui il desiderio scompare, il limite sfuma, e il tutto si riduce a un consumo di merci da parte di consumatori che si tramutano in altrettante merci. Il cibo, grande lente focale sociologica, è consumato in grandi quantità, distrattamente, in modo compulsivo. C’è urgente bisogno di dolcezza, di segni d’amore come quelli di cui la buona madre circonda il bambino. C’è urgente bisogno di parole dolci, scelte con cura e attenzione, a scalfire il regno della parola distratta, lasciata cadere con noncuranza, figlia di un registro di linguaggio basato sul mero calcolo, sulla convenienza, sull’interesse. Beatrice Balsamo tesse l’elogio della dolcezza, partendo dal dato etimologico per scandagliarne letture psicanalitica, filosofica e sociologica. Dall’abbraccio della madre al figlio, al gusto del dolce sul palato dell’uomo che aspira a essere conviviale. Individuare quel “non so che” che brilla nel manifestarsi della forma dolcezza è il pregio principale di questo elogio, che è sopratutto un richiamo a restaurare – umanizzandole – le relazioni personali, ricomponendole tassello per tassello, ritrovando il gusto, andando alla radice del rapporto madre-bambino, a cogliere quella dolcezza s-temperante capace di illuminare, di toccare lievemente, di sondare i limiti e dare forma: sentirsi amati e sicuri in essa, capaci di esperire la possibilità e la flessibilità. È saggezza, la nostra natura esposta all’Altro, e fortezza, sostegno; è affidarsi, vivere e credere nel legame.

Beatrice Balsamo, psicanalista, da 40 anni vive e lavora a Bologna.

Laureata in Filosofia Morale, è specializzata in “Filosofia e Psicanalisi”, esperta delle narrazioni. Studiosa di Freud, Klein, Winnicott, Lacan e Bollas, col quale ha lavorato sul transfert. Ha maturato un’esperienza trentennale nel campo dei Disturbi del Comportamento Alimentare e dell’umore con l’approccio della psicanalisi narrativa.

É docente didatta alla scuola AION di Psicoterapia Analitica di Bologna di “Psicologia delle Narrazioni e del Cinema”. É docente di “Psicanalisi, Cinema e Narrazioni” all’ALMED dell’Università Cattolica di Milano.

Ha pubblicato Eccesso e difetto nella nutrizione e nella comunicazione, Firenze, Giunti, 1990; La parola del narrare e dell’incontro, Torino, Effatà Edizioni, 2001; Riflessi della Psiche. Il cinema di Hitchcock, Torino, Filmcronache/Effatà Edizioni, 2002; Il mistero comunicante, Bologna, EDB, 2003; Anoressia bulimia obesità. La cura della parola, Torino, Effatà Edizioni, 2009; Hitchcock. Il Volto e la Cosa, Milano, Mimesis Edizioni, 2010; La sorella che salva, Milano, Effatà Edizioni, 2012; Amore sussurro di una brezza leggera, Torino, Effatà Edizioni, 2013.

Presiede l’Associazione di promozione sociale “Psicologia Umanistica e delle Narrazioni. Psicoanalisi. Arte. Scienze Umane” (A.P.U.N.) che si interessa del soggetto nell’attuale contesto “ipermoderno” e dei “nuovi” sintomi (anoressia, bulimia, panico, nuove dipendenze, depressioni) attraverso l’uso delle narrazioni nella cura, con un particolare “utilizzo” del film. In questi anni ha incontrato tante famiglie di Bologna nell’ausilio e formazione alla genitorialità, all’amicizia, al valore di essere nonni.

L’Associazione fa parte della Consulta delle Associazioni Familiari del Comune di Bologna ed è agenzia di formazione per il tirocinio “all’uso delle narrazioni e del film” nella cura, per le Facoltà di Lettere e Filosofia al DARvipem – CIMES dell’Università di Bologna e di Psicologia dell’Università di Padova, Parma e Cesena.

Presidente Associazione Mens-a – Promuovere Bologna e Direttore Scientifico dell’evento “Mens-a. L’intelligenza ospitale”.

Tel. 051 522510/ 3395991149

Email balsamobeatrice@gmail.com

Michail Bachtin (1895-1975) – Non tutti i motivi che entrano in contraddizione con l’ideologia ufficiale degenerano in un indistinto discorso interno e muoiono. Solo che all’inizio esso si svilupperà in una cerchia sociale ristretta, entrerà nel sottosuolo della salutare clandestinità politica. Proprio così si forma un’ideologia rivoluzionaria in tutte le sfere della cultura.

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I differenti strati dell’«ideologia della vita quotidiana»

 

Quelle zone dell’ideologia della vita quotidiana che corrispondono alla coscienza freudiana ufficiale, già “censurata”, riflettono i fattori normativi più costanti e dominanti della coscienza di classe. Essi sono vicini all’ideologia formalizzata elaborata da questa classe, alle sue leggi, alla sua morale, alla sua visione del mondo. In questi strati dell’ideologia della vita quotidiana, il discorso interno viene facilmente regolato e si trasforma liberamente in discorso esterno o comunque non teme di diventare discorso esterno.
Gli altri strati, quelli che corrispondono all’inconscio freudiano, sono molto lontani dal sistema regolato dell’ideologia dominante. Essi attestano la rottura dell’unità e integrità di questo sistema, l’instabilità delle motivazioni ideologiche correnti. Evidentemente le istanze di accumulazione di motivi interni tali da erodere l’unità dell’ideologia della vita quotidiana possono avere un carattere casuale e testimoniare soltanto il declassamento sociale di singole persone, ma molto spesso testimoniano l’inizio della dissoluzione, se non della classe nella sua totalità, di alcuni suoi gruppi. In una collettività sana e in un individuo socialmente sano, lideologia della vita quotidiana, fondata su una base socio-economica integra e salda: non c’è nessuna frattura tra coscienza ufficiale e non ufficiale.
Il contenuto e la composizione degli strati non ufficiali dell’ideologia della vita quotidiana (cioè quello che, secondo Freud, è il contenuto e la composizione dell’inconscio) sono condizionati dall’epoca e dalla classe, alla stessa maniera in cui sono condizionati gli strati già censurati, i sistemi di ideologia legalizzata (morale, diritto, concezione del mondo). Per esempio, le tendenze omosessuali dell’antica classe dominante ellenica non producevano nessun conflitto nella loro ideologia della vita quotidiana, sicché passavano liberamente nel discorso esterno e trovavano perfino un’espressione ideologica formalizzata (ricorderemo il Convivio di Platone).
Tutti i conflitti di cui parla la psicoanalisi sono pienamente caratteristici della piccola borghesia europea dei tempi recenti. La “censura” freudiana esprime esattamente il punto di vista dell’ideologia della vita quotidiana piccolo-borghese e perciò si crea un certo effetto comico quando i freudiani la trasportano nella psiche di un antico greco o di un contadino medievale. L’enorme sopravvalutazione da parte del freudismo del fattore sessuale è fortemente indicativa se la si guarda sullo sfondo dell’attuale disgregazione della famiglia borghese.
Quanto più ampia e profonda diviene la frattura tra coscienza ufficiale e coscienza non ufficiale, tanto più difficilmente i motivi del discorso interno possono passare in quello esterno (orale, scritto, stampato, o di un circolo sociale ristretto o ampio) e possono in esso acquisire una migliore formulazione, chiarirsi e rafforzarsi. In queste condizioni, tali motivi cominceranno a languire, a perdere il loro aspetto verbale e, a poco a poco, si trasformeranno effettivamente in un “corpo allogeno” nella psiche. In questa maniera, interi gruppi di manifestazioni organiche possono, in tal modo, essere esclusi dagli ambiti del comportamento verbalizzato, possono divenire asociali: si allarga così la sfera “animale” dell’uomo, la sua parte asociale.

Ovviamente non tutti i settori del comportamento umano possono essere sottoposti a una frattura così completa con la formalizzazione verbale ideologica. Infatti, non tutti i motivi che entrano in contraddizione con l’ideologia ufficiale degenerano in un indistinto discorso interno e muoiono; alcuni possono ingaggiare una lotta con l’ideologia ufficiale. Se questo motivo è fondato sulla realtà economica di un intero gruppo, se non è il motivo di un singolo declassato, ha davanti a sé un futuro sociale e forse anche vittorioso. Non c’è nessuna ragione perché questo motivo divenga asociale, perda il contatto comunicativo. Solo che all’inizio esso si svilupperà in una cerchia sociale ristretta, entrerà nel sottosuolo della clandestinità, non in quello dei complessi censurati, ma nella salutare clandestinità politica. Proprio così si forma un’ideologia rivoluzionaria in tutte le sfere della cultura.

 

Michail Bachtin, Freud e il freudismo. Studio critico, a cura di Augusto Ponzio, Mimesis, Milano 2005, pp. 140-141.


Michail Bacthin (1895-1975) – Il riso autentico non esclude la serietà, ma la purifica dal dogmatismo, dall’unilateralità, dalla sclerosi, dal fanatismo, dalla perentorietà, dalla intimidazione. Il riso è una forma interiore e non esteriore
Michail Bachtin (1895-1975) – Una sola voce non porta a termine nulla e nulla decide. Due voci sono il minimum della vita, il minimum dell’essere. Essere significa comunicare dialogicamente.
Michail Bachtin (1895-1975) – La comprensione creativa non rinuncia a sé. Di grande momento per la comprensione è l’extralocalità del comprendere. Nel campo della cultura, l’extralocalità è la più possente leva per la comprensione. Un senso svela le proprie profondità, se si incontra e entra in contatto con un altro, altrui senso: tra di essi comincia una sorta di dialogo. Senza proprie domande non si può capire creativamente alcunché di altro e di altrui (ma, naturalmente, le domande devono essere serie, autentiche).
Michail Bachtin (1895-1975) – La vera vita della persona è accessibile soltanto a una penetrazione dialogica alla quale essa si apre liberamente in risposta. Nell’uomo vi è sempre qualcosa che solo lui può scoprire nel libero atto dell’autocoscienza e della parola, che non si assoggetta alla determinazione esterna ed esteriorizzante.
Michail Bacthin (1895-1975) – La vita può essere compresa dalla coscienza solo nella responsabilità concreta. Una filosofia della vita non può che essere una filosofia morale. Si può comprendere la vita solo come evento, e non come essere-dato. Separatasi dalla responsabilità, la vita non può avere una filosofia; separatasi dalla responsabilità, essa è, per principio, fortuita e priva di fondamenta.

Lev Semënovič Vygotskij (1896-1934) – Spinoza lottò per una spiegazione causale delle passioni umane. Fu il pensatore che, per la prima volta, fondò sul piano filosofico la possibilità stessa di una psicologia esplicativa dell’uomo come scienza nel senso vero del termine, e tracciò la via del suo sviluppo successivo.

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«Passo infine all’altra parte dell’Etica che riguarda il modo o la via che conduce alla libertà. In essa, dunque, tratterò della potenza della ragione mostrando che cosa la stessa ragione possa sugli affetti, e poi che cosa sia la libertà della mente, cioè la beatitudine; e da ciò capiremo quanto il saggio sia più forte dell’ignorante» (B. Spinoza, Etica, Parte V, Prefazione, Boringhieri, Torino 1959, p. 293).


«Ognuno ha il potere d’intender sé e i suoi affetti in modo chiaro e distinto, se non assolutamente, almeno in parte[…]» (B. Spinoza, Etica, Parte V, prop. 4, op. cit., p. 299).


«È proprio Spinoza che lottò per una spiegazione causale […] delle passioni umane. Proprio lui lottò contro la spiegazione illusoria con l’aiuto dello scopo. Proprio lui fu il pensatore che, per la prima volta, fondò sul piano filosofico la possibilità stessa di una psicologia esplicativa dell’uomo come scienza nel senso vero del termine, e tracciò la via del suo sviluppo successivo.
In questo senso Spinoza si oppone a tutta la psicologia descrittiva contemporanea come un avversario intransigente. Fu colui che combatté il dualismo cartesiano, lo spiritualismo e il teleologismo che si fece rinascere in questa teoria. A tal riguardo, dobbiamo contrapporre l’opinione di Dilthey alla nostra concezione del nesso effettivo esistente tra la teoria delle passioni di Spinoza e la psicologia delle passioni contemporanea. È notevole che, nell’impostare i problemi fondamentali della psicologia dell’uomo, questa nuova tendenza si vide obbligata a ricorrere alla psicologia del secolo XVII, che diresse giudiziosamente la sua attenzione al vero centro della vita spirituale, al contenuto dei nostri affetti, e che si vide obbligata a menzionare il nome di Spinoza quale faro che illuminava il cammino per nuove ricerche. I sostenitori della nuova tendenza trovano in Spinoza non solo una nomenclatura e una classificazione delle passioni, ma anche sicure relazioni fondamentali che attraversano tutta la vita dei sentimenti e delle motivazioni, la cui importanza è decisiva per la comprensione dell’essere umano, e che costituiscono inoltre temi per un metodo descrittivo preciso.
[…] Quindi , non è solo il metodo, ma anche il contenuto della teoria spinoziana delle passioni ciò che si propone come principio orientativo per lo sviluppo delle ricerche in un nuovo orientamento – nella direzione della comprensione dell’uomo».

Lev Semënovič Vygotskij, Teoria delle emozioni. Studio storico psicologico, a cura di Mauro Campo, Mimesis, Milano 2019, pp. 271-272.


Lev S. Vygotskij – Diventiamo noi stessi attraverso gli altri. La cultura è il prodotto della vita sociale e dell’attività collettiva dell’uomo
Lev Semenovich Vygotsky – La coscienza si riflette nelle parole che pronunciamo. La parola è il microcosmo della coscienza umana
Lev Semenovich Vygotskij (1896-1934) – Il miracolo dell’arte: ha la capacità di trasformare l’acqua in vino. La coscienza si riflette nelle parole che pronunciamo.


Simone Lanza – Perdere tempo per educare. Di fronte a una società che non perde tempo, il compito della pedagogia oggi è quello di rallentare ancora di più. Come già insegnava Rousseau, saper perdere tempo, lasciare spazio all’imprevisto, all’incontro, per dialogare con bambini/e, per sorprenderci e stupirci.

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Simone Lanza

Perdere tempo per educare

 

Frontespizio della prima edizione dell'Émile ou de l'éducation (1762) copia

Frontespizio della prima edizione dell’Émile ou de l’éducation (1762).

 

«Oserò esporre qui la più grande, la più importante, la più utile norma di tutta l’educazione? Non è guadagnare del tempo, ma perderne». Jean Jacques Rousseau, Emile, 1762


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comrpessionespaziotemporaleLa compressione spazio-temporale, in base alla quale «lo spazio sembra rimpicciolire fino a diventare un villaggio globale […] mentre gli orizzonti temporali si accorciano al punto in cui il presente è tutto ciò che c’è» (Harvey).

 

compressionespaziotemporaleViviamo in un mondo difficile, soprattutto un mondo veloce. La velocità è caratteristica della modernità e ancor più della postmodernità, che Harvey ha eccellentemente descritto con la categoria di compressione spazio-temporale.[1] Nella nostra epoca tutto sembra schiacciarsi sul presente. Il futuro, anziché essere portatore di Progresso, come fu almeno dall’Illuminismo, è per la prima volta vissuto dalle nuove generazioni come minaccia. Viviamo in un’epoca di passioni tristi che al futuro promessa ha sostituto il futuro minaccia – ci spiega Benasayag.[2] La questione del tempo, la percezione soggettiva del tempo, è importante per capire la crisi dell’educazione oggi: mi chiedo infatti se alla luce della nuova percezione del tempo sia ancora valido l’ideale di Decroly e di tanti pedagogisti?

 

La crisi della modernità

La crisi della modernità

«Il più bell’ideale per una generazione è di sforzarsi affinché la generazione che la segue possa vivere e godere di più bellezza, di più felicità, ridurre […] i pregiudizi imbecilli, le sofferenze superflue».[3]

L' epoca delle passioni tristi

Il futuro minaccia sta investendo anche l’educazione? Quali sono i principali ostacoli e problemi nel tempo della globalizzazione in cui sono ingabbiate le sfide pedagogiche? Parlerò della questione del tempo affrontando la questione delle nuove tecnologie e della crisi dell’autorità.

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Una scuola per la vita attraverso la vita

Una scuola per la vita attraverso la vita

 

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La velocità delle bolle di sapone nell’epoca del tasto play

 

La congiura contro i giovani. Crisi degli adulti e riscatto delle nuove generazionViviamo nell’epoca della pedagogia del tasto play.[4] Gli oggetti educano e le cose hanno da sempre avuto un potere educativo. Le bambole educano, le macchinine educano. I giocattoli di legno educano. È attraverso gli oggetti, i giocattoli, che si differenziano i generi. Adesso hanno persino inventato il Lego per bambine. Purtroppo non posso affrontare il tema di come ancora oggi gli oggetti servano a differenziare i generi. «Se gli oggetti educano – si chiede Laffi – qual è la pedagogia messa in atto da un ambiente materiale governato dal tasto play?». Si «indebolisce l’idea di una mediazione riflessiva come premessa dell’agire» e si rischia di formare al delirio di onnipotenza e al cinismo.

Ecco i rischi maggiori:

«A fare play non è il bambino ma il giocattolo, letteralmente è il giocattolo che gioca, suona e recita, chi è di fronte schiaccia e assiste, come davanti a un televisore. […] Quale idea del mondo, quindi: la realtà come spettacolo, noi come pubblico, l’eliminazione della fatica o dell’apprendimento, la promessa implicita che tutto ci è dato, ed è qui per noi, non per intrinseca necessità o autonoma esistenza, l’impossibilità di incontro e casualità, sotto il nostro primato di spettatori a cui il mondo deve la sua recita».

E ancora:

«Il consumo tecnologico disattiva la ricerca informativa: se le cose devono funzionare, non importa nemmeno il come e il perché, l’approfondimento è inutile, la curiosità non si esercita su ciò che ci precede – Chi l’ha inventato? Chi l’ha costruito? Da dove viene? Di che materiale è? – perché tutte quelle voci del sapere le archiviamo, delegando ai marchi di sicurezza una generica garanzia sull’utilizzo. Tutta la tensione dell’utilizzatore tecnologico è invece su ciò che segue da qui a poco, sull’incantesimo del funzionamento, sulla magia dello scatto. È anche così che si forma un rapporto con il mondo disinteressato alle origini, indifferente alla natura delle cose, che non interroga ma aspetta, che non chiede ma guarda ciò che arriva».

Senza pensarci mi sono imbattuto nel tasto play quando mi sono posto la domanda se regalare o meno una pistola elettrica che spara bolle di sapone. L’effetto è eccezionale: in pochi secondi uno spazio enorme si riempie di migliaia di bolle. Immaginatevi un bambino che con la sua pistola riempie una sala enorme come questa, immaginatevi gli sguardi di bimbe e bimbe spettatori che guardano in alto e ovunque le migliaia di bolle. Ma quale fatica, quali capacità sviluppa rispetto alle tradizionali bolle che con fatica e insuccessi uscivano due o tre alla volta e che bisognava rincorrere una a una? Si schiaccia un tasto e si guarda l’effetto. Quelle tradizionali sono un gioco, anche faticoso. Inutile dire che la durata del barattolo della pistola elettrica è dieci volte inferiore e che quindi spenderai dieci volte tanto: velocità e consumo.

La questione qui è però un’altra ancora: a quale idea di mondo ci educa questo oggetto elettronico che non è più un gioco ma uno spettacolo? La velocità degli oggetti della cameretta del tasto play cosa modifica a livello antropologico? Laffi ci chiede: che ruolo gioca nella capacità di aspettare e che tipo di concentrazione sviluppa?

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Tempo-schermo

Il dispositivo pedagogico che educa al mondo dello spettacolo è lo schermo. Con schermo bisogna intendere la TV, ma anche la console di gioco, gli smartphone, i computer, i tablet. Mentre il fascino degli schermi aumenta, il danno si estende: al tempo davanti alla TV si somma quello di fronte ad altri schermi. Lo schermo è l’oggetto davanti a cui adulti (e quindi anche minori) stanno la più parte del tempo. La questione diviene problematica non tanto perché lo schermo in quanto tale abbia caratteristiche negative ma perché un eccesso di tempo-schermo in età evolutiva è dannoso. Non perché lo schermo sia in sé neutrale e quel che conta sia l’uso (individuale) che se ne fa, come se ci fosse un uso buono e un uso cattivo delle tecnologie. Esiste un uso sociale delle tecnologie e le tecnologie riflettono e proiettano un modo concreto di stare al mondo: in questo caso educano a stare al mondo come spettatori e spettatrici. Lo schermo inoltre sviluppa, nell’età dello sviluppo, un tipo di concentrazione e di attenzione che inibisce lo sviluppo di altre capacità tra cui l’empatia e le capacità relazionali, la riflessione, il senso critico.

Al di là del fatto che la pubblicità (che è la condizione e il fine dello schermo) è stata giustamente definita da Latouche «inquinamento spirituale»,[5] quando si considera la questione dello schermo-educatore ci chiediamo quali sono gli aspetti pedagogici che l’esposizione a schermi pone in un’epoca in cui sembra – dalla ideologia dominante – che i nativi digitali abbiano propensioni quasi naturali a padroneggiare le tecnologie?

Miseria umanaLa più parte di pediatri e psicologi dello sviluppo, ritiene che in età prescolare non si debbano esporre a schermi prima di 3 anni e che fino ai 10 occorra parlare comunque di minuti al giorno. L’Associazione pediatri del Canada e degli Usa sconsigliano assolutamente l’esposizione di bambini/e prima di 2 o 3 anni. Siamo quindi di fronte a studi condivisi dalla comunità scientifica internazionale e non da opinioni di sette luddiste anti-capitalistiche. Nella sua pratica una ricercatrice che lavora nei servizi sociali francesi ha riscontrato due motivazioni molto radicate nelle famiglie che per la grande maggioranza non seguono queste indicazioni: 1) lo schermo è un buon baby-sitter che riduce conflitti in famiglia; 2) lo schermo rende più intelligenti i bambini (per es. imparano persino le lingue).

Le conseguenze sono abbastanza note ma è utile riepilogarle.

  1. a) La sedentarietà. Tutti i programmi di lotta all’obesità segnalano la TV e gli schermi come un elemento negativo; lo schermo è un guinzaglio alla mobilità infantile.
  2. b) La mancanza di tempo per la conversazione: le stime parlano di un raddoppiamento dagli anni Ottanta del Novecento all’inizio del secolo XXI – da 15-20 ore settimanali alle 40 ore settimanali a cui corrisponde un dimezzamento del tempo di conversazione in famiglia in nord America e Europa.
  3. c) Forti limiti allo sviluppo psicomotorio. Per i bambini e bambine prima di 10 anni esposti a un tempo-schermo superiore a 1 ora la giorno c’è un impatto globalmente negativo a livello emozionale e intellettuale che – a seconda dei casi individuali e delle ore di eccesso – comportano: problemi di attenzione, problemi di lettura, problemi di sonno, di aggressività, incapacità di giocare da solo/a, ridotte capacità di immaginazione. In particolare, in età prescolare è essenziale lo sviluppo di capacità manipolatorie per le quali si rende importante usare quanti più materiali e supporti diversi: è la fase della scoperta senso-motoria in cui lo sviluppo di un solo senso (quello visivo) è limitante e anche inibente perché il tipo di attenzione richiesta è diversa e minima. L’attenzione è infatti capacità che si articola in due livelli: primaria e secondaria. È la capacità attentiva secondaria e volontaria quella prettamente umana intorno a cui si sviluppa, tra l’altro, la capacità di attenzione congiunta, la capacità di cooperazione e di empatia. Finora si sono segnalati i danni a prescindere dal contenuto a cui sono esposti/e.
  4. d) Problemi maggiori intervengono quando il tempo-schermo si riempie (come spesso succede) di pubblicità e contenuti violenti e machisti. I danni comprendono, in particolare, sviluppo di comportamenti quali:

– Disconnessione dalla realtà, intossicazione da internet.
– Bullismo, inciviltà, verbale e abusi fisici, criminali e non.
– Rischi di dipendenza, caso limite il gioco d’azzardo on-line.
– Ossessione dell’apparenza, disturbi alimentari, anoressia.
– Omofobia e misoginia.
– Ipersessualizzazione della vita, pornografia, esibizionismo, atteggiamenti sessuali a rischio.
– Lesioni dell’autostima, isolamento, depressione, suicidio.

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Invisibilità della gerarchia

Le meraviglie del possibile

Le meraviglie del possibile

Se deleghiamo il tempo per educare a macchine elettroniche e schermi, come possiamo pretendere il riconoscimento di autorità? L’analisi di Laffi si conclude con una splendida e tragica novella di fantascienza – Il Veldt – di Ray Bradbury,[6] che ci disegna un quadro preoccupante del destino dell’autorità quando molto tempo educativo viene affidato alla tecnica sostituendo alla relazione umana quella bambino/a – schermo o tasto play. La splendida cameretta computerizzata comprata apposta per i figli, in cui ogni desiderio si concretizza come vero spettacolo, finisce per inghiottire i genitori. I figli riconoscono come genitori solo la tecnica. Un 2001 Odissea nello spazio in versione pedagogica.

Siamo oggi di fronte a un fattore nuovo e assolutamente inedito. Educati in un mondo di pari, trattati come prìncipi e principesse, trattati da amici dai genitori, trattati da piccoli adulti capaci di scegliere i propri acquisti dal marketing e dalla pubblicità, enfatizzando smisuratamente la loro volontà, i bambini e le bambine di oggi non vedono la gerarchia. A me è capitato che una bambina di dieci anni mi chiedesse perché dovesse dare del Lei agli adulti se gli adulti continuavano a darle del tu. Ci sono un’infinità di aneddoti che si potrebbero raccontare al riguardo. Quel che conta è che siamo di fronte a quella che Marco Vinicio Masoni ha definito l’invisibilità della gerarchia. Consapevoli del proprio diritto al rispetto, sono anche consapevoli di essere individui e si percepiscono – perché vengono fatti percepire come tali – come individui alla pari con gli adulti. Consapevolezza strana che stride con quanto di più caratteristico ha l’essere dei nuovi venuti al mondo. Nella venuta al mondo si disvela la dipendenza e la socialità dell’essere umano, che invece oggi viene negato in nome del primato ontologico dell’individuo (mito su cui si fonda la pseudo-scienza economia; qualcuno non a torto parla di invenzione tutta moderna dell’individuo). Ovviamente non è solo la pedagogia del tasto play e il rapporto con le tecnologie che ha spinto il processo di individualizzazione e l’interiorizzazione del neoliberismo fin nella più tenera infanzia. Possiamo nominare almeno: la riduzione della mortalità infantile, l’idealizzazione dell’infanzia, le metamorfosi contemporanee della coppia e dei ruoli genitoriali. Questioni che qui non tocco.

Quella che dal punto di vista del bambino e della bambina è l’invisibilità della gerarchia è – per gli adulti – la crisi dell’autorità.

Tra passato e futuroPer Arendt[7] il secolo dell’infanzia avrebbe dovuto emancipare il bambino liberandolo dall’imposizione del mondo adulto. E Arendt si chiede quindi come è stato possibile che il fanciullo fosse esposto alla pubblicità. Anziché essere protetto e cresciuto in un mondo a misura di bambino, il bambino del XX secolo è stato infatti ridotto a piccolo individuo. La questione è così posta:

«[…] la crisi dell’autorità che educa ha un nesso strettissimo con la crisi della tradizione, ossia del nostro modo di considerare il passato. Sotto questo aspetto la crisi pesa soprattutto sull’educatore, il quale ha il preciso compito di mediare tra il nuovo e il vecchio, per cui il massimo rispetto del passato viene richiesto dalla sua stessa professione».

Perché, in realtà, il problema che ci pone Arendt è non solo che l’autorità dei genitori è in crisi, così come l’autorità religiosa, ma che questa autorità genitoriale viene meno quando i genitori non si sentono più responsabili del mondo in cui vivono, quando i valori del passato non servono a spiegare il presente. L’essere umano del XX secolo

«non poteva trovare altro modo più chiaro di esprimere il proprio scontento rispetto al mondo, il proprio disgusto di fronte alle cose come sono, del rifiuto di assumersi la responsabilità di tutto questo di fronte ai figli. Quasi che ogni giorno i genitori dicessero: “In questo mondo anche noi non ci sentiamo a casa nostra: anche per noi è un mistero come ci si debba muovere, che cosa si debba sapere, quali talenti possedere. Dovete cercare di arrangiarvi alla meglio, e in ogni modo non siete autorizzati chiederci conto di nulla. Siamo innocenti, ci laviamo le mani di voi”».

In questo processo di deresponsabilizzazione, l’adulto/a perde autorità. Il bambino e la bambina vengono quindi in realtà esposti al pubblico. Arendt, parlando della crisi dell’istruzione della società statunitense degli anni Cinquanta del Novecento, coglie in realtà alcune questioni essenziali della crisi dell’educazione nella società di massa. Oggi, per me, l’esposizione al pubblico è soprattutto (ma non solo) esposizione allo schermo. In particolare, per Arendt questa esposizione al pubblico è il nuovo problema che a sua volta ne genera di nuovi. Perché, in realtà: «Emancipandosi dall’autorità degli adulti il bambino non si è trovato libero, bensì soggetto a un’autorità ben più terrificante e realmente tirannica: alla tirannia della maggioranza». Ne sa qualcosa il Mercato e, ancor meglio, il Marketing.

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L’antiautoritarismo del mercato

Ne trae infatti vantaggio chi ha capito che psicologia e pedagogia possono servire anche al Marketing. Si chiama Kids Marketing. Il bambino viene infine incoronato dal mercato che «ha capito quanto vale la sua quota e come può influenzare le decisioni anche degli altri consumi famigliari».[8] Il Kids Marketing, senza alcuna remora etica, con la consulenza di psicologi e pediatri dello sviluppo, ha l’obiettivo di forgiare i desideri dei bambini. Sempre più spots pubblicitari sono infatti rivolti a loro nel tentativo di fidelizzare fin dalla più tenera infanzia e utilizzare i bambini e le bambine per influenzare i consumi familiari: si è calcolato che arrivano a modificare fino al 33% dei bilanci familiari. Il Mercato è quindi un agente “anti-autoritario” che fa leva su quella dittatura della maggioranza dei pari di cui parlava Arendt (salvo poi avere la sua autorità Suprema, il Dio, che per dirla con Marx, non ne tollera altri: il Denaro). La dittatura della maggioranza genera infatti conformismo sociale: il conformismo è usato dai Brand per promuovere prodotti e i prodotti sostengono il conformismo. Insomma anche se non guardi la pubblicità rischi di essere un “looser” se non hai l’ultimo paio di scarpe di marca, e senza che te lo chieda alcun marchio rischi l’emarginazione sociale.

Ci sono poi veri e propri stratagemmi usati dal Mercato che entrano nella relazione genitore/trice-figlia/o. Il potere esercitato per guadagnare l’acquisto di un bene che poi i piccoli consumeranno in prima persona, è conosciuto come Nag Factor. Il nag (brontolio e tormento) factor è quell’insieme di azioni assillanti che bambini/e mettono in atto durante l’infanzia (e anche nella prima adolescenza) per convincere/costringere i parenti ad acquistare uno specifico bene di consumo (dal famoso ovetto Kinder posizionato alla cassa all’altezza giusta nel momento giusto alla consolle di giochi).

Nati per comprareC’è poi il ricatto per chi non ha tempo da perdere in conflitti con i propri figli. È il Guilt Money, quella disponibilità a spendere ed essere vulnerabile ai capricci del bambino che è inversamente proporzionale al tempo. Secondo Judith Shor,[9] è ormai dimostrato da dati empirici che i genitori che passano più tempo al lavoro si sentono in colpa e comprano più giochi dei genitori che trascorrono più tempo con i loro figli.

Se confrontiamo il tempo-schermo con il tempo di dialogo in famiglia ci possiamo rendere conto di chi sta educando le nuove generazioni.[10] La tirannia della maggioranza di cui ci parlava Arendt è quindi rafforzata da un potere della società attraverso il conformismo e la pubblicità (che ha un ruolo chiave perché si serve del senso comune per promuovere un logo e rinforza il luogo comune). Un potere esercitato fortemente fin dalla tenera età sui bambini per indurli al consumo. Manca il tempo per esercitare il conflitto, manca il tempo per stare in relazione. Questo tempo viene riempito da oggetti che divertono e intrattengono nello spettacolo. Educano spettatori/trici e non cittadini/e.

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Vie di uscita

Il gioco libero oggi deve essere programmato. Anche se può sembrare un paradosso, lo è soltanto in apparenza. Purtroppo, vivendo in una società che programma tutto, bisogna pensare a lasciare tempo libero. Questo vale per la scuola, per le famiglie, per ogni istituzione educativa. Il gioco libero permette l’apprendimento. In primo luogo del saper giocare. Lasciateli liberi di giocare, di sbagliare, di cadere, di farsi male, di autogestirsi almeno i giochi! Nel gioco si impara a stare nelle regole, a divertirsi, a vincere, a perdere, a stare nelle regole del gioco, a inventare giochi, a fantasticare. Nel gioco libero si sta in relazione. Oggi manca il tempo libero. È tempo di ricrearlo almeno per loro! Meglio la noia, piuttosto che tante attività strutturate. Insegna di più a stare al mondo.

Litigare fa bene. Insegnare ai propri figli a gestire i conflitti, per crescerli più sicuri e feliciNel gioco e nelle attività senza adulti i bambini e le bambine imparano a litigare e gestire i propri conflitti. Per Daniele Novara la proposta contenuta nel libro Litigare fa bene, insegnare ai propri figli a gestire i conflitti, per crescerli più sicuri e più felici,[11] riassume tutto il suo lavoro ormai più che ventennale. Il conflitto è il principale antidoto alla violenza (e non l’origine):

«[…] l’educazione alla socialità passa piuttosto attraverso l’educazione al litigio: è fondamentale insegnare a stare insieme anche quando è difficile; a gestire i problemi e le prepotenze senza utilizzare la violenza; a reagire ai comportamenti vessatori trasformando la relazione e il gruppo in occasioni di apprendimento e creatività piuttosto che in ambiti di paura e conformismo».

La proposta metodologica è molto interessante per genitori e insegnanti. Lasciate che i bambini litighino fra loro! Il litigio tra bambini sviluppa le capacità di mediazione, relazione e rinuncia che saranno necessarie da adulto/a. Per aiutare i nostri figli a gestire i conflitti e per crescere adulti più competenti nelle relazioni interpersonali occorre lasciare litigare i bambini, non cercare il colpevole, non imporre né fornire la soluzione, ascoltare e legittimare tutti i punti di vista, favorire l’accordo creato dai bambini stessi. Al primo accenno di litigio infantile la maggior parte degli adulti tende a intromettersi e reprimere il conflitto, nella convinzione che sia necessario imporre immediatamente una rappacificazione. Se lasciati liberi di agire, i più piccoli imparano a gestire le relazioni. Del resto il vissuto dei bambini è spesso diverso: «non stavamo litigando, stavamo solo giocando…».

Spesso i bambini trovano da soli l’accordo o comunque la soluzione. È quanto emerge da diverse ricerche sul campo: si è scoperto che lasciandoli litigare si sono ridotti i litigi e gli interventi degli insegnanti. Sono aumentati gli accordi spontanei e le rinunce. Lasciare litigare liberamente presenta quindi notevoli vantaggi: i bambini si autoregolano, i maschi usano più le parole della fisicità, tutti/e imparano a confrontarsi con altri punti di vista e sviluppano l’empatia, imparano a trovare un’alternativa e a lasciare perdere se necessario, sviluppando in compenso autostima e creatività.

 

La scuola e l'arte di ascoltare. Gli ingredienti delle scuole felici

La regolazione del conflitto può anche essere facilitata e insegnata. Per questo bisogna perdere molto più tempo. L’ascolto, benché sia la capacità basilare per ogni materia, non è insegnato in nessun livello scolastico. Solo pochi insegnanti perdono tempo e non concludono il programma per ascoltare i/le propri/e alunni/e. La proposta di Marianella Sclavi e Gabriella Giornelli[12] prevede di insegnare l’ascolto attivo che è molto importante e si distingue dall’ascolto normale perché presuppone una relazione e la volontà di stare in relazione, di riconoscere che la persona che abbiamo di fronte è intelligente e ha le sue ragioni. È importante pensare che il conflitto sia inevitabile perché siamo diversi e non ne dobbiamo avere paura. Così il conflitto si può trasformare in risorsa e il punto di vista diverso può aiutare a dare maggiore profondità, come la visione binoculare. Per questo bisogna intendere il conflitto come qualcosa di creativo ed entrare in conflitto senza prefigurarsi l’esito ma prestando ascolto. C’è anche bisogno di una autoconsapevolezza emozionale, capace di cambiare l’idea comune di emozione. Solitamente infatti siamo soliti concepire le emozioni come qualcosa da controllare per evitare di perdere il controllo. Oggi sappiamo che le emozioni non sono nulla di naturale, tanto meno di istintuale: come il linguaggio le emozioni vengono apprese. Quindi, per ascoltare, occorre abbandonare il mito della spontaneità delle emozioni e incontrare qualcuno/a che pratichi l’arte di ascoltare. Si perde molto tempo, ma i risultati sono importanti.

Su come il corpo delle donne sia rappresentato dagli schermi televisivi italiani sta svolgendo un eccellente lavoro educativo Lorella Zanardo. Prima ha girato il documentario Il corpo delle donne. Ora sta girando per le scuole con il suo staff. Un esperimento molto interessante è quello promosso da Brodeur, che ormai si è diffuso in quattro paesi. Nel convegno Maitrise des écrans – Parigi il 30 aprile 2014 – insegnanti, alunni, genitori, studiosi hanno confrontato le loro esperienze di spegnimento degli schermi sperimentate in Francia dal 2006 e in Canada dal 2003. I tre risultati maggiori sono l’aumento del tempo della conversazione in famiglia, l’aumento del tempo dedicato allo sport (bicicletta soprattutto), l’aumento del tempo dedicato alla lettura. Sono i risultati sul lungo periodo, quando gli alunni tornano ad accendere gli schermi con maggiore senso critico. In questi esperimenti la settimana è vissuta come una partita sportiva. Nessuno è obbligato a spegnere la TV. Sono i bambini il vero motore, i giocatori entusiasti. Molto spesso è la prima volta che hanno questa possibilità di scelta. Nella testimonianza dei genitori mi ha colpito moltissimo sentire che molte famiglie avevano proprio il desiderio che ci fosse una istituzione pubblica e dei professionisti che offrissero finalmente ai propri bambini delle alternative agli schermi. Insegnanti e istituzioni danno invece la colpa alle famiglie come se il tempo-schermo fosse una questione individuale. Dobbiamo parlare di corresponsabilità educativa? La sociologa Sophie Jehel è per una regolazione pubblica e un intervento dei poteri pubblici, almeno per le pubblicità e le trasmissioni per bambini/e. In tale prospettiva gli attori del controllo dovrebbero essere tre: le famiglie, l’autoregolazione dei canali con codici etici, il controllo pubblico.[13]

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Per concludere

Non mancano educatori ed educatrici che danno importanza al rallentare il tempo: alla pedagogia della lumaca, alla pedagogia della lentezza, alla pedagogia slow, genitori e scuole slow.[14] Pedagogie che sono l’opposto del tasto play e degli schermi. Rallentare il tempo come esperienza di felicità. Pedagogie che banalmente ci ricordano che prima viene l’obiettivo, poi l’attività e poi il tempo (mentre oggi prima viene il tempo, che si riempie con attività di cui poi forse si esplicita l’obiettivo, se qualcuno proprio lo richiede).

La pedagogia della lumaca, Per una scuola lenta e nonviolenta

La pedagogia della lumaca, Per una scuola lenta e nonviolenta

Genitori slow. Educare senza stress con la filosofia della lentezza

Genitori slow. Educare senza stress con la filosofia della lentezza

 

Elogio dell’educazione lenta

Elogio dell’educazione lenta

Slow school. Pedagogia del quotidiano

Slow school. Pedagogia del quotidiano

 

Pensare come le montagne. Manuale teorico-pratico di decrescita per salvare il pianeta cambiando in meglio la propria vita

Pedagogia della decrescita

Di fronte a una società che non perde tempo, il compito della pedagogia oggi è quello di rallentare ancora di più.[15] Come già insegnava Rousseau, saper perdere tempo, lasciare spazio all’imprevisto, all’incontro, per dialogare con bambini/e, per sorprenderci e stupirci: «Oserò esporre qui la più grande, la più importante, la più utile norma di tutta l’educazione?

 

I bambini pensano grande. Cronaca di una avventura pedagogica

I bambini pensano grande. Cronaca di una avventura pedagogica

Non è guadagnare del tempo, ma perderne». Oggi forse è importantissimo educare contro corrente con lentezza, perdendo tempo. Non si tratta di una pedagogia rivoluzionaria ma conservatrice ancorata ad antichi valori etici. Per parafrasare la Arendt si tratta oggi di educare in modo da conservare nei nuovi venuti la capacità di amare il mondo, di rinnovarlo e mettere in ordine il mondo.

Possiamo forse ancora credere nell’ideale dell’educazione di Decroly osando una pedagogia orientata dall’autorità della testimonianza? Non si può essere autoritari. Questa è la sfida. Le nuove generazioni fuggono questa autorità. Immediatamente. La fiutano da lontano, la riconoscono, la deridono. Di questo non possiamo dolerci e per fortuna non possiamo ricorrere a forza e violenza. Rimane invece per fortuna la possibilità bella e difficile di richiamarci alla autorità della testimonianza. Seguire le testimoni illuminate. Bell Hooks e Alice Miller[16] propongono proprio la figura del testimone illuminato capace di educare all’amore e trasmettere speranza rompendo le catene della pedagogia nera e di contesti familiari disfunzionali.

Tutto sull’amore. Nuove visioni

Tutto sull’amore. Nuove visioni

Solo nella misura in cui in cui vediamo i nostri limiti e i limiti di questo mondo, la resurrezione (intesa non come il prolungamento della vita dopo la morte ma come la pienezza della vita e la dilatazione del presente) ci dà l’autorità di educare. È come se ci fosse un’altra realtà, noi sappiamo che c’è e la desideriamo perché ci è stata testimoniata e sentiamo che abbiamo un destino ulteriore. Quando mettiamo al mondo il mondo, quando scegliamo una relazione educativa lo facciamo per amore non tanto di questo mondo (né per avere un figlio, né per prolungare noi stessi) ma per amore della vita che è oltre questo mondo. Qualunque bambino/a ci rallegra perché cogliamo la figura di un futuro in cui riporre il meglio che ci è stato tramandato. La crisi dell’autorità disvela quindi anche il carattere religioso (spirituale o esistenziale, a seconda delle visioni) dell’atto educativo. Abbiamo fede/fiducia che le generazioni nuove venute potranno fare meglio, potranno migliorare il mondo – secondo la testimonianza dell’amore. E quindi nell’educazione amiamo la vita e non il mondo, o quel mondo che è oltre (prima? dopo?). L’educazione, così intesa, sarà una guida alla coscienza, alla coscienza (ma non di un qualcosa – questa sarebbe ideologia) bensì alla consapevolezza dello scarto tra il mondo così come è e il mondo di amore per cui educhiamo. L’educazione, quando faticosamente cerchiamo di seguire i maestri e le maestre testimoni illuminati d’amore – altro non è che un perdere tempo nel cercare (spesso errando) di dare una mano o di passare il testimone.

Simone Lanza

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Intervento di Simone Lanza alla giornata teologica Giovani Miegge, Pratiche di resurrezione tra speranza e predicazione, 21/8/2015 Torre Pellice, aula sinodale. Testo già pubblicato sul blog 400 colpi alla pagina: https://400colpi.net/2015/11/08/perdere-tempo-per-educare/

[1] Davide Harvey, La crisi della modernità [1990], il Saggiatore, Milano1993.

[2] Miguel Benasayag e Gérard Schmit, L’epoca delle passioni tristi [2003], Feltrinelli, Milano 2004.

[3] Ovide Decroly, Una scuola per la vita attraverso la vita [1921], Loescher, Torino 1971: «Il più bell’ideale per una generazione è di sforzarsi affinché la generazione che la segue possa vivere e godere di più bellezza, di più felicità, ridurre la cause di malintesi, i pregiudizi imbecilli, le sofferenze superflue, i conflitti inutili. Questo è l’ideale dell’educazione. Senza di esso, la ragione stessa dell’uomo svanisce. Se non ci fosse un bambino da allevare, da proteggere da istruire e da trasformare nell’uomo di domani, l’uomo di oggi diventerebbe un non senso e potrebbe scomparire».

[4] Stefano Laffi, La congiura contro i giovani. Crisi degli adulti e riscatto delle nuove generazioni, Feltrinelli, Milano 2014.

[5] È nota la dichiarazione di un direttore della televisione francese che spiegò molto chiaramente il ruolo della TV e il suo rapporto con al pubblicità: «Per fare sì che un messaggio pubblicitario sia percepito, è necessario che il cervello del telespettatore sia disponibile. La vocazione delle nostre trasmissioni è proprio quella di creare tale disponibilità: facendo divertire il telespettatore […] ciò che vendiamo alla CocaCola è tempo di cervello umano disponibile»; citato in: Gruppo Marcuse, Miseria umana della pubblicità. Il nostro stile di vita sta uccidendo il mondo [2004], Elèuthera, Milano 2006.

[6] Ray Bradbury, Veldt, in Meraviglie del possibile [1950], Torino: Einaudi, 1959.

[7] Hannah Arendt, Crisi dell’educazione [1961], in Tra passato e futuro, Vallecchi, Firenze 1970.

[8] Stefano Laffi, La congiura contro i giovani…, op. cit.

[9] Juliet Schor, Nati per comprare. Salviamo i nostri figli, ostaggi della pubblicità [2004], Apogeo Editore, Milano 2005.

[10] Stefano Laffi, La congiura contro i giovani…, op. cit.

[11] Daniele Novara, Litigare fa bene. Insegnare ai propri figli a gestire i conflitti, per crescerli più sicuri e felici, Rizzoli, Milano 2013.

[12] Marianella Sclavi e Gabriella Giornelli, La scuola e l’arte di ascoltare: gli ingredienti delle scuole felici, Feltrinelli, Milano2014.

[13] Convegno Les enfants face aux écrans, Paris, 30 aprile 2014 (video completo su youtube).

[14] Ecco alcuni tra più interessanti studi sull’importanza di una educazione lenta: Gianfranco Zavalloni, La pedagogia della lumaca, Per una scuola lenta e nonviolenta, EMI, Bologna 2008; Carl Honoré, Genitori slow. Educare senza stress con la filosofia della lentezza, Rizzoli, Milano 2009; Joan Domenéch Francesch, Elogio dell’educazione lenta, La Scuola, Brescia 2011; Penny Ritscher, Slow school. Pedagogia del quotidiano, Giunti, Firenze 2011; Valerio Pignatta & Paolo Ermani, Pensare come le montagne. Manuale teorico-pratico di decrescita per salvare il pianeta cambiando in meglio la propria vita, Terranuova Edizioni, Roma 2011; Fabrizio Manuel Sirignano, Pedagogia della decrescita: l’educazione sfida la globalizzazione, Franco Angeli, Milano 2012.

[15] Franco Lorenzoni, I bambini pensano grande. Cronaca di una avventura pedagogica, Sellerio Editore, Palermo 2014.

[16] Bell Hooks, Tutto sull’amore. Nuove visioni [2000], Feltrinelli, Milano 2003.

 

 


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Claudio Iozzo – Il silenzio malato. Storie di recovery in salute mentale

Claudio Iozzo 01

Coperta 316

Claudio Iozzo

Il silenzio malato. Storie di recovery in salute mentale

Introduzione di Paolo Pini

indicepresentazioneautoresintesi

 

Il libro raccoglie racconti tratti da interviste fatte a pazienti psichiatrici al termine di un periodo di formazione, durante il quale hanno avuto modo di familiarizzare con la narrazione di momenti della loro vita o della loro esperienza di disagio. Sono state selezionate quelle storie che, a detta dei protagonisti, sono testimonianze di percorsi di recovery, un processo di guarigione caratterizzato dalla libera volontà della persona sofferente di determinare i propri bisogni e desideri. I racconti dimostrano come questo approccio alla guarigione consenta a chi soffre di relazionarsi con le persone che lo circondano (familiari, operatori di salute mentale) in termini dialogici nuovi, più propositivi e concertati. Le storie danno conto della complessità che, spesso, si nasconde dietro lo stigma di banali e semplicistiche generalizzazioni, e della profondità di pensiero di chi lotta per risolvere il dilemma universale della sofferenza.


Carlo Collodi nei segreti della scrittura

Carlo Collodi nei segreti della scrittura


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Eugène Minkowski (1885-1972) – È lo slancio vitale che dà un senso alla vita e costituisce quanto vi è in essa di più essenziale. Questo slancio sempre vivo crea l’avvenire e non può essere racchiuso in una sezione trasversale della coscienza, e si tende, come un arco, oltre tutte le sezioni di questo genere.

Eugène Minkowski 03

Il tempo vissuto

Il tempo vissuto

«È lo slancio vitale che dà un senso alla vita e […] costituisce quanto vi è in essa di più essenziale» (p. 42).

«La psicologia sarebbe tentata di ricondurre il fenomeno […] a una rappresentazione dello scopo da raggiungere, a un sentimento positivo che rende questo scopo desiderabile[…]; questo insieme di elementi darebbe luogo, in tempi più o meno brevi e dopo aver attraversato stadi intermedi, a un altro insieme, composto, questo, dalla constatazione – sia mediante la percezione sia in altro modo – della presenza dello scopo ricercato e da un senso particolare di sollievo che ci annuncia il completamento della nostra azione.

Direi che in queste costruzioni c’è tutto, tranne l’essenziale. Manca lo slancio personale, questo slancio sempre vivo che crea l’avvenire e che non potrebbe essere racchiuso, senza costrizione, in una sezione trasversale della coscienza; questo slancio che si tende, come un arco, oltre tutte le sezioni di questo genere che il pensiero spaziale tenta di sostituirgli, le unisce, le anima, le organizza in un tutto indivisibile, fa sì che tutte insieme esse costituiscano la tendenza dell’io completo verso la realizzazione di uno scopo» (p. 43).

«Il conosci te stesso, dal momento in cui è stato formulato per la prima volta dal genio umano, è sempre parso all’umanità pieno di senso. Purtuttavia, se quelli che ci vengono rappresentati come elementi coscienti, e più particolarmente i motivi dei nostri atti, venissero ad allinearsi gli uni accanto agli altri nella nostra coscienza, il conosci te stesso non sarebbe che un’illusione, poiché ciò che la nostra coscienza ci farebbe in tal modo conoscere dovrebbe possedere per sua stessa natura il carattere dell’indiscutibile, oppure, cosa quasi inconcepibile, se non avesse questo carattere, sprofonderemmo fatalmente in uno scetticismo dissociante, non avendo ragione di considerare come più validi i moventi sostituiti a quelli riconosciuti come falsi. E solo perché esiste una dimensione in profondità che ogni movente isolato ci appare subito come qualcosa di relativo e poco attendibile, e che affondare il nostro sguardo in fondo al nostro essere, per tentare di scoprirvi la verità, ha un senso, e un senso molto profondo per noi.

Nello stesso tempo vediamo che se il conosci te stesso ci prescrive di diffidare di quanto vi può essere di convenzionale, di meschino, di falso in noi, esso non ci invita a scoprire dietro questa facciata altri motivi che, rimasti inconsci, sarebbero i veri motivi delle nostre azioni; esso cerca solo di rimetterci in contatto con l’inconscio, con la sorgente stessa della nostra vita, da cui non può non scaturire il nostro vero slancio, cioè la nostra tendenza verso il bene. In fondo, ogni motivo che è conscio e come tale si afferma, è per questo stesso fatto un movente ingannevole, poiché il motivo vero non può che confondersi con l’inconscio. La virtù riconosciuta e affermata cessa di esserlo e la maschera della falsa modestia non riesce a salvare colui il quale, dietro questa maschera, nasconde il suo orgoglio di uomo virtuoso. Poiché dirigere lo sguardo verso il proprio intimo non vuoi dire scoprire e affermare ciò che vi è rimosso, ma farne scaturire il nostro slancio in tutta la sua purezza» (pp. 51-52).

«Quando, mediante il mio slancio personale, realizzo qualche cosa, la situazione che così si è creata non si esaurisce affatto nella constatazione: “ho raggiunto ciò che mi proponevo di raggiungere” o anche “ho fatto qualcosa, ho compiuto un’azione”. Questa è solo una parte e la parte meno importante di ciò che ho davanti a me. Nello stesso tempo vedo che la cosa fatta è un’opera, ovviamente nel senso più ampio del termine, opera che, pur restando mia, va a integrarsi in un insieme completamente diverso da quello dal quale sembra essere uscita in quanto opera mia, e ben più possente, ben più grande di essa. L’opera ha sempre una portata, un carattere oggettivo, o meglio trans-soggettivo, ed è questo il senso stesso di un’opera personale» (pp. 54-55).

Eugène Minkowski, Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia, Einaudi, 2004.

Eugène Minkowski – Il tempo vissuto – L’azione etica apre l’avvenire davanti a noi perché resiste al divenire: è la realizzazione di quanto vi è di più elevato in noi
Eugène Minkowski (1885-1972)  – La morte, mettendo fine alla vita, la inquadra interamente, in tutto il suo percorso. È la morte che trasforma il succedersi o la trama degli avvenimenti della vita in “una” vita. Non è nel nascere ma è col morire che si diventa un’unità, “un uomo”.
 


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Gianluca Giachery – Recensione a «Esistenza, ragione, storia. Pietro Chiodi (1915-1970)». La radicalità etica e l’attualità della riflessione del filosofo e comandante partigiano.

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269 ISBN

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Giuseppe Cambiano, Cesare Pianciola (a cura di), Esistenza, ragione, storia. Pietro Chiodi (1915-1970), Pistoia, Editrice Petite Plaisance. 2017, pp. 160, ISBN 978-88-7588-195-5, euro 15,00.

«Tutti tacquero. Max riprese: – Conosci il tedesco? – Lo so leggere ma non saprei parlarlo. – Che libri leggi in tedesco? – Sto leggendo Heidegger. – Max si rivolse all’agente della Gestapo dicendo: – Dev’essere uno scrittore comunista. Vero? – L’altro guardò l’ufficiale italiano dicendo: Ja, ja –. Questi annuì col capo».

Si tratta dell’interrogatorio subito da Pietro Chiodi, filosofo e comandante partigiano (1915 -1970), nella caserma di Bra il 22 agosto del 1944, dopo la sua cattura, e riportato in Banditi, una delle testimonianze sulla guerra partigiana più rilevanti della nostra letteratura, in anni in cui sia la storia che la letteratura (non solo quelle insegnate nelle scuole) hanno perso gran parte del loro potenziale, appunto, educativo e progettuale. Ancora un’altra annotazione di Chiodi, tratta sempre da Banditi:

«Carcere di Bra, 22 agosto 1944:
– Come ti chiami?
– Chiodi Pietro.
– Che mestiere facevi?
– Il professore.
– Quanti anni hai?.
– Ventinove».

Filosofo impegnato, allievo di Abbagnano, fraterno amico di Leonardo Cocito (il geniale professore di letteratura del Liceo di Alba, antifascista e impiccato dai nazi-fascisti), professore e Maestro di Beppe Fenoglio, primo traduttore italiano di Heidegger (la sua traduzione di Esse e Tempo rimane, tutt’ora, ineguagliata), fine studioso di Kant ma anche dell’esistenzialismo di matrice sartreana, Pietro Chiodi è una di quelle figure di intellettuale che poco si adatta a qualsiasi etichetta specialistica. Piuttosto, pur nell’approfondimento di alcune tematiche di carattere squisitamente filosofico-teoretico, egli non ha mai perso di vista la dimensione dell’impegno politico-culturale nella società, trasformando lo studio e l’insegnamento in materia viva, nel pieno rigore del pensiero critico kantiano.
La dimensione dell’impegno, l’amore per il dibattito, il polemos e la discussione, oltreché una appassionata dedizione alla ricerca, allo studio e all’analisi dei testi filosofici caratterizza la figura complessiva del filosofo di Corteno Golgi, nel volume curato da Giuseppe Cambiano e Cesare Pianciola. Volume che, oltre a contenere saggi di studiosi che si soffermano sulle differenti direzioni del pensiero di Chiodi, ci consegna una preziosa testimonianza di Aida Ribero, compagna del filosofo, e un saggio dello stesso Chiodi, del 1957, dal titolo “Alcune riflessioni a proposito dello scritto di Antonio Giolitti, Riforme e rivoluzione, a voler ribadire la sua costante attenzione al tema dell’impegno civile.
Chiodi è stato anche un instancabile traduttore di opere filosofiche: dalla Critica della ragion pura agli Scritti morali di Kant, a testi di Heidegger, Jaspers, Löwith, Carnap, Weber, Tatarchiewicz. Tutto ciò a dimostrare – come viene evidenziato nel saggio di Gianluca Garelli, Filosofia e traduzione in Pietro Chiodi – che, per il filosofo, il confronto diretto con il testo costituiva un vero e proprio lavoro intellettuale di comprensione e di esplicazione ermeneutica.
È Cambiano a delineare un profilo attento e critico di Chiodi, ripercorrendo i temi centrali (tutti uniti da un rigore teoretico) della sua ricerca: dall’influenza e dialogo continuo con Abbagnano (grande ed esemplare figura di riferimento della scuola filosofica torinese), fino agli studi centrali dedicati ad Heidegger, in un confronto serrato con la fenomenologia husserliana; dal “rirorno a Kant” (Chiodi aveva dedicato la propria tesi di laurea – andata dispersa – al filosofo di Königsberg), agli studi su Sartre e il tema dell’alienazione, per immergersi, poi, nel “dibattito sull’esistenzialismo” che, tra la metà degli anni ‘50 e gli anni ‘70, coinvolse personaggi eminenti del panorama culturale e filosofico italiano, tra cui Anronio Banfi, Remo Cantoni, Enzo Paci, Abbagnano e lo stesso Chiodi.
Come Abbagnano, scrive Cambiano, anche Chiodi cerca l’anti-Hegel, e lo trova in Heidegger. «Per Chiodi, come del resto per Abbagnano, Hegel rimarrà sempre l’eroe negativo. Per valutare gli aspetti positivi o i limiti di qualsiasi filosofia il confronto con Hegel apparirà sempre determinante. Ciò vale anche per il pensiero di Heidegger» (p. 9).
L’Heidegger di Essere e Tempo costituisce per Chiodi un punto di apertura e, contemporaneamente, di differenziazione rispetto alla Lebensphilosophie, poiché restituisce al Dasein la centralità dell’esistenza, quindi, al suo carattere fondamentalmente ontologico. Tuttavia, rileva Chiodi, assolutizzando la struttura stessa del Dasein, Heidegger non può che fallire nel progetto iniziale di Essere Tempo, avvitandosi continuamente nel tentativo di esplicare le forme attraverso cui si rivela lo stesso Dasein. Per questo, nonostante l’attenzione a quella prima, fondamentale opera heideggeriana, Chiodi dedicherà negli anni ‘50 saggi penetranti sul pensiero del “secondo Heidegger”, in quel percorso che da Sentieri interrotti (Holzwege) , tradotto dallo stesso Chiodi, porta a definire la “Svolta” (Kehre) heideggeriana. Si tratta, tuttavia, effettivamente di una “svolta”? È il problema posto da Chiodi.
Lo studio di Heidegger è strettamente connesso all’emergere del confronto di Chiodi con l’esistenzialismo e, in particolare, con Sartre. A questa tematica, Pianciola dedica un saggio accurato e approfondito, che ripercorre la genesi dell’attenzione da parte di Chiodi al pensiero sartreano. Per Chiodi, scrive Pianciola, «Sartre ha avuto il merito di aver tentato un incontro tra esistezialismo e marxismo come critica della ragione dialettica, cioè come analisi delle condizioni di un uso valido e non mistificato dei concetti marxistici di prassi, dialettica, alienazione» (p. 72). In tal senso, come per Heidegger e per altri pensatori, Chiodi propone sempre una disamina attenta e critica dell’opera del filosofo francese, rilevando, nella scrittura filosofica sartreana, alcune cesure che contraddistinguono il passaggio da L’essere e il nulla alla Critica della ragione dialettica. Pianciola sottolinea come, da un lato, per Chiodi la categoria di “progetto” viene ripresa ne L’essere e il nulla da Heidegger in una prospettiva coscienzialista, mentre nella Critica della ragione dialettica, «il progetto è prassi in situazione» (p. 73); d’altro canto, la categoria stessa di relazione assume una duplice valenza nelle due opere: nella prima viene ripreso il Mit-Sein heideggeriano come costitutivo dell’essere, mentre nella Critica la reciprocità diviene la «struttura formale originaria dell’esistenza» (ivi). È evidente, in questo caso, la trasformazione del pensiero sartreano in direzione di una maggiore attenzione alle dinamiche dei gruppi (il “collettivo”), in quanto espressione delle modalità politiche del soggetto di agire nella società, per prendere consapevolezza della propria condizione di sfruttamento e alienazione.
Tra prassi, dunque, alienazione e permanenza del primato della coscienza nel pensiero sartreano, Chiodi, rifacendosi a Kierkegaard, fa emergere la categoria della «possibilità», proprio perché, secondo il filosofo, non è possibile scardinare completamente il negativo che rimane costantemente come un’ombra nella radicalità dei processi umani. Qui, per Chiodi, rileva ancora Pianciola, si chiarifica e puntualizza il ruolo della filosofia (e del filosofo): «La filosofia delinea campi di significati, di valori, di possibilità, deve indicare ciò che minaccia l’umanità dell’uomo, invitare all’azione per combattere le condizioni che lo degradano» (p. 78). Una direzione, questa, decisa e trasparente anche nei confronti dei limiti dello stesso ruolo euristico della filosofia, che fa emergere la radicalità etica e l’attualità della riflessione di Pietro Chiodi.

Gianluca Giachery

 


Testo già pubblicato su “Paideutika”. Quaderni di formazione e cultura, 27, Nuova serie, Anno XIV, 2018.


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Cosa vuol dire Paideutika?

Letteralmente essa è la menzione al plurale dell’aggettivo verbale derivato dal greco paideuo (istruisco, educo, formo), da cui anche paideia (educazione, cultura, istruzione, conoscenza). cui Paideutika nomina tutto ciò che ha a che fare con la formazione dell’uomo.
Così Paideutika intende sviluppare una critica serrata delle pratiche di assoggettamento formativo a partire esattamente dal nesso formazione/cultura. E di farlo nel segno di una tradizione fenomenologica che, con accentuata attenzione esistenziale, non potrà che immergersi nelle infinite forme della vita di cultura – dalla filosofia alle scienze umane, dall’arte alla letteratura, dalle scienze sociali e politiche a quelle dell’educazione – per rivendicare, oggi, l’urgenza di un pensiero radicale. Un pensiero capace di reagire, con metodo decostruttivo, alla confortevole e levigata illibertà che sempre si annida nelle formule retoriche ed edificanti del pedagogismo corrente.


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Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900) – Un’educazione che faccia intravedere alla fine del suo corso un impiego, o un guadagno materiale, non è affatto un’educazione in vista di quella cultura che noi intendiamo, ma semplicemente un’indicazione delle strade che si possono percorrere per salvare e difendere la propria persona, nella lotta per l’esistenza.

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«La vera cultura disdegna […] contaminarsi con un individuo bisognoso e pieno di desideri: essa sa sgusciare accortamente dalle mani di colui che vorrebbe impossessarsi della cultura come di un mezzo per i suoi fini egoistici. E quando qualcuno crede di averla afferrata, per ricavarne in qualche modo un guadagno, e sfruttandola placare i bisogni della sua vita, essa allora corre via subitaneamente, a passi impercettibili e con atteggiamento di disdegno.
Di conseguenza, amici miei, non scambiate questa cultura, questa dea eterea, raffinata, dal piede leggero, con quell’utile domestica che talvolta viene anche chiamata ‘la cultura’, ma non è altro se non la serva e la consigliera intellettuale delle necessità della vita, del guadagno e della miseria. Un’educazione, peraltro, che faccia intravedere alla fine del suo corso un impiego, o un guadagno materiale, non è affatto un’educazione in vista di quella cultura che noi intendiamo, ma semplicemente un’indicazione delle strade che si possono percorrere per salvare e difendere la propria persona, nella lotta per l’esistenza».

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Friedrich Wilhelm Nietzsche, Über die Zukunft unserer Bildungsanstalten (1872); trad. it., Sull’avvenire delle nostre scuole, ne La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e Scritti dal 1870 al 1873, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1980, vol. III, tomo II, p. 164. Il testo completo delle cinque conferenze si può leggere alle pp. 79-206 di questo volume.


Friedrich Nietzsche (1844-1900) – Scrivi col sangue: imparerai che il sangue è spirito


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Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900) – Chi si sente completamente in accordo con questo presente, e lo assume come qualcosa ‘che si comprende da sé’ non è da noi certo invidiato. Tra costoro e i solitari, stanno tuttavia in mezzo i combattenti, cioè coloro che sono ricchi di speranza.

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«Chi si sente completamente in accordo con questo presente, e lo assume come qualcosa ‘che si comprende da sé’ (‘selbstverständlich’), non è da noi certo invidiato, né per questa fede né per questa parola di moda ‘che si comprende da sé’, formata in modo scandaloso; chi invece, giunto all’opposto punto di vista, è già disperato, non ha più bisogno di combattere, e non appena si arrenderà alla solitudine, sarà senz’altro solo. Tra costoro ‘che si comprendono da sé’ e i solitari, stanno tuttavia in mezzo i combattenti, cioè coloro che sono ricchi di speranza».

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Friedrich Wilhelm Nietzsche, Über die Zukunft unserer Bildungsanstalten (1872); trad. it., Sull’avvenire delle nostre scuole, ne La filosofia nell’epoca tragica dei Greci e Scritti dal 1870 al 1873, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1980, vol. III, tomo II, p. 84. Il testo completo delle cinque conferenze si può leggere alle pp. 79-206 di questo volume.


Friedrich Nietzsche (1844-1900) – Scrivi col sangue: imparerai che il sangue è spirito


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Pier Paolo Pasolini (1922-1975) – La società dei consumi ha profondamente trasformato i giovani. Non si tratta più, come all’epoca mussoliniana, di una irreggimentazione scenografica, ma di una irreggimentazione reale che ha rubato e cambiato loro l’anima. Questa ‘civiltà dei consumi’ è una civiltà dittatoriale.

Pier Paolo Pasolini 50

Scritti corsari

Scritti corsari

Questo nuovo fascismo, questa società dei consumi […]
ha profondamente trasformato i giovani, li ha toccati nell’intimo,
ha dato loro altri sentimenti, altri modi di pensare, di vivere,
altri modelli culturali.
Non si tratta più, come all’epoca mussoliniana,
di una irreggimentazione superficiale, scenografica,
ma di una irreggimentazione reale
che ha rubato e cambiato loro l’anima.
Il che significa, in definitiva, che questa ‘civiltà dei consumi’
è una civiltà dittatoriale.
Insomma, se la parola fascismo significa la prepotenza del potere,
la ‘società dei consumi’ ha bene realizzato il fascismo.

 

 

P. P. Pasolini, Fascista (1974), in Scritti corsari (1975), Prefazione di P. Di Stefano, Edizioni Corriere della Sera, Milano 2015, pp. 282-283.


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Pier Paolo Pasolini (1922-1975) – Marilyn. Quella bellezza l’avevi addosso umilmente
Pier Paolo Pasolini (1922-1975) – Il potere di oggi manipola i corpi in un modo orribile. Li manipola trasformandone la coscienza, cioè nel modo peggiore, con valori alienanti e falsi, i valori del consumo, che compiono quello che Marx chiama un genocidio delle culture viventi.
Pier Paolo Pasolini (1922-1975) – Nel teatro la parola vive di una doppia gloria, mai essa è così glorificata.

 



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